IL TRIBUNALE
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza nella causa civile in primo
 grado iscritta al n. 12042 del  r.g.a.c.  dell'anno  1988,  posta  in
 deliberazione all'udienza collegiale del 2 aprile 1990 e vertente tra
 Francesca Scopelliti, costituitasi  per  proseguire  il  giudizio  in
 qualita' di erede di Enzo Tortora, rappresentata e difesa dai dottori
 procuratori  Gian  Domenico  Caiazza  e  Vincenzo   Zeno   Zencovich,
 elettivamente  domiciliata  presso  lo studio del primo, in Roma, via
 Gualtiero Serafino, 8,  attrice,  e  Miranda  Fatacci  ved.  Tortora,
 Silvia  Tortora,  Gaia  Tortora, Monica Tortora Gregori, le prime tre
 domiciliate in Roma, via F. S. Nitti, e  la  quarta  in  Milano,  via
 Villoresi, 5, chiamate in causa, contumaci, e l'amministrazione dello
 Stato, in persona  del  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  in
 carica,   domiciliato   in  Roma,  via  dei  Portoghesi,  12,  presso
 l'Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e  difende  per
 legge,  convenuta,  e  Felice Di Persia, elettivamente domiciliato in
 Roma, via Guido d'Arezzo, 18, presso lo  studio  dell'avvocato  prof.
 Angelo  Ormanni,  che  lo rappresenta e difende per procura a margine
 della comparsa di  costituzione,  convenuto,  e  Lucio  Di  Pietro  e
 Giorgio   Fontana,  elettivamente  domiciliato  in  Roma,  via  Guido
 d'Arezzo, 18, presso lo studio dell'avvocato Luigi Medugno  che,  con
 l'avv.  Gioacchino  Della Pietra del Foro di Napoli, li rappresenta e
 difende per procura a margine della comparsa di risposta,  convenuti,
 e  Luigi  Sansone, domiciliato in Napoli, presso il tribunale penale,
 convenuto  contumace,   e   Orazio   Dente   Gattola,   elettivamente
 domiciliato  in  Roma,  lungotevere dei Mellini, 24, presso lo studio
 dell'avv. prof. Giovanni Giacobbe, che lo rappresenta e  difende  per
 procura  a  margine della comparsa di risposta, convenuto, e Gherardo
 Fiore, domiciliato in Napoli, presso il tribunale  penale,  convenuto
 contumace,  e  Lelio  Marino', elettivamente domiciliato in Roma, via
 Lucrezio Caro, 12, presso lo studio dell'avv. Enrico  Dante,  che  lo
 rappresenta  e  difende,  unitamente agli avvocati Massimo Di Celmo e
 Bruno Mantovani, del Foro di Napoli,  per  procura  a  margine  della
 comparsa d'intervento, intervenuto in causa.
    Oggetto: domande di condanna al risarcimento dei danni da illecito
 aquiliano.
                           RITENUTO IN FATTO
    1. - Enzo Tortora, con atto di citazione notificato nei giorni 11,
 12 e 13 aprile 1988,  evocava  in  giudizio  l'amministrazione  dello
 Stato  ed  i  magistrati  Felice  Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio
 Fontana,  Luigi  Sansone,  Orazio  Dente  Gattola  e  Gherardo  Fiore
 (sostituti   procuratori   della  Repubblica  i  primi  due,  giudice
 istruttore il terzo, componenti del collegio del tribunale penale gli
 altri)  chiedendone  -  in  ragione  dal ruolo da ciascuno svolto nel
 procedimento  penale  che  lo  aveva  visto  imputato  dei  reati  di
 associazione  per  delinquere,  associazione  di  tipo camorristico e
 spaccio  di  sostanze  stupefacenti,  risoltosi,  dopo  la   condanna
 inflittagli  dai  giudici di primo grado il 17 settembre 1985, con la
 propria definitiva assoluzione con formula ampia  in  appello  il  15
 settembre 1986 - la condanna anche solidale al risarcimento dei danni
 patiti,  che  indicava  in  cento  miliardi  di  lire,   oltre   alla
 pubblicazione della sentenza.
    Affermava  dunque  di aver, pur innocente, ingiustamente subito la
 privazione della liberta' personale per un periodo di ventidue  mesi,
 una  grave  lesione  del  proprio  onore e della propria reputazione,
 serio pregiudizio della salute, rilevanti danni economici anche sotto
 l'aspetto del lucro cessante.
    Sosteneva  che  l'attivita'  istruttoria  precedente l'emissione e
 l'esecuzione dell'ordine di cattura appariva colorata da "grave colpa
 commissiva   ed   omissiva  da  parte  dei  magistrati  del  pubblico
 ministero"; che in quella succesiva si era innestato  un  "meccanismo
 di   sistematica  e  dolosa  copertura  dei  pregressi  comportamenti
 colposi"; che la stessa conduzione del dibattimento  di  primo  grado
 aveva  consentito  la  strumentalizzazione  degli atti processuali al
 fine di "conquistare pubblica notorieta', inquinare  prove  in  danno
 dell'imputato,   creare   e  ottenere  sostegno  e  consenso  esterno
 all'inchiesta e ad un determinato esito processuale".
    Invocava  insomma,  a suffragio della propria pretesa risarcitoria
 "quei fatti materiali che ai sensi dell'art. 28 del c.p.p. sono stati
 posti  a  sostegno  della  sentenza  assolutoria in grado d'appello",
 indicando i referenti normativi nelle disposizioni di cui agli  artt.
 55 del c.p.c., 22 e 23 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, 2043 e segg.
 del c.c., 28 della Costituzione, 5 maggio della  Convenzione  per  la
 salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e delle liberta' fondamentali,
 ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848.
    2. - Tutti i convenuti, con l'esclusione dei dottori Luigi Sansone
 e  Gherardo  Fiore,  si  costituivano  in  giudizio  resistendo  alla
 domanda.
    Venivano  in  particolare eccepite l'incompetenza territoriale del
 tribunale adito e, dalla  difesa  del  dott.  Orazio  Dente  Gattola,
 l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 55 del c.p.c. e dell'art.
 473, quinto comma, del c.p.p. (nel testo previgente).
    3.  -  Interveniva  in  causa  Lelio Marino', che svolgeva domanda
 analoga a quella dell'attore.
    4.  -  All'udienza  del  28  agosto  1988  il  giudice istruttore,
 ravvisata  l'opportunita'  che  sulle   questioni   pregiudiziali   e
 preliminari   si  pronunciasse  il  collegio,  invitava  le  parti  a
 precisare le conclusioni ai sensi degli artt. 187,  secondo  e  terzo
 comma, e 189, del c.p.c.
    Dichiarata  la morte di Enzo Tortora all'udienza collegiale del 26
 giugno 1989, si  costituiva  per  proseguire  il  giudizio  Francesca
 Scopelliti,  coerede  testamentaria  del  defunto.  Restavano  invece
 contumaci le altre eredi del de cuius, nei confronti delle quali,  in
 esecuzione dell'ordinanza del 26 giugno 1989, veniva dalla Scopelliti
 integrato il contraddittorio con atto  notificato  il  26  ed  il  29
 gennaio 1990.
    Rinviata l'udienza collegiale del 22 gennaio 1990 su istanza della
 difesa  attorea  -  che  aveva  addotto   l'intervenuto   smarrimento
 dell'originale   dell'atto  di  integrazione  del  contraddittorio  e
 manifestato, senza opposizione da parte dei  convenuti,  l'intenzione
 di  rinnovare  la notificazione - la causa eratrattenuta in decisione
 all'udienza collegiale del 2 aprile 1990.
                         CONSIDERATO IN DIRITTO
    1. - E' logicamente preliminare l'incidentale affermazione che per
 ragioni la cui  esposizione  sarebbe  qui  affatto  superflua  e  che
 saranno,  in  ipotesi,  in  seguito  illustrate - questo tribunale si
 ritiene territorialmente competente in relazione al luogo (Roma) dove
 Enzo Tortora fu tratto in arresto.
    2.  -  E  va altresi' immediatatamente chiarito che le prospettate
 censure di  incostituzionalita'  dell'art.  473,  quinto  comma,  del
 c.p.p.,  in  riferimento  agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella
 parte in cui in ragione della segretezza delle deliberazioni adottate
 in camera di consiglio, preclude l'esercizio di un'adeguata difesa da
 parte del giudice, membro del collegio, che sia convenuto in giudizio
 in  base alla previgente normativa, appaiono manifestamente infondate
 laddove  muovono  dall'implicito  e  non  condivisibile  assunto  che
 competa  al  giudice  offrire  la  prova  (negativa) dell'assenza dei
 presupposti di cui all'art. 55 del c.p.c.
    La questione potrebbe, se mai, porsi in senso opposto; ma sarebbe,
 allo stato, manifestamente priva di rilevanza.
    3.  -  Conviene  dunque  dar subito conto delle considerazioni che
 sottendono la presente ordinanza  di  rimessione:  prima  fra  tutte,
 dell'opinione  del  collegio  che l'art. 56 del c.p.c., in seguito al
 referendum abrogativo, non sia piu' allo stato applicabile, in quanto
 norma processuale, come tale non ultrattiva.
    Priva  di  fondamento  pare, infatti, la prospettazione secondo la
 quale  la  norma  atterrebbe  ad  uno  dei  presupposti   costitutivi
 (autorizzazione  del Ministro) del diritto al risarcimento in capo al
 soggetto leso dall'attivita' illecita del giudice, onde non  potrebbe
 disconoscersene  la  natura  sostanziale,  con  conseguente immanente
 applicabilita' ai casi nei quali - come nella specie - l'illecito  si
 prospetti essere stato commesso al tempo della sua vigenza.
    Vero  e',  invece,  che  essa  ha  natura  certamente  processuale
 laddove, assumendosi realizzati  i  presupposti  dell'insorgenza  del
 diritto  di  credito  (  ex  art. 55 del c.p.c.), rimuove un ostacolo
 all'esercizio dell'azione: id est, alla tutela giudiziale del diritto
 gia' sorto, tramite, appunto, il processo.
    4.  -  Tanto  premesso,  a meno di appagarsi di una concezione del
 tutto formalistica  dell'ordinamento  giuridico,  non  puo'  peraltro
 negarsi  che  gli  artt.  55  e 56 (e 74) del c.p.p. costituissero un
 sistema. Nel quale, da un lato la tassativa restrizione dei  casi  in
 cui  e'  configurabile  la  responsabilita'  del  giudice, dall'altro
 l'improponibilita' della domanda senza l'autorizzazione del  Ministro
 di  grazia  e  giustizia,  miravano  entrambe a contenere il fenomeno
 dell'azione di responsabilita' contro un magistrato.
    E   cio'   un  funzione  dell'esigenza  di  evitare  che  a  causa
 dell'ineluttabilmente  frequente  convinzione  del  soccombente,  nel
 conflitto  di  interessi dal giudice risolto, che non al suo torto la
 soccombenza   fosse   eziologicamente   da   correlare   bensi'    al
 comportamento   illecito   del  giudice,  questi  potesse  pressoche'
 sistematicamente esser chiamato a rispondere del proprio operato; con
 virtualmente   infinita   serie   di  processi  indotti,  conseguente
 impossibile raggiungimento di  certezze,  frustrazione  dello  stesso
 telos della giurisdizione in ogni societa' civile.
    Ne',  in  tale  ottica,  alcun determinante rilievo contrario puo'
 conferirsi alla circostanza che da molti - anche da parte attrice nel
 presente  giudizio,  per  l'ipotesi  in  cui si fosse invece ritenuto
 ancora  applicabile  l'art.  56  del  c.p.c.  -  si  dubitasse  della
 legittimita'  costituzionale  proprio  di tale disposizione. A parte,
 invero, l'opposto parere della stessa Corte costituzionale  (sentenze
 nn.  2/1968  e  26/1987),  sta  il  fatto  che la disposizione di cui
 all'art. 56 del  c.p.c.  comunque  costituiva  parte  integrante  del
 sistema  appena  delineato;  che  esso  non  esiste  piu' ed e' stato
 sostituito da un diverso sistema (legge 13 aprile1988, n. 117);  che,
 tuttavia,  essendo  inibita  la  applicazione  di  tale legge a fatti
 commessi prima della sua entrata in vigore  (  ex  art.  19,  secondo
 comma) ed ostando a quella dell'art. 56 del c.p.c. ai fatti anteriori
 alla abrogazione la sua natura di norma processuale, dovrebbe al caso
 in esame farsi applicazione del solo art. 55 del c.p.c.
    Tal  che  deve esaminarsi se tale disposizione, avulsa dal sistema
 nel quale si inseriva, sia o meno suscettibile  di  creare  discrasie
 funzionali  e  se,  in  particolare,  sia  compatibile  con la Carta;
 giacche',  ove  la  risposta  fosse  in  ipotesi  sul  secondo  punto
 negativa,    sarebbe   mestieri   rinvenire   alternative   soluzioni
 costituzionalmente corrette in  relazione  ai  fatti  commessi  prima
 della  sua  abrogazione,  per  i  quali la domanda sia stata tuttavia
 proposta in epoca successiva all'8 aprile 1988 (data del  verificarsi
 dell'effetto abrogativo).
    5.  -  Ebbene, sotto il profilo della discrasia funzionale, non e'
 possibile che limitarsi a neutre osservazioni empiriche: che,  cioe',
 dopo  l'8  aprile  1988, sono state nell'arco di pochi mesi promosse,
 innanzi a questo  tribunale,  cause  contro  magistrati  per  addotta
 responsabilita'  civile  (per  fatti  commessi  prima dell'entrata in
 vigore della nuova legge) in numero di gran lunga superiore a  quello
 di  tutte  le  cause  instaurate,  in base alla stessa causa petendi,
 negli oltre quarantasette anni decorsi  dell'entrata  in  vigore  del
 vigente codice di rito al 7 aprile 1988.
   Inoltre,  lo  stesso  legislatore del 1988 ha ritenuto che una fase
 volta  alla  delibazione  dell'ammissibilita'  fosse  imprescindibile
 laddove,  disciplinando ex novo la materia, ha previsto la necessita'
 del giudizio preventivo sul punto da parte del tribunale in camera di
 consiglio  (art.  5, legge n. 117/1988), cosi' mostrando, in parte de
 qua, singolare uniformita' di valutazione rispetto a  quella  operata
 dal legislatore dell'epoca precostituente (1940).
    Sicche'  la  carenza  di  una  disciplina  positiva in ordine agli
 illeciti  che  si  assumessero   esauriti   prima   del   verificarsi
 dell'effetto  abrogativo  ma per i quali la domanda fosse proposta in
 epoca  successiva,  pare  piuttosto  il  frutto  di  una   incompleta
 raffigurazione   della  esigenza  di  dettare  norme  intertemporali,
 piuttosto  che  il  risultato  di  positivo  esercizio   di   sciente
 discrezionalita'   legislativa;   che   ben   potrebbe   in  astratto
 estrinsecarsi tramite attivita' omissiva ma della quale  non  risulta
 esservi   sintomaticamente   traccia   nei   pur   ponderosi   lavori
 preparatori.
    E'  dunque  univoca  la  conclusione  che  il  legislatore,  se il
 problema  si  fosse  raffigurato,   avrebbe,   nello   stabilire   la
 inapplicabilita'  della  legge  n.  117/1988  ai fatti commessi prima
 della sua entrta in vigore, altresi' dettato una positiva  disciplina
 sul punto.
    A  meno  di  ritenere,  essendo  la previsione di cui all'art. 19,
 secondo comma,  della  legge  n.  117/1988  del  tutto  superflua  in
 riferimento  alle  norme di diritto sostanziale (art. 55 del c.p.c.),
 che tanto esso appunto intese; e, per tale via, concludere nel  senso
 dell'immanente  applicabilita',  nei casi di specie, dell'art. 56 del
 c.p.c. Ma sarebbe allora sommamente opportuno il  pronunciamento  sul
 punto   della  Corte  costituzionale,  alla  quale  soltanto  sarebbe
 possibile, con l'autorevolezza che non  ad  altri  compete,  mediante
 sentenza  interpretativa di rigetto, definitivamente fugare dubbi che
 - ove difettasse una pronuncia nel merito - potrebbero provocare, per
 lungo  lasso  di  tempo,  opposte decisioni (e potenzialmente inutili
 istruttorie); in astratto risolventesi anche  in  conflitto  negativo
 tra poteri dello Stato ove la domanda fosse ritenuta improponibile in
 difetto di autorizzazione ed il Ministro di grazia e giustizia a  sua
 volta ritenesse - com'e' per tabulas provato abbia gia' fatto in caso
 analogo - che non v'e' luogo all'applicazione dell'art. 56 del c.p.c.
    V'e',   peraltro,  altra  teoricamente  possibile  interpretazione
 dell'art.  19,  secondo  comma,  della   legge   n.   117/1988,   che
 testualmente  recita:  "La  presente  legge  non  si applica ai fatti
 illeciti posti in essere dal  magistrato,  nei  casi  previsti  dagli
 artt. 2 e 3, anteriormente alla sua entrata in vigore".
    Che,  cioe',  il  legislatore  abbia bensi' escluso l'applicazione
 della stessa nei casi previsti dagli artt. 2 e 3, ma  non  anche  nel
 caso  in  cui  la  norma  sostanziale applicabile fosse l'art. 55 del
 c.p.c.; con la conseguenza che, per i fatti anteriori, l'art. 55  del
 c.p.c.  sarebbe  la  norma  sostanziale  e  l'art.  5, della legge n.
 117/1988, quella "processuale" applicabile in luogo dell'art. 56  del
 c.p.c.
    Ma  si  darebbe in tal modo ad un monstrum giuridico, con problemi
 ermeneutici davvero irrisolvibili sol che si pensi, a tacer  d'altro,
 che  al  giudizio di ammissibilita' "deve" partecipare lo Stato (art.
 5, primo comma, in relazione all'art. 2, primo  comma);  e  che  esso
 verte, oltre che sulla deliberazione della non manifesta infondatezza
 della domanda, anche  sul  controllo  dell'intervenuto  rispetto  dei
 termini e dei presupposti di cui agli artt. 2, 3 e 4 (art. 5, secondo
 comma), contemplanti competenze, condizioni  e  decadenze  del  tutto
 ignote all'art. 55 del c.p.c.
    Tale  conclusione,  se per un verso consente di escludere siffatta
 interpretazione del piu' volte citato art. 19, per altro  verso  vale
 anche  a  chiarire  - ove sia condivisa - quale sia il solo possibile
 profilo della prospettanda questione di legittimita'  costituzionale,
 elidendo anche il problema della ammissibilita', da parte della Corte
 costituzionale, della pronuncia che si  domanda.  La  quale,  per  le
 ragioni   gia'   esposte,   non   sembra   che  comporterebbe  alcuna
 discrezionale  opzione  tra  le  tante  possibili,  in  quanto   tale
 riservata al legislatore. Ma presupporrebbe solo la constatazione che
 non altra l'opzione poteva essere se non  quella  risolventesi  nella
 previsione dell'ultrattivita' dell'art. 56 del c.p.c.
    Ne'  essa  potrebbe apparire in contrasto con la volonta' espressa
 dal corpo elettorale (i cui effetti abrogativi si erano gia' prodotti
 alla  data di notifica dell'atto introduttivo). L'argomento, infatti,
 proverebbe troppo, atteso che esso si attaglierebbe anche all'art. 55
 del  c.p.c.  (la  cui applicabilita' e' invece, in base ai principi e
 secondo la dottrina, del tutto pacifica per i fatti "anteriori",  con
 conseguenze   assolutamente   dirompenti   sul   piano  ordinamentale
 (irresponsabilita' assoluta? applicazione delle norme del testo unico
 sugli impiegati civili dello Stato? dell'art. 2043 tout court?).
   6.  -  Il  legislatore,  dunque,  (opportunamente)  inibendo con la
 disposizione di cui  all'art.  19,  secondo  comma,  della  legge  n.
 117/1988  l'immediata  applicabilita' delle "nuove" norme processuali
 (art. 5 della stessa legge) ai processi promossi  dopo  l'abrogazione
 dell'art.  56  del  c.p.c.,  ha dettato una disposizione in deroga al
 principio tempus regit actum, in forza del quale i  "nuovi"  processi
 per  "vecchi"  fatti  sarebbero  stati  invece  regolati in base alla
 disciplina previgente, quanto agli aspetti sostanziali,  ed  in  base
 alla  nuova  quanto  agli  aspetti processuali. Ma, cosi' facendo, ha
 omesso di provvedere in ordine  al  "filtro"  per  i  fatti  passati,
 lasciando  in  tal  modo  alterato il sistema, in esito al referendum
 abrogativo (non costituzionalmente censurabile, in quanto fatto e non
 "atto" normativo).
    Sembrerebbe  allora  doversi  denunciare l'art. 19, secondo comma,
 della legge 13 aprile 1988, n. 117, come da questa stessa sezione del
 tribunale gia' ritenuto con due precedenti ordinanze di rimessione in
 date 24 novembre 1989 e 18 dicembre 1989.
    Senonche',  re  perpensa, la disposizione potrebbe essere ritenuta
 non applicabile al presente  giudizio  (tra  l'altro  promosso  prima
 dell'entrata  in  vigore  della  legge  n. 117/1988), con conseguente
 irrilevanza della questione.
    Pare  doversi  altresi'  escludere che la disposizione denuncianda
 possa individuarsi nell'art. 1, del d.P.R. 9 dicembre 1987,  n.  497,
 con  il  quale,  in  esecuzione degli artt. 38, della legge 25 maggio
 1970, n. 352, e 2, della legge 7 agosto 1987, n. 332, fu  determinata
 nel  massimo posibile (centoventi giorni) la dilazione della data del
 verificarsi dell'effetto abrogativo  referendario.  E  cio'  vuoi  in
 ragione  della  dubbia  forza  di  legge  del  decreto ai fini di cui
 all'art. 134 della Costituzione, sia  perche'  non  altro  potere  il
 Presidente  della  Repubblica avrebbe potuto esercitare che quello in
 concreto  esercitato.  Ancor  meno,  poi,  potrebbero  censurarsi  le
 disposizioni   delle  leggi  del  1970  e  del  1987  in  materia  di
 referendum.
    7.  - Onde il dubbio di costituzionalita' va appuntato sugli artt.
 55 e 74 del c.p.c., dacche' tali disposizioni - senza  la  disciplina
 di  cui  all'art.  56  del  c.p.c.,  dopo  l'abrogazione referendaria
 inapplicabile ai fatti commessi  all'epoca  della  sua  vigenza,  nei
 giudizi successivamente instaurati - sembrano confliggere:
       a)  con  l'art.  3,  primo  comma, della Costituzione, sotto il
 profilo  dell'ingiustificata  disparita'  di   trattamento   fra   il
 magistrato che, per pretesa responsabilita' derivante da esercizio di
 attivita' giurisdizionale  posta  in  essere  prima  dell'entrata  in
 vigore  della  legge  n. 117/1988, sia stato convenuto in giudizio in
 epoca antecedente all'8 aprile 1988 (nel  qual  caso  era  necessaria
 l'autorizzazione  di  cui  all'art.  56 del c.p.c.), ed il magistrato
 che, in ipotesi anche per i medesimi fatti, sia  stato  convenuto  in
 giudizio  dopo  tale  data  (come  nel  caso  di  specie)  benche' il
 legislatore  abbia  inequivocamente  mostrato  di  ritenere  comunque
 necessario, quale che sia la disciplina della materia, un "filtro";
       b)  con  l'art.  25,  primo comma, della Costituzione, sotto il
 profilo della possibilita' per l'attore - in  relazione  alla  scelta
 della  data  di  notifica  dell'atto  di  citazione - di sottrarre il
 giudizio al giudice che sarebbe stato designato in base  al  criterio
 di  cui all'art. 56, secondo comma, del c.p.c.; ovvero, viceversa, di
 determinarlo in base ai criteri ordinari;
       c) con l'art. 97, primo comma, della Costituzione - della Corte
 costituzionale  ritenuto  parametro  regolante  anche  la  disciplina
 dell'attivita'  degli  organi  dell'amministrazione  della  giustizia
 (sentenze nn. 86/1982 e 18/1989) - sotto il profilo della inutile  ed
 indeterminabile  proliferazione  di  domande risarcitorie (non elisa,
 nel numero, dalle restrizioni  sostanziali  poste  dall'art.  55  del
 c.p.c.,   che   attengono   alla  deliberazione  del  merito  ma  non
 impediscono la proposizione della domanda) nei confronti di  chi  sia
 istituzionalmente preposto alla soluzione di conflitti di interessi e
 sia  dunque  piu'  di  ogni  altro  esposto  ad  azioni  pretestuose,
 strumentali o emulative;
      d)  con  gli  artt.  101, primo comma, e 104, primo comma, della
 Costituzione,  sotto  il  profilo  della  posibilita'  di   incidere,
 mediante il possibile uso sistematico e strumentale del processo come
 forma di intimidazione senza alcuna restrizione,  sulla  indipendenza
 di giudizio del giudice.
    8.   -   La  questione  e'  senz'altro  rilevante  ai  fini  della
 definizione  del  giudizio,  posto  che  la  domanda  -  siccome  non
 preceduta  dalla  autorizzazione  del  Ministro - andrebbe dichiarata
 improcedibile  nel  caso   di   declaratoria   della   illegittimita'
 costituzionale della disposizione denunziata.
    Improcedibile  -  non  a caso s'e' detto - e non improponibile, in
 relazione  al  principio  in  base  al   quale   le   condizioni   di
 proponibilita'  sopravvenute  in  corso  di  causa  si trasformano in
 condizioni di procedibilita'; con la possibilita', per il giudice, di
 assegnare  un  termine per l'espletamento dell'attivita' necessaria a
 consentirne il venir in essere, in ipotesi sospendendo il giudizio.