IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Ha pronunciato la seguente ordinanza;
    Letti gli atti del fascicolo n. 658/89 r.n.r. - 534/89 r.g. g.i.p.
 nei confronti di Parisi Giuseppe nato a Catania il  18  luglio  1935,
 imputato dei reati:
      a)  p.  e  p.  dall'art.  1,  comma secondo, n. 1, della legge 7
 agosto 1982, n. 516, perche', quale amministratore unico della  ditta
 S.r.l.  Etna  Carni  est  poscia  denominata Giarrese Commercio Carni
 S.r.l., ometteva d'annotare nelle scritture contabili obbligatorie ai
 fini  delle  imposte  sui  redditti  e  dell'Iva corrispettivi per L.
 2.761.247.283 per l'anno 1982 e per L. 385.518.000 per l'anno 1983.
    Accertato in Catania il 14 settembre 1988;
      b)  p. e p. dall'art. 4, primo comma, n. 7, della legge 7 agosto
 1982, n. 516, perche', nella qualita' sub  a),  essendo  titolare  di
 lavoro  autonomo  e  di  impresa,  redigeva  le  scritture  contabili
 obbligatorie, la dichiarazione annuale di reddito ovvero il  bilancio
 e  il  rendiconto  ad essa allegati dissimulando positivi o simulando
 componenti negativi del reddito, tali da alterare in misura rilevante
 il risultato della dichiarazione.
    Luogo e data come sopra;
      c)  p. e p. dall'art. 1, sesto comma, della legge 7 agosto 1982,
 n. 516, perche' nella qualita' sub a), ometteva di vidimare il  libro
 giornale,  il  libro  inventari,  il  libro  soci  e il libro verbali
 assemblee.
    Luogo e data come sopra.
    Vista  la  richiesta  del  p.m. in data 18 gennaio 1990 che qui di
 seguito si riporta:
    Il p.m. al g.i.p. in sede;
    Letti  gli  atti del proc. pen. n. 658/1989 reg. n.r., concernente
 indagini preliminari nei confronti di Parisi Giuseppe,  imputato  del
 delitto  p.  e  p.  dell'art.  4,  primo  comma,  n. 7, nonche' delle
 contravvenzioni di cui agli artt. 1, secondo comma, n. 1, e 1,  sesto
 comma, della legge 7 agosto 1982, n. 516;
                     OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO
    Con  rapporto  del 14 settembre 1988, l'ufficio distrettuale delle
 imposte dirette di  Giarre,  per  non  avere  costui  annotato  nelle
 scritture  contabili  obbligatorie corrispettive per L. 2.761.247.283
 per l'anno 1982 e di L. 185.518.000 per l'anno 1983; nonche' per  non
 aver vidimato il libro giornale, il libro inventario, il libro soci e
 il  libro  verbali  assemblee  e,  infine,  per   avere   dissimulato
 componenti    positivi   del   reddito   (mediante   l'omissione   di
 annotazione).
    Il  reato  veniva  contestato,  prima  della entrata in vigore del
 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, con ordine di comparizione  rimasto
 senza effetto.
    Il  procedimento  veniva  indi attratto, giusta il disposto di cui
 all'art. 258 del d. lgs. 29  luglio  1989,  n.  271,  nell'orbita  di
 applicazione del nuovo codice di rito.
    Ritenendo  questo  p.m.,  per  il principio di conservazione degli
 atti processuali, che l'ordine di comparizione suindicato equivalesse
 all'invito  a  presentarsi, previsto dall'art. 376 del c.p.p., veniva
 richiesto  il  g.i.p.  della  emissione  del  decreto   di   giudizio
 immediato.
    L'adito  giudice,  con  decreto  depositato  il  27 dicembre 1989,
 rigettava la  richiesta,  sulla  base  dell'argomentazione  che,  non
 potendosi  stabilire nell'art. 453 del c.p.p. la equiparazione tra il
 primo interrogatorio dell'imputato e l'enunciazione del fatto  in  un
 ordine  o  mandato  rimasto  senza  effetto, cosi' come espressamente
 previsto dall'abrogato codice, troverebbe applicazione l'art. 376 del
 c.p.p., che prevede l'accompagnamento coattivo.
    Con  nota  del  2 gennaio 1990, questo p.m. ritrasmetteva gli atti
 all'ufficio  del  g.i.p.   evidenziando,   sistematicamente,   quanto
 illustrato negli allegati atti in fotocopia.
    Gli  atti  del  proc.  venivano  restituiti  dal  g.i.p.  che, non
 condividendo la tesi del  p.m.,  affermava  che  l'indagato  (rectius
 imputato,  ex  art.  405  del  c.p.p.)  ha  ben  il  diritto  di  non
 rispondere, non sussistendo un dovere di collaborazione  processuale,
 e non gia' "diritto di sottrarsi all'interrogatorio".
    Tale  ultima  argomentazione  appare  non  solo  di  fondamento ed
 inconducente, ai fini che ne occupa, non  tenendo  in  considerazione
 ne'   il  principio  di  lealta'  processuale  ne'  alcun  dovere  di
 collaborazione   dell'imputato   ed,   anzi,   si   palesa    erronea
 l'affermazione   secondo   cui  l'imputato  non  avrebbe  diritto  di
 sottrarsi all'interrogatorio, costituendo invero  tale  comportamento
 manifestazione del diritto di difesa.
    Questo  p.m.  ritiene,  invero,  di  dover  sollevar  questione di
 legittimita'  costituzionale,  per  i  motivi  di  cui   all'allegata
 richiesta  che  devono  qui  ritenersi  integralmente  ritrascritti e
 riproposti;
                                P. Q. M.
 chiede che la s.v., sospeso l'odierno procedimento ai sensi dell'art.
 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,  ordini  la  trasmissione  degli
 atti  alla  Corte  costituzionale,  onde  investire il detto consenso
 della questione come sopra proposto.
      Catania, addi' 18 gennaio 1990
                           Il p.m.: GIORDANO
    Ed,  invero, va osservato che l'art. 453 del c.p.p. richiede, come
 presupposto per l'instaurazione del  giudizio  immediato  oltre  alla
 "evidenza  della prova", su cui e' superflua ogni riflessione poiche'
 la nozione e' stata ampiamente elaborata sotto la vigenza del  codice
 di   rito  abrogato  ne'  si  vede  come  possa  essere  cambiata  di
 significati, anche il "previo interrogatorio  dell'imputato".  L'art.
 454  del c.p.p., poi, limita temporaneamente la possibilita' del p.m.
 di ricorrere a tale giudizio,  entro  l'arco  di  tempo  dei  novanta
 giorni  dalla iscrizione della notizia di reato nel registro previsto
 dall'art. 335 del c.p.p.
   I  quesiti  fondamentali posti all'attenzione dell'interprete nelle
 prime battute di applicazione del nuovo codice, relativamente al rito
 de  quo,  sono  incentrati sulla funzione dell'interrogatorio e sulle
 conseguenze giuridiche dell'inosservanza del  termine  oltreche'  sui
 rimedi    processuali    approntati   dall'ordinamento   avverso   il
 provvedimento deliberativo della richiesta del p.m.
    Il  problema di gran lunga piu' controverso non e' tanto quello di
 stabilire se  sia  sufficiente  l'interrogatorio  condotto  dal  p.m.
 (artt.  364,  primo  comma,  374,  secondo  comma, e 388, del c.p.p.)
 ovvero sia necessario l'interrogatorio espletato dal g.i.p. (art. 294
 del c.p.p.), essendo chiaro che la ratio della norma e' di consentire
 l'eliminazione dell'udienza preliminare e il rinvio dell'imputato  al
 dibattimento,  con  il  noto  effetto  deflattivo, solo se costui sia
 stato posto in grado di esporre le proprie discolpe. Dal  che  deriva
 l'assoluta fungibilita' dei due interrogatori. Su quest'ultimo punto,
 e' sufficiente notare:
      1)  che  manca  nel  nuovo  sistema una norma del tipo di quella
 prevista  dall'art.   375   del   c.p.p.   abrogato,   della   previa
 contestazione  del  fatto,  cioe',  come  condizione  per il rinvio a
 giudizio (correlazione fra sentenza  e  accusa  contestata),  sicche'
 l'interrogatorio  svolge  oggi  solo  una  funzione  di garanzia e di
 contestazione e non piu' di condizione preliminare per  il  rinvio  a
 giudizio;
      2) che non vi e' una competenza funzionale del g.i.p. in materia
 di interrogatorio, considerazione che appare chiara attraverso  l'uso
 della formula "l'autorita' giudiziaria" di cui all'art. 65 del c.p.p.
    Focalizzado  questo punto, occorre riflettere su una questione che
 rischia  di   introdurre   un   difficile   contenzioso:   se   possa
 legittimamente porsi la equipollenza, ai fini della valutazione sulla
 sussistenza del presupposto in esame, tra  interrogatorio  e  mancata
 comparizione  dell'imputato  senza  legittimo  impedimento.  In altri
 termini, puo' il p.m. richiedere il giudizio immediato, nel  concorso
 degli  altri  presupposti,  qualora  l'imputato non si sia presentato
 spontaneamente (art. 374 del c.p.p.) ne' sia comparso  a  seguito  di
 invito  (art. 375 del c.p.p.) regolarmente notificatogli, pur essendo
 stato egli posto in grado di difendersi rendendo l'interrogatorio?
    Ritengo  che  la  soluzione  del  problema postuli la capacita' di
 sintonizzarsi con le linee di fondo  del  nuovo  sistema  processuale
 anziche'   far   ricorso   a   letture   delle  norme  apparentemente
 ineccepibili quanto dissonanti e fuorvianti.
    Al riguardo va, anzitutto, osservato che nessun decisivo argomento
 puo' desumersi dall'art. 375, n. 2, lett. d), del c.p.p., laddove  si
 prevede   che   l'invito   a   presentarsi   deve   contenere   anche
 "l'avvertimento che il p.m. potra' disporre  a  norma  dell'art.  132
 l'accompagnamento  coattivo  in caso di mancata presentazione e senza
 che sia stato addotto legittimo impedimento". La  previsione,  ancora
 una volta, ha una mera funzione di conoscenza e di garanzia, giacche'
 e' volta a informare l'imputato che egli e'  soggetto  alla  potesta'
 coercitiva  del  p.m.  (con  o  senza  l'autorizzazione del g.i.p., a
 seconda dei casi). Non si puo' ritenere che  la  norma  abbia  voluto
 porre  post  hoc, propter hoc l'accompagnamento coattivo come normale
 sbocco processuale della non comparizione dell'indiziato. Non vi puo'
 essere,  infatti, un rapporto consequenziale meramente automatico fra
 l'una   e   l'altra   fattispecie,   giacche'    cosi'    discorrendo
 l'accompagnamento coattivo diverrebbe, per il p.m., un atto doveroso,
 in contrasto peraltro con la lettera della norma "potra' disporre..."
 .  L'accompagnamento  coattivo,  poi,  essendo  compreso fra i poteri
 attribuiti al p.m., da esercitarsi autonomamente (art.  375,  secondo
 comma,  lett.  d),  del  c.p.p.) ovvero su autorizzazione del giudice
 (art. 376 del c.p.p.), deve ricollegarsi  unicamente  a  esigenze  di
 natura  processuale  (ad es. la necessita' di disporre della presenza
 dell'indiziato ai fini di un confronto ovvero di una ricognizione)  e
 deve,  quindi,  avere una giustificazione sua propria, distinta dalla
 finalita' garantista dell'interrogatorio, in  quanto  attingibile  ad
 esigenze di natura investigativa.
    Orbene,  nell'ipotesi  in cui si debba procedere ad interrogatorio
 dell'imputato ex art. 453 del c.p.p., ad un atto, cioe', che non ha -
 nel   sistema  -  necessariamente  una  finalita'  investigativa  (di
 raccolta di elementi o di verifica per lo  sviluppo  ulteriore  delle
 preliminari  indagini) ma e' connotato, come si e' detto, da esigenze
 garantiste,  il  ricorso  all'accompagnamento  coattivo  non  sarebbe
 giustificato  e  si tradurrebbe, in definitiva, nel compimento di una
 formalita' fine a se stessa ponendosi, come tale,  extra  moenia  del
 sistema.
    Inoltre,   nel  caso  che  ci  occupa,  la  mancata  presentazione
 dell'imputato equivale, in assenza di  un  impedimento  legittimo,  a
 rinunzia  a  presentarsi,  rinunzia  che  e'  il  riflesso della piu'
 radicale facolta', prevista dalla legge (art. 65 terzo comma), di non
 rispondere  all'interrogatorio.  Tale  facolta'  e'  un momento della
 strategia difensiva e, in buona  sostanza,  costituisce  esternazione
 del  diritto  di  difesa.  E, si badi, tale facolta' viene esercitata
 nonostante l'avvertimento di cui all'art. 375, secondo  comma,  lett.
 d).
    Se  non  si  ritenesse  possibile il ricorso al giudizio immediato
 senza l'interrogatorio, si dovrebbe  conseguentemente  ammettere,  in
 tutti  i  casi, come necessario l'accompagnamento coattivo e cio' non
 solo  finirebbe  per   convalidare   il   concetto   di   automatismo
 sopramenzionato,  ma,  quel  che  e'  piu' grave, si arriverebbe alla
 conclusione (perfettamente  legittima)  di  consentire  all'imputato,
 coattivamente  accompagnato,  di  rifiutarsi poi di rispondere, senza
 che dal rifiuto possa scaturire alcun  effetto  giuridico-processuale
 (ne',  sul  piano  valutativo,  ne'  sul piano naturalistico). Il che
 equivarrebbe  ad  assegnare  a  siffatti  incombenti   una   funzione
 emeramente  rituale. A meno che non si voglia affermarsi che, in caso
 di rifiuto di rispondere, non vi sia un interrogatorio; ma questa  e'
 opinione   seriamente   insostenibile,  stante  che  nella  struttura
 dell'interrogatorio, quale si articola nell'art. 65 del  c.p.p.,  che
 pone   la   sequenza   contestazione-invito  a  discolparsi-discolpa,
 quest'ultima fase e' delineata come eventuale (terzo comma). E'  vero
 che la norma impone che del rifiuto si dia atto in verbale; ma non si
 tratta, forse, di una disposizione pleonastica? Senza tale  menzione,
 infatti,  vi  sarebbe  un  interrogatorio  monco ovvero incompiuto e,
 quindi, la norma attinge la  sua  ratio  ad  una  ragione  di  ordine
 logico, ineludibile sostanzialmente.
    D'altronde,  la facolta' di non rispondere e' costruita dal codice
 come manifestazione della difesa, manifestazione che non e'  comunque
 idonea  a  paralizzare  l'ulteriore  corso del procedimento (art. 64,
 terzo comma). Ma, allora perche' dovrebbe consentirsi l'esercizio  di
 questa  funzione  di paralizzazione all'imputato che non compare, dal
 momento che la comparizione e' in simmetria  con  il  non  rispondere
 all'interrogatorio?
    L'interpretazione  dell'art.  453  del  c.p.p. nel senso opposto a
 quello qui  accolto  (necessita'  dell'accompagnamento  coattivo)  si
 porrebbe  in  contrasto  con  lo  spirito  del  codice  di rito e, in
 particolare, con il disposto di cui all'art. 2, secondo comma, n.  1,
 legge  16  febbraio 1987, n. 81, di delega all'emanazione del cod. di
 proc. pen., ove si afferma il principio (cardine del  sistema)  della
 "massima   semplificazione   nello   svolgimento   del  processo  con
 eliminazione di ogni atto o attivita'  non  essenziale".  Dunque,  la
 tesi qui criticata porta a ritenere come affetta da eccesso di delega
 e,  quindi,  inficiata  dal  sospetto  di   incostituzionalita',   la
 disposizione  dell'art.  453  del  c.p.p.  nella  parte de qua ove si
 ritenesse obbligatorio il  ricorso  all'accompagnamento  coattivo  in
 caso  di  mancata  presentazione  dell'imputato  invitato a comparire
 esclusivamente ai fini del giudizio immediato. E cio' perche' sarebbe
 quanto  mai  macchinosa  una  procedura  che  imponesse  la  presenza
 coattiva  dell'imputato  per  poi  autorizzarlo  a   non   rispondere
 all'interrogatorio|
    A  riprova  di quanto fin qui evidenziato, e' d'uopo osservare che
 la nozione di equipollenza fra interrogatorio e mancata  comparizione
 senza  legittimo  impedimento  non  lede il diritto di difesa sancito
 dall'art. 24 della Costituzione e non interferisce,  quindi,  con  le
 norme  la  cui  osservanza  e'  stabilita a pena di nullita' assoluta
 (art.  179  del  c.p.p.,  laddove  si  fa  riferimento  alla  "omessa
 citazione  dell'imputato"  o  alla  "assenza  del  difensore")  o  di
 nullita' di ordine generale (art. 178 lett. c), in cui  si  fa  cenno
 "dell'intervento...  dell'imputato").  La tesi della equipollenza non
 intacca i diritti inviolabili dell'imputato, giacche' non  solo  egli
 viene  invitato  a  comparire  (il  che  basta  per ritenere come non
 vulnerato il principio di  cui  all'art.  178,  lett.  c),  ma  anche
 avvertito  della  eventualita'  della coercizione nei suoi confronti.
 Semmai e' lesiva del diritto di difesa  costituzionalmente  garantito
 l'interpretazione  dell'art.  453  del  c.p.p. nel senso divisato dal
 g.i.p. di Catania laddove non si riconosce all'imputato il diritto di
 sottrarsi all'interrogatorio.
    Si potrebbe, per ipotesi, congetturare che il principio del previo
 effettivo interrogatorio dell'imputato sia  una  norma  assolutamente
 inderogabile  in  quanto  (oltre  a cio' che si e' sopra confutato in
 ordine alla questione della  non  invalidita'  di  una  richiesta  di
 giudizio  immediato  senza  la preventiva comparizione dell'imputato,
 sempreche' egli sia stato invitato) ad esempio correlata al  concetto
 di   "evidenza"   della   prova,   nel   senso  che  l'interrogatorio
 dell'imputato   sia    un    momento    essenziale,    insopprimibile
 nell'accertamento della evidenza della prova.
    E'  facile obiettare che l'interrogatorio non e' un mezzo di prova
 ne' un mezzo di ricerca della prova. Semmai mezzo di prova e' l'esame
 dell'imputato nel dibattimento a sua richiesta (art. 208 del c.p.p.),
 esame che e' sul piano funzionale e strutturale completamente diverso
 dall'interrogatorio.  E'  vero  che  con  l'interrogatorio l'imputato
 potrebbe addurre mezzi di prova, una volta conosciuti esattamente gli
 elementi  a  suo  carico  ed, eventualmente, anche le fonti di accusa
 (art. 65 primo comma).  Ma  e'  altresi'  indubbio  che  la  semplice
 notifica  dell'invito  a presentarsi e' idonea a garantire il diritto
 alla prova dell'imputato, giacche' l'invito deve contenere, riteniamo
 questa  volta a pena di nullita' ex art. 178, lett. c), del c.p.p. in
 quanto rileva l'intervento dell'imputato  "la  sommaria  enunciazione
 del  fatto  quale  risulta  dalle indagini fino a quel momento" (art.
 375, n. 3).
    E',  infine,  utile  notare  che  non  vi e' alcun'altra norma che
 faccia discendere la nullita' dalla inosservanza  dell'art.  453  del
 c.p.p., interpretato nel senso qui respinto.
    Restano da esaminare alcune questioni connesse.
    Innanzitutto   la  eventuale  nullita'  del  decreto  di  giudizio
 immediato, emesso dal giudice senza  l'interrogatorio  effettivo,  ma
 con  l'invito rimasto senza effetto sotto il profilo degli artt. 178,
 lett. b), e 179, primo comma, del c.p.p., cioe' con riguardo, non  al
 diritto  di  difesa,  ma  alla  "iniziativa  del  p.m. nell'esercizio
 dell'azione penale".
   Ora,  non c'e' dubbio che l'azione penale viene esercitata mediante
 la richiesta di giudizio immediato, ex artt. 50 e 405,  primo  comma,
 del  c.p.p.  Ma,  ammessa  l'equipollenza  di  cui sopra, non vi puo'
 essere alcuna inosservanza di norme  processuali  che  rifluisca  sul
 disposto  degli  artt.  178,  lett.  b),  e  179, del c.p.p. anche in
 considerazione del fatto che l'attuale  disposizione  ricalca,  senza
 discostarsene, quella di cui all'art. 185, n. 2, del c.p.p. nel testo
 abrogato e, quindi, ancor oggi, costituisce nullita' insanabile  solo
 l'inosservanza  di  norme  processuali  od ordinamentali incidenti in
 modo essenziale sulla partecipazione del p.m. al  procedimento,  come
 nell'ipotesi  di  rappresentante  del  p.m.  sfornito  dei  requisiti
 essenziali  per  ricoprire  tale  carica  ovvero  non  faccia   parte
 dell'ufficio.
    Va,  ancora  osservato,  per  definitivamente  convalidare la tesi
 della equipollenza, che dal  disposto  di  cui  all'art.  184,  primo
 comma, del c.p.p. (la nullita' di una citazione o di un avviso ovvero
 delle relative comunicazioni e notificazioni e' sanata  se  la  parte
 interessata  e'  comparsa  o  ha  rinunziato  a comparire), si ricava
 indirettamente la perfetta equipollenza, sia  pure  entro  i  confini
 della  finalita'  dell'atto  e  della  non invalidita' degli avvisi e
 della successiva sanatoria, tra  la  comparizione  e  la  rinuncia  a
 comparire che, ovviamente, ben puo' essere tacita.
    Il  che dimostra che il concetto di equipollenza non germina da un
 arbitrio  interpretativo,  ma  discende  da  una   serie   di   norme
 legislative   (sopra   citate).   Senza  dire  che  il  comportamento
 acquiescente  dell'imputato  (che   non   compare)   impedisce,   nel
 prosieguo,   che   egli   possa   eccepire   la   nullita',  peraltro
 insussistente, come gia' detto, della richiesta di giudizio immediato
 ai  sensi dell'art. 183, primo comma, lett. a), del c.p.p. laddove si
 pone il  principio  della  sanatoria  delle  nullita'  generali  (non
 assolute)   allorquando   la   parte   interessata   abbia   prestato
 acquiescenza agli effetti dell'atto. E' vero che l'attuale codice non
 riproduce   l'art.  376  del  c.p.p.  abrogato  nella  parte  in  cui
 espressamente veniva equiparata la contestazione all'ordine o mandato
 rimasto  senza  effetto.  Ma  la  considerazione  e'  priva  di forza
 argomentativa, giacche' non possono confrontarsi sistemi  processuali
 fra  loro non omogenei. E, comunque, il riferimento al testo abrogato
 non puo' sorreggere la tesi della non equipollenza.
    E'  appena  il  caso di notare, da ultimo, che ove si ritenesse la
 necessita' dell'interrogatorio (sia che si ammetta  l'obbligatorieta'
 dell'accompagnamento   coattivo   ovvero   la  sua  discrezionalita',
 correlata a effettive esigenze  endoprocessuali),  si  giungerebbe  a
 concepire  il  modo di esercizio dell'azione penale come condizionato
 dal comportamento processuale  dell'imputato,  venendo  sottratta  al
 p.m.  in  conseguenza  della  mancata  presentazione dell'imputato la
 potesta' di scelta del rito,  potesta'  che  invece  e'  dalla  legge
 assegnata  in  via esclusa al p.m. Con quanta divergenza dal disposto
 di cui all'art. 112 della Costituzione e' palese.
    Ultima  questione  e'  la  individuazione  dei  rimedi processauli
 avverso il decreto di rigetto del g.i.p.  della  richiesta  formulata
 dal  p.m.  nel  caso che il g.i.p. non condivida l'impostazione della
 equipollenza. Scartata la possibilita' di elevare conflitto, non piu'
 ammissibile  per l'abolizione dell'art. 51, secondo comma, del c.p.p.
 abrogato che prevedeva i cd. conflitti "analoghi", in conseguenza del
 mutato  ruolo del p.m., non rimarrebbe che l'appello o il ricorso per
 cassazione. Tuttavia, nessuno di tali gravami appare esperibile,  per
 mancanza   di   previsione   espressa,   operando   il  principio  di
 tassativita' dei mezzi di impugnazione (art. 568 primo comma)  e  non
 rivestendo  il  decreto  de  quo  ne'  i caratteri della sentenza ne'
 quelli  della  ordinanza  che  decide   sulla   liberta'   personale.
 D'altronde  i  provvedimenti del giudice aventi contenuto decisorio o
 emessi autonomamente dalla sentenza che definisce  il  giudizio  sono
 eccezionalmente   impugnabili  (come  ad  es.  nell'ipotesi  prevista
 dall'art. 437 o dell'art. 586).
    L'art.  455  non  pone nemmeno l'onere della motivazione al g.i.p.
 che rigetti la richiesta di giudizio immediato. Ne consegue che,  non
 essendo   nemmeno   previsto   il   meccanismo  della  "opposizione",
 tradizionalmente riservato al riesame dei decreti (per es. il decreto
 di  condanna),  nessun  gravame  e' esperibile, nella fattispecie. Si
 tratta di sapere se siamo di fronte a una lacuna del legislatore, con
 possibile  profilo  di incostituzionalita' in riferimento all'art. 3,
 primo comma, della  Costituzione,  sembrando  netta  prima  facie  la
 disparita'  di  trattamento  quantomeno rispetto alla fattispecie del
 decreto di condanna, avverso il quale e' previsto uno specifico mezzo
 di  impugnazione  (l'opposizone),  ovvero  se  possa dubitarsi che la
 potesta'  legislativa  delegata  sia   stata   razionalmente   usata.
 Certamente elementi di valutazione possono scaturire dall'esame della
 direttiva n. 44) che concerne il giudizio immediato e in cui  non  si
 fa  riferimento  ad  alcuna  impugnazione  del decreto di rigetto del
 g.i.p. E' probabile che  tale  scelta  sia  dipesa  dalla  preminente
 considerazione  che  ogni  "incidente" sulla legittimita' del decreto
 del g.i.p. avrebbe finito per essere incompatibile  con  la  agilita'
 del rito immediato e che, per cio' stesso, pare necessario attivare i
 meccanismi c.d. ordinari (udienza preliminare), ferma restando la non
 impugnabilita'   del   decreto   di  giudizio  immediato  (del  tutto
 assimilabile all'ordinanza di  rinvio  a  giudizio  o,  meglio,  alla
 richiesta   di   citazione   a   giudizio).   Ma   il   sospetto   di
 incostituzionalita' e' tutt'altro che peregrino.
    Ne   consegue   che   va   sollevata   questione  di  legittimita'
 costituzionale,  con  riferimento  ai  vari   profili   superiormente
 espressi.
   In  conclusione,  e  riannotando  le  file  del  discorso  fin  qui
 condotto, poiche' il decreto di rigetto della richiesta  di  giudizio
 immediato  non  e'  impugnabile  e poiche' l'interpretazione data dal
 g.i.p. all'art. 453 del c.p.p., nella parte in  cui  non  si  prevede
 l'equipollenza  fra  il  previo  interrogatorio  dell'imputato  e  la
 mancata comparizione, senza legittimo  impedimento,  puo'  costituire
 violazione  degli  artt.  3, 24, 76 e 112 della Costituzione, sotto i
 profili della disparita' di trattamento per fattispecie analoghe (per
 il decreto di condanna e' prevista e non per il decreto di rigetto de
 quo), della lesione del diritto di difesa (riguardo al fatto  che  si
 finirebbe per non consentire all'imputato un comportamento - quale la
 non presentazione  -  che  e'  pura  manifestazione  del  diritto  di
 difesa),  dell'eccesso  di  delega (in quanto tale interpretazione si
 pone in palese contrasto con l'art. 2, secondo  comma,  n.  1,  della
 legge   n.  81/1987)  e  dell'azione  penale  obbligatoria  (giacche'
 accogliendo la tesi del g.i.p., si giungerebbe alla  conclusione  che
 un comportamento processuale dell'imputato sarebbe idoneo a spogliare
 il p.m. della potesta' di scelta del rito, che a tale organo la legge
 assegna   in   via  esclusiva),  e'  d'uopo  sollevare  questione  di
 legittimita' costituzionale.
    Or,   poiche'  la  questione  e'  rilevante,  tant'e'  che  si  e'
 determinata una situazione di stallo, e non manifestamente infondata,
 si  chiede,  ai  sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
 che la s.v., sospeso l'odierno procedimento  ordini  la  trasmissione
 degli  atti  alla  Corte  costituzionale,  onde  investire  il  detto
 consesso della questione come sopra proposta.
      Catania, addi' 18 gennaio 1990
               Il procuratore della Repubblica: GIORDANO