IL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE
   Ha  pronunciato  nella  udienza  camerale  del  22  luglio  1992 la
 seguente ordinanza nel procedimento penale  n.  1283/92  r.g.i.p.,  a
 carico  di  Cospito  Alfredo  nato a Pescara il 14 luglio 1967 per il
 reato di diserzione aggravata (artt. 148, n. 2, del c.p.m.p. e 99 del
 c.p.) perche'  essendo  in  servizio  alle  armi  quale  militare  ex
 detenuto ammesso al differimento dell'esecuzione della pena presso il
 carcere  militare  di  Roma,  inviato in licenza di convalescenza con
 scadenza alle ore 24 del 2 gennaio 1992,  non  si  ripresentava  alle
 armi  -  senza  giusto motivo - nei cinque giorni successivi a quello
 prefissogli,  perdurando  a  tutt'oggi  in  arbitraria  assenza.  Con
 l'aggravante della recidiva.
                            FATTO E DIRITTO
    1.  -  Al  termine  delle  indagini  preliminari  il p.m. chiedeva
 l'emissione del decreto che dispone  il  giudizio  nei  confronti  di
 Cospito Alfredo per il reato di diserzione.
    All'udienza  il  p.m.  conclude chiedendo il rinvio a giudizio; il
 difensore si associa.
    Questo giudice,  ritenuta  l'illegittimita'  costituzionale  delle
 norme  penali in base alle quali dovrebbe essere disposto il rinvio a
 giudizio   del   Cospito,   deve   sollevare    la    questione    di
 costituzionalita'  degli  artt. 148 e 151 del c.p.m.p. e dell'art. 8,
 terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, per contrasto  con
 gli artt. 2, 3, 13, 25, 27, terzo comma, e 52 della Costituzione.
    2.   -   L'esame   degli   accennati   profili   di   legittimita'
 costituzionale non puo'  prescindere  da  una  sintetica  descrizione
 della  vicenda  giudiziaria  del  Cospito in relazione alla pervicace
 inosservanza, da parte di questi, dell'obbligo di  prestare  servizio
 militare.
    Cospito  Alfredo,  chiamato  alle  armi  e dichiaratosi "obiettore
 totale", fu condannato per il reato di  mancanza  alla  chiamata  dal
 tribunale  militare  di  Roma,  in data 10 marzo 1989, ad anni uno di
 reclusione militare: il tribunale non  ritenne  nel  caso  di  specie
 configurabile  il reato di cui all'art. 8 della legge n. 772/1972, in
 quanto  erano  addotti,  a  giustificazione  del  rifiuto di svolgere
 servizio militare, motivi non riconducibili all'art. 1  della  stessa
 legge n. 772/1972.
    La  suddetta  pena  fu  scontata solo in parte per il sopravvenire
 dell'amnistia di cui al d.P.R. n. 75/1990 e in  seguito  il  Cospito,
 nei  cui  confronti  non  era  venuto  meno  l'obbligo  del  servizio
 militare, fu condannato con sentenza  in  data  16  aprile  1991  del
 tribunale militare di Roma, alla pena di anni uno, mesi nove e giorni
 dieci di reclusione militare per il reato di diserzione aggravata.
    Dallo  stesso  giorno della esecuzione dell'ordine di carcerazione
 (27 agosto 1991) il detenuto, per protesta contro la nuova condanna e
 per ottenere la liberazione, rifiutava di alimentarsi, determinato  a
 proseguire  il  digiuno  ad oltranza. Il 27 settembre 1991, quando la
 situazione organica e psichica del detenuto era di  estremo  disagio,
 il padre del Cospito presentava domanda di grazia. Il 30 settembre il
 tribunale  militare  di  sorveglianza disponeva il differimento della
 esecuzione della pena in attesa  della  decisione  sulla  domanda  di
 grazia.
    Nella  motivazione il tribunale militare di sorveglianza precisava
 che, di fronte  alla  immutata  volonta'  del  Cospito  di  sottrarsi
 totalmente  e  definitivamente  all'obbligo  del  servizio  militare,
 l'inapplicabilita', nei suoi confronti, dell'art. 8  della  legge  n.
 772/1972,  ha  comportato l'insorgere di quel fenomeno della "spirale
 delle condanne",  che  costituisce  senza  dubbio  una  anomalia  del
 sistema  penale.  Pertanto,  a  parere  del  t.m.  sorveglianza,  pur
 ritenendosi inaccettabili le forme di manifestazione  della  protesta
 attuata  dal  detenuto,  le  autorita'  competenti  avrebbero  dovuto
 accogliere la domanda di grazia, come via obbligata per risolvere  un
 caso   giudiziario   che   presentava  i  caratteri  di  una  vistosa
 ingiustizia e poneva a nudo una carenza della legislazione in vigore.
    Con  decreto  in  data  27  dicembre  1991  il  Presidente   della
 Repubblica  concedeva  al  Cospito  il condono in via di grazia della
 pena detentiva ancora da espiare.
    In relazione al periodo dal 16 aprile 1991,  data  della  condanna
 per  il  reato  di  diserzione,  al  27 agosto 1991, giorno in cui il
 Cospito era tratto in arresto, il p.m. iniziava  procedimento  penale
 per  ulteriore  reato di diserzione e questo giudice, con sentenza in
 data 15 giugno 1992, dichiarava il non luogo a procedere  perche'  il
 fatto non costituisce reato.
    Infine,   il  p.m.  chiedeva  ancora  il  rinvio  a  giudizio  per
 l'assenza, tuttora perdurante, avente inizio il 2 gennaio 1992,  data
 in  cui  scadeva  una  licenza  di  convalescenza  concessa  dopo  il
 differimento  dell'esecuzione  della  pena  concesso  dal   tribunale
 militare di sorveglianza.
    3.  -  Alla  luce dei precedenti giudiziari sopra citati e tenendo
 presente che sussistono, nel caso di specie, tutti i requisiti per la
 configurazione del reato di diserzione contestato al Cospito,  questi
 dovrebbe  essere  oggetto  di  successive (e sempre piu' rigorose: il
 tribunale  militare  ha  infatti  escluso  la  continuazione  per  le
 ripetute condotte di assenza dal servizio militare) condanne, fino al
 momento  del congedo assoluto, al quarantacinquesimo anno di eta'. E'
 prevedibile che il Cospito  porrebbe  in  essere  altri  "digiuni"  e
 sarebbero  adottati,  nei  suoi  confronti,  altri  provvedimenti  di
 grazia.
    Al di la' della specifica vicenda giudiziaria, rileva tuttavia qui
 la   constatazione   circa   l'inconciliabilita'   con   i   principi
 costituzionali della normativa  che  consente  di  sottoporre  ad  un
 numero   indeterminato   di  procedimenti  penali  (e  a  conseguenti
 condanne) chi rifiuti incondizionatamente  di  svolgere  il  servizio
 militare  per  motivi diversi da quelli riconosciuti all'art. 1 della
 legge n. 772/1972.
    In primo luogo, l'ipotesi di una spietata successione di  condanne
 per  una  condotta  ontologicamente  unitaria  di  rifiuto assoluto e
 incondizionato di svolgere il servizio militare appare  in  contrasto
 con   il   principio   costituzionale   di   tutela  della  coscienza
 individuale, principio che costituisce esplicazione dell'art. 2 della
 Costituzione, in tema di protezione dei diritti inviolabili.
    L'effetto vessatorio della c.d. "spirale delle condanne",  che  ha
 spinto  il  legislatore  ad  introdurre la speciale disciplina di cui
 all'art.  8  della  legge  n.  772/1972  (di  cui  costituisce  parte
 qualificante   ed   essenziale  la  previsione,  come  effetto  della
 espiazione della pena, dell'esonero dal servizio militare) non  viene
 meno  se  ad  entrare  in tale perversa spirale non sono soggetti che
 "adducono" i motivi di cui all'art. 1 della  legge  n.  772/1972,  ma
 soggetti che per altri motivi o immotivatamente rifiutano il servizio
 militare.
    Una  approfondita  analisi  dei principi costituzionali che stanno
 alla base della disciplina di cui al citato art.  8  della  legge  n.
 772/1972   e'  contenuta  nella  sentenza  n.  467/1991  della  Corte
 costituzionale, con cui  il  suddetto  art.  8  e'  stato  dichiarato
 costituzionalmente  illegittimo  nella  parte  in cui non prevede che
 siano esonerati dal servizio militare,  a  seguito  della  espiazione
 della  pena,  i  soggetti che rifiutano il servizio militare di leva,
 dopo averlo assunto, per i motivi indicati all'art. 1 della legge  n.
 772/1972.
    In  tale  decisione  si  sottolineano  gli  effetti devastanti che
 derivano dalla  sottoponibilita'  di  tali  obiettori  alla  "tragica
 spirale  delle  condanne  a  catena"  e  si  afferma che la coscienza
 individuale "gode di una protezione costituzionale  commisurata  alla
 necessita'   che   quelle  liberta'  e  quei  diritti  non  risultino
 irragionevolmente compressi nelle loro possibilita' di manifestazione
 e   di   svolgimento   a   causa   di   preclusioni   o   impedimenti
 ingiustificatamente  posti alle potenzialita' di determinazione della
 coscienza medesima".
    Nel caso di specie la condotta dell'imputato, peraltro  precedente
 all'assunzione  del  servizio  militare,  non  e' compiuta per motivi
 riconosciuti come meritevoli di particolare considerazione  da  parte
 del legislatore. Ma cio' non puo' comunque giustificare l'emanazione,
 nei confronti di un soggetto che rifiuti irriducibilmente di svolgere
 il  servizio militare, di "una serie di condanne penali cosi' lunga e
 pesante da poterne distruggere la sua intima personalita' umana e  la
 speranza di una vita normale" (cfr. sentenza n. 467/1991 cit.).
    Si   annulla   infatti   in   questo   modo   la  liberta'  morale
 dell'individuo. Il  soggetto  che  compie  un  illecito  penale  deve
 scontare  la  pena stabilita dalla legge (e commisurata alla gravita'
 del fatto, tenendo anche conto dei motivi che hanno portato  l'agente
 a  delinquere)  ma  non  puo' essere sottoposto ad uno stillicidio di
 condanne che gli impediscano, fino al 45ยบ anno di eta', di  esplicare
 la propria personalita', mediante il lavoro e le relazioni sociali.
    Cio' che caratterizza la posizione dell'obiettore di coscienza non
 e'  il  tipo  di  condotta che puo' essere posta in essere, ma solo i
 motivi che presiedono  a  tale  condotta.  Infatti,  sulla  base  del
 principio  generale  di  incoercibilita' di una prestazione personale
 come il servizio militare, il "rifiuto" del servizio  militare,  come
 condotta  specifica  che  implica  la deliberazione ferma di rendersi
 indisponibile, non transitoriamente, ma per sempre, allo  svolgimento
 del  servizio,  puo'  essere  posto in essere anche per motivi non di
 natura religiosa o filosofica o morale (cosi', nel  caso  di  specie,
 per motivi politici).
    Ma,  anche  in  questo  caso, deve ritenersi che la "spirale delle
 condanne"  "non   e'   conforme   alla   regola   della   ragionevole
 proporzionalita'  e  della  necessarieta'  della  limitazione  di  un
 diritto inviolabile dell'uomo in riferimento  all'adempimento  di  un
 dovere  costituzionale inderogabile, qual'e' l'obbligo di prestare il
 servizio militare di leva in tempo di pace"  (cfr.  sentenza  n.  467
 cit.).
    Peraltro,  anche  l'eventuale  riconoscimento  del  vincolo  della
 continuazione, tra le condotte successivamente sottoposte a processo,
 potrebbe attenuare, ma non annullare, le conseguenze inaccettabili di
 tale meccanismo.
    4. - La sottoponibilita' del soggetto che rifiuti di  svolgere  il
 servizio militare, sia pure per motivi non attinenti ad "obiezione di
 coscienza",  ad  una  serie indeterminata di condanne contrasta anche
 con il principio di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    La pena costituisce infatti  trattamento  contrario  al  senso  di
 umanita'  nel  momento  in  cui  tende  alla  coartazione  morale del
 soggetto; e non puo' essere ravvisata alcuna finalita' rieducativa ma
 solo un contenuto  persecutorio  nei  confronti  dell'individuo,  una
 volta verificato che questi ha dimostrato l'irriducibile contrarieta'
 allo  svolgimento  del  servizio  militare  ed abbia scontato, per il
 comportamento posto in essere, una pena  proporzionata  alla  entita'
 della offesa cagionata ad interessi penalmente tutelati.
    La   legittima   finalita'  costituzionale  della  pena  non  puo'
 consistere nella sottomissione  ad  ogni  costo  della  volonta'  del
 militare che rifiuta di svolgere il servizio dovuto. La attuazione di
 una  sorta  di  "sfida"  e  di "prova di forza" fra la volonta' dello
 Stato e quella dell'individuo, che  dovrebbe  essere  "piegata"  alle
 esigenze  dell'ordinamento,  non  puo' che risolversi nella negazione
 del valore della persona  umana:  il  "caso"  Cospito  avrebbe  forse
 confermato  in  modo  ancor  piu'  drammatico  tale conclusione se la
 tempestiva decisione del Tribuale militare di sorveglianza non avesse
 fatto propri principi corrispondenti a quelli sopra enunciati.
    5. - La normativa in esame e' in contrasto anche  con  i  principi
 costituzionali di offensivita' e di materialita' dell'illecito penale
 e  di democraticita' dell'ordinamento delle Forze armate (art. 13, 25
 e 52 della Costituzione), nella parte in cui colpisce  in  definitiva
 la personalita' dell'individuo, cioe' il suo atteggiamento soggettivo
 di  irriducibile contrarieta' allo svolgimento del servizio militare,
 e non il fatto di rifiuto,  fatto  unitario,  rispetto  al  quale  le
 singole condotte di omessa prestazione del servizio militare non sono
 che contingenti manifestazioni.
    6.  -  In  ultimo,  in relazione all'art. 3 della Costituzione, va
 rilevata l'esistenza di una irragionevole disparita'  di  trattamento
 fra  chi  rifiuti  il  servizio  militare "adducendo" i motivi di cui
 all'art. 1 della legge n. 772/1972 e chi rifiuti il servizio militare
 "adducendo" altri motivi o senza addurre alcun motivo.
    Come infatti affermato dalla Corte costituzionale  nella  sentenza
 n.  409/1989  i  reati  di  assenza  dal servizio previsti nel codice
 penale militare e il  reato  previsto  dall'art.  8  della  legge  n.
 772/1972  ledono  con  modalita'  offensive  analoghe  lo stesso bene
 giuridico: quindi non e' ammissibile una  sproporzione  eccessiva  di
 trattamento  sanzionatorio  con  riguardo  alle  suddette fattispecie
 penali.
    In proposito, a fronte della pena complessiva irrogata  finora  al
 Cospito  di due anni, nove mesi e dieci giorni di reclusione militare
 (cui dovranno aggiungersi, per effetto di future condanne, altri anni
 di pena detentiva), gli autori del  reato  di  rifiuto  del  servizio
 militare  per  motivi  di  coscienza  vengono  condannati, secondo la
 giurisprudenza dominante degli organi  giudiziari  militari  e  della
 Corte di cassazione, a tre-quattro mesi di reclusione militare con la
 sospensione condizionale della pena.
    E'  evidente  che  una  mera  disparita'  di fatto nel trattamento
 sanzionatorio (anche quando raggiunga l'entita' sopra  indicata)  non
 rileva  ai  fini del sindacato di legittimita' costituzionale. Non e'
 dubbio infatti che l'attuale indiscutibile trattamento deteriore  dei
 soggetti  che  commettono  i  reati  di  cui agli artt. 148 o 151 del
 c.p.m.p. rispetto a quelli cui e' contestato il reato di cui all'art.
 8 della legge n. 772/1972 deriva in  gra  parte  dall'interpretazione
 giurisprudenziale  che  e' stata data a quest'ultima fattispecie dopo
 l'intervento dalla Corte costituzionale con  la  citata  sentenza  n.
 409/1989.  A parere di questo giudice non e' dubbio che la Corte, nel
 momento in cui ha  dichiarato  l'incostituzionalita'  della  sanzione
 prevista  dal  citato  art.  8,  ha  voluto  espressamente restituire
 proporzione e razionalita' al sistema sanzionatorio e non  certamente
 introdurre  nuove sperequazioni a danno questa volta di chi omette di
 prestare il servizio militare per motivi diversi di quelli  rilevanti
 per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza.
    La  suddetta disparita' di trattamento deriva tuttavia anche dalla
 normativa vigente.
    In primo luogo occorre osservare che per i  militari  che  non  si
 presentano   a  svolgere  il  servizio  militare,  quando  la  durata
 dell'assenza supera i sei mesi, e' applicata, ai sensi dell'art. 154,
 n. 1, del c.p.m.p., una aggravante ad effetto  speciale  per  cui  la
 pena e' aumentata da un terzo alla meta'.
    Inoltre,   quando  la  condotta  dell'agente  si  concreta  in  un
 sostanziale rifiuto del  servizio  militare,  la  mancata  previsione
 dell'esonero   per  effetto  della  espiazione  della  pena  comporta
 l'irragionevole proliferazione di comportamenti punibili.
    Di conseguenza lo stesso fatto, rifiuto del servizio militare, che
 provoca una identica  lesione  agli  interessi  tutelati,  quando  e'
 compiuto  per motivi di coscienza viene punito una sola volta (con la
 pena edittale da sei mesi a due anni); quando e' invece compiuto  per
 motivi diversi (e nella diversita' dei motivi sta l'unica distinzione
 giuridicamente  discriminante)  viene punito per un numero indefinito
 di volte (con la stessa pena edittale, salvo l'aumento  da  un  terzo
 alla  meta'  quando,  come e' di regola in casi del genere, l'assenza
 supera i sei mesi).
    Vale la pena di aggiungere che l'art. 8 della legge n. 772/1972 si
 applica  solo  che i motivi di coscienza prescritti dalla legge siano
 "adottati" dal soggetto. Il requisito  della  "adduzione"  e'  sempre
 stato  interpretato dalla giurisprudenza nel senso della mera formale
 dichiarazione dell'interessato, che non puo' in  nessun  caso  essere
 disattesa  dal  giudice. Cosi' che, in ipotesi, anche un pregiudicato
 per delitti contro  la  persona  commessi  mediante  l'uso  di  armi,
 potrebbe  "addurre",  a  ragione  del  proprio rifiuto di svolgere il
 servizio militare, motivi di coscienza, e il giudice non  potra'  che
 applicare l'art. 8 citato.
    Risulta chiaro, di conseguenza, che la normativa penale vigente in
 tema  di  obiezione  di coscienza offre facili scappatoie a chi vuole
 evitare di fare il servizio militare. In particolare, per  chi  abbia
 gia'  posto in essere un fatto di mancanza alla chiamata, l'adduzione
 dei motivi di coscienza, senza influire sul trattamento sanzionatorio
 ne' sulla possibilita' di ottenere la sospensione condizionale  della
 pena,  provoca il rilevante effetto dell'esonero dall'intero servizio
 militare.  In  queste  condizioni,  soltanto  un  soggetto  con   uno
 straordinario senso civico, ovvero ignaro dei meccanismi della legge,
 omettera'  di  dichiarare il rifiuto del servizio militare per motivi
 di coscienza (cio' che spiega un incremento dell'obiezione totale, al
 servizio militare ed al sevizio civile sostitutivo, incremento che e'
 agevole riferire non a genuina obiezione  di  coscienza,  ma  ad  una
 obiezione  "di  convenienza").  E' evidente, di conseguenza, come sia
 divenuta fragile la tutela penale della obbligatorieta' del  servizio
 militare.
    Ebbene,  se un soggetto, pur potendo facilmente "addurre" i motivi
 di coscienza di cui alla legge  n.  772/1972,  dichiara  sinceramente
 l'esistenza  di  altri motivi che lo spingono a rifiutare il servizio
 militare, non sembra ammissibile che gli sia applicato un trattamento
 cosi' irragionevolmente deteriore. Ben puo'  infatti  il  legislatore
 definire  discrezionalmente  la  figura  dell'obiettore  di coscienza
 (escludendo cosi' ad esempio l'obiettore politico)  e  stabilire  nei
 confronti  di questi un trattamento differenziato. Ugualmente puo' il
 legislatore  porre,  come  presupposto   per   l'applicazione   della
 normativa  speciale, la mera "adduzione" dei motivi di coscienza, per
 la improponibilita' di una indagine sulla  coscienza  dell'individuo.
 Cio'  che  invece  non  pare  costituzionalmente  legittimo e' che la
 disparita' di trattamento, a danno del militare nei cui confronti non
 trova  applicazione  la  normativa   sull'obiezione   di   coscienza,
 fuoriesca dai limiti della proporzione e della ragionevolezza.
    7.   -  Le  considerazioni  espresse  nell'ultimo  paragrafo,  che
 peraltro investono solo uno dei profili della  dedotta  questione  di
 legittimita'  costituzionale (che a parere di questo giudice dovrebbe
 essere accolta a prescindere da ogni comparazione  con  il  reato  di
 rifiuto   del   servizio   militare),  fanno  ritenere  che  solo  il
 legislatore potra' ricondurre a razionalita' il sistema dei reati  di
 assenza  dal servizio militare e di rifiuto del servizio militare. La
 stessa Corte ha ribadito, con la sentenza n. 467 cit., l'esigenza  di
 un urgente intervento del legislatore.
    Tuttavia, in relazione alla necessita' di definire il caso oggetto
 del   presente   giudizio  appare  non  manifestamente  infondata  la
 questione di legittimita' costituzionale delle disposizioni di  legge
 indicate.
    La rilevanza della questione di legittimita' costituzionale appare
 evidente,  in  quanto,  se  tale questione fosse accolta, si dovrebbe
 ritenere che il Cospito, fin dal  2  gennaio  1992,  non  aveva  piu'
 obblighi  militari e pertanto dovrebbe essere dichiarato il non luogo
 a procedere, nei suoi confronti, perche' il fatto non sussiste.