ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 53- bis della
 legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
 sull'esecuzione  delle  misure privative e limitative della liberta')
 inserito dall'art. 17 della legge 10 ottobre 1986, n. 663  (Modifiche
 alla  legge  sull'ordinamento  penitenziario  e sull'esecuzione delle
 misure privative e limitative della  liberta')  e  dall'art.  14-ter,
 terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, inserito dall'art. 2
 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, promosso  con  ordinanza  emessa
 l'11  luglio  1989  dal  Tribunale  di  sorveglianza  di  Napoli  nel
 procedimento penale a carico di Pietropaolo Antonio, iscritta  al  n.
 523 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 46 dell'anno 1989;
    Visto   l'atto  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 21 febbraio 1990 il Giudice
 relatore Renato Dell'Andro;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con ordinanza 11 luglio 1989 (Reg. ord. n. 523/1989) emessa
 nel procedimento promosso da Pietropaolo Antonio avverso  il  decreto
 con il quale veniva disposta la non inclusione nel computo della pena
 detentiva dei sei giorni trascorsi in permesso premiale ex art. 30ter
 della  legge  26  luglio  1975, n. 354 e successive modificazioni, il
 Tribunale  di  sorveglianza  di  Napoli  ha  sollevato  due  distinte
 questioni di legittimita' costituzionale.
    Il  predetto Tribunale ritiene anzitutto non conforme agli artt. 3
 e 13 Cost. l'art. 53-  bis  della  legge  26  luglio  1975,  n.  354,
 introdotto  dall'art.  17  della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella
 parte in cui  non  consente  alla  magistratura  di  sorveglianza  di
 determinare  in  quale  misura  il  tempo trascorso in permesso debba
 considerarsi pena espiata. Osserva, al riguardo,  il  giudice  a  quo
 che,  prima  dell'entrata  in  vigore della legge n. 663 del 1986, la
 giurisprudenza era concorde nel ritenere che il tempo  trascorso  dal
 detenuto  o  dall'internato  in  permesso  fosse computabile, ad ogni
 effetto, nella durata della pena inflitta. L'art. 53- bis della legge
 n.  354  del 1975, inserito dall'art. 17 della legge n. 663 del 1986,
 ha affermato espressamente tale principio ma  ha  aggiunto  che,  "in
 caso di mancato rientro o di altri gravi comportamenti da cui risulta
 che il soggetto non si e' dimostrato meritevole  del  beneficio",  il
 magistrato  di sorveglianza puo' decidere l'esclusione dal computo di
 tale tempo con decreto motivato.
    L'autorita'  remittente  sottolinea,  in  proposito,  che il tempo
 trascorso dal soggetto in permesso-premio non  e'  tempo  vissuto  in
 liberta'.  Per  concedere  i  permessi,  infatti,  il  magistrato  di
 sorveglianza deve adottare le cautele del caso (possibilita'  che  il
 detenuto  debba  essere  scortato per tutto o per parte del tempo del
 permesso; eventuale imposizione dell'obbligo di trascorrere la  notte
 in  un  istituto  penitenziario,  qualora  il  permesso sia di durata
 superiore alle dodici ore); peraltro,  normalmente  i  magistrati  di
 sorveglianza  prescrivono al detenuto di tenere contatti con la forza
 pubblica e di non allontanarsi  dal  domicilio.  Pertanto,  il  tempo
 trascorso  in  permesso  puo'  oscillare  tra una forma di detenzione
 domiciliare  (permesso  con  divieto  assoluto  di  allontanarsi  dal
 domicilio  durante  l'intera  durata  del  permesso); di semiliberta'
 (obbligo di trascorrere la notte in un  istituto  penitenziario);  di
 liberta' vigilata (permesso con divieto di allontanarsi dal domicilio
 durante alcune ore e di tenere costanti contatti con le autorita'  di
 pubblica  sicurezza).  E' evidente che ciascuna di tali situazioni e'
 piu' prossima, se non proprio corrispondente, a quella di una  misura
 limitativa della liberta' che a quella della liberta'.
    Ad  avviso  del  giudice a quo, i permessi premiali, al pari della
 licenza e  dell'ammissione  al  lavoro  all'esterno,  favoriscono  il
 riacquisto  di  quote di liberta' che il legislatore ritiene utili ai
 fini della rieducazione, la quale, a sua volta, costituisce lo scopo,
 costituzionalmente   prescritto,  della  pena.  Tuttavia,  colui  che
 usufruisce  dei  permessi   permane   in   uno   status   nel   quale
 l'afflittivita'  della pena e' piu' limitata rispetto alla detenzione
 piena  ma  integra,  pur  sempre,  un  modo,  sia  pure  diverso,  di
 espiazione.
    Di  conseguenza, prosegue sul punto l'ordinanza di rimessione, nel
 momento in cui il magistrato di sorveglianza,  ed  eventualmente,  in
 sede di reclamo, il tribunale accertano "il mancato rientro" o "altri
 gravi comportamenti dai quali risulta  che  il  soggetto  non  si  e'
 dimostrato  meritevole  del beneficio" devono anche poter determinare
 quale parte del periodo di tempo trascorso in permesso od in  licenza
 non deve essere computato come pena espiata.
    Pertanto,  il  giudice  a quo ritiene che debbano essere estesi ai
 casi di mancato rientro o di altri gravi comportamenti ex art.  53bis
 della  legge  n.  354/1975  e  successive  modificazioni  i  principi
 affermati dalle sentenze nn. 343 del 1987 e 282 del 1989, della Corte
 costituzionale,  in  sede  di  revoca  dell'affidamento  in  prova al
 servizio sociale e della liberazione condizionale.
     In secondo luogo, il Tribunale di sorveglianza di Napoli solleva,
 in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 3 Cost., questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  14-ter,  terzo  comma, della
 legge n. 354/1975  cit.,  introdotto  dall'art.  2,  della  legge  n.
 663/1986  cit.,  limitatamente  al  richiamo che ne fa il citato art.
 53-bis, nella parte in cui non prevede il diritto dell'interessato  a
 partecipare all'udienza davanti al Tribunale.
    In  particolare,  il  giudice  a  quo  ritiene che il procedimento
 previsto dall'impugnato art.  14-  ter  della  legge  n.  354/1975  e
 successive  modificazioni  non  offre  le  stesse  garanzie difensive
 predisposte   dalla   disciplina   del   procedimento   generale   di
 sorveglianza.    Quest'ultimo,    infatti,   ha   indiscussa   natura
 giurisdizionale, si svolge con la garanzia del contraddittorio  e  si
 conclude con un provvedimento soggetto ad impugnazione.
    L'oggetto  principale,  nei giudizi davanti al tribunale, riguarda
 la  modifica  e  l'estinzione  d'una  situazione  afflittiva  cui  il
 soggetto   e'  sottoposto  in  esecuzione  di  una  condanna  a  pena
 detentiva. E' diretto, pertanto, a modificare lo status del  soggetto
 consentendogli di riacquistare quote di liberta' in rapporto ai gradi
 di rieducazione raggiunti.
    E'  previsto  un  invito (nel quale deve essere indicato l'oggetto
 del  procedimento)  all'interessato  ad  esercitare  la  facolta'  di
 nominare  un  difensore;  il  Tribunale  provvede  alla  nomina di un
 difensore d'ufficio, qualora  non  venga  nominato  un  difensore  di
 fiducia,  nonche'  alla  notificazione  dell'avviso  del giorno della
 trattazione della causa, all'interessato, al procuratore generale  ed
 al difensore.
    All'udienza,  che si svolge con il rito camerale, l'interessato ha
 diritto di intervenire personalmente, assistito dal difensore e  puo'
 concorrere  all'acquisizione  di  documenti  ed  all'assunzione delle
 prove. Per effetto dei poteri  attribuitigli  (cfr.  il  terzo  comma
 dell'art.  71-  bis della legge n. 354/1975) l'organo di sorveglianza
 puo',  tra  l'altro,  assumere  informazioni,  acquisire   documenti,
 ascoltare  testimoni,  procedere  a perizie, ispezioni, ricognizioni,
 confronti,  esperimenti  giudiziali,  nel  rispetto  delle   garanzie
 proprie del processo di cognizione.
    Il  procedimento  disciplinato dall'impugnato art. 14-ter, invece,
 e' "introdotto" dal magistrato  di  sorveglianza,  che,  con  decreto
 motivato ( ex art. 53- bis cit.) dispone la non computabilita', nella
 pena detentiva, del periodo di tempo trascorso in permesso o licenza.
 Avverso  il  decreto l'interessato puo' produrre reclamo al tribunale
 nel termine di dieci giorni.  Il  tribunale  provvede  nell'ulteriore
 termine   di   dieci   giorni.  Il  procedimento  si  svolge  con  la
 partecipazione   del   difensore   e   del   procuratore    generale.
 L'interessato  puo' presentare memorie; non ha diritto di partecipare
 all'udienza.
    Il  magistrato  di  sorveglianza  che ha emesso il decreto, non fa
 parte del collegio che decide sul reclamo.
    L'ordinanza  di  rimessione si sofferma, quindi, ad evidenziare la
 differenza tra i due procedimenti.
    Innanzi tutto, il procedimento generale, di norma (fatta eccezione
 per le ipotesi di revoca)  e'  finalizzato  al  riacquisto  da  parte
 dell'interessato  di quote di liberta', se non proprio della liberta'
 (liberazione anticipata); potrebbe percio' dirsi che  tendenzialmente
 e'   predisposto  all'emanazione  di  "provvedimenti  a  favore".  Il
 secondo, invece, consente l'interruzione dell'esecuzione  e,  quindi,
 sostanzialmente  e' diretto a prolungare il termine di scadenza della
 pena; tende ad un "provvedimento in danno".
    Secondariamente,  il  procedimento  di  sorveglianza  generale  si
 configura come un "procedimento sul detenuto", il procedimento de quo
 e'  invece  ed  anzitutto  un  "procedimento  sul  fatto", cioe', sui
 comportamenti che il magistrato di sorveglianza ritiene abbiano  dato
 causa alla interruzione della esecuzione. L'oggetto del procedimento,
 pertanto, e' per molti versi simile al procedimento di cognizione.
    In  proposito,  il  giudice a quo sottolinea che proprio colui che
 viene sottoposto ad un giudizio, che puo' sfociare in  una  decisione
 restrittiva  della  sua liberta', incontra limitazioni nell'esercizio
 del diritto di difesa garantito dall'art. 24, secondo comma, Cost.
    D'altra parte, la rilevata affinita' con il processo di cognizione
 induce il giudice  a  quo  a  ritenere  che  debba  essere  garantita
 pienamente  oltre  alla difesa tecnica, anche quella materiale. A tal
 fine, non e' sufficiente la possibilita' che  l'interessato  contesti
 il  "fatto",  nel  reclamo  e  nella  memoria,  in quanto non si puo'
 escludere che nel corso dell'udienza  sopravvenga  l'opportunita'  di
 assumere  informazioni  o  prove  ad  integrazione  o riscontro degli
 elementi  gia'   acquisiti.   In   simili   eventualita',   l'assenza
 dell'interessato,  che  e' l'unico in grado di contestare circostanze
 che lo  riguardano  personalmente,  si  traduce  in  una  sostanziale
 negazione del diritto di difesa.
    2.  -  E'  intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  concludendo  per una declaratoria di non fondatezza delle due
 questioni.
    Invero,  per quanto riguarda l'impugnativa dell'art. 53- bis della
 legge n. 354/1975 cit., osserva l'Avvocatura che non e' ipotizzabile,
 in  materia  di  permessi  di  cui  all'art.  30-  ter della legge n.
 354/1975 cit., l'applicazione analogica dei principi affermati  dalla
 Corte costituzionale con la sentenza n. 343/1987, in riferimento alla
 revoca dell'affidamento in prova e con la sentenza  n.  282/1989,  in
 riferimento alla revoca della liberazione condizionale.
     A  differenza  dell'affidamento  in  prova  e  della  liberazione
 condizionale, difatti, i permessi premiali  hanno  natura  di  misura
 amministrativa  di  trattamento incidente sullo stato di detenzione e
 solo marginalmente sullo stato di liberta'.
    A  proposito  della  lamentata  lesione  del  diritto alla difesa,
 ritiene l'Avvocatura  che  la  previsione  dell'applicabilita',  alla
 fattispecie   di   cui   al  citato  art.  53-bis,  del  procedimento
 disciplinato dall'art. 14- ter della  legge  n.  354/1975  cit.,  per
 reclamo  avverso  i  provvedimenti relativi al regime di sorveglianza
 particolare, non appare violare gli  artt.  3  e  24  Cost.,  essendo
 consentito  al legislatore ordinario di graduare discrezionalmente le
 modalita' di esercizio  del  diritto  di  difesa  con  riguardo  alla
 diversita' delle situazioni giuridiche sostanziali.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Il  giudice  a  quo, sottolineato il carattere "afflittivo"
 delle limitazioni imposte al soggetto ammesso a godere  del  permesso
 premio ex art. 30- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (introdotto
 dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663)  solleva  una  prima
 questione  di  costituzionalita'  chiedendo  che l'art. 53- bis della
 legge n. 354 del 1975 (introdotto dall'art. 17 della legge n. 663 del
 1986) sia dichiarato incostituzionale nella parte in cui, nel caso di
 mancato rientro o di altri gravi comportamenti da cui risulti che  il
 soggetto  non  si e' dimostrato meritevole del beneficio, esclude che
 il tempo trascorso in permesso sia  sottratto,  almeno  parzialmente,
 dalla  durata  della misura privativa o delle misure limitative della
 liberta'  personale.  In  altre  parole,  lo  stesso  giudice  chiede
 l'estensione   ai   casi   di   mancato  rientro  o  di  altri  gravi
 comportamenti di cui all'art. 53- bis della legge n. 354 del 1975 dei
 principi affermati dalle sentenze nn. 343 del 1987 e 282 del 1989 per
 le ipotesi di revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale  e
 della liberazione condizionale.
    L'ordinanza    di   rimessione,   nel   richiedere   la   parziale
 dichiarazione d'incostituzionalita' dell'art.  53-  bis  della  legge
 penitenziaria, identifica i "vincoli" imposti alla liberta' personale
 da  alcune  misure   alternative   alla   detenzione   (es.   divieto
 d'allontanarsi  dal domicilio per alcune ore o per l'intera giornata,
 obbligo di trascorrere la notte  in  un  istituto  penitenziario,  di
 mantenere  contatti  con le autorita' di pubblica sicurezza ecc.) con
 le cautele che possono essere determinate, ai sensi dell'art. 30- ter
 della   legge   penitenziaria,   all'atto   della   concessione   del
 permesso-premio.
    La sollevata questione di costituzionalita' non e' fondata.
    Se  e'  vero  che  il permesso di cui all'art. 30- ter della legge
 penitenziaria e' espressione d'una nuova concezione della  pena,  del
 carcere  e  della  funzione rieducativa-promozionale di alcune misure
 premiali e se e' vero che  lo  stesso  permesso,  nel  consentire  al
 detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di liberta', parte da una
 visione della rieducazione entro e fuori le  mura  carcerarie  comune
 anche  alle misure alternative alla detenzione, non per tal motivo il
 predetto  permesso-premio  puo'  esser   ricondotto   alla   generale
 categoria  delle misure alternative: l'implicita premessa dalla quale
 parte il giudice a quo,  allorche'  identifica  le  limitazioni  alla
 liberta'  personale,  di  natura  afflittiva,  propria  delle  misure
 alternative con le cautele dalle quali "puo'" esser accompagnata,  ai
 sensi dell'art. 30- ter della legge penitenziaria, la concessione del
 permesso-premio,  e'  appunto  (pur,  s'intende,  nelle   distinzioni
 proprie  di ciascuna "specie") l'inclusione del permesso-premio nella
 nozione generale di misura alternativa alla detenzione.
    L'indagine   sulla   fondatezza   della   proposta   questione  di
 costituzionalita' non puo' essere, pertanto, iniziata senza l'esame -
 condotto,  s'intende,  nei  limiti di questa sede - della particolare
 natura  premiale  del  permesso  ex  art.   30-   ter   della   legge
 penitenziaria   e   del   "confronto"  tra  misure  alternative  alla
 detenzione e permessi-premio.
    2.  -  Va  anzitutto precisato che alcune misure premiali - da non
 confondere  con  i  provvedimenti,  assolutamente  discrezionali,  di
 natura  indulgenziale  -  allorche'  e'  stato emanato l'art. 9 della
 legge 10 ottobre 1986, n. 663 (che ha inserito l'art. 30-  ter  nella
 legge penitenziaria) sono state rese perfettamente compatibili con la
 funzione rieducativa che e' propria, ex art. 27, terzo comma,  Cost.,
 delle   pene.  Il  citato  art.  9  della  legge  n.  663  del  1986,
 introducendo nel sistema della legge penitenziaria il nuovo  istituto
 del permesso-premio (nettamente diverso dal permesso di necessita' ex
 art. 30 della predetta legge) attesta che, con il  superamento  della
 concezione    esclusivamente    custodialistica   delle   istituzioni
 carcerarie,     e'     ben     configurabile     una      premialita'
 propulsivo-promozionale  e che la funzione rieducativa delle pene, ex
 art. 27, terzo comma, Cost.,  e'  legislativamente  estesa  anche  ad
 alcune delle misure premiali.
    Il    permesso-premio,   infatti,   costituisce   incentivo   alla
 collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria, appunto  in
 funzione del premio previsto, in assenza di particolare pericolosita'
 sociale, quale conseguenza di regolare condotta  (  ex  art.  30-ter,
 ottavo  comma,  della legge penitenziaria) ed insieme strumento, esso
 stesso, di rieducazione, in quanto consente un iniziale reinserimento
 del condannato nella societa'. Il permesso-premio qui in discussione,
 oltre a consentire al condannato di  coltivare  interessi  affettivi,
 culturali  e  di lavoro, costituisce parte integrante del trattamento
 rieducativo,  ai  sensi  dell'espresso  disposto  del   terzo   comma
 dell'art.  30- ter della legge penitenziaria; lo stesso permesso (che
 pertanto autorizza anche - attraverso l'osservazione, da parte  degli
 operatori  penitenziari, degli effetti sul condannato dell'esperienza
 del temporaneo ritorno alla liberta'  a  trarre  utili  elementi  per
 l'eventuale  concessione  di  misure  alternative  alla detenzione e,
 comunque,  per  l'ulteriore  prosecuzione   della   pena   detentiva)
 chiarisce  la perfetta compatibilita' tra misure premiali e finalita'
 rieducative dell'esecuzione penale,  cosi'  ribadendo,  fra  l'altro,
 quel  che,  da  tempo, e' ben noto alla pedagogia generale e cioe' la
 potente  molla  rieducativa  che  ogni  premio,  qualsiasi   sanzione
 "positiva",   ha   sull'educando  almeno  alla  pari  delle  sanzioni
 "negative".
    Tutto  cio',  tuttavia,  ad una condizione: che la misura premiale
 rimanga tale, nel significato attribuito al "premio" dalla  legge  10
 ottobre  1986, n. 663; che, cioe', il permesso-premio ex art. 30- ter
 della legge penitenziaria rimanga,  in  se',  concreto  ed  effettivo
 premio   rieducativo-promozionale.   Ove,  invece,  partendo  da  una
 "estrema" concezione custodialistica della carcerazione e, prima,  da
 una  visione  esclusivamente  afflittivo-retributiva  della  pena, si
 ritenesse  la   funzione   premiale   incompatibile   con   finalita'
 rieducative,  in  realta'  si tornerebbe ad una concezione del premio
 quale   misura   esclusivamente    discrezionale-clemenziale    (pura
 "indulgenza"  dell'autorita'  che  mantiene ogni potere sul detenuto)
 disconosciuta, certamente, dalla  legge  10  ottobre  1986,  n.  663.
 D'altra  parte  -  ove  s'accentuasse  la  funzione  rieducativa  del
 permesso-premio, considerandolo esclusivamente come prima "prova"  in
 liberta',  anticipatrice  delle eventuali successive prove costituite
 dalle misure alternative, dimenticandone, cosi', la  natura  premiale
 (conseguenza  della regolare condotta del detenuto) - ugualmente, non
 cogliendo la particolare natura del permesso-premio di  cui  all'art.
 30-  ter  della legge penitenziaria, paradossalmente si finirebbe col
 confondere una misura premiale con sanzioni  penali  quali  sono  pur
 sempre le misure alternative alla detenzione.
    Vero  e'  che  il  permesso-premio  ex  art.  30-  ter della legge
 penitenziaria  in  tanto  e'  idoneo  a  svolgere  la  sua   funzione
 rieducativa  (ed  in tanto e' "segno" del superamento sia dell'antica
 visione esclusivamente "custodialistica" della carcerazione sia della
 concezione  secondo  la  quale soltanto entro le mura carcerarie puo'
 esser realizzato il processo rieducativo del  condannato)  in  quanto
 venga   configurato   come   incentivo  "serio"  all'autentica,  "non
 ambigua", collaborazione con  l'istituzione  carceraria  (oltre  che,
 s'intende,  come strumento, in se', d'effettiva risocializzazione) e,
 cioe'  rimanga  premio,  in  assenza  di  particolare   pericolosita'
 sociale,  concesso  in conseguenza della regolare condotta tenuta dal
 detenuto entro le mura carcerarie,  come  precisato  e  voluto  dalla
 legge n. 663 del 1986.
    3.  -  Va  qui  sottolineato che la funzione pedagogico-propulsiva
 (incentivo a  mantenere  regolare  condotta  carceraria)  svolta  dal
 permesso-premio come meta da raggiungere e' accentuata dall'ulteriore
 beneficio della computabilita'  del  periodo  trascorso  in  permesso
 nella   durata   della  detenzione:  si  tratta,  chiaramente,  d'una
 premialita' progressiva. L'esclusione da tale  computabilita',  nelle
 ipotesi di mancato rientro in istituto o di altri gravi comportamenti
 da cui risulti che il soggetto non si e'  dimostrato  meritevole  del
 beneficio,   equivale,   in   sede,   propriamente,   di  premialita'
 regressiva, a "minaccia" di non concessione, nelle indicate  ipotesi,
 del  predetto  "ulteriore"  beneficio.  Il  legislatore, cioe', senza
 introdurre un'espressa ipotesi di revoca del permesso, ha previsto la
 non  concessione  dell'ulteriore  beneficio  della computabilita' del
 periodo  trascorso  in  permesso  nella   durata   della   detenzione
 (concessione  che  e',  sicuramente,  una  fictio  iuris  motivata da
 necessita' incentivanti  la  regolare  condotta  extracarceraria  del
 soggetto)  nelle  ipotesi  di  mancato rientro in istituto o di altri
 gravi  comportamenti  di   cui   all'art.   53-   bis   della   legge
 penitenziaria.
    L'incentivazione  alla  regolare condotta carceraria attraverso la
 "promessa" del  permesso  premio  e  l'incentivazione  alla  regolare
 condotta  extracarceraria  attraverso  la  "promessa" del computo del
 periodo  trascorso  in  permesso  premio  nella  durata  della   pena
 detentiva,   da   un   canto  ricostruiscono  la  completa  struttura
 dell'istituto di cui agli  artt.  30-  ter  e  53-  bis  della  legge
 penitenziaria  e dall'altro manifestano la chiara razionalita', dello
 stesso istituto, nel quadro della "nuova" visione  rieducativa  della
 pena  e,  in  generale,  del carcere e delle misure che consentano le
 prime esperienze in liberta' del condannato.
    La   fattispecie   "meritoria",   "positivamente"  sanzionata  dal
 permesso-premio,   e'   costituita,   in   assenza   di   particolare
 pericolosita'  sociale,  dalla manifestazione, durante la detenzione,
 di "costante senso di responsabilita' e correttezza nel comportamento
 personale,   nelle  attivita'  organizzate  negli  istituti  e  nelle
 eventuali  attivita'  lavorative  e  culturali"  (cfr.  ottavo  comma
 dell'art.  30- ter della legge penitenziaria): e la sanzione positiva
 del permesso premio  e'  pienamente  proporzionata  al  valore  della
 fattispecie   meritoria.   Quest'ultima,  costituita  dalla  regolare
 condotta   extracarceraria   tenuta   durante    il    periodo    del
 permesso-premio,  e'  "positivamente"  sanzionata  dal computo, nella
 durata della pena detentiva, dello stesso periodo e tal  sanzione  e'
 pienamente  proporzionata  al valore della corrispondente fattispecie
 meritoria. A cio' deve aggiungersi che la fattispecie dalla quale  si
 desume  l'immeritevolezza  del  permesso-premio ex art. 53- bis della
 legge penitenziaria, e' integrata dal mancato rientro in  istituto  o
 dagli  altri  gravi comportamenti di cui allo stesso articolo; e che,
 nei  confronti   della   stessa   fattispecie,   e'   sicuramente   e
 razionalmente  proporzionata  l'esclusione  (in  sede  di premialita'
 regressiva) dell'ulteriore beneficio costituito dalla  computabilita'
 del  periodo  trascorso  in  permesso-premio  nella durata della pena
 detentiva fissata dalla sentenza.
       Da  tutto  cio'  s'evince  che  il  permesso-premio da un canto
 dimostra  che,  con  la  nuova  concezione  rieducativa  della  pena,
 costituzionalmente  accolta, risultano mutate anche le concezioni del
 carcere come mera "custodia" e delle misure di liberta' come effetti,
 sempre, di pura clemenza dell'autorita' e dall'altro canto testimonia
 la  funzione  rieducativa-propulsiva  di  alcune   misure   premiali,
 conseguenza  dell'estensione  della  finalita' rieducativa delle pene
 anche ad alcune delle stesse misure.
    4.  -  Il  salto  di  qualita'  che l'istituto del permesso-premio
 evidenzia in ordine alle nuove visioni delle  finalita'  delle  pene,
 del  carcere  e di alcune misure premiali, relative alla possibilita'
 di rieducazione  anche  fuori  delle  mura  carcerarie,  e'  alquanto
 oscurata  dalla natura fiduciaria del permesso-premio, che ancora non
 costituisce un diritto del detenuto, come le misure alternative  alla
 detenzione.
    I  precedenti normativi della legge n. 663 del 1986 e l'esperienza
 giurisprudenziale degli anni che vanno dal 1975 al 1986, nel ribadire
 la   polifunzionalita'   dei   permessi-premio,   rendono,  tuttavia,
 manifesta anche la natura "fiduciaria" dei medesimi.
    E'  stato  innanzi  precisato  che,  a  differenza dei permessi di
 necessita'  (di  cui   all'art.   30   della   legge   penitenziaria)
 esclusivamente   attuativa   del   disposto  costituzionale  relativo
 all'umanizzazione delle pene, i permessi-premio ex art. 30- ter della
 legge  penitenziaria  costituiscono  il primo gradino del trattamento
 rieducativo "in liberta'" del condannato.
    E'  in  questo  quadro  che il progetto di legge penitenziaria del
 1975 prevedeva, oltre ai permessi di  necessita',  anche  i  permessi
 speciali,  anticipazione  dei  permessi-premio  di  cui alla legge 10
 ottobre  1986,   n.   663.   Malgrado   la   non   approvazione   dei
 permessi-speciali   (nella   legge  penitenziaria  del  1975  furono,
 pertanto, previsti soltanto i permessi di necessita') i magistrati di
 sorveglianza,  ampliando  il  senso  della  norma  prevedente  questi
 ultimi, hanno finito con l'applicare la stessa norma  anche  in  casi
 non eccezionali, interpretandola, comunque, in senso molto estensivo.
 Si  e'  venuta,  cosi',  a  creare,  ancor  prima   del   1986,   una
 caratteristica  situazione  per  la  quale da una parte il magistrato
 concedeva i permessi-premio anche per la particolare fiducia  nutrita
 nei  confronti  di alcuni detenuti e questi ultimi rispondevano a tal
 fiducia, di regola, con  lealta'  nei  confronti  del  magistrato  di
 sorveglianza che gli aveva concesso il permesso.
    La  legge  10  ottobre 1986, n. 663, recependo le risultanze della
 prassi gia' instauratasi in sede d'applicazione della norma  relativa
 ai  permessi  di  necessita',  ha  sottolineato  il  requisito  della
 "meritevolezza"  del  beneficio  del  permesso-premio.  Ed   e'   qui
 l'origine della disposizione impugnata, di cui all'art. 53- bis della
 legge penitenziaria. Il soggetto che non rientra in  istituto  o  che
 realizza  gravi  comportamenti  (dai  quali  risulti  che  non  si e'
 mostrato meritevole del beneficio) tradisce la fiducia in lui riposta
 e non e', dunque, meritevole dell'ulteriore beneficio dello scomputo,
 dalla  durata  della  pena  detentiva,   del   tempo   trascorso   in
 permesso-premio.
    Tenuto conto di cio', della discrezionalita' della concessione del
 permesso-premio,  basata  ancor  oggi  sulla  fiducia   riposta   dal
 magistrato  nel  detenuto  beneficiario,  la  stessa  concessione non
 rappresenta, dunque, un diritto del detenuto,  a  differenza  ad  es.
 della  liberazione condizionale (cfr. sentenza n. 282 del 1989) e, in
 genere, delle misure alternative alla  detenzione.  Ed  anche,  sotto
 questo  profilo,  il  permesso-premio si differenzia nettamente dalle
 misure alternative alla detenzione.
    5.  -  Ma  che  il  permesso-premio  ex  art.  30- ter della legge
 penitenziaria del 1975 non possa in alcun modo esser ricondotto  alla
 nozione  generale  di  misura alternativa alla detenzione in istituto
 risulta sicuramente dimostrato dalle considerazioni che seguono.
    Va  intanto  chiarito  che  il  permesso-premio,  pur costituendo,
 almeno per le pene medio-lunghe, di regola, come s'e' gia' accennato,
 il  primo  gradino del programma di trattamento rieducativo, rispetto
 alle cronologicamente successive misure  alternative  (ad  es.  della
 semiliberta'  o  della  liberazione  condizionale) si distingue dalle
 misure alternative alla detenzione, oltre  che  per  la  collocazione
 sistematica  dei  permessi  nell'ambito  della legge penitenziaria (i
 permessi sono, infatti, previsti dagli artt. 30  e  30-ter,  inseriti
 nel capo III, intitolato "modalita' del trattamento" mentre le misure
 alternative alla detenzione sono specificate nel capo VI,  intitolato
 appunto "misure alternative alla detenzione e remissione del debito",
 agli artt. 47 e  segg.)  per  le  autorita'  competenti  a  decidere,
 rispettivamente,  sui  permessi e sulle misure alternative: mentre il
 potere di  concedere  i  permessi  e'  attribuito  al  magistrato  di
 sorveglianza,   sentito,   per   i   permessi-premio,   il  direttore
 dell'istituto (e se ne comprende subito il perche', ove si ricordi la
 minor  valenza  temporale  dei  permessi-premio  rispetto alle misure
 alternative alla detenzione) competente a provvedere alla concessione
 di queste ultime e' il Tribunale di sorveglianza (cfr. art. 70, primo
 comma, della legge penitenziaria). E non solo: mentre a decidere, con
 decreto  motivato, sull'esclusione, dal computo della pena detentiva,
 del tempo trascorso  in  permesso  e'  ancora  competente  lo  stesso
 magistrato  di  sorveglianza,  in  materia  di  revoca  delle  misure
 alternative e', invece, competente lo stesso Tribunale.
      V'e', poi, un ancor piu' decisivo rilievo: le misure alternative
 alla detenzione,  nel  sostituirsi,  quali  misure  limitative  della
 liberta',  alla  classica misura privativa della medesima, costituita
 dalla  detenzione  in  istituto,  sono  ordinariamente  destinate  ad
 esaurirsi,  salvo  revoca,  nello  stesso  tempo  in  cui  si sarebbe
 esaurita la detenzione, determinata - salve le misure  sostitutive  e
 le eventuali "riduzioni" applicate in sede esecutiva - nella sentenza
 di condanna. Di regola, gia' nel momento della sua  applicazione,  la
 misura alternativa viene fissata per un periodo eguale a quello della
 pena detentiva. Basti ricordare qui l'art. 47, primo ed ultimo comma,
 della  legge  26  luglio  1975,  n.  354  (l'affidamento  in prova al
 servizio sociale fuori dell'istituto  e'  stabilito  per  un  periodo
 uguale  a quello della pena da scontare; l'esito positivo della prova
 estingue la pena ed ogni altro effetto penale) nonche' gli artt.  176
 e  177  del  codice  penale,  tenuto  conto  della  natura  di misura
 alternativa alla detenzione riconosciuta  dalla  sentenza  di  questa
 Corte n. 282 del 1989.
    I  permessi-premio, invece, come sancito dal primo comma dell'art.
 30- ter della legge penitenziaria, non possono avere la durata,  ogni
 volta,  superiore  a  quindici  giorni  e  non  possono oltrepassare,
 complessivamente, quarantacinque giorni in ciascun anno d'espiazione.
 Esaurito  il  tempo  determinato  dal  magistrato di sorveglianza per
 ciascun permesso-premio, riprende,  pertanto,  vigore  la  precedente
 ordinaria  detenzione  in  istituto. Il permesso-premio e', dunque, a
 differenza delle  misure  alternative,  per  sua  natura,  temporaneo
 (anche  se  puo'  esser  concesso  piu' volte) e, esaurita la singola
 concessione, importa la ripresa dell'originaria detenzione. Lo stesso
 permesso  costituisce  cosi'  una parentesi nell'ordinaria espiazione
 della pena detentiva: si torna a sottolineare che la  detenzione  che
 deve  espiarsi  dopo l'esaurimento del termine del permesso-premio in
 nulla differisce  dalla  detenzione  sospesa  dalla  concessione  del
 permesso.
    Tal  considerazione  preclude di ricondurre i permessi-premio alla
 categoria delle misure alternative alla detenzione. La  temporaneita'
 dei permessi-premio, raffrontata all'ordinario svolgersi della misura
 alternativa (come gia' rilevato per un  periodo  di  tempo  uguale  a
 quella  che  sarebbe  stata,  ove  non  fosse intervenuta, la normale
 espiazione detentiva) e' peraltro la spia attraverso  la  quale  puo'
 agevolmente  spingersi  piu'  a  fondo  lo sguardo teso a cogliere le
 ulteriori differenze tra gli stessi permessi e le misure alternative.
    6. - Non v'e' dubbio, invero, come s'e' gia' innanzi sottolineato,
 che anche il permesso-premio e' parte  integrante  del  programma  di
 trattamento  rieducativo  e  deve  esser  seguito  dagli educatori ed
 assistenti sociali penitenziari in collaborazione con  gli  operatori
 sociali  del  territorio (cfr. il terzo comma dell'art. 30- ter della
 legge n. 354 del 1975) e non puo', altresi', dubitarsi che lo  stesso
 permesso  riconosca e premi la "condotta regolare" del detenuto entro
 gli istituti carcerari e, cioe', il costante senso di responsabilita'
 manifestato  dal  detenuto  e  la  sua  correttezza  non soltanto nel
 comportamento personale ma anche "nelle attivita'  organizzate  negli
 istituti   e   nelle  eventuali  attivita'  lavorative  e  culturali"
 attivita' che, per l'art. 15  della  legge  in  esame,  costituiscono
 elementi del trattamento rieducativo.
    Cio',  tuttavia,  non  vale  a confondere i permessi-premio con le
 misure  alternative  alla  detenzione:  in   definitiva,   anche   le
 afflizioni   inerenti  all'espiazione  della  pena  detentiva  devono
 tendere alla rieducazione del condannato ex  art.  27,  terzo  comma,
 Cost.  A  fortiori,  tutte  le  decisioni  assunte  in esecuzione del
 trattamento rieducativo hanno, con una  comune  origine,  un'identica
 finalita'.
    Quel   che   vale   ad  ulteriormente  ed  ancor  piu'  nettamente
 differenziare   le   misure   alternative   alla    detenzione    dai
 permessi-premio  e',  peraltro,  l'attenta considerazione dei diversi
 effetti che dalle une e dagli altri discendono.
    Le  prime, come tutte o gran parte delle fattispecie modificative,
 nell'estinguere lo status di "detenuto", costituiscono altro  status,
 diverso  e specifico rispetto a quello di semplice "condannato" (cfr.
 sentenza di questa  Corte  n.  282  del  1989):  la  concessione  del
 permesso-premio,  invece,  non  estingue alcunche' ne' costituisce un
 autonomo status bensi' temporaneamente  sospende  l'esecuzione  della
 pena  detentiva,  destinata  a  ritornare  effettiva allo scadere del
 termine prefissato nell'atto di concessione  dello  stesso  permesso.
 Per il periodo di quest'ultimo il soggetto - temporaneamente sospesa,
 si ripete, l'esecuzione della pena detentiva - torna nella  primitiva
 condizione  di  "condannato"  alla  pena  detentiva (condizione dalla
 quale deriva, quale specifica attuazione, lo stato di "detenuto").
    D'altra parte e' inconcepibile uno status di detenuto in liberta'.
    7.  -  E'  certamente un equivoco, infatti, quello di ritenere, in
 ogni caso, mai sospesa l'esecuzione della pena  detentiva:  va,  qui,
 sottolineato  che,  se e' vero che per il codice penale del 1930 tale
 pena  era  identificata,  salva  la  possibilita'  della  liberazione
 condizionale, con la detenzione in istituto, una volta intervenuta la
 politica differenziata delle sanzioni penali  (soprattutto  ad  opera
 delle  leggi  n.  354 del 1975, n.689 del 1981 e n. 663 del 1986) una
 volta, cioe',  introdotte  nel  sistema  diverse  sanzioni  o  misure
 alternative  penali,  da  un  canto la nozione d'esecuzione va estesa
 fino a comprendere le modalita' esecutive di tutte le  misure,  anche
 solo  limitative,  della  liberta'  e  da  altro  canto,  distinto il
 rapporto giuridico punitivo (per chi lo ammetta) dai diversi rapporti
 giuridici  d'esecuzione  (relativi  alle  diverse  conseguenze penali
 della condanna) va precisato che, pur  derivando  questi  ultimi  dal
 primo,  ben  e'  possibile  sospendere uno dei medesimi, o tutti, pur
 nell'effettiva, costante vigenza del primo.
     Quel che non vien mai sospeso od interrotto (fino all'esaurimento
 delle diverse sanzioni o misure alternative penali)  e'  il  rapporto
 giuridico  punitivo.  Il  rapporto  giuridico d'esecuzione della pena
 detentiva viene, invece, sospeso (per l'accezione di questo  termine,
 cfr.  sentenza  n.  282  del  1989) sia dalle misure alternative sia,
 temporaneamente, dai  permessi-premio.  Con  l'ulteriore  differenza,
 tuttavia,  che,  mentre  le  misure  alternative alla detenzione, che
 costituiscono  pur  sempre  sanzioni  (negative)  penali  (anche   se
 concedono ampi spazi di liberta') sostituiscono al rapporto esecutivo
 della pena carceraria altro, diverso rapporto  esecutivo,  attinente,
 appunto,   alla   particolare   misura   alternativa   applicata,  il
 permesso-premio - che, certo, non puo'  ritenersi  sanzione  negativa
 penale  -  non  sostituisce,  invece,  alcun  rapporto esecutivo alla
 temporaneamente sospesa esecuzione della pena  carceraria,  rimanendo
 il  soggetto  beneficiario  nella  condizione di condannato alla pena
 detentiva (soggetto alla potesta' punitiva statale) in  liberta'  per
 permesso-premio.
    8.  -  Va  qui  particolarmente  sottolineato  che l'afflittivita'
 limitativa della liberta' del condannato, e' essenziale,  connaturale
 alle  misure  alternative  alla  detenzione,  mentre  non costituisce
 elemento essenziale del permesso-premio: le cautele, di cui al  primo
 comma   dell'art.   30  richiamato  dall'art.  30-  ter  della  legge
 penitenziaria,   si   applicano   soltanto   "ove   del   caso"    ai
 permessi-premio  (cfr.  il  sesto  comma  dell'art.  30- ter). Questi
 ultimi, dunque, per se', non postulano  come  essenziali  neppure  le
 "cautele",  che,  peraltro,  come  si precisera' fra breve, non vanno
 ritenute esclusivamente ed intenzionalmente afflittive.
    Come  e'  stato opportunamente sottolineato, le misure alternative
 partecipano della natura della pena, proprio per il loro coefficiente
 di  afflittivita':  esse, pertanto, sono alternative non alla pena in
 generale ma alla pena detentiva,  trattandosi  di  diverse  forme  di
 penalita'.
    L'afflittivita'  della  misura alternativa, ove fosse "aggiunta" a
 quella della originaria  pena  detentiva,  condurrebbe  certamente  a
 superare,  in sede esecutiva, l'entita' delle sofferenze insite nella
 pena detentiva stabilita dalla sentenza di condanna: ed  e'  per  tal
 motivo  che  le sentenze di questa Corte n. 343 del 1987 e n. 282 del
 1989  hanno  corretto  l'automatismo   che,   in   sede   di   revoca
 dell'affidamento  in  prova  al  servizio sociale e della liberazione
 condizionale, il legislatore  aveva  previsto  attraverso  la  totale
 esclusione,  dal computo della durata della pena detentiva, del tempo
 trascorso  nei  successivamente  revocati  affidamento   e   liberta'
 condizionale.
    Per  le  ipotesi,  invece,  d'esclusione, dal computo della durata
 della detenzione, del tempo trascorso in permesso-premio, nei casi ex
 art.  53- bis della legge penitenziaria di mancato rientro o di altri
 gravi comportamenti  da  cui  risulti  che  il  soggetto  non  si  e'
 dimostrato  meritevole  del  beneficio  nessuna  afflittivita'  viene
 annullata  e,  pertanto,  sofferta  "inutilmente",  senza  ragione  e
 giustificazione. Le "cautele", delle quali puo' esser stata munita la
 concessione  del   permesso-premio,   ordinariamente   previste   dal
 regolamento carcerario e dagli artt. 30-ter, sesto comma, e 30, primo
 comma,   della   legge   penitenziaria   (e   che,   peraltro,    non
 necessariamente,  come  s'e'  gia'  avvertito, devono accompagnare la
 stessa concessione) hanno natura ben diversa dalle "afflizioni"  che,
 invece, necessariamente, "connaturalmente", accompagnano l'esecuzione
 della misura alternativa. Le predette  "cautele",  anche  se  possono
 oggettivamente  coincidere con alcune delle limitazioni alla liberta'
 individuale connesse con l'esecuzione delle misure  alternative  alla
 detenzione,   non   soltanto   non  sono  finalizzate  a  sostituire,
 mitigandola, l'afflittivita' della pena detentiva ma vengono  imposte
 per  cause  attinenti  alla  personalita'  del  detenuto e per la sua
 stessa tutela, oltre che a garanzia della collettivita'.
    Nelle  ipotesi d'esclusione, dal computo della pena detentiva, del
 tempo trascorso in permesso-premio ( ex  art.  53-bis,  primo  comma,
 della  legge  penitenziaria)  non  s'aggiunge,  pertanto,  nulla alla
 "afflittivita'" dell'ordinaria pena detentiva, non  si  sposta  verso
 l'alto l'afflittivita' inerente alla pena detentiva determinata dalla
 sentenza di condanna. Cio' che non e' consentito, in sede  esecutiva,
 e' l'aumento di misure afflittive (v. sentenza di questa Corte n. 282
 del  1989,  paragrafo  10  del  considerato   in   diritto)   ma   il
 permesso-premio non e', certamente (lo si e' innanzi chiarito) misura
 afflittiva,  alternativa  alla  pena  detentiva  o   che,   comunque,
 necessariamente comporti una particolare afflittivita'.
    Che se, in casi eccezionali, che non possono, pertanto, costituire
 criterio per generali "alterazioni del sistema", le limitazioni  alla
 liberta'  individuale,  connesse  alle  cautele  determinate  con  la
 concessione  del  permesso-premio,  abbiano,  in  concreto,  prodotto
 particolari  sofferenze  nel  soggetto,  ben  potra' il magistrato di
 sorveglianza  tener  conto  di  tali  particolari  "sofferenze"   nel
 valutare,  per  le  ipotesi  previste  dall'art. 53-bis, primo comma,
 della legge penitenziaria, la meritevolezza, o  meno,  del  beneficio
 del  permesso-premio.  Non  soltanto  non  e'  stata legislativamente
 prevista alcuna automatica revoca dei permessi-premio ma  neppure  e'
 stata  determinata,  dall'art.  53- bis ora citato, alcuna automatica
 esclusione, nei casi ivi previsti, dal computo della pena  detentiva,
 del  tempo  trascorso  in  permesso-premio, dovendo decidere, su tale
 esclusione,  con  decreto   motivato,   lo   stesso   magistrato   di
 sorveglianza,  sulla  base  d'una  valutazione per la quale i singoli
 comportamenti del soggetto in liberta' vanno  inquadrati  nell'ambito
 di  tutte le condizioni che hanno caratterizzato l'intero periodo del
 permesso-premio.
     D'altra  parte  ed infine il danno derivante dal non tener conto,
 nei  casi  di  mancato  rientro  in  istituto  o   di   altri   gravi
 comportamenti ex art. 53-bis, del tempo trascorso in permesso ai fini
 della scomputabilita' del predetto  tempo  dalla  durata  della  pena
 detentiva;  e, di conseguenza, il danno derivante dal non tener conto
 delle eventuali limitazioni  alla  liberta'  (pur  sempre  di  natura
 cautelativa)  sofferte  durante il permesso come della posticipazione
 della  data  di   scarcerazione   e   dell'eventuale   posticipazione
 dell'operativita'    di    istituti   (es.   semiliberta'   o   altri
 permessi-premio)  che  hanno  come  presupposto  il  decorso  di   un
 determinato  periodo  di  detenzione,  risulterebbero,  in ogni caso,
 ampiamente compensati dall'aver il soggetto beneficiario  anticipato,
 pur  non  essendone meritevole, il godimento di spazi di liberta' che
 soltanto dopo la definitiva scarcerazione  sarebbe  stato  altrimenti
 possibile godere.
    La  prima  questione di costituzionalita' sollevata dall'ordinanza
 di rimessione va, pertanto, dichiarata non fondata.
    9. - L'ordinanza di rimessione solleva anche una seconda questione
 di costituzionalita' relativa all'art.  14-ter,  terzo  comma,  della
 legge  penitenziaria,  inserito  dall'art.  2  della legge 10 ottobre
 1986, n. 663, limitatamente al richiamo che  ne  fa  l'art.  53-  bis
 della  predetta legge penitenziaria: il riferimento e' agli artt. 24,
 secondo comma, e 3 Cost.
    Il  giudice a quo lamenta che nel procedimento sul reclamo avverso
 il decreto del magistrato di sorveglianza che decide  sull'esclusione
 dal  computo,  nella durata della pena detentiva, del tempo trascorso
 in  permesso-premio,  pur  essendo  prevista  la  partecipazione  del
 difensore    dell'interessato,   non   sia   ammessa   la   personale
 partecipazione   di   quest'ultimo.   In   sostanza,   nel   predetto
 procedimento  sarebbe  garantita  la piena difesa tecnica, non quella
 materiale.
    L'ora indicata questione di costituzionalita' non e' fondata.
    Invero, la non prevista partecipazione personale dell'interessato,
 nel procedimento di cui all'art. 14- ter della  legge  penitenziaria,
 non viola l'art. 24 Cost.
    Lo  stesso articolo, infatti, al terzo comma, oltre a prevedere la
 partecipazione,   alla   camera   di   consiglio,    del    difensore
 dell'interessato,  consente  a quest'ultimo anche la presentazione di
 proprie "memorie", oltre, s'intende, a quelle del difensore.  Non  si
 preclude,  dunque,  con  l'art. 14- ter della legge penitenziaria, il
 diritto di difesa dell'interessato ma si disciplinano,  dello  stesso
 diritto,  le  modalita' d'esercizio: e la scelta di queste ultime, in
 relazione alla peculiarita' dell'oggetto  del  procedimento,  compete
 alla discrezionalita' del legislatore.
    Peraltro   il   consentire,   nel  "procedimento  di  sorveglianza
 generale", un piu' ampio diritto di difesa dell'interessato (rectius:
 una  piu' ampia modalita' d'esercizio dello stesso diritto) di quello
 assicurato  dall'art.  14-  ter  della  legge  penitenziaria  non  e'
 manifestamente  irrazionale.  Tutto  quanto  osservato nei precedenti
 paragrafi in ordine alla particolare natura dei  permessi-premio  non
 consente   di   ritenere   intrinsecamente   irrazionale   la  scelta
 legislativa di cui all'art.  14-ter,  richiamato  dall'art.  53-  bis
 della  legge  penitenziaria,  in ordine alla mancata previsione della
 personale partecipazione alla camera di  consiglio  dell'interessato.
 Con  le "memorie" proprie di quest'ultimo, espressamente previste dal
 terzo comma dell'art.  14-  ter  della  stessa  legge  penitenziaria,
 l'interessato  puo'  ben  "aggiungere", alle deduzioni del difensore,
 tutto quanto personalmente gli consta, ad  integrazione  e  riscontro
 degli  elementi  gia'  acquisiti,  all'interessato noti attraverso la
 difesa tecnica.
    Anche   la   seconda   questione   di  costituzionalita'  proposta
 dall'ordinanza di rimessione va, pertanto,  dichiarata  non  fondata,
 non  violando le disposizioni impugnate ne' l'art. 24, secondo comma,
 ne' l'art. 3, primo comma, Cost.