ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio promosso con ricorso della Regione Lombardia notificato
 il 28 settembre 1990, depositato in Cancelleria l'8 ottobre 1990, per
 conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione agli
 artt. 2, quinto comma, 4, sesto comma, e 6, primo,  secondo  e  terzo
 comma,  del  decreto  del  Ministro  dell'ambiente  12  luglio  1990,
 intitolato  "Linee  guida  per  il   contenimento   delle   emissioni
 inquinanti  degli  impianti  industriali  e  la fissazione dei valori
 minimi di emissione", ed iscritto al n.  33  del  registro  conflitti
 1990;
    Visto  l'atto  di  costituzione  del  Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  dell'11  dicembre  1990  il Giudice
 relatore Antonio Baldassarre;
    Uditi   l'Avvocato  Valerio  Onida  per  la  Regione  Lombardia  e
 l'Avvocato dello Stato Pier  Giorgio  Ferri  per  il  Presidente  del
 Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la Regione
 Lombardia ha proposto conflitto di attribuzione nei  confronti  dello
 Stato  in  relazione  al decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio
 1990, intitolato "Linee guida per  il  contenimento  delle  emissioni
 inquinanti  degli  impianti  industriali  e  la fissazione dei valori
 minimi di emissione", domandando che  sia  dichiarata  l'incompetenza
 dello Stato in relazione ai poteri esercitati con gli artt. 2, quinto
 comma, 4, sesto comma,  e  6,  primo,  secondo  e  terzo  comma,  del
 suddetto   decreto,  articoli  dei  quali  chiede  consequenzialmente
 l'annullamento.  La  ricorrente  ritiene,   infatti,   che   con   le
 disposizioni appena citate lo Stato abbia violato gli artt. 117 e 118
 della Costituzione, nell'attuazione ad essi data  dall'art.  101  del
 d.P.R.  24  luglio  1977,  n. 616, e dall'art. 4 del d.P.R. 24 maggio
 1988, n. 203, che attribuiscono alle regioni la tutela  dell'ambiente
 dall'inquinamento atmosferico.
    Ad  avviso  della  ricorrente,  oltre  che  tardivo,  ripetitivo e
 incompleto, il decreto ministeriale  impugnato,  il  quale  e'  stato
 emanato  a  norma  dell'art.  3, secondo comma, del d.P.R. n. 203 del
 1988, conterrebbe una puntuale violazione dell'art. 4,  primo  comma,
 lettera  d),  del  medesimo  decreto  n.  203 del 1988, nel disporre,
 all'art. 2, quinto comma, che le regioni  possono  fissare  i  valori
 limite  di  emissione  "per  le  sole sostanze previste" nello stesso
 decreto ministeriale o in altri emanati allo stesso titolo,  anziche'
 per   tutte  le  sostanze  emesse  nell'atmosfera,  come  sembrerebbe
 richiesto  dal  citato  art.  4,  che,  nel  punto  prima  ricordato,
 significativamente   tiene   fermi,   in  assenza  di  determinazioni
 regionali, i valori  di  emissione  definiti  nelle  linee  guida.  A
 conferma  di  cio',  la  ricorrente  rammenta  l'esistenza  a livello
 comunitario di un principio, ora codificato negli artt. 130 e 100  A,
 terzo  comma, del Trattato CEE, introdotti con l'Atto Unico del 1986,
 relativo alla "concorrenza" fra Comunita', Stato e  regioni  al  fine
 del raggiungimento della massima tutela ambientale possibile.
    Sempre  ad  avviso  della ricorrente, illegittimo sarebbe altresi'
 l'art. 4, sesto comma, del decreto impugnato, il  quale  dispone  che
 "un  valore  limite di emissione si intende rispettato quando risulta
 inferiore  o  uguale  al  valore   medio   dei   risultati   ottenuti
 dall'analisi   dei  campioni  prelevati  (...)".  Tale  disposizione,
 letteralmente  intesa,  sembrerebbe  dire  che  le  emissioni  di  un
 impianto,  nel loro valore medio, possano superare i valori limite di
 emissione,  dal  momento  che  questi  si  intendono  rispettati   se
 risultano  eguali o inferiori al valore medio. In realta', per essere
 legittimo,  l'articolo  impugnato  dovrebbe  disporre,   secondo   la
 ricorrente,  che il valore limite e' rispettato se il valore medio di
 emissione e' ad esso valore limite eguale o inferiore, vale a dire se
 questo non e' superato.
    Infine,   la   Regione  Lombardia  ritiene  lesivo  delle  proprie
 competenze l'art. 6 del decreto impugnato. Nei suoi primi due  commi,
 tale  articolo  prevede,  rispettivamente:  a)  che  con l'entrata in
 vigore  del  decreto  impugnato  "cessano  di   avere   efficacia   i
 provvedimenti  regionali  difformi  da  quanto  stabilito nel decreto
 medesimo"; b) che le regioni possono riapprovare in tutto o in  parte
 i   provvedimenti  preesistenti  che  riguardino  valori-limite  piu'
 restrittivi, ma solo "in relazione a determinate aree" o "per  talune
 categorie di impianti che richiedano la determinazione di particolari
 condizioni di costruzione o di esercizio".
    Secondo la ricorrente, non avrebbe alcun fondamento giuridico - o,
 quantomeno, questo non si rinviene ne' nell'art. 4 del d.P.R. n.  203
 del  1988,  ne' nel d.P.C.M. 21 luglio 1989 - la pretesa ministeriale
 di far decadere hic et nunc tutti i provvedimenti regionali  difformi
 da  quanto  previsto nel decreto impugnato, senza nemmeno distinguere
 tra  provvedimenti  regionali  piu'  o   meno   restrittivi.   Questa
 disposizione,   continua   la   ricorrente,   verrebbe  a  creare  un
 illegittimo "effetto ghigliottina", che produrrebbe immediatamente un
 "vuoto"  provvedimentale,  per il quale, incongruamente, centinaia di
 provvedimenti  decadranno  e  dovranno  di  volta  in  volta   essere
 nuovamente  riadottati.  Piu'  corretto  sarebbe  stato,  secondo  la
 ricorrente,  che  si  fosse  lasciato  svolgere  il  principio   gia'
 esistente,  e  riformulato  nel secondo comma dell'articolo in esame,
 che impone alle regioni di adeguarsi alla normativa statale.
    Un'ulteriore illegittimita' sussisterebbe in relazione all'art. 6,
 secondo comma, in quanto, in difformita' dall'art.  4,  primo  comma,
 lettera  e),  del  d.P.R. n. 203 del 1988, che autorizza le regioni a
 fissare valori limite delle emissioni  piu'  restrittivi  dei  valori
 minimi definiti nelle linee guida "per zone particolarmente inquinate
 o per specifiche esigenze  di  tutela  ambientale",  la  disposizione
 impugnata  concede  la  stessa  facolta'  "in relazione a determinate
 aree" o per talune  categorie  di  impianti  richiedenti  particolari
 condizioni di costruzione e di esercizio.
    Infine,  ad  avviso  della  ricorrente,  sarebbe illegittimo anche
 l'art. 6, terzo comma, il quale creerebbe un grave "vuoto" di  tutela
 ambientale,  considerato  che per esso le disposizioni regionali piu'
 restrittive cessano di avere efficacia "comunque dal 30 aprile 1991",
 anche  in  assenza  dei  piani  di  risanamento previsti dall'art. 4,
 lettera e, del d.P.R. n. 203 del 1988.
    2.  - Il Presidente del Consiglio dei ministri si e' costituito in
 giudizio chiedendo che il ricorso sia  dichiarato  per  piu'  profili
 inammissibile e, comunque, non fondato.
    Inammissibili sarebbero, ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, le
 censure relative all'art. 2, quinto comma, e all'art. 4, sesto comma:
 le prime, infatti, concernerebbero il merito della disposizione e non
 inciderebbero  sulle  competenze  regionali;  le  altre,  invece,  si
 risolverebbero   semplicemente  in  una  critica  della  formulazione
 tecnica di quanto disposto.
    Non  fondate  sarebbero,  in  ogni  caso,  le  contestazioni mosse
 all'art. 2, quinto comma, considerato che quest'ultimo  riprodurrebbe
 sostanzialmente la ripartizione di competenze gia' disposta dall'art.
 4 del d.P.R. n. 203 del  1988,  che  questa  Corte  ha  ritenuto  non
 contraria  a  Costituzione  con  la sentenza n. 101 del 1989. Secondo
 tale ripartizione, confermata dal d.P.C.M. 21 luglio 1989, allo Stato
 spettano  la  fissazione  delle  linee  guida,  la determinazione dei
 valori minimi e massimi di emissione,  nonche'  l'individuazione  dei
 criteri   temporali  per  l'adeguamento  progressivo  degli  impianti
 esistenti rispetto alla  nuova  normativa.  E'  solo  all'interno  di
 questo   quadro   che   le   regioni   possono  adottare  le  proprie
 determinazioni, soprattutto per quanto  riguarda  la  fissazione  dei
 valori  di emissione, salvo i poteri derogatori ad esse attribuiti in
 relazione alle zone particolarmente inquinate o a specifiche esigenze
 di  tutela  ambientale, ove cio' si renda necessario per l'attuazione
 dei piani di risanamento. In  base  a  cio',  l'art.  2  del  decreto
 impugnato  ha  definito  le  linee  generali  di  contenimento  delle
 emissioni limitatamente agli impianti esistenti e con  riferimento  a
 un  notevole  numero  di  sostanze, anche se non esaustive di tutti i
 fenomeni inquinanti (tanto che sono espressamente previsti successivi
 aggiornamenti  e  integrazioni).  In  altri termini, in sede di prima
 regolamentazione e in presenza di una tecnologia ancora  in  fase  di
 perfezionamento  e  non  definita  nelle  sue  concrete  possibilita'
 antinquinamento, non sono state imposte agli imprenditori  scelte  di
 specifiche  tecnologie,  ma,  oltre all'indicazione di alcuni criteri
 generali, sono stati fissati solamente i valori minimi e  massimi  di
 emissione  per  le  sostanze  inquinanti,  di notevole numero, per le
 quali le conoscenze scientifiche consentono  un'adeguata  valutazione
 degli  effetti  nocivi. Su tali premesse, conclude l'Avvocatura dello
 Stato,  le  potesta'  regionali  possono  venir  esercitate  soltanto
 all'interno  dei  parametri  fissati  dallo Stato e soltanto dopo che
 questi siano stati definiti per tutto il territorio  nazionale,  onde
 non  creare disparita' di condizioni nella concorrenza fra le imprese
 (v. sent. n. 101 del 1989 di questa Corte).
    Del pari infondata sarebbe pure la censura mossa all'art. 4, sesto
 comma, poiche' tale disposizione, secondo l'Avvocatura  dello  Stato,
 tenderebbe  semplicemente  a disciplinare la tecnica di controllo del
 rispetto dei valori limite di emissione, nel senso  che  la  verifica
 ivi prevista dovrebbe esser fatta con riferimento al valore medio dei
 risultati ottenuti dall'analisi dei campioni prelevati.
    Infine,  relativamente alle censure mosse all'art. 6, l'Avvocatura
 dello Stato  osserva  che  le  disposizioni  impugnate  salvaguardano
 pienamente  le  competenze  delle  regioni,  consentendo  a queste di
 riesaminare la propria normativa alla luce delle  nuove  disposizioni
 statali  e  di  rimettere in vigore valori limite piu' restrittivi in
 considerazione delle particolari esigenze locali.
    3.  -  Nel  corso  della discussione orale nella pubblica udienza,
 mentre la Regione Lombardia ha sottolineato che nel decreto impugnato
 non  sono  stabilite le linee guida per la determinazione delle quali
 il  Ministro  dell'ambiente  era  autorizzato  ad   adottare   l'atto
 contestato,  l'Avvocatura  dello  Stato,  invece,  ha  osservato  che
 all'art. 6 del decreto  impugnato  dovrebbe  riconoscersi  un  valore
 meramente  dichiarativo,  nel senso che le disposizioni ivi contenute
 sarebbero una conseguenza  dell'esigenza  che,  dovendo  esserci  una
 previa  disciplina  statale,  e' solo in relazione a quest'ultima che
 dovrebbe verificarsi l'incompatibilita' e la  conseguente  cessazione
 di efficacia delle disposizioni regionali.
                         Considerato in diritto
    1. - La Regione Lombardia ha elevato conflitto di attribuzione nei
 confronti  dello  Stato  in  relazione  al   decreto   del   Ministro
 dell'ambiente  12  luglio 1990 (Linee guida per il contenimento delle
 emissioni inquinanti degli impianti industriali e la  fissazione  dei
 valori  minimi di emissione), chiedendo, sul presupposto che lo Stato
 abbia illegittimamente esercitato i poteri svolti con  gli  artt.  2,
 quinto  comma, 4, sesto comma, e 6, primo, secondo e terzo comma, che
 questi ultimi siano annullati. La ricorrente, infatti, ritiene che le
 disposizioni  appena citate abbiano menomato le competenze in materia
 di tutela  dell'ambiente  dall'inquinamento  atmosferico,  attribuite
 alle  regioni  dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, come attuati
 dall'art. 101 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e  dall'art.  4  del
 d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203.
    2. - Il primo profilo di contestazione delle competenze esercitate
 dallo Stato con il decreto del Ministro dell'ambiente 12 luglio  1990
 concerne  l'art.  2,  quinto  comma,  del  medesimo decreto, il quale
 dispone testualmente che "le  regioni  fissano  i  valori  limite  di
 emissione   ai  sensi  dell'art.  4,  lettera  d),  del  decreto  del
 Presidente della Repubblica 24 maggio  1988,  n.  203,  per  le  sole
 sostanze  previste dal presente decreto e da altri decreti emanati ai
 sensi dell'art. 3, comma secondo, lettera a), del citato decreto  del
 Presidente  della  Repubblica".  Secondo  la  Regione Lombardia, tale
 disposizione violerebbe  l'art.  4,  primo  comma,  lettera  d),  del
 decreto  n.  203 del 1988, in quanto prevede che le regioni fissino i
 valori limite "per le sole sostanze previste dal presente decreto", o
 da  altri  decreti  emanati  allo  stesso  titolo, e non per tutte le
 sostanze nocive emesse nell'atmosfera, come esigerebbe il citato art.
 4,  lettera  d), che, nell'ultima parte, sembra riferirsi a limiti da
 valere in ogni caso.
    La censura proposta e' priva di fondamento.
    2.1.  -  Come  questa  Corte  ha  riconosciuto  in  una precedente
 pronunzia  (v.  sent.  n.  101  del  1989),  la  ripartizione   delle
 competenze tra Stato e regioni in relazione alla tutela dell'ambiente
 dall'inquinamento atmosferico e' data essenzialmente  dal  d.P.R.  24
 maggio 1988, n. 203, emanato in attuazione delle direttive CEE numeri
 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203.
    Sulla base dell'art. 3, comma secondo, di tale atto legislativo il
 Ministro dell'ambiente, nel rispetto delle vigenti norme di  legge  e
 del  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri vo'lto a
 fissare e aggiornare i valori limite e i valori guida della  qualita'
 dell'aria  validi per tutto il territorio nazionale (ora vigente come
 d.P.C.M. 21 luglio 1989), e' chiamato a determinare e ad  aggiornare,
 con  proprio  decreto,  "le  linee  guida  per  il contenimento delle
 emissioni, nonche' i valori minimi e massimi di  emissione"  (lettera
 a),  e  a stabilire, sempre con proprio decreto, "i criteri temporali
 per l'adeguamento progressivo degli impianti esistenti" rispetto alla
 nuova normativa (lettera d).
    Ai  sensi  del  successivo  art.  4,  le regioni sono competenti a
 fissare "i valori delle  emissioni  di  impianti,  sulla  base  della
 migliore  tecnologia  disponibile  e tenendo conto delle lineee guida
 fissate dallo Stato e dei relativi valori di emissione" (lettera  d),
 salva  la  facolta',  per le stesse, di stabilire valori limite delle
 emissioni piu' restrittivi dei valori minimi  di  emissione  definiti
 nelle linee guida in relazione a zone particolarmente inquinate o per
 specifiche esigenze di tutela ambientale, nell'ambito  dei  piani  di
 rilevamento,  prevenzione,  conservazione  e  risanamento del proprio
 territorio (lettera e).
    Lo  stesso  d.P.R. n. 203 detta, inoltre, una specifica disciplina
 per gli impianti esistenti prevedendo un  sistema  di  autorizzazioni
 provvisorie  finalizzato  al  contenimento  delle  emissioni  entro i
 limiti  fissati  dalla  normativa  statale   e   dalle   prescrizioni
 regionali.
    Il  successivo  atto di indirizzo e coordinamento approvato con il
 d.P.C.M. 21 luglio 1989, oltre a richiamare la medesima  ripartizione
 delle  competenze  e a ribadire che "le regioni stabiliscono i valori
 limite di emissione in via generale per categorie  d'impianti  e  per
 sostanze  inquinanti nel quadro delle linee guida e dei valori minimi
 e massimi stabiliti dallo Stato" (punto 5), prevede, sulla scorta  di
 quanto  disposto  in  via di principio dal d.P.R. n. 203 del 1988, un
 articolato regime tanto  per  quel  che  riguarda  l'esercizio  delle
 competenze  regionali  (punti 6 e 7), quanto per quel che riguarda il
 progressivo adeguamento degli impianti  esistenti  alle  prescrizioni
 poste  sia  a  livello  statale  sia  a livello regionale (punti 14 e
 seguenti).
    Il  punto  6  determina, infatti, un regime provvisorio, in attesa
 della emanazione dei decreti ministeriali di fissazione  delle  linee
 guida  e  dei valori minimi e massimi di emissione, stabilendo che le
 autorizzazioni devono essere rilasciate  sulla  base  dell'osservanza
 delle  norme  contenute  nel  d.P.R.  n.  203 del 1988, di altri atti
 normativi e di indirizzo ivi indicati e delle leggi regionali vigenti
 anteriormente  al  ricordato  d.P.R.  n.  203.  Successivamente  alla
 emanazione da parte dello Stato delle linee guida per il contenimento
 delle  emissioni  e  dei  valori limite minimi e massimi di emissione
 (punto 7), le autorizzazioni regionali debbono essere rilasciate  nel
 rispetto  delle  prescrizioni  poste  dallo  Stato,  salvo che non si
 tratti di emissioni inquinanti per le quali  non  esistano  specifici
 valori  limite di emissione, al cui riguardo le regioni sono tenute a
 conformare le autorizzazioni ai limiti previsti per sostanze similari
 dal punto di vista chimico e degli effetti biologici e ambientali.
    Per   quanto  riguarda  il  graduale  adeguamento  degli  impianti
 esistenti agli obiettivi di contenimento delle emissioni in relazione
 alle  caratteristiche  e  allo  stato degli impianti stessi (migliori
 tecnologie  disponibili,   oneri   economici,   volume   annuale   di
 produzione,  ammortamento  e durata della vita residua dell'impianto,
 eventuali rilocalizzazioni,  ampliamenti  o  riduzioni  di  attivita'
 produttiva,  etc.),  il  punto  n. 14 del d.P.C.M. 21 luglio 1989, in
 diretta attuazione degli artt. 12 e 13 del d.P.R. n.  203  del  1988,
 dispone  che  "indipendentemente  dalla emanazione del decreto di cui
 all'art. 3, comma secondo, lettera a),  del  decreto  del  Presidente
 della  Repubblica  n.  203  e  dalla  presentazione  del  progetto di
 adeguamento (...), la regione, in conformita' al disposto di  cui  al
 punto  n.  6,  puo'  rilasciare un'autorizzazione provvisoria, con la
 quale stabilisce contestualmente i limiti di emissione provvisori per
 l'impianto,  i  metodi  di  campionamento  e analisi, le prescrizioni
 tecniche attraverso le quali ottenere una riduzione delle  emissioni,
 nonche'  i  tempi e i modi per l'adeguamento degli impianti", tempi e
 modi che in ogni caso "dovranno conformarsi alle linee guida statali,
 ove emanate".
    L'autorizzazione  provvisoria  e' sostituita da quella definitiva,
 sia  quando  le  prescrizioni  contenute  nella  stessa  siano  state
 osservate,  sia  quando  sia  inutilmente decorso il termine concesso
 alle  autorita'  competenti  per  il   rilascio   dell'autorizzazione
 provvisoria  e  l'impresa  interessata  abbia eseguito il progetto di
 adeguamento degli impianti esistenti (art. 13, terzo comma, d.P.R. n.
 203  del  1988). In questi casi, la regione puo' dettare prescrizioni
 integrative, tenendo anche conto della fissazione dei  valori  limite
 della   qualita'   dell'aria   e  delle  emissione,  sempreche'  tale
 fissazione sia stata compiuta dallo Stato.
    2.2.  - Dall'insieme delle disposizioni citate si deduce un quadro
 normativo estremamente preciso nella ripartizione delle competenze  e
 particolarmente  attento  ad  assicurare che gli enti investiti delle
 competenze in materia di protezione dell'ambiente siano  messi  nella
 condizione di apprestare forme di tutela realistiche ed effettive.
    Sotto  il  primo  profilo,  infatti,  il d.P.R. n. 203 del 1988 ha
 distribuito le competenze fra Stato e regioni, non  gia'  ritagliando
 per  l'uno  e per le altre distinti ambiti oggettivi, ma ammettendo i
 poteri dell'uno e  delle  altre  nello  stesso  settore  materiale  e
 dividendoli secondo il loro grado di astrattezza. In tal modo, mentre
 ha attribuito allo Stato la determinazione delle linee  guida  e  dei
 valori  minimi  e  massimi  di  emissione  per  ogni tipo di sostanze
 inquinanti,  nello  stesso  tempo  ha  conferito  alle   regioni   la
 fissazione  dei  valori  di emissione per categorie di impianti e per
 sostanze inquinanti nel quadro delle direttive e dei limiti (minimi e
 massimi)  posti  dallo Stato. In altri termini, poiche' le competenze
 regionali possono essere esercitate  all'interno  degli  spazi  posti
 dallo Stato nello svolgimento delle proprie attribuzioni, non si puo'
 non condividere l'affermazione  fatta  dall'Avvocatura  dello  Stato,
 secondo  la  quale  le  regioni  sono poste in grado di esercitare le
 competenze previste dall'art. 4 del d.P.R. n. 203 del  1988  soltanto
 dopo  che  lo  Stato  abbia  determinato  i  valori  limite, minimi e
 massimi, di propria spettanza.
    Questa  considerazione  corrisponde,  del  resto,  alla  posizione
 generale che il d.P.R. n. 203 del 1988 assicura allo Stato.  A  norma
 dell'art.   3,   secondo  comma,  lettera  d),  di  tale  decreto,  a
 quest'ultimo spetta  la  determinazione  dei  criteri  temporali  per
 l'adeguamento  progressivo degli impianti esistenti ai nuovi principi
 legislativi, in armonia con la configurazione normativa  dello  Stato
 come  il soggetto che scandisce i tempi, oltreche' per l'applicazione
 delle modalita' generali, per l'attuazione della  complessiva  tutela
 ambientale   di   fronte   alle  emissioni  atmosferiche  inquinanti.
 Esaminata alla luce dei principi costituzionali, la  posizione  dello
 Stato   come   ente   di   programmazione  generale  dell'adeguamento
 progressivo degli impianti  esistenti  ai  nuovi  principi  posti  in
 materia  di  tutela  dall'inquinamento  atmosferico e' tutt'altro che
 irrazionale. Essa, infatti,  e'  pienamente  giustificata  tanto  dal
 fatto  che  lo  Stato  e'  in  possesso  di  strumenti  ufficiali  di
 conoscenza sulle caratteristiche inquinanti delle  sostanze  e  sulle
 migliori  tecnologie  applicabili  per  contenerne  o  eliminarne  la
 nocivita',  i  quali  sono  incomparabilmente  superiori   a   quelli
 disponibili  da  parte  delle  regioni,  quanto dal fine di garantire
 sull'intero territorio nazionale un trattamento uniforme  alle  varie
 imprese   operanti   in  concorrenza  fra  loro,  onde  non  produrre
 arbitrarie disparita' sulle ragioni dei costi aziendali in dipendenza
 di  vincoli  imposti  in  modo  differenziato  sia  sotto  il profilo
 spaziale, sia sotto quello temporale  (v.  anche  sent.  n.  101  del
 1989).
    Ne'  si  puo'  dire,  come  adduce  la ricorrente, che limitare la
 determinazione dei valori limite  di  emissione  alle  sole  sostanze
 previste dal decreto impugnato o da altri adottati allo stesso titolo
 comporti una menomazione all'esercizio delle competenze regionali  in
 materia di tutela dell'ambiente dall'inquinamento atmosferico.
    Le  considerazioni  gia'  svolte  e  le  norme  citate  nel  punto
 precedente della motivazione  portano,  innanzitutto,  ad  affermare,
 contro  gli argomenti proposti dalla ricorrente, che in materia opera
 un principio di gradualita' nell'attuazione della  tutela  ambientale
 in  ragione  del  complesso bilanciamento dei numerosi e contrastanti
 interessi in gioco, coinvolgente, da un  lato,  l'utilizzabilita'  di
 conoscenze scientifiche certe e di tecnologie efficaci e, dall'altro,
 il calcolo dei costi umani e  sociali  legati  agli  oneri  economici
 comportati  e, in particolare, alle riduzioni e alle rilocalizzazioni
 delle attivita' produttive, alle possibilita' di  sfruttamento  degli
 impianti  da  tempo  operanti,  alle riconversioni della produzione e
 cosi'  via.  Sicche'  non  e'  affatto  irrazionale,   come   osserva
 l'Avvocatura  dello  Stato,  che,  per  un  verso,  in  sede di prima
 definizione dei valori minimi e massimi  di  emissione,  il  Ministro
 dell'ambiente  abbia  fatto  riferimento  alle  sostanze  inquinanti,
 invero in numero non trascurabile, di fronte alle quali le conoscenze
 scientifiche  e le tecnologie applicabili garantiscono un'effettiva e
 sicura tutela e, per altro verso, si sia  lasciato  alle  regioni  la
 liberta'  di  scelta,  da  esercitarsi  caso  per  caso  in  sede  di
 autorizzazione, sui mezzi piu'  opportuni  e  sulle  tecnologie  piu'
 adeguate per raggiungere in tempi realistici gli obiettivi posti.
    Del  resto,  l'ampiezza  del potere autorizzatorio attribuito alle
 regioni rivela, in modo decisivo, come non possa avere alcuno  spazio
 la  preoccupazione  della ricorrente relativa alla possibile mancanza
 di tutela ambientale in conseguenza  della  delimitazione  alle  sole
 sostanze  previste  dal decreto impugnato della fissazione dei valori
 limite. Infatti, dal d.P.R. n. 203 del 1988 e dal successivo atto  di
 indirizzo  e coordinamento si deduce chiaramente, come si e' mostrato
 nella illustrazione del quadro normativo vigente,  che  in  relazione
 alle  sostanze per le quali lo Stato non abbia fissato le linee guida
 e i valori di emissione minimi e massimi,  la  tutela  ambientale  e'
 assicurata dalle regioni in sede di rilascio delle autorizzazioni.
    3.  -  Inammissibile  e' la censura che la Regione Lombardia muove
 all'art. 4, sesto comma, del decreto impugnato,  dal  momento  che  i
 rilievi  sollevati  dalla  ricorrente non hanno alcun rapporto con le
 norme costituzionali relative alla ripartizione delle competenze  fra
 Stato  e regioni in materia di tutela dell'ambiente dall'inquinamento
 atmosferico.
    La  Regione  Lombardia,  infatti,  contesta  la formulazione della
 disposizione impugnata, la quale, affermando che "un valore limite di
 emissione  si intende rispettato quando risulta inferiore o uguale al
 valore  medio  dei  risultati  ottenuti  dall'analisi  dei   campioni
 prelevati secondo le indicazioni del manuale U.N.I. CHIM. n. 158/88",
 lascia indubbiamente spazio, nella  sua  lettera,  alla  possibilita'
 interpretativa  che  le  emissioni  di  un  impianto, nel loro valore
 medio, possano superare i valori limite di emissione. Ma, per  quanto
 si  possa  condividere  l'osservazione  che  tale  disposizione sulla
 disciplina del  metodo  di  campionamento  non  sia  sufficientemente
 chiara  allo  scopo  di  affermare  che  il  valore limite puo' esser
 considerato rispettato solo se non e' superato dal  valore  medio  di
 emissione,  essa tuttavia non e' in grado di involgere alcuna lesione
 delle attribuzioni costituzionalmente garantite alle regioni.
    4.  -  Se  pure  per  motivi  di carattere piu' generale di quelli
 addotti dalla ricorrente,  va  invece  accolta  la  contestazione  in
 relazione  alle  norme  transitorie  contenute  nei  primi  tre commi
 dell'art. 6 del decreto impugnato.
    Al  primo comma, tale articolo dispone che con l'entrata in vigore
 del decreto considerato "cessano di avere efficacia  i  provvedimenti
 regionali  difformi".  Al secondo comma, lo stesso articolo autorizza
 le  regioni  interessate  "a  riapprovare  in  tutto  o  in  parte  i
 provvedimenti  concernenti  i  valori  limite  piu'  restrittivi, con
 proprie  deliberazioni  specificamente  motivate,  in   relazione   a
 determinate  aree",  nonche'  a fissare valori piu' restrittivi anche
 "per talune categorie di impianti che richiedano la determinazione di
 particolari  condizioni di costruzione o di esercizio, ai sensi della
 lettera e) dell'art. 4 del d.P.R. n.  203/88".  E,  al  terzo  comma,
 dispone   che  i  provvedimenti  previsti  dal  comma  precedente  in
 riferimento alle aree determinate "cessano  di  aver  efficacia  alla
 data  di  entrata in vigore dei piani previsti all'art. 4, lettere a)
 ed e) del d.P.R. n. 203/88 e comunque dal 30 aprile 1991". Ad  avviso
 della  ricorrente,  mentre  il  primo  e terzo comma, con la disposta
 cessazione  di  efficacia  di  provvedimenti   regionali,   sarebbero
 illegittimi  perche'  producono  un  "vuoto"  o, comunque, un ritorno
 indietro rispetto a una preesistente tutela  ambientale,  il  secondo
 comma, invece, lederebbe le competenze delle regioni sia per il fatto
 che autorizza queste ultime a una riapprovazione, ritenuta incongrua,
 di  provvedimenti  privati  di  efficacia  dallo  stesso decreto, sia
 perche' violerebbe l'art. 4, lettera e), del d.P.R. n. 203 del  1988,
 il quale prevede la possibilita' di limiti piu' restrittivi, non solo
 "per  zone  particolarmente  inquinate",  ma  anche  "per  specifiche
 esigenze    di   tutela   ambientale",   senza   alcuna   limitazione
 territoriale.
    L'insieme  delle  disposizioni  contestate  forma  un sistema, nel
 senso che si tratta di un complesso di norme la  cui  giustificazione
 unitaria  e'  data  dalla  statuizione della automatica cessazione di
 efficacia di tutti i provvedimenti  regionali  difformi  dal  decreto
 ministeriale  impugnato.  L'illegittimita',  sotto  il  profilo della
 lesione delle competenze  regionali,  del  sistema  di  norme  appena
 descritto  deriva, prima di ogni altra cosa, dal principio che in una
 Costituzione rigida, come la nostra, che  conferisce  alle  autonomie
 regionali  un  carattere politico e che connota la ripartizione delle
 competenze tra Stato e regioni  come  un  elemento  essenziale  della
 struttura  pluralistica  dell'ordinamento,  direttamente  incardinato
 nella   Carta   fondamentale   e   garantito   dalla    giurisdizione
 costituzionale,  non  puo'  lo  Stato  togliere,  con un proprio atto
 amministrativo, l'efficacia giuridica di provvedimenti adottati dalle
 amministrazioni regionali.
    Piu'   precisamente,  qualunque  possa  essere  la  qualificazione
 giuridica da attribuire alla cessazione  di  efficacia  prevista,  la
 fattispecie  oggetto  di  questo  giudizio  e'  data  da  un  atto di
 amministrazione  attiva  dello  Stato  che  opera   direttamente   su
 provvedimenti amministrativi regionali privandoli dell'efficacia loro
 propria. In realta', nel campo amministrativo, un potere  del  genere
 puo'  essere  legittimamente esercitato da soggetti che (attualmente)
 posseggono  la  stessa  competenza  che  sta   (o   stava)   a   base
 dell'adozione   degli   atti   colpiti   o   da   soggetti  che  sono
 gerarchicamente sovraordinati a quelli che abbiano adottato gli  atti
 medesimi.  Tuttavia,  la  base  costituzionale  della  divisione  fra
 l'ordinamento statale e quello regionale e fra le rispettive sfere di
 attribuzione,    oltreche'    la   natura   politica   dell'autonomia
 riconosciuta  alle  regioni,  precludono,  con  riferimento  al  caso
 esaminato, ogni possibilita' all'una e all'altra ipotesi.
    In  breve,  come  questa  Corte  ha  chiaramente  affermato  nella
 sentenza n. 229 del 1989 (punto n.  6  della  motivazione),  per  non
 considerare  illegittima  l'ipotesi  di  un  atto  di amministrazione
 attiva dello Stato che  puntualmente  pone  nel  nulla  provvedimenti
 amministrativi  regionali  "occorrerebbe muovere dall'accettazione di
 una visione monolitica dell'amministrazione pubblica  (...),  visione
 certamente  incompatibile  con  il disegno pluralista tracciato dalla
 Carta repubblicana, dove la valutazione anche politica di larga parte
 degli interessi locali risulta affidata alla competenza delle Regioni
 e delle Province  autonome,  con  apparati  distinti  da  quelli  del
 Governo e dell'amministrazione centrale".