ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 566, secondo
 comma,  del  codice  di  procedura  penale  del  1930,  promosso  con
 ordinanza emessa il 22 dicembre 1990 dalla Corte di Assise di appello
 di  Venezia  nel  procedimento  penale  a carico di Carlotto Massimo,
 iscritta al n. 197 del registro ordinanze  1991  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  14, prima serie speciale,
 dell'anno 1991;
    Visti gli atti di costituzione di Carlotto Massimo, Magello Carlo,
 Rossi Maria Giuseppina, nonche' l'atto di intervento  del  Presidente
 del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza pubblica del 4 giugno 1991 il Giudice relatore
 Giuliano Vassalli;
    Uditi gli avvocati Rodolfo Bettiol e  Giorgio  Tosi  per  Carlotto
 Massimo,  Piero  Longo  per Magello Carlo, Franco Antonelli per Rossi
 Maria Giuseppina e l'Avvocato dello Stato Paolo Di Tarsia di Belmonte
 per il Presidente del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - La  Corte  di  Assise  di  appello  di  Venezia,  chiamata  a
 giudicare  in  sede di rinvio sulla istanza di revisione proposta dai
 difensori di Massimo Carlotto, ha sollevato,  con  ordinanza  del  22
 dicembre  1990,  questione  di legittimita' costituzionale "dell'art.
 566, secondo comma, del codice  di  procedura  penale  del  1930,  in
 relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui la
 norma  denunciata  impone al giudice della revisione di confermare la
 sentenza di condanna, anche nel caso in cui gli elementi (o alcuni di
 essi), per i quali fu ammessa la revisione, siano risultati fondati o
 pienamente provati ed  essi,  valutati  unitariamente  agli  elementi
 raccolti nel corso del processo, realizzino la situazione probatoria,
 non  sufficiente  per  una  condanna,  di  cui all'art. 479, comma 3›
 c.p.p. 1930".
    La Corte rimettente ha cosi' sintetizzato la  vicenda  processuale
 dalla quale ha tratto origine il giudizio a quo.
    A  seguito dell'omicidio aggravato consumato in Padova ai danni di
 Margherita Magello, Massimo Carlotto veniva tratto a giudizio,  quale
 autore  materiale del crimine, davanti alla Corte di assise di Padova
 e da questa assolto per insufficienza di prove  con  sentenza  del  5
 maggio  1978.  Interposto gravame da parte del pubblico ministero, la
 Corte di assise di appello di Venezia riformava la sentenza di  primo
 grado  e,  riconosciuta  la responsabilita' del Carlotto in ordine al
 delitto  ascrittogli,  lo  condannava  alla  pena  di  anni   18   di
 reclusione.
    La  sentenza  diveniva  irrevocabile  il 19 dicembre 1982, essendo
 stato  rigettato  dalla  Corte  di  cassazione  il  ricorso  proposto
 dall'imputato avverso la sentenza del giudice di appello.
    Il 20 giugno 1988, la difesa del condannato ha proposto istanza di
 revisione  davanti  alla  Suprema  Corte,  deducendo  tre elementi di
 prova. Delibata favorevolmente  "l'evidenza"  e  la  "novita'"  delle
 prove,  con  sentenza  del 30 gennaio 1989, la Corte di cassazione ha
 annullato la sentenza di condanna e ha rinviato  per  nuovo  giudizio
 alla Corte di assise di appello di Venezia, odierna rimettente.
    Instaurato  il giudizio rescissorio (la cui prima udienza e' stata
 celebrata il 20 ottobre 1989) e all'esito di copiosa attivita' svolta
 in sede di rinnovazione del  dibattimento,  la  Corte  rimettente  e'
 pervenuta  alla conclusione di ritenere che dei tre elementi di prova
 dedotti a fondamento della istanza di revisione, solo  il  primo  sia
 rimasto   pienamente   provato;   ma   tale   circostanza,   valutata
 congiuntamente agli altri elementi favorevoli  al  condannato  emersi
 nel   corso   del   processo,   ha   indotto  la  Corte  a  ritenere,
 conclusivamente, che il complessivo quadro probatorio  determina  una
 "condizione  di  insuperabile incertezza obiettiva che legittimerebbe
 una  lettura  della  prospettazione   accusatoria   in   termini   di
 insufficienti prove per condannare". Tenuto conto, quindi, dei limiti
 posti  dal legislatore del 1930 all'istituto della revisione, l'unica
 statuizione possibile dovrebbe essere la conferma nella  sentenza  di
 condanna,  posto  che  l'art. 566, secondo comma, del codice abrogato
 non prevede la formula dubitativa tra le ipotesi di assoluzione.
    La  difesa  del  condannato,  si  precisa  nella  ordinanza,   nel
 sollevare  eccezione  di  illegittimita'  costituzionale  della norma
 impugnata, ha sostenuto che l'art. 254  del  decreto  legislativo  28
 luglio 1989, n. 271, recante le norme di attuazione, di coordinamento
 e  transitorie  del  nuovo codice di rito, avrebbe abrogato nella sua
 interezza l'art. 479 del codice di procedura penale del 1930, sicche'
 la formula del dubbio  non  potrebbe  essere  utilizzata  neppure  in
 negativo  agli  effetti  di  quanto  previsto  dall'art. 566, secondo
 comma, dello stesso codice. Ma una simile tesi e' stata disattesa dal
 giudice a quo in quanto, avendo  le  Sezioni  unite  della  Corte  di
 cassazione  affermato,  con  sentenza  del  3  febbraio  1990, che le
 disposizioni  transitorie  del  nuovo  codice  non  si  applicano  al
 procedimento  di  revisione,  ne  consegue  che  anche l'art. 254 del
 citato decreto legislativo n. 271 del  1989  non  puo'  incidere  sul
 precetto sancito dall'art. 566, secondo comma, c.p.p. 1930.
    Delibando la "fondatezza" della eccezione di costituzionalita', la
 Corte rimettente ha osservato che, alla luce della ricordata sentenza
 delle  Sezioni  unite,  se  ne  deve  concludere che, nel caso in cui
 l'istanza di revisione sia stata presentata alla Corte di  cassazione
 prima  della  entrata  in  vigore del nuovo codice e, sempre prima di
 tale data, la Corte non  ne  abbia  iniziato  la  trattazione,  vanno
 applicate  le  norme  del  nuovo  codice.  Sicche' - osserva la Corte
 rimettente - se il Carlotto avesse presentato l'istanza di  revisione
 dopo  l'entrata  in  vigore  del codice ovvero la Corte di cassazione
 avesse trattato l'istanza successivamente a quella data, il  Carlotto
 dovrebbe essere in base alle nuove norme assolto, tenendo conto della
 insufficienza di prove risultata all'esito del giudizio rescissorio.
    Tutto  cio'  premesso,  il  giudice  a  quo  osserva  che,  se  il
 legislatore e' libero di calibrare  ipotesi  specifiche  in  presenza
 delle  quali  puo' essere rimossa l'intangibilita' del giudicato, non
 gli e' consentito, pero', travalicare dalla discrezionalita' nel mero
 arbitrio e, quindi,  determinare  una  ingiustificata  disparita'  di
 trattamento.  Analogamente,  sempre  al  legislatore  e' riservato il
 potere di dettare la disciplina transitoria nel caso  di  successione
 nel tempo di norme processuali; tuttavia, rileva l'ordinanza, poiche'
 e'  assente  qualsiasi  norma  che  regoli  il regime transitorio nel
 procedimento di revisione e dovendosi, pertanto,  fare  appello  alla
 disciplina  generale sancita dall'art. 245 del decreto legislativo 28
 luglio 1989, n.  271,  si  genera  una  irragionevole  disparita'  di
 trattamento  tra  condannati ammessi alla revisione, nel senso che "a
 parita' di condizioni temporali  (sentenza  di  condanna  pronunciata
 prima   dell'entrata   in  vigore  del  nuovo  codice)  e  situazioni
 probatorie caratterizzate da incertezza, l'assoluzione del condannato
 e'  fatta  dipendere,  non  gia'  da  una  situazione   rigorosamente
 predeterminata  dalla  legge,  bensi'  dalla  circostanza,  meramente
 estrinseca e contingente, che la Corte di cassazione  abbia  iniziato
 la  concreta trattazione del procedimento di revisione della sentenza
 (pronunciata prima della entrata in vigore del nuovo codice di  rito)
 prima o dopo la data del 24 ottobre 1989".
    Si  deduce,  quindi,  oltre  che  la  violazione  del principio di
 uguaglianza, anche la violazione del principio di inviolabilita'  del
 diritto  di  difesa,  apparendo  quest'ultimo  "del  tutto impedito e
 frustrato.. .. .. con riferimento alla  giuridica  impossibilita'  di
 provare,   nel   giudizio   di   revisione,   l'insufficienza   o  la
 contraddittorieta' della prova".
    2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura Generale dello
 Stato, chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  inammissibile.
 Nell'atto  di  intervento, l'Avvocatura osserva che la sentenza delle
 Sezioni unite della Corte di cassazione del 3 febbraio-16 marzo 1990,
 alla quale, pure, il rimettente ha fatto  riferimento,  chiarisce  in
 modo assolutamente inequivoco che al procedimento di revisione non si
 applica la disciplina transitoria prevista dal titolo III del decreto
 legislativo  n.  271  del  1989,  con  la conseguenza che gli atti da
 compiere al momento della entrata in vigore del  nuovo  codice,  sono
 disciplinati  dalla  nuova  legge  in  base al principio tempus regit
 actum. Tuttavia, e  limitatamente  alla  individuazione  del  giudice
 competente,   tale  principio  soffre  un  temperamento  in  ossequio
 all'altro  della  perpetuatio  iurisdictionis,  per   il   quale   la
 competenza resta radicata davanti al giudice indicato dalla normativa
 abrogata  se  lo  stesso,  al  momento della successione delle norme,
 abbia gia' concretamente iniziato la  trattazione  del  procedimento.
 L'unica  eccezione,  dunque,  alla immediata applicazione della nuova
 disciplina, e' rappresentata  dalla  competenza,  sicche'  -  afferma
 l'Avvocatura  -  nel caso di specie trova applicazione non l'art. 566
 del codice abrogato, ma l'art. 631 del nuovo codice, con  tutto  quel
 che  ne  consegue  sul  piano  della rilevabilita' del dubbio ai fini
 della revoca della sentenza di condanna.
    La questione,  pertanto,  conclude  l'Avvocatura,  e',  prima  che
 infondata,  irrilevante, in quanto la norma denunciata non troverebbe
 applicazione nel giudizio a quo.
    3.  -  Costituitasi  in  giudizio,  la  difesa  del  condannato ha
 sostenuto che la piu' volte richiamata sentenza delle  Sezioni  unite
 prende  essenzialmente  in  considerazione  il punto della competenza
 avendo riguardo alla fase rescindente, mentre alla fase  rescissoria,
 tenuto  conto  della sua natura di procedimento di cognizione, devono
 applicarsi - come in effetti e' avvenuto, salvo che per la formula di
 assoluzione - le norme transitorie del nuovo codice.  Poiche'  l'art.
 245  di tali norme stabilisce che nei procedimenti in corso alla data
 di  entrata  in  vigore  del  nuovo  codice,   che   proseguono   con
 l'applicazione  delle norme anteriormente vigenti, si osserva, fra le
 altre, la disposizione dell'art.  254,  e  considerato  che  in  tale
 articolo  si  stabilisce  che  le sentenze di proscioglimento possono
 essere pronunciate solo con le formule previste dal  codice  (tra  le
 quali,  come  e' noto, non compare piu' la formula dubitativa), se ne
 desume l'abrogazione dell'art. 479, terzo comma, del codice del  1930
 e  la  modifica,  quanto al suo contenuto sostanziale, dell'art. 566,
 secondo comma, dello stesso codice.
    In  via  principale,  quindi,  la  difesa  del  condannato  chiede
 dichiararsi che nei procedimenti della specie trovino applicazione la
 regola  di giudizio e la formula assolutoria prevista dagli artt. 631
 e 530 del nuovo codice di rito, stante  la  lettura  che  deve  farsi
 dell'art.  566,  secondo  comma, del codice abrogato; in via gradata,
 sollecita   l'accoglimento   della   eccezione   di    illegittimita'
 costituzionale sollevata nel giudizio a quo.
    Con  una  diffusa memoria depositata il 21 maggio 1991, i medesimi
 difensori hanno poi sviluppato analiticamente  l'assunto  secondo  il
 quale  non  e'  possibile  distinguere  tra  formula della sentenza e
 regola di giudizio, giacche' altrimenti il giudice  si  troverebbe  a
 dover utilizzare una regola di cui manca la formula terminativa, e da
 cio'  hanno  desunto  che la modifica o la eliminazione della formula
 comporta la modifica o la eliminazione della regola.  Dal  fatto  che
 non   puo'   darsi   formula   senza  regola  e  viceversa,  consegue
 necessariamente  -  si  afferma  nella  memoria  -  che  anche   alla
 "revisione transitoria" si applica l'art. 254 del decreto legislativo
 n.  271  del  1989.  In conclusione, l'art. 245 dello stesso decreto,
 nell'elencare una  serie  di  norme  indistintamente  applicabili  ai
 "procedimenti  in  corso  alla  data di entrata in vigore del codice"
 (compresi, quindi, quelli pendenti davanti alla Corte di cassazione o
 in  sede  di  rinvio  anche   a   seguito   di   revisione),   indica
 esplicitamente  l'art. 254, la cui operativita' deve ritenersi estesa
 a tutto l'arco  della  vicenda  processuale  e  a  tutti  i  processi
 pendenti. Sicche' la regola stabilita dal codice del 1930, secondo la
 quale  l'insufficienza  di  prove  precludeva  la revisione, e' stata
 sostituita da quella opposta, in virtu' della quale il giudicato puo'
 essere travolto anche da una prova insufficiente e contraddittoria.
    4. - Nel giudizio di costituzionalita' si sono costituite anche le
 parti civili Maria Giuseppina Rossi e Carlo Magello.  Nei  rispettivi
 atti  di  costituzione,  identici  nel  contenuto, e' stata anzitutto
 dedotta l'inammissibilita' della questione, sul  presupposto  che  le
 norme eventualmente da denunciare dovevano essere gli artt. 245 e 254
 del  decreto  legislativo  n.  271  del  1989; in subordine, e' stato
 chiesto che la questione venga dichiarata infondata. Si e' osservato,
 in proposito, che l'art. 566 del codice abrogato non viola gli  artt.
 3  e 24 della Costituzione, anche se posto a raffronto con la diversa
 disciplina  dettata  dal  nuovo  codice;  e  cio'  "in  ragione delle
 profonde, ma non irragionevoli, diversita' di struttura del  processo
 inquisitorio  rispetto  a  quello accusatorio e della diversa valenza
 nell'uno e nell'altro caso del valore attribuito al giudicato".
                        Considerato in diritto
    1. - La Corte di assise d'appello di  Venezia  dubita  che  l'art.
 566,  secondo  comma,  del  codice  di  procedura penale del 1930 sia
 compatibile con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella  parte  in
 cui  impone  al giudice della revisione la conferma della sentenza di
 condanna, anche quando gli elementi (o alcuni di essi), per  i  quali
 fu ammessa la revisione, siano risultati fondati o pienamente provati
 e gli stessi, valutati unitariamente agli altri elementi raccolti nel
 processo,  realizzino  la  situazione probatoria, non sufficiente per
 una condanna, a norma dell'art.  479,  terzo  comma,  del  codice  di
 procedura penale del 1930.
    2. - Sia il rimettente che l'Avvocatura Generale dello Stato hanno
 posto   in   risalto,  per  sostenere  la  rispettiva  ed  antitetica
 ricostruzione del quadro normativo applicabile nel  giudizio  a  quo,
 singole  affermazioni contenute in una recente sentenza delle Sezioni
 unite della Corte di cassazione (Cass., Sez. un., 3 febbraio 1990, n.
 1), cosi' isolando fra loro, all'interno del tessuto argomentativo in
 cui  si  articola  quella  pronuncia,  aspetti  parziali,   che,   al
 contrario, si sostengono solo nell'alveo di una lettura unitaria.
   L'eccezione  di  inammissibilita'  per  irrilevanza sollevata dalla
 Avvocatura Generale dello  Stato  si  fonda,  infatti,  sull'assunto,
 paradigmaticamente enucleato dalla sentenza della Corte di cassazione
 ora  ricordata, secondo il quale nel procedimento di revisione non si
 applica la disciplina  transitoria  prevista  dal  titolo  terzo  del
 decreto  legislativo n. 271 del 1989, con la conseguenza che gli atti
 da compiere al momento della entrata in vigore del nuovo codice  sono
 disciplinati  dalla  nuova  legge  in  base al principio tempus regit
 actum.  Tale  principio  -  sostiene   l'Avvocatura   -   soffre   un
 temperamento  in ossequio all'altro della perpetuatio iurisdictionis,
 per il quale la competenza resta radicata davanti al giudice indicato
 dalla normativa abrogata se lo stesso, al momento  della  successione
 delle  norme,  abbia  gia'  concretamente iniziato la trattazione del
 procedimento. L'unica eccezione, dunque, alla immediata  applicazione
 della  nuova  disciplina  -  conclude l'Avvocatura - e' rappresentata
 dalla competenza, sicche', nel caso di specie, trova applicazione non
 l'art. 566 del codice abrogato, ma l'art. 631 del nuovo  codice,  con
 l'ovvio epilogo di rendere rilevante la situazione del dubbio ai fini
 della revoca della sentenza di condanna.
    3.  - La tesi della Avvocatura non puo' essere condivisa, giacche'
 essa, non dando sufficiente risalto alle conclusioni cui e' pervenuta
 la Corte regolatrice, omette di trarne le necessarie conseguenze  sul
 piano  logico-sistematico.  Chiamata  infatti a dirimere un contrasto
 giurisprudenziale insorto proprio su tale aspetto, la Corte a Sezioni
 unite ha statuito  che  per  ritenere  operante  il  principio  della
 perpetuatio  iurisdictionis  non puo' farsi riferimento alla semplice
 presentazione di un'istanza, "ma e'  necessario  che  il  giudice  al
 quale  l'istanza  e'  rivolta  ne  abbia  iniziato  concretamente  la
 trattazione prima dell'entrata in vigore delle nuove norme", sicche',
 ove "l'istanza di  revisione  sia  stata  presentata  alla  Corte  di
 cassazione  in data anteriore alla entrata in vigore del nuovo codice
 di  procedura  penale,  ma la Corte non ne abbia, prima di tale data,
 iniziato la trattazione, si rendono applicabili le  norme  del  nuovo
 codice  di  rito".  La conclusione inversa, dunque, si impone ove sia
 data l'ipotesi reciproca: vale a dire che se la Corte  di  cassazione
 ha  iniziato  a trattare l'istanza di revisione prima dell'entrata in
 vigore del nuovo codice di rito, ibi et finem accipere debet, sicche'
 il giudizio, ormai iniziato, resta radicato  sino  al  suo  esaurirsi
 davanti al giudice competente secondo le norme anteriormente vigenti.
    4.  -  Ma  una  volta  ammessa  la  validita'  del principio della
 perpetuatio iurisdictionis, ne consegue che  il  giudice  "prorogato"
 nella  competenza  deve  applicare  il  rito  proprio di quel tipo di
 giudizio che e' stato "prorogato": se  la  competenza,  quindi,  deve
 essere  riconosciuta  alla  Corte  di  cassazione  quando  questa  ha
 "ritenuto" l'istanza prima del 24 ottobre  1989,  ne  deriva  che  la
 stessa  Corte deve procedere al giudizio rescindente secondo le norme
 del vecchio codice; e sempre il  vecchio  codice  deve  applicare  il
 giudice di rinvio in fase rescissoria.
    Qualora,  invece,  si  volesse  aderire alla tesi della Avvocatura
 portandola al naturale  epilogo,  le  conseguenze  sarebbero  davvero
 paradossali:  se  per ipotesi, infatti, la Corte di cassazione avesse
 iniziato la trattazione della istanza prima del 24  ottobre  1989  ma
 avesse  dovuto  assumere  la  decisione  dopo  tale  data, osservando
 rigorosamente il principio tempus regit  actum  non  vi  sarebbe  "un
 codice" applicabile in quel momento; non il vecchio, infatti, essendo
 lo  stesso  ormai  abrogato,  ma  neppure  il  nuovo,  visto  che per
 quest'ultimo la cognizione della  revisione  e'  devoluta  solo  alla
 Corte  di  appello. E' proprio la perpetuatio iurisdictionis, quindi,
 ad evidenziare come,  salvo  le  deroghe  previste  dalla  disciplina
 transitoria,   sia  assegnata  ultravigenza  a  tutte  le  norme  che
 attengono  a  "quella"  giurisdizione  (e,  quindi,  all'intero  rito
 applicabile)  e  non  solo  -  riduttivamente  -  alle  regole  sulla
 competenza.
    5. - D'altra parte, che non si  tratti  solo  di  un  problema  di
 competenza,  e'  reso  evidente  dal  fatto  che la "nuova" revisione
 presenta peculiarita' che vanno ben oltre la semplice  individuazione
 di  un  diverso giudice chiamato a pronunciarsi sulla istanza. Tra le
 non poche differenze, infatti,  che  connotano  la  disciplina  della
 revisione  dettata  dagli  artt.  629  e  seguenti  del  nuovo codice
 rispetto a quanto prevedevano gli artt. 553  e  seguenti  del  codice
 abrogato, la prima, e piu' appariscente, attiene alla mutata dinamica
 del procedimento ed alla soppressione della struttura bifasica che ne
 caratterizzava  le  cadenze  sotto la vigenza del codice del 1930. In
 luogo, infatti, della precedente dicotomia tra la  fase  rescindente,
 devoluta  alla  cognizione  della  Corte  di  cassazione  e  la  fase
 rescissoria attribuita al giudice di merito  individuato  in  ragione
 delle  varie  ipotesi  descritte  dall'art.  561,  secondo comma, del
 codice  del  1930,  il  nuovo  codice   assegna   il   vaglio   sulla
 ammissibilita' della richiesta e la conseguente cognizione del merito
 alla  corte  di  appello nel cui distretto si trova il giudice che ha
 pronunciato la sentenza di condanna di  primo  grado.  Muta,  quindi,
 rispetto  al  passato sistema, non solo il criterio di determinazione
 della competenza, ma la  stessa  struttura  del  procedimento,  ormai
 "unificato" nelle sue cadenze davanti ad un solo giudice (la corte di
 appello) individuato ratione loci nei modi di cui si e' detto.
    Anche per cio' che attiene al rito applicato in sede "rescissoria"
 non  mancano  significative  diversita'  tra  il  vecchio  e il nuovo
 impianto codicistico. Mentre, infatti, l'art. 565, ultimo comma,  del
 codice  abrogato  stabiliva che "quando il giudizio e' stato rinviato
 ad  un  giudice  di  appello,  questi  provvede  in  ogni  caso  alla
 rinnovazione totale del dibattimento", l'art. 636, secondo comma, del
 nuovo   codice,   in   luogo   della  rinnovazione  della  istruzione
 dibattimentale, stabilisce che nel giudizio di revisione si applicano
 le disposizioni previste per il giudizio di primo  grado  "in  quanto
 siano applicabili e nei limiti delle ragioni indicate nella richiesta
 di  revisione", giustificandosi tale scelta - precisa la Relazione al
 progetto preliminare  -  con  la  ritenuta  "necessita',  nei  limiti
 dettati  dalla richiesta di revisione, di svolgere tutte le attivita'
 istruttorie necessarie,  che  non  sono  proprie  di  un  giudice  di
 appello".
    Ma  l'aspetto  che  maggiormente  risalta  ai  fini  del  presente
 giudizio concerne le "formule" con le quali puo' essere prosciolto il
 condannato in sede di  revisione.  Stabiliva,  infatti,  l'art.  566,
 secondo  comma,  del  codice abrogato che il giudice poteva assolvere
 nel giudizio di rinvio soltanto quando avesse ritenuto la sussistenza
 di "una causa di assoluzione ai  sensi  della  prima  parte  o  terzo
 capoverso  dell'articolo  479", dovendo in ogni altro caso confermare
 la sentenza di condanna: sicche' quest'ultimo  epilogo  era  imposto,
 qualora  il  giudice  fosse  pervenuto  alla  conclusione di ritenere
 applicabile nella specie la formula del  dubbio,  prevista  dall'art.
 479,  secondo  capoverso, dello stesso codice. Essendo scomparsa tale
 formula dal nuovo codice, coerentemente stabilisce l'art. 631 che gli
 elementi in base ai quali si chiede la revisione devono "essere  tali
 da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto
 a  norma  degli articoli 529, 530 o 531". Poiche' l'art. 530, secondo
 comma, stabilisce a sua volta che "il giudice pronuncia  sentenza  di
 assoluzione anche quando manca, e' insufficiente o e' contraddittoria
 la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il
 fatto  costituisce  reato o che il reato e' stato commesso da persona
 imputabile", ne consegue che, in presenza di una prova  insufficiente
 o contraddittoria, la revisione, esclusa dal vecchio codice, viene ad
 essere nel nuovo testualmente ammessa.
    E',  quindi,  proprio  l'assoluta diversita' di regime che connota
 l'istituto della revisione nel vecchio e nel nuovo codice a non poter
 sopportare la meccanica sovrapposizione di  disciplina  che  verrebbe
 ineluttabilmente  a  scaturire  ove  fosse rigorosamente osservato il
 principio tempus regit actum, dal momento  che,  al  contrario,  sono
 proprio i parametri costituzionali invocati dal rimettente ad imporre
 una  lettura  delle  norme  che  consenta  di  ritenere applicabili i
 necessari istituti di raccordo intertemporale previsti dal titolo III
 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.  Sicche',  anche  per
 questa  via, deve pervenirsi alla conclusione di ritenere applicabile
 la disciplina transitoria.
    6. - A questa conclusione, d'altra parte,  deve  pervenirsi  anche
 sulla  base  di  argomenti testuali. Occorre infatti rilevare, a tale
 riguardo, che se, da un lato, la tipologia degli atti, al cui  previo
 compimento l'art. 241 delle disposizioni transitorie del nuovo codice
 subordina  l'applicazione  delle  norme anteriormente vigenti, appare
 esaurire la rassegna dei diversi epiloghi  che  definiscono  la  fase
 istruttoria,  cio'  non  toglie  che  anche  il giudizio di revisione
 pendente alla data di entrata in vigore del nuovo codice debba essere
 a pieno titolo annoverato fra i "procedimenti in corso che si trovano
 in una fase diversa  da  quella  istruttoria",  ai  quali,  pure,  e'
 significativamente  dedicata  la rubrica dell'articolo ora ricordato.
 In altri termini, se il compimento di taluni atti tipici  costituisce
 il  presupposto  necessario  perche'  il  procedimento  prosegua  con
 l'osservanza delle norme anteriormente vigenti  e  se,  ancora,  tali
 atti  valgono  a  segnalare la conclusione della fase istruttoria, ne
 deriva che gli stessi rappresentano il requisito "minimo" -  rispetto
 agli  ulteriori stadi del processo - che determina l'ultravigenza del
 vecchio regime, senza peraltro esaurire  la  portata  del  principio:
 sicche',  ove il procedimento in corso alla data di entrata in vigore
 del nuovo codice si trovi in una fase diversa da  quella  istruttoria
 perche'  e' la fase stessa a difettare, come nel caso del giudizio di
 revisione, il procedimento medesimo deve proseguire con  l'osservanza
 delle  norme  anteriormente  vigenti,  salvo le deroghe espressamente
 previste dal titolo III del decreto legislativo n. 271 del 1989.
    Ne' e' possibile far leva, come  mostra  di  fare  il  rimettente,
 sulla  considerazione che, inquadrandosi la revisione al di fuori del
 procedimento di cognizione propriamente detto, la stessa non potrebbe
 iscriversi nel novero dei procedimenti rispetto ai quali puo' trovare
 applicazione  l'art.  241  delle  disposizioni  transitorie,  con  la
 conseguenza  di  rendere  inoperanti le disposizioni del nuovo codice
 richiamate dall'art. 245.  Isolandosi,  infatti,  dal  contesto,  una
 affermazione  di  principio pur contenuta nella piu' volte richiamata
 sentenza delle Sezioni unite, se ne perde il reale significato, che -
 come si e' gia' accennato - e'  solo  quello  di  rimarcare  come  la
 competenza  e  il  rito  siano stabiliti in funzione della disciplina
 processuale vigente non alla data in cui e' stata proposta  l'istanza
 di  revisione,  ma  a  quella  in  cui il giudice ne ha concretamente
 iniziato la trattazione. D'altra  parte,  neppure  va  sottaciuta  la
 circostanza  che  nel procedimento a quo non solo si e' integralmente
 esaurita, prima della data di entrata in vigore del nuovo  codice  di
 rito,  l'intera  fase  rescindente,  ma,  sempre anteriormente a tale
 data, ha avuto inizio lo stesso giudizio rescissorio,  la  cui  prima
 udienza  si  e'  infatti  celebrata  il  20 ottobre 1989. Introdotta,
 quindi, la fase rescissoria, e poiche' questa - come correttamente ha
 rilevato la difesa del condannato  -  "prevede  la  rinnovazione  del
 dibattimento  con  l'assunzione  di nuove prove", sicche' "durante il
 suo  svolgimento  i  giudici  'conoscono'  la  causa   ordinando   la
 rinnovazione   del  dibattimento,  disponendo  perizie,  interrogando
 testimoni.. .. ..", appare evidente come tale fase si  snodi  secondo
 le regole che disciplinano l'ordinario procedimento di cognizione nel
 corrispondente  grado  di  giudizio,  rendendo  quindi vano qualsiasi
 sforzo  volto  ad  escludere,  sulla  base  dei  riferiti  argomenti,
 l'applicazione del regime transitorio.
   Posto,  dunque,  che anteriormente alla data del 24 ottobre 1989 ha
 avuto inizio il giudizio di rinvio davanti alla  Corte  rimettente  e
 che,  quindi,  sempre  anteriormente  a tale data, e' stato emesso il
 relativo atto introduttivo nella forma del decreto  di  citazione,  e
 considerato  che  proprio  il  "decreto  di  citazione a giudizio" e'
 annoverato  fra  gli  atti  al  cui  compimento  l'art.   241   delle
 disposizioni   transitorie   subordina   l'applicazione  delle  norme
 anteriormente  vigenti,  con le deroghe previste dall'art. 245, se ne
 puo' concludere che, anche su  di  un  piano  rigorosamente  formale,
 sussistono  nel  procedimento  a quo tutti i presupposti per ritenere
 applicabile l'art. 254 del decreto legislativo n. 271  del  1989,  in
 quanto espressamente richiamato dall'art. 245.
    7.  -  Le  conseguenze che devono trarsi dai rilievi dianzi svolti
 sono a questo punto di agevole  individuazione,  considerato  che  la
 portata dell'art. 254 delle norme transitorie, a tenore del quale "le
 sentenze  di  proscioglimento  possono essere pronunciate solo con le
 formule previste dal codice", non lascia spazio  a  dubbi  circa  gli
 effetti  che  vengono a riverberarsi sulla norma oggetto di denuncia.
 Come traspare da una analisi squisitamente lessicale  del  riprodotto
 enunciato  normativo  e  come  d'altra  parte  e'  fatto palese nella
 Relazione al progetto preliminare delle disposizioni transitorie  del
 nuovo codice, il legislatore delegato ha infatti "inteso escludere la
 possibilita',  nei  procedimenti che proseguono con l'osservanza" del
 codice abrogato "che vengano adottate formule di proscioglimento  per
 insufficienza   di  prove".  Una  esclusione,  questa,  incisivamente
 ribadita dalla Corte  di  cassazione,  la  quale,  in  una  pronuncia
 richiamata  dalla  difesa  del  condannato (Sezioni unite, 3 febbraio
 1990, n. 3974), ha affermato il  principio  che  "l'unica  regola  di
 decisione  applicabile  dopo  l'entrata in vigore del nuovo codice e'
 quella che impone l'assoluzione con formula piena 'anche quando..  e'
 insufficiente  o  e'  contraddittoria la prova che il fatto sussiste,
 che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato  o  che
 il reato e' stato commesso da persona imputabile'".
    Al fondamento della richiamata disposizione transitoria non vi e',
 dunque, per stare alla interpretazione del giudice di legittimita' ed
 alla  stessa ratio legis, una semplice equiparazione tra formule alla
 quale fa eco una  "combinazione"  tra  le  corrispondenti  regole  di
 giudizio, ma la scelta piu' radicale di espellere dal sistema la for-
 mula  di  proscioglimento  per insufficienza di prove, gia' prevista,
 per cio' che rileva ai fini del  presente  giudizio,  dall'art.  479,
 secondo  capoverso,  del  codice  abrogato, la cui regola di giudizio
 ("Se non risultano sufficienti prove  per  condannare..  ..  ..")  e'
 stata   coerentemente   riformulata   negli  innovativi  termini  che
 compaiono nell'art. 530, secondo comma, del codice vigente.
    8. - Dovendosi pertanto concludere che, anche nei procedimenti che
 proseguono con l'osservanza delle norme del vecchio rito, l'art. 479,
 secondo capoverso, del codice abrogato non puo' trovare applicazione,
 dal  momento  che  le  sentenze  di  proscioglimento  possono  essere
 pronunciate  solo  con le formule previste dal nuovo codice, e tenuto
 conto, pertanto, che anche agli effetti  della  norma  denunciata  la
 sentenza  di  assoluzione  segue  le  formule e le regole di giudizio
 stabilite dall'art. 530 del codice vigente, ne deriva che  il  dubbio
 di  legittimita' costituzionale avanzato dal rimettente e' infondato,
 proprio perche' la situazione di  insufficienza  di  prove  circa  la
 commissione del fatto, accertata nel giudizio di rinvio, non puo' che
 determinare  l'assoluzione  con  la  corrispondente  formula prevista
 dall'art. 530, non diversamente da cio' che sarebbe avvenuto  ove  il
 procedimento  di  revisione  fosse  stato  celebrato con l'osservanza
 delle norme previste dal nuovo codice di rito.
    9. - Le considerazioni dianzi svolte escludono la fondatezza della
 eccezione  di  inammissibilita' della questione dedotta dai difensori
 delle parti civili sotto il profilo della errata individuazione della
 norma da denunciare, giacche'  il  quesito  sottoposto  all'esame  di
 questa  Corte e' stato correttamente enucleato dal giudice rimettente
 in base  alla  prospettata  ricostruzione  del  quadro  normativo.  A
 sostegno  della  indicata  eccezione, d'altra parte, non puo' neppure
 valere il rilievo che, essendo stabilito nell'art. 562, primo  comma,
 del  codice abrogato che l'annullamento della sentenza di condanna da
 parte della corte di cassazione "e' sottoposto  alla  condizione  che
 nel  giudizio di rinvio venga accertato che il condannato deve essere
 assolto ai sensi della prima parte o  terzo  capoverso  dell'articolo
 479",  sarebbe  questa  la  fonte normativa che costituisce la regola
 imposta  al  giudice  di  rinvio  (e  quindi   l'unica   disposizione
 eventualmente  da denunciare), mentre la previsione dettata dall'art.
 566, secondo comma, dello  stesso  codice  rappresenterebbe  rispetto
 alla  prima  null'altro  che  una mera specificazione, priva di reale
 autonomia precettiva. Ad escludere la fondatezza di un simile rilievo
 sta  il  fatto  che,  a  differenza  delle   ordinarie   ipotesi   di
 annullamento  con  rinvio,  nel  caso  della  revisione  la  corte di
 cassazione si trova in presenza di una sentenza passata in giudicato,
 sicche' ben si comprende la ragione per la quale  -  postulandosi  un
 rinvio  per  l'esame  del  merito,  ed  essendo  questo a devoluzione
 circoscritta  -  l'annullamento  non  determini  la   "cancellazione"
 automatica  della  condanna  ma  sia condizionato all'accertamento da
 compiere in sede rescissoria. Ma cio' non toglie che la sentenza  del
 giudice  di  rinvio  sia  concettualmente  e strutturalmente autonoma
 rispetto a quella della corte di cassazione. Nell'art.  562,  dunque,
 si  individuano  i  limiti dell'annullamento, mentre nell'art. 566 si
 stabiliscono i limiti della assoluzione: e che i due  concetti  siano
 fra  loro  diversi  e' dimostrato dal fatto che il giudice di rinvio,
 quando non pronuncia assoluzione, "deve  confermare  la  sentenza  di
 condanna". Conferma, questa, della quale non vi sarebbe alcun bisogno
 ove    dovesse    annettersi    rilievo   assorbente   ed   esclusivo
 all'annullamento condizionato della corte  di  cassazione,  giacche',
 non   avverandosi  la  "condizione",  cadrebbe  l'annullamento  della
 condanna che non dovrebbe essere in alcun modo confermata.