IL CONSIGLIO DELL'ORDINE DEGLI AVVOCATI E DEI PROCURATORI Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento disciplinare promosso nei confronti dell'avv. Federico Fontanella del Foro di Venezia. FATTO E DIRITTO Con nota 25 giugno 1983 la procura della Repubblica presso il tribunale di Venezia informava il Consiglio dell'ordine dell'avvio di procedimento penale nei confronti dell'avv. Federico Fontanella imputato di peculato continuato aggravato, interesse privato in atti di ufficio, omissione d'atti d'ufficio e falso ideologico continuato ed aggravato. Per effetto di questa segnalazione il Consiglio, con delibera del 21 ottobre 11983, iniziava l'azione disciplinare nei confronti dell'avv. Federico fontanella per i medesimi fatti di cui ai capi d'imputazione e, successivamente, sospendeva il procedimento all'esito di quello penale. Con nota 26 maggio 1988 n. 74/88 la procura generale della corte d'appello trasmetteva la copia della sentenza n. 1739/1985 della seconda sezione penale della corte d'appello di Venezia divenuta definitiva ai fini dell'adozione nei confronti dell'avv. Fontanella del provvedimento di cui all'art. 42 del r.d.l. n. 1578/1933 in quanto le statuizioni della sentenza medesima ne stabilivano la sospensione temporanea dai pubblici uffici. Il Consiglio disponeva quindi per la prosecuzione del procedimento disciplinare ordinando la citazione dell'incolpato per l'udienza del 18 luglio 1988. All'esito del dibattimento il Consiglio ha trattenuto il procedimento per la decisione, pronunziando quindi la presente ordinanza. In via preliminare va esaminata l'eccezione che la difesa dell'incolpato solleva quanto all'illegittimita' costituzionale dell'art. 42 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578. A tal riguardo occorre premettere che questo Consiglio e' consapevole che l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, sembra limitare la proponibilita' di siffatte eccezioni ai soli casi in cui sia in corso un giudizio dinanzi ad un'autorita' giurisdizionale e non ignora poi l'opinione, diffusa e consolidata, sulla natura amministrativa del procedimento disciplinare forense dinnanzi ai consigli locali. Un dato normativo ed un orientamento giurisprudenziale che potrebbero far dubitare della possibilita' di sollevare in questa sede questione di legittimita' costituzionale ai sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1. Il Consiglio ritiene tuttavia che sussistano elementi di riflessione idonei a convincere del contrario. Innanzitutto va osservato che la natura amministrativa del procedimento disciplinare viene affermata dalla giurisprudenza sulla base di argomenti che sono privi di sostanza ontologica e vengono desunti da considerazioni assolutamente marginali o di contenuto meramente affermativo. Cosi' quello (cfr. Cass. 14 gennaio 1977, n. 169) secondo cui i consigli locali non sarebbero estranei alle controversie disciplinari, rappresentando i gruppi professionali offesi dal comportamenti di un loro membro, dove peraltro si dimentica che sempre qualsiasi giudice, proprio perche' tale, costituisce l'espressione di un corpo sociale offeso da un comportamento, e si trascura poi di spiegare come mai questo stesso gruppo professionale offeso possa viceversa esprimere l'organo giudicante di secondo grado (Consiglio nazionale forense) della cui giurisdizionalita' invece nessuno dubita. Cosi' pure l'altro (cfr. sez. unite 5 aprile 1975, n. 954) che, escludendo la natura giurisdizionale degli ordini locali perche' legittimati a partecipare al giudizio dinnanzi al Consiglio nazionale forense, propone con ogni evidenza quale argomento dimostrativo la medesima conclusione cui si vorrebbe giungere. In questi termini sembra del tutto evidente a questo Consiglio che le pronunzie giurisprudenziali, e l'orientamento dottrinario che ne deriva, siano il frutto di un'apprezzamento incompleto della realta' effettuale e normativa del giudizio disciplinare rimesso ai consigli dell'ordine e si risolvono nella ripetizione acritica di formule stereotipe. La risposta al quesito sulla giurisdizionalita' della funzione disciplinare esercitata dai consigli dell'Ordine forense va dunque cercata altrove. Ed allora va innanzitutto considerata la posizione istituzionale di questi organi collegiali che sono chiamati ad applicare norme di legge attraverso atti di natura decisionale che incidono immediatamente nella sfera giuridica dell'iscritto sino a modificare od estinguere situazioni di diritto soggettivo. Una funzione giudicante che viene esercitata attraverso precise garanzie procedimentali, tra cui importantissime quelle attinenti al diritto di difesa, la comunicazione al pubblico ministero dell'apertura del procedimento, la possibile iniziativa dello stesso pubblico ministero e la sua citazione per l'udienza di comparizione (artt. 47 e 48 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, che sono proprie dell'attivita' giurisdizionale. Il convincimento del Consiglio trova infine ulteriore conferma nell'impossibilita' di giustificare, sul piano della logica giuridica, quel viraggio dall'amministrativo al giurisdizionale che viene ammesso in modo tanto pacifico quanto acritico allorche' il caso disciplinare venga portato all'esame del Consiglio nazionale forense. Certamente non basta a spiegarlo il fatto che la decisione di questo viene pronunciata in nome del popolo italiano e quindi, in difetto di altri argomenti, si deve concludere che il carattere giurisdizionale appartiene sin dall'inizio al procedimento disciplinare forense. Va ritenuta pertanto la natura giudicante della funzione disciplinare attribuita ai consigli forensi locali nei confronti degli iscritti e la conseguente possibilita' di proporre dinnanzi a queste eccezioni di legittimita' costituzionale come quella che la difesa ha dedotto con riferimento all'art. 42 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, in relazine agli artt. 4 e 24 della Costituzione. Ritiene altresi' il Consiglio che la questione di costituzionalita' cosi' prospettata sia rilevante perche' il presente procedimento non potrebbe essere definito indipendentemente dalla sua soluzione. Ritiene infine il Consiglio che l'eccezione non sia manifestamente infondata. Ed invero, in linea con quanto dedotto dalla difesa dell'incolpato, bastera' rilevare che l'art. 42 del r.d.l. n. 1578/1933 viene ad introdurre nel sistema disciplinare forense un automatismo ed un criterio sanzionatorio rigidi che contrastano con il principio generale secondo cui ogni sanzione deve essere graduata in relazione alla gravita' del fatto su cui si esercita il giudizio disciplinare. Di conseguenza, mancando ogni possibilita' di valutazione, il sistema risulta incoerente ed irrazinale per gli effetti che si desumono dall'art. 3 della Costituzione e quindi in contrasto con i principi che lo stesso pone. In questo senso la Corte costituzionale - nella recentissima sentenza 12 ottobre 1988, n. 971, dove affronta le conseguenze disciplinari ex art. 85 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, di una condanna per peculato riportata da un pubblico dipendente - ha dichiarato l'incostituzionalita' della norma affermando che: "L'indispensabile gradualita' sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa - adunque - che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 della Costituzione". E' appena il caso di rilevare l'analogia tra la fattispecie decisa dalla Corte e quella in esame dove l'automatismo della gravissima sanzione stabilita dall'art. 42 del r.d.l. n. 1578/1983 come conseguenza del giudicato penale viene ad impedire ogni valutazione disciplinare, massime in un caso come quello presente in cui i fatti accertati e puniti dal giudice penale non vennero compiuti nell'esercizio della professione forense.