IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile in primo grado iscritta al n. 12042 del r.g.a.c. dell'anno 1988, posta in deliberazione all'udienza collegiale del 2 aprile 1990 e vertente tra Francesca Scopelliti, costituitasi per proseguire il giudizio in qualita' di erede di Enzo Tortora, rappresentata e difesa dai dottori procuratori Gian Domenico Caiazza e Vincenzo Zeno Zencovich, elettivamente domiciliata presso lo studio del primo, in Roma, via Gualtiero Serafino, 8, attrice, e Miranda Fatacci ved. Tortora, Silvia Tortora, Gaia Tortora, Monica Tortora Gregori, le prime tre domiciliate in Roma, via F. S. Nitti, e la quarta in Milano, via Villoresi, 5, chiamate in causa, contumaci, e l'amministrazione dello Stato, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri in carica, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12, presso l'Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge, convenuta, e Felice Di Persia, elettivamente domiciliato in Roma, via Guido d'Arezzo, 18, presso lo studio dell'avvocato prof. Angelo Ormanni, che lo rappresenta e difende per procura a margine della comparsa di costituzione, convenuto, e Lucio Di Pietro e Giorgio Fontana, elettivamente domiciliato in Roma, via Guido d'Arezzo, 18, presso lo studio dell'avvocato Luigi Medugno che, con l'avv. Gioacchino Della Pietra del Foro di Napoli, li rappresenta e difende per procura a margine della comparsa di risposta, convenuti, e Luigi Sansone, domiciliato in Napoli, presso il tribunale penale, convenuto contumace, e Orazio Dente Gattola, elettivamente domiciliato in Roma, lungotevere dei Mellini, 24, presso lo studio dell'avv. prof. Giovanni Giacobbe, che lo rappresenta e difende per procura a margine della comparsa di risposta, convenuto, e Gherardo Fiore, domiciliato in Napoli, presso il tribunale penale, convenuto contumace, e Lelio Marino', elettivamente domiciliato in Roma, via Lucrezio Caro, 12, presso lo studio dell'avv. Enrico Dante, che lo rappresenta e difende, unitamente agli avvocati Massimo Di Celmo e Bruno Mantovani, del Foro di Napoli, per procura a margine della comparsa d'intervento, intervenuto in causa. Oggetto: domande di condanna al risarcimento dei danni da illecito aquiliano. RITENUTO IN FATTO 1. - Enzo Tortora, con atto di citazione notificato nei giorni 11, 12 e 13 aprile 1988, evocava in giudizio l'amministrazione dello Stato ed i magistrati Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Luigi Sansone, Orazio Dente Gattola e Gherardo Fiore (sostituti procuratori della Repubblica i primi due, giudice istruttore il terzo, componenti del collegio del tribunale penale gli altri) chiedendone - in ragione dal ruolo da ciascuno svolto nel procedimento penale che lo aveva visto imputato dei reati di associazione per delinquere, associazione di tipo camorristico e spaccio di sostanze stupefacenti, risoltosi, dopo la condanna inflittagli dai giudici di primo grado il 17 settembre 1985, con la propria definitiva assoluzione con formula ampia in appello il 15 settembre 1986 - la condanna anche solidale al risarcimento dei danni patiti, che indicava in cento miliardi di lire, oltre alla pubblicazione della sentenza. Affermava dunque di aver, pur innocente, ingiustamente subito la privazione della liberta' personale per un periodo di ventidue mesi, una grave lesione del proprio onore e della propria reputazione, serio pregiudizio della salute, rilevanti danni economici anche sotto l'aspetto del lucro cessante. Sosteneva che l'attivita' istruttoria precedente l'emissione e l'esecuzione dell'ordine di cattura appariva colorata da "grave colpa commissiva ed omissiva da parte dei magistrati del pubblico ministero"; che in quella succesiva si era innestato un "meccanismo di sistematica e dolosa copertura dei pregressi comportamenti colposi"; che la stessa conduzione del dibattimento di primo grado aveva consentito la strumentalizzazione degli atti processuali al fine di "conquistare pubblica notorieta', inquinare prove in danno dell'imputato, creare e ottenere sostegno e consenso esterno all'inchiesta e ad un determinato esito processuale". Invocava insomma, a suffragio della propria pretesa risarcitoria "quei fatti materiali che ai sensi dell'art. 28 del c.p.p. sono stati posti a sostegno della sentenza assolutoria in grado d'appello", indicando i referenti normativi nelle disposizioni di cui agli artt. 55 del c.p.c., 22 e 23 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, 2043 e segg. del c.c., 28 della Costituzione, 5 maggio della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848. 2. - Tutti i convenuti, con l'esclusione dei dottori Luigi Sansone e Gherardo Fiore, si costituivano in giudizio resistendo alla domanda. Venivano in particolare eccepite l'incompetenza territoriale del tribunale adito e, dalla difesa del dott. Orazio Dente Gattola, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 55 del c.p.c. e dell'art. 473, quinto comma, del c.p.p. (nel testo previgente). 3. - Interveniva in causa Lelio Marino', che svolgeva domanda analoga a quella dell'attore. 4. - All'udienza del 28 agosto 1988 il giudice istruttore, ravvisata l'opportunita' che sulle questioni pregiudiziali e preliminari si pronunciasse il collegio, invitava le parti a precisare le conclusioni ai sensi degli artt. 187, secondo e terzo comma, e 189, del c.p.c. Dichiarata la morte di Enzo Tortora all'udienza collegiale del 26 giugno 1989, si costituiva per proseguire il giudizio Francesca Scopelliti, coerede testamentaria del defunto. Restavano invece contumaci le altre eredi del de cuius, nei confronti delle quali, in esecuzione dell'ordinanza del 26 giugno 1989, veniva dalla Scopelliti integrato il contraddittorio con atto notificato il 26 ed il 29 gennaio 1990. Rinviata l'udienza collegiale del 22 gennaio 1990 su istanza della difesa attorea - che aveva addotto l'intervenuto smarrimento dell'originale dell'atto di integrazione del contraddittorio e manifestato, senza opposizione da parte dei convenuti, l'intenzione di rinnovare la notificazione - la causa eratrattenuta in decisione all'udienza collegiale del 2 aprile 1990. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. - E' logicamente preliminare l'incidentale affermazione che per ragioni la cui esposizione sarebbe qui affatto superflua e che saranno, in ipotesi, in seguito illustrate - questo tribunale si ritiene territorialmente competente in relazione al luogo (Roma) dove Enzo Tortora fu tratto in arresto. 2. - E va altresi' immediatatamente chiarito che le prospettate censure di incostituzionalita' dell'art. 473, quinto comma, del c.p.p., in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui in ragione della segretezza delle deliberazioni adottate in camera di consiglio, preclude l'esercizio di un'adeguata difesa da parte del giudice, membro del collegio, che sia convenuto in giudizio in base alla previgente normativa, appaiono manifestamente infondate laddove muovono dall'implicito e non condivisibile assunto che competa al giudice offrire la prova (negativa) dell'assenza dei presupposti di cui all'art. 55 del c.p.c. La questione potrebbe, se mai, porsi in senso opposto; ma sarebbe, allo stato, manifestamente priva di rilevanza. 3. - Conviene dunque dar subito conto delle considerazioni che sottendono la presente ordinanza di rimessione: prima fra tutte, dell'opinione del collegio che l'art. 56 del c.p.c., in seguito al referendum abrogativo, non sia piu' allo stato applicabile, in quanto norma processuale, come tale non ultrattiva. Priva di fondamento pare, infatti, la prospettazione secondo la quale la norma atterrebbe ad uno dei presupposti costitutivi (autorizzazione del Ministro) del diritto al risarcimento in capo al soggetto leso dall'attivita' illecita del giudice, onde non potrebbe disconoscersene la natura sostanziale, con conseguente immanente applicabilita' ai casi nei quali - come nella specie - l'illecito si prospetti essere stato commesso al tempo della sua vigenza. Vero e', invece, che essa ha natura certamente processuale laddove, assumendosi realizzati i presupposti dell'insorgenza del diritto di credito ( ex art. 55 del c.p.c.), rimuove un ostacolo all'esercizio dell'azione: id est, alla tutela giudiziale del diritto gia' sorto, tramite, appunto, il processo. 4. - Tanto premesso, a meno di appagarsi di una concezione del tutto formalistica dell'ordinamento giuridico, non puo' peraltro negarsi che gli artt. 55 e 56 (e 74) del c.p.p. costituissero un sistema. Nel quale, da un lato la tassativa restrizione dei casi in cui e' configurabile la responsabilita' del giudice, dall'altro l'improponibilita' della domanda senza l'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia, miravano entrambe a contenere il fenomeno dell'azione di responsabilita' contro un magistrato. E cio' un funzione dell'esigenza di evitare che a causa dell'ineluttabilmente frequente convinzione del soccombente, nel conflitto di interessi dal giudice risolto, che non al suo torto la soccombenza fosse eziologicamente da correlare bensi' al comportamento illecito del giudice, questi potesse pressoche' sistematicamente esser chiamato a rispondere del proprio operato; con virtualmente infinita serie di processi indotti, conseguente impossibile raggiungimento di certezze, frustrazione dello stesso telos della giurisdizione in ogni societa' civile. Ne', in tale ottica, alcun determinante rilievo contrario puo' conferirsi alla circostanza che da molti - anche da parte attrice nel presente giudizio, per l'ipotesi in cui si fosse invece ritenuto ancora applicabile l'art. 56 del c.p.c. - si dubitasse della legittimita' costituzionale proprio di tale disposizione. A parte, invero, l'opposto parere della stessa Corte costituzionale (sentenze nn. 2/1968 e 26/1987), sta il fatto che la disposizione di cui all'art. 56 del c.p.c. comunque costituiva parte integrante del sistema appena delineato; che esso non esiste piu' ed e' stato sostituito da un diverso sistema (legge 13 aprile1988, n. 117); che, tuttavia, essendo inibita la applicazione di tale legge a fatti commessi prima della sua entrata in vigore ( ex art. 19, secondo comma) ed ostando a quella dell'art. 56 del c.p.c. ai fatti anteriori alla abrogazione la sua natura di norma processuale, dovrebbe al caso in esame farsi applicazione del solo art. 55 del c.p.c. Tal che deve esaminarsi se tale disposizione, avulsa dal sistema nel quale si inseriva, sia o meno suscettibile di creare discrasie funzionali e se, in particolare, sia compatibile con la Carta; giacche', ove la risposta fosse in ipotesi sul secondo punto negativa, sarebbe mestieri rinvenire alternative soluzioni costituzionalmente corrette in relazione ai fatti commessi prima della sua abrogazione, per i quali la domanda sia stata tuttavia proposta in epoca successiva all'8 aprile 1988 (data del verificarsi dell'effetto abrogativo). 5. - Ebbene, sotto il profilo della discrasia funzionale, non e' possibile che limitarsi a neutre osservazioni empiriche: che, cioe', dopo l'8 aprile 1988, sono state nell'arco di pochi mesi promosse, innanzi a questo tribunale, cause contro magistrati per addotta responsabilita' civile (per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della nuova legge) in numero di gran lunga superiore a quello di tutte le cause instaurate, in base alla stessa causa petendi, negli oltre quarantasette anni decorsi dell'entrata in vigore del vigente codice di rito al 7 aprile 1988. Inoltre, lo stesso legislatore del 1988 ha ritenuto che una fase volta alla delibazione dell'ammissibilita' fosse imprescindibile laddove, disciplinando ex novo la materia, ha previsto la necessita' del giudizio preventivo sul punto da parte del tribunale in camera di consiglio (art. 5, legge n. 117/1988), cosi' mostrando, in parte de qua, singolare uniformita' di valutazione rispetto a quella operata dal legislatore dell'epoca precostituente (1940). Sicche' la carenza di una disciplina positiva in ordine agli illeciti che si assumessero esauriti prima del verificarsi dell'effetto abrogativo ma per i quali la domanda fosse proposta in epoca successiva, pare piuttosto il frutto di una incompleta raffigurazione della esigenza di dettare norme intertemporali, piuttosto che il risultato di positivo esercizio di sciente discrezionalita' legislativa; che ben potrebbe in astratto estrinsecarsi tramite attivita' omissiva ma della quale non risulta esservi sintomaticamente traccia nei pur ponderosi lavori preparatori. E' dunque univoca la conclusione che il legislatore, se il problema si fosse raffigurato, avrebbe, nello stabilire la inapplicabilita' della legge n. 117/1988 ai fatti commessi prima della sua entrta in vigore, altresi' dettato una positiva disciplina sul punto. A meno di ritenere, essendo la previsione di cui all'art. 19, secondo comma, della legge n. 117/1988 del tutto superflua in riferimento alle norme di diritto sostanziale (art. 55 del c.p.c.), che tanto esso appunto intese; e, per tale via, concludere nel senso dell'immanente applicabilita', nei casi di specie, dell'art. 56 del c.p.c. Ma sarebbe allora sommamente opportuno il pronunciamento sul punto della Corte costituzionale, alla quale soltanto sarebbe possibile, con l'autorevolezza che non ad altri compete, mediante sentenza interpretativa di rigetto, definitivamente fugare dubbi che - ove difettasse una pronuncia nel merito - potrebbero provocare, per lungo lasso di tempo, opposte decisioni (e potenzialmente inutili istruttorie); in astratto risolventesi anche in conflitto negativo tra poteri dello Stato ove la domanda fosse ritenuta improponibile in difetto di autorizzazione ed il Ministro di grazia e giustizia a sua volta ritenesse - com'e' per tabulas provato abbia gia' fatto in caso analogo - che non v'e' luogo all'applicazione dell'art. 56 del c.p.c. V'e', peraltro, altra teoricamente possibile interpretazione dell'art. 19, secondo comma, della legge n. 117/1988, che testualmente recita: "La presente legge non si applica ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato, nei casi previsti dagli artt. 2 e 3, anteriormente alla sua entrata in vigore". Che, cioe', il legislatore abbia bensi' escluso l'applicazione della stessa nei casi previsti dagli artt. 2 e 3, ma non anche nel caso in cui la norma sostanziale applicabile fosse l'art. 55 del c.p.c.; con la conseguenza che, per i fatti anteriori, l'art. 55 del c.p.c. sarebbe la norma sostanziale e l'art. 5, della legge n. 117/1988, quella "processuale" applicabile in luogo dell'art. 56 del c.p.c. Ma si darebbe in tal modo ad un monstrum giuridico, con problemi ermeneutici davvero irrisolvibili sol che si pensi, a tacer d'altro, che al giudizio di ammissibilita' "deve" partecipare lo Stato (art. 5, primo comma, in relazione all'art. 2, primo comma); e che esso verte, oltre che sulla deliberazione della non manifesta infondatezza della domanda, anche sul controllo dell'intervenuto rispetto dei termini e dei presupposti di cui agli artt. 2, 3 e 4 (art. 5, secondo comma), contemplanti competenze, condizioni e decadenze del tutto ignote all'art. 55 del c.p.c. Tale conclusione, se per un verso consente di escludere siffatta interpretazione del piu' volte citato art. 19, per altro verso vale anche a chiarire - ove sia condivisa - quale sia il solo possibile profilo della prospettanda questione di legittimita' costituzionale, elidendo anche il problema della ammissibilita', da parte della Corte costituzionale, della pronuncia che si domanda. La quale, per le ragioni gia' esposte, non sembra che comporterebbe alcuna discrezionale opzione tra le tante possibili, in quanto tale riservata al legislatore. Ma presupporrebbe solo la constatazione che non altra l'opzione poteva essere se non quella risolventesi nella previsione dell'ultrattivita' dell'art. 56 del c.p.c. Ne' essa potrebbe apparire in contrasto con la volonta' espressa dal corpo elettorale (i cui effetti abrogativi si erano gia' prodotti alla data di notifica dell'atto introduttivo). L'argomento, infatti, proverebbe troppo, atteso che esso si attaglierebbe anche all'art. 55 del c.p.c. (la cui applicabilita' e' invece, in base ai principi e secondo la dottrina, del tutto pacifica per i fatti "anteriori", con conseguenze assolutamente dirompenti sul piano ordinamentale (irresponsabilita' assoluta? applicazione delle norme del testo unico sugli impiegati civili dello Stato? dell'art. 2043 tout court?). 6. - Il legislatore, dunque, (opportunamente) inibendo con la disposizione di cui all'art. 19, secondo comma, della legge n. 117/1988 l'immediata applicabilita' delle "nuove" norme processuali (art. 5 della stessa legge) ai processi promossi dopo l'abrogazione dell'art. 56 del c.p.c., ha dettato una disposizione in deroga al principio tempus regit actum, in forza del quale i "nuovi" processi per "vecchi" fatti sarebbero stati invece regolati in base alla disciplina previgente, quanto agli aspetti sostanziali, ed in base alla nuova quanto agli aspetti processuali. Ma, cosi' facendo, ha omesso di provvedere in ordine al "filtro" per i fatti passati, lasciando in tal modo alterato il sistema, in esito al referendum abrogativo (non costituzionalmente censurabile, in quanto fatto e non "atto" normativo). Sembrerebbe allora doversi denunciare l'art. 19, secondo comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117, come da questa stessa sezione del tribunale gia' ritenuto con due precedenti ordinanze di rimessione in date 24 novembre 1989 e 18 dicembre 1989. Senonche', re perpensa, la disposizione potrebbe essere ritenuta non applicabile al presente giudizio (tra l'altro promosso prima dell'entrata in vigore della legge n. 117/1988), con conseguente irrilevanza della questione. Pare doversi altresi' escludere che la disposizione denuncianda possa individuarsi nell'art. 1, del d.P.R. 9 dicembre 1987, n. 497, con il quale, in esecuzione degli artt. 38, della legge 25 maggio 1970, n. 352, e 2, della legge 7 agosto 1987, n. 332, fu determinata nel massimo posibile (centoventi giorni) la dilazione della data del verificarsi dell'effetto abrogativo referendario. E cio' vuoi in ragione della dubbia forza di legge del decreto ai fini di cui all'art. 134 della Costituzione, sia perche' non altro potere il Presidente della Repubblica avrebbe potuto esercitare che quello in concreto esercitato. Ancor meno, poi, potrebbero censurarsi le disposizioni delle leggi del 1970 e del 1987 in materia di referendum. 7. - Onde il dubbio di costituzionalita' va appuntato sugli artt. 55 e 74 del c.p.c., dacche' tali disposizioni - senza la disciplina di cui all'art. 56 del c.p.c., dopo l'abrogazione referendaria inapplicabile ai fatti commessi all'epoca della sua vigenza, nei giudizi successivamente instaurati - sembrano confliggere: a) con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, sotto il profilo dell'ingiustificata disparita' di trattamento fra il magistrato che, per pretesa responsabilita' derivante da esercizio di attivita' giurisdizionale posta in essere prima dell'entrata in vigore della legge n. 117/1988, sia stato convenuto in giudizio in epoca antecedente all'8 aprile 1988 (nel qual caso era necessaria l'autorizzazione di cui all'art. 56 del c.p.c.), ed il magistrato che, in ipotesi anche per i medesimi fatti, sia stato convenuto in giudizio dopo tale data (come nel caso di specie) benche' il legislatore abbia inequivocamente mostrato di ritenere comunque necessario, quale che sia la disciplina della materia, un "filtro"; b) con l'art. 25, primo comma, della Costituzione, sotto il profilo della possibilita' per l'attore - in relazione alla scelta della data di notifica dell'atto di citazione - di sottrarre il giudizio al giudice che sarebbe stato designato in base al criterio di cui all'art. 56, secondo comma, del c.p.c.; ovvero, viceversa, di determinarlo in base ai criteri ordinari; c) con l'art. 97, primo comma, della Costituzione - della Corte costituzionale ritenuto parametro regolante anche la disciplina dell'attivita' degli organi dell'amministrazione della giustizia (sentenze nn. 86/1982 e 18/1989) - sotto il profilo della inutile ed indeterminabile proliferazione di domande risarcitorie (non elisa, nel numero, dalle restrizioni sostanziali poste dall'art. 55 del c.p.c., che attengono alla deliberazione del merito ma non impediscono la proposizione della domanda) nei confronti di chi sia istituzionalmente preposto alla soluzione di conflitti di interessi e sia dunque piu' di ogni altro esposto ad azioni pretestuose, strumentali o emulative; d) con gli artt. 101, primo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, sotto il profilo della posibilita' di incidere, mediante il possibile uso sistematico e strumentale del processo come forma di intimidazione senza alcuna restrizione, sulla indipendenza di giudizio del giudice. 8. - La questione e' senz'altro rilevante ai fini della definizione del giudizio, posto che la domanda - siccome non preceduta dalla autorizzazione del Ministro - andrebbe dichiarata improcedibile nel caso di declaratoria della illegittimita' costituzionale della disposizione denunziata. Improcedibile - non a caso s'e' detto - e non improponibile, in relazione al principio in base al quale le condizioni di proponibilita' sopravvenute in corso di causa si trasformano in condizioni di procedibilita'; con la possibilita', per il giudice, di assegnare un termine per l'espletamento dell'attivita' necessaria a consentirne il venir in essere, in ipotesi sospendendo il giudizio.