Ricorso per conflitto di attribuzioni della regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro-tempore, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 1479 del 3 aprile 1990, rappresentata e difesa, come da mandato a margine, dall'avv. Giandomenico Falcon di Padova, con domicilio eletto presso l'avv. Luigi Manzi di Roma, via Confalonieri, 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione che non spetta allo Stato, ai sensi degli artt. 117, comma primo, e 118, comma primo, della Costituzione, nonche' dell'art. 121, ultimo comma, della Costituzione il potere di dettare con proprie direttive i criteri per l'individuazione delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza da trasformare in persone giuridiche di diritto privato, in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 16 febbraio 1990, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 45 del 23 febbraio 1990, nonche' per l'annullamento dello stesso decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 16 febbraio 1990, per violazione degli stessi articoli della Costituzione, nonche' dell'art. 3, comma primo, della Costituzione, nella parte in cui esso detta i criteri per la individuazione delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza che possono essere trasformate in persone giuridiche di diritto privato FATTO Con la sentenza n. 396/1988 codesta Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890, n. 6972, nella parte in cui non ammette che le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza (IPAB) regionali possano continuare a sussistere con personalita' giuridica di diritto privato, quando abbiano tuttora i requisiti di una istituzione privata. In particolare, la Corte ha ricordato che, a seguito di detta sentenza, la trasformazione puo' anche conseguire in via amministrativa, sulla base dell'esercizio dei poteri di cui sono titolari sia l'amministrazione statale che quella regionale in tema di riconoscimento delle persone giuridiche private. Quanto al problema della distinzione delle istituzioni che, per le loro caratteristiche, debbono rimanere pubbliche da quelle che possono essere riconosciute come private, la Corte costituzionale ha affermato che possono essere utilizzati, in quanto espressione di principi generali, in primo luogo i criteri enunciati dall'art. 17 del d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Sardegna), in secondo luogo i criteri enunciati dall'art. 30 della l.r. siciliana n. 22/1986: discipline entrambe relative ai criteri ed alle procedure di sclassificazione delle IPAB pubbliche, e di trasformazione in istituzioni private. In questa situazione, e' stato emanato il d.P.C.M. 16 febbraio 1990, contenente "Direttiva alle regioni in materia di riconoscimento della personalita' giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza (IPAB) a carattere regionale ed infraregionale", qui impugnato come illegittimo e lesivo dell'autonomia costituzionale delle regioni, ed in particolare della ricorrente regione Emilia-Romagna, per i seguenti motivi di DIRITTO 1. - Emanazione di direttive vincolanti statali relative a materia non delegata ma propria della regione, in violazione degli artt. 117, comma primo, 118, comma primo, e 121, comma terzo, della Costituzione. Come detto in narrativa il d.P.C.M. 16 febbraio 1990 contiene "direttiva alle regioni in materia di riconoscimento della personalita' giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza (IPAB) a carattere regionale e infraregionale". Tale decreto individua il proprio fondamento con esplicito riferimento all'art. 4 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, sui poteri di direttiva (e di successiva eventuale sostituzione) spettanti allo Stato nelle materie delegate: e la materia delegata sarebbe nel nostro caso, il "riconoscimento" delle persone giuridiche private ai sensi dell'art. 12 del c.c., secondo quanto disposto art. 14 del d.P.R. n. 616/1977. Ora, tale decreto solo nei primi due commi dell'art. 1 (ed unico) puo' dirsi contenere istruzioni o direttive nella predetta materia. Per vero, le "istruzioni" in essi contenute operano in sostanza un semplice rinvio alla disciplina del codice civile (riducendosi il comma 1 alla precisazione della necessita' - peraltro ovvia - di "apposita domanda", il secondo comma al rinvio alle procedure ordinarie, con la sola aggiunta in ordine alla "tempestiva effettuazione" delle medesime), senza nessun elemento integrativo reale (ad esempio, in relazione alla valutazione del requisito della congruita' del patrimonio rispetto allo scopo): riducendosi percio' a mero e pretestuoso prologo della disciplina che segue, avente tuttaltro oggetto. Rimane pero' che, per povere che siano le istruzioni contenute nel primo e secondo comma, dell'art. 1 del decreto impugnato, esse riguardano in effetti la materia delegata, e corrispondono percio' ad effettivi poteri statali. Ben altrimenti deve dirsi per i seguenti commi da terzo all'ottavo, i quali non riguardano affatto la problematica della acquisizione della personalita' giuridica mediante riconoscimento, oggetto della disciplina dell'art. 12 del c.c., bensi' la problematica, del tutto distinta anche se collegata, della "sclassificazione" delle Istituzioni stesse quali IPAB, e della individuazione dei relativi criteri: criteri che ovviamente non possono che essere propri e specifici del settore di attivita' delle stesse IPAB. Percio' tali criteri non attengono affatto alla materia "acquisizione della personalita' giuridica mediante riconoscimento", ma alla materia beneficienza pubblica, gia' nel senso piu' stretto e originario dell'espressione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione. In altre parole, la procedura di "privatizzazione" delle IPAB per le quali ricorrano i presupposti consta di due momenti, entrambi necessari ma distinti. Il primo momento ha riguardo alla valutzione delle caratteristiche specifiche dell'IPAB, considerata nell'ambito dell'ordinamento proprio del settore assistenziale, cosi' come tale ordinamento risulta anche in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 396/1988, al fine di verificare se sussistano o meno ragioni (o, piu' precisamente, caratteristiche strutturali ed organizzative) che giustifichino il mantenimento dell'istituzione quale istituzione pubblica. Il primo problema, dunque, e' se l'IPAB considerata debba o meno essere privatizzata: ed e' evidente che tale problema non ha nulla a che vedere con il tema civilistico della concessione della personalita' giuridica ad una entita' collettiva, sulla base del riscontro dei necessari requisiti. Qualora la prima valutazione abbia portato a concludere per la necessita' della "privatizzazione" in base alle regole proprie dell'ordinamento di settore, si pone allora il problema del riconoscimento dal punto di vista dell'ordinamento privatistico, concernente i requisiti di scopo e di mezzi, nonche' la conformita' alla legge dell'organizzazione dell'istituzione, espressa nell'atto costitutivo e nello statuto. Questa seconda valutazione, e solo essa - ovviamente con i provvedimenti conseguenti - e' cio' che forma oggetto della delega di funzioni amministrative di cui all'art. 14 del d.P.R. n. 616/1977. La prima, invece, costituisce parte integrante della materia beneficienza pubblica attribuita alla competenza legislativa ed amministrativa regionale dall'art. 117 della Costituzione. D'altronde, tale inquadramento sistematico e' confermato proprio dai testi richiamati dalle citata sentenza costituzionale n. 396/1988. Da una parte, infatti, il d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348, disciplina i fenomeni in questione proprio al capo secondo, dedicato interamente al trasferimento ed all'esercizio delle funzioni amministrative in materia di assistenza e beneficienza pubblica. Le regole ivi dettate, percio', sono regole proprie della materia, assegnata per il resto alla potesta' legislativa della regione nei limiti, come ricorda l'art. 18 dello stesso decreto n. 348/1979, dei "principi stabiliti dalle leggi dello Stato". Analogamente, l'inquadramento della disciplina nel settore della beneficienza pubblica e' altrettanto chiaro nella legge siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (pure richiamata dalla Corte costituzionale quale espressione dei principi generali in materia), dedicata interamente al riordino dei servizi e delle attivita' assistenziali. In particolare, in tale ultima legge e' particolarmente chiara la netta separazione tra il procedimento di individuazione delle IPAB da privatizzare, disciplinato dalla stessa legge, ed il successivo procedimento di conferimento della personalita' giuridica ai sensi dell'art. 12 del c.c., che la legge regionale ovviamente non disciplina. Infatti, a conclusione del primo le IPAB che "per prevalenza di elementi essenziali" siano da classificare come private sono incluse in "apposito elenco ai fini del riconoscimento ai sensi dell'art. 12 del codice civile". Alla stregua di quanto considerato rientrano nella assistenza e beneficienza pubblica l'intero contenuto dei commi dal terzo all'ottavo dell'art. 1 dell'impugnato decreto, che contengono una normativa interamente parallela a quella dettata dal d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348 (benche', come sotto si dira', in sostanziale violazione dei suoi principi ispiratori e dei suoi contenuti), riguardante i criteri di individuazione del carattere associativo (quarto comma), del carattere di istituzione promossa e amministrata da privati (quinto comma), dell'ispirazione religiosa (sesto e settimo comma), i casi di esclusione in ogni modo della natura privatistica (ottavo comma). In effetti, si tratta in tutti i casi di valutazioni che pongono delicati problemi, i quali, possono essere risolti soltanto in relazione agli specifici caratteri dell'azione assistenziale esercitata e della relativa organizzazione, e che non hanno nulla a che vedere con l'esercizio generale della funzione amministrativa di attribuzione della personalita' giuridica alle associazioni o fondazioni private che lo richedano, di cui all'art. 12 del c.c. e, ai fini della delega alle Regioni, all'art. 14 del d.P.R. n. 616/1977. Risulta percio' evidente che la direttiva qui impugnata non si riferisce a funzioni amministrative delegate, ma a funzioni amministrative facenti parte della materia assistenza e beneficienza pubblica: ma cio' stesso comporta che essa sia, nelle parti considerate, illegittima, dato che solo in relazione alle funzioni delegate puo' essere esercitato quel potere che l'art. 121, terzo comma, della Costituzione chiama di "istruzione", e l'art. 4 del d.P.R. n. 616/1977 specifica come potere di direttiva vincolante. Si aggiunga, comunque, che il d.P.C.M. impugnato non potrebbe considerarsi conforme a Costituzione nemmeno se, nonostante l'esplicita qualificazione in esso contenuta, esso dovesse considerarsi, anziche' come direttiva vincolante in materia delegata, come atto di indirizzo e coordinamento. Una simile qualificazione porterebbe certamente ad una lesione minore per l'autonomia costituzionale della regione, in relazione all'orientamento espresso dalla Corte costituzionale di recente nelle sentenze nn. 560 e 744 del 1988, secondo il quale l'atto di indirizzo non vincola la funzione legislativa regionale se non quanto ai fini e ai risultati da conseguire. La lesione dell'autonomia costituzionale della regione rimarrebbe pero' consistente. Non solo, infatti, tale atto di indirizzo sarebbe pur sempre emanato nella assoluta assenza di un qualunque fondamento legislativo, in totale contrasto con l'esigenza di legalita' della relativa funzione, affermato da codesta Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 150/1982, ma esso sarebbe anche in contrasto con gli stessi principi generali ricavabili in materia dal piu' volte citato d.P.R. n. 347/1979, come di seguito si illustra. 2. - In subordine. Violazione dei principi generali della legislazione statale in materia, stabiliti dall'art. 17 del d.P.R. 19 giugno 1979, n. 348 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Sardegna). Ci si sarebbe potuti attendere che, una volta determinatosi ad intervenire in materia con una "direttiva", come sopra illustrato, il Governo si sarebbe, per il contenuto di essa, attenuto alle indicazioni fissate dalla Corte costituzionale, con puntuale riferimento alla normativa dettata, per la regione Sardegna, con il d.P.R. n. 348/1979. Invece, la direttiva qui impugnata solo apparentemente si riferisce a tale normativa. Se infatti essa riprende lo schema espositivo e singole disposizioni di quella, a piu' riprese e in larga misura nella sostanza essa se ne discosta e la trasgredisce, sia nell'individuazione delle categorie di istituzioni che possono essere privatizzate sia, piu' ancora, nella definizione dei criteri di appartenenza a tali categorie. Quale prima categoria di istituzioni "privatizzabili" la direttiva statale, seguendo in cio' il d.P.R. n. 348/1979 prevede le istituzioni aventi struttura associativa (art. 1, terzo comma, lett. a). Ma mentre la normativa di attuazione per la Sardegna prevede che, per appartenere a tale categoria, l'amministrazione ed il governo dell'ente debbano essere, per disposizioni statutarie, determinati dai soci "nel senso che gli stessi eleggano almeno la meta' dei componenti l'organo collegiale deliberante" (art. 17, secondo comma, n. 1, lett. b), la direttiva si limita a richiedere "l'esistenza di disposizioni statutarie che attribuiscano ai soci un ruolo qualificante nel governo e nell'amministrazione dell'ente, nel senso che i soci provvedano alla elezione di una quota significativa dei componenti dell'organo collegiale deliberante" (art. 1, quarto comma, lett. b). Analogamente, mentre allo stesso fine il d.P.R. n. 348/1979 richiede ancora "che l'attivita' dell'ente si esplichi prevalentemente, a norma di statuto, sulla base di prestazioni personali e volontarie dei soci e con mezzi derivanti da atti di liberalita' o da contributi dei soci", precisando altresi' che "le prestazioni volontarie e personali dei soci non possono consistere in mere erogazioni pecuniarie" (art. 17, secondo comma, n. 1, lett. c), la direttiva si limita a richiedere "l'esplicazione dell'attivita' dell'ente anche sulla base delle prestazioni volontarie dei soci". Del tutto omesso nella direttiva risulta poi l'altro essenziale requisito richiesto dalla disciplina di fonte legislativa, che "il patrimonio risulti prevalentemente formato da beni derivanti da atti di liberalita' o da apporti dei soci" (art. 17, secondo comma, n. 1, lett. d): per cui risulterebbero privatizzabili anche istituzioni il cui patrimonio sia integralmente o in prevalenza di provenienza pubblica. In secondo luogo, la direttiva prevede come "privatizzabile" la categoria delle istituzioni promosse ed amministrate da privati (art. 1, terzo comma, lett. b): ed in questo caso la violazione del d.P.R. n. 348 comincia dalla stessa individuazione della categoria, dato che manca nel d.P.C.M. l'ulteriore requisito che l'istituzione sia "operante prevalentemente con mezzi di provenienza privata" previsto nel d.P.R. (art. 17, secondo comma, n. 2). Altre violazioni riguardano invece i requisiti di appartenenza alla categoria, gia' diversamente individuata. Cosi' laddove la normativa di attuazione richiede "che almeno la meta' dei componenti l'organo collegiale deliberante debba essere, sempre per disposizione statutaria, designata da privati e che, in tal caso, il presidente non sia per statuto scelto tra i componenti di designazione pubblica" (art. 17, secondo comma, n. 2, lett. b), la direttiva richiede solo la "esistenza di disposizioni statutarie che prescrivano la designazione da parte di associazioni o di soggetti privati di una quota significativa dei componenti dell'organo deliberante", senza pretendere ne' che le designazioni private siano prevalenti, ne' che anche il presidente possa essere di provenienza privata. Allo stesso modo, mentre il d.P.R. n. 348/1979 pone ancora l'ulteriore requisito che "il patrimonio risulti quasi esclusivamente costituito da beni provenienti da atti di liberalita' privata o dalla trasformazione dei beni stessi, e che il funzionamento sia avvenuto, nell'ultimo quinquennio... in prevalenza con contributi, redditi, rendite e altri mezzi patrimoniali o finanziari di provenienza privata, e che comunque l'istituzione non abbia beneficiato di finanziamenti pubblici a qualsiasi titolo in misura superiore al 10% delle entrate complessive..., ne' abbia percepito rette a carico di pubbliche amministrazioni in misura superiore alla meta' delle entrate complessive dell'ente" (art. 17, secondo comma, n. 2, lett. c), la direttiva richiede semplicemente che "il patrimonio risulti prevalentemente costituito da beni risultanti dalla dotazione originaria o dagli incrementi e trasformazioni della stessa ovvero da beni conseguiti in forza dello svolgimento dell'attivita' istituzionale" (dizione non solo estremamente riduttiva, ma dalla quale non e' nemmeno chiaro quale bene rimanga escluso). In terzo luogo la direttiva considera privatizzabili le istituzioni ad ispirazione religiosa (art. 1, terzo comma, lett. c), seguendo in cio' il d.P.R. n. 348/1979. Ma ancora una volta sono sostanzialmente difformi i requisti di riconoscimento di tale caratteristica. In particolare, laddove il d.P.R. n. 348/1979 richiede che "l'attivita' istituzionale attualmente svolta persegua indirizzi e finalita' religiosi" (art. 17, secondo comma, n. 3, lett. a), la direttiva si accontenta che la stessa attivita' "inquadrati l'opera di beneficienza ed assistenza nell'ambito di una piu' generale finalita' religiosa" (requisito che potrebbe anche sembrare coincidente con il precedente, se non fosse posto esplicitamente accanto ad esso, come sua forma attenuata). Ma soprattutto, mentre la normativa di rango legislativo richiede che l'attivita' dell'ente "risulti collegata a una confessione religiosa mediante la designazione negli organi collegiali deliberanti, in forza di disposizioni statutarie, di ministri del culto o di appartenenti a istituti religiosi o di rappresentanti di autorita' religiose, e mediante la collaborazione di personale religioso come modo qualificante di gestione del servizio", la direttiva assai piu' largamente si accontenta di un collegamento ad una confessione "realizzato per il tramite della designazione, prevista da disposizioni statutarie, di ministri del culto, di appartenenti ad istituti religiosi, di rappresentanti di attivita' o di associazioni religiose, ovvero attraverso la collaborazione di personale religioso come modo qualificante di gestione del servizio": disposizione nella quale, a parte l'aggiunta dei rappresentanti di "attivita' o di associazioni religiose" (dove neppure si capisce che cosa possano essere i rappresentanti di "attivita'" religiose, e se non si tratti di una erronea trascrizione delle "autorita'" previste dal d.P.R. n. 348/1979) e' particolarmente arbitraria la sostituzione della "e" con la parola "ovvero", in base alla quale la semplice collaborazione di personale religioso potrebbe qualificare come religiosa l'intera istituzione| Infine, la direttiva si allontana ancora arbitrariamente ed illegittimamente dai criteri stabiliti dal d.P.R. n. 348/1979) quanto alle categorie di IPAB che non possono essere in nessun caso privatizzate. Mentre infatti l'atto qui impugnato si riferisce soltanto alle IPAB gia' amministrate dagli enti comunali di assistenza o in questi concentrate (art. 1, ottavo comma), il d.P.R. n. 348/1979 escludeva dalla possibile privatizzazione anche "le IPAB il cui organo collegiale deliberante sia composto, a norma di statuto, in maggioranza da membri designati dai comuni, province, regioni o antri enti pubblici, salvo che il presidente non sia, per disposizione statutaria, un'autorita' religiosa" e "le IPAB che non esercitano le attivita' previste dallo statuto o altre attivita'". E' agevole osservare che le rilevanti differenze tra la normativa di rango legislativo e l'atto amministrativo del Governo, che si traducono in vere e proprie violazioni dei criteri legislativi, sono tutte accomunate da un unico motivo ispiratore: dall'intento di estendere le ipotesi di privatizzazione delle IPAB ben oltre quanto disposto dal legislatore: mentre e' evidente - a prescindere dalle preferenze che ciascuno possa avere, la cui considerazione sarebbe del tutto fuorviante in un giudizio di legittimita' della direttiva - che le regole contenute nel d.P.R. n. 348/1979 - la cui ratio ha piena validita' generale, non avendo in questo ambito nulla di specifico la situazione della Sardegna - non possono non vincolare nel modo piu' stretto ogni autorita' amministrativa, regionale o statale. Oltretutto, una siffatta differenziazione tra la situazione sarda e quella del rimanente territorio nazionale si tradurrebbe - oltre che nella lesione delle autonomie regionali - in una violazione dello stesso principio costituzionale d'eguaglianza, posto dall'art. 3 della Costituzione: al punto che, si puo' dire, persino una nuova disciplina legislativa della materia non potrebbe che eseguire le regole gia' poste per la Sardegna, o, se volesse innovare ad esse, dovrebbe prevedere nei modi opportuni l'estensione delle innovazioni anche alla Sardegna (Regione che ha in materia, ai sensi dell'art. 4 del relativo Statuto, potesta' legislativa concorrente, al pari delle regioni a statuto ordinario). Ma qui non ci troviamo di fronte ad una disciplina, legislativa, ma ad una semplice direttiva: una direttiva che in primo luogo non puo' ammettersi nella materia, per le ragioni esposte al punto 1, in secondo luogo, qualora la si volesse ammettere, non potrebbe comunque avere un contenuto integrativo e specificativo rispetto ai principi legislativi vigenti. La Direttiva impugnata, invece, altera in modo rilevante ed arbitrario i confini tra l'area delle istituzioni pubbliche e quelle private definiti con delicato equilibrio dal d.P.R. n. 438/1979, e percio' stesso si qualifica come atto illegittimo ed invasivo delle competenze legislative ed amministrative regionali in materia di beneficienza ed assistenza pubbliche.