IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    A scioglimento della riserva espressa nell'udienza 10 luglio 1992;
    Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale;
    Sentiti p.m. e difensore, concludenti come in atti;
    Ha   pronunciato   la   seguente   ordinanza  nelle  procedure  di
 sorveglianza riunite nei confronti di:
      Porcu Graziano  Pietro,  nato  a  Orune  il  22  novembre  1938,
 (1018/92);
      Mangia Carmelo, nato a Orune il 5 agosto 1956, (1019/92);
      Sale Francesco, nato a Mamoiada il 2 ottobre 1951, (1020/92);
      Scano Salvatore, nato a Orani il 15 agosto 1944, (1021/92);
      Sedda Mario, nato a Orani il 13 febbraio 1952, (1022/92);
      Sini Giovanni, nato a Orgosolo il 14 luglio 1936, (1023/92);
      Floris  Pasquale  Gesuino,  nato  a  Orgosolo il 27 maggio 1948,
 (1024/92);
      Scano Battista Agostino,  nato  a  Orani  il  19  ottobre  1954,
 (1025/92);
      Battacone Luigi, nato a Orgosolo il 26 aprile 1952, (1026/92);
      Rusui Francesco, nato a Nuoro il 24 marzo 1956, (1027/92);
      Ladu Mario, nato a Sarule il 10 ottobre 1941, (1028/92);
      Fronteddu  Mario  Serafino,  nato  a  La Maddalena il 12 ottobre
 1929, (1029/92);
      Palmeri Giovanni  Antonio,  nato  a  Orune  il  20  marzo  1949,
 (1030/92);
      Marcello   Mario,   nato  a  Portovecchio  il  26  luglio  1935,
 (1031/92);
      Cadeddu Salvatore, nato a Sarule l'11 gennaio 1944 (1032/92);
      Serra Francesco Maria, nato  a  Bottida  il  17  dicembre  1934,
 (1033/92);
      Marcis Gianfranco, nato a Domusnovas Canales il 3 febbraio 1953,
 (1034/92),  tutti  detenuti  nella  casa  circondariale  di Nuoro per
 revoca di semiliberta' ex lege, 9 giugno 1992, n. 306.    I  predetti
 sono  stati  condannati  con  sanzioni  definitive  perche'  ritenuti
 responsabili di diversi reati, fra i quali  sequestro  di  persona  a
 scopo  di  estorsione  (art.  630 del c.p.) e concorso in reato legge
 stupefacenti (artt. 71, 74, 75 della legge n. 685/1975) e sono  stati
 rispettivamente  ammessi  al regime di semiliberta' con ordinanza del
 tribunale di sorveglianza di  Cagliari  o  di  Sassari.  Nel  periodo
 intercorso  dall'ammissione  al  regime  anzidetto,  il comportamento
 serbato non consta avere dato adito a rilievi di  alcun  genere.    A
 seguito  della  pubblicazione  del  d.-l.  8  giugno 1992, n. 306, la
 questura  ed  il  gruppo  carabinieri  di  Nuoro  hanno  rimesso   al
 magistrato  di sorveglianza una nota del 9 giugno u.s., concernente i
 sunnominati dalla quale si desume  che  essi  non  si  trovano  nelle
 condizioni  previste dall'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n.
 354.  E poiche' l'art. 15, secondo comma del d.-l. citato  impone  la
 revoca,  a  seguito  di  comunicazione dell'autorita' di polizia, dei
 benefici ivi indicati  nei  confronti  dei  soggetti  condannati  per
 taluni reati, fra i quali il sequestro di persona per estorsione, che
 pur  fruendo  di  uno  dei  detti  benefici,  non  si  trovino  nelle
 condizioni per l'applicazione dell'art. 58- ter sopra menzionato,  il
 magistrato di sorveglianza ha disposto, con decreto emesso ex art. 51
 dell'o.p., la sospensione cautelativa del regime di semiliberta' loro
 concernente  e  la  riconduzione  dei  medesimi  in istituto.   Nella
 odierna udienza, richiesta dal p.m. la conferma del decreto del  m.s.
 e   la   revoca   definitiva   della  ammissione  degli  stessi  alla
 semiliberta',  la  difesa  ha  proposto  un'articolata  eccezione  di
 incostituzionalita'  che  inverte l'art. 15, secondo comma, del d.-l.
 n. 306/1992.
    Il tribunale reputa non manifestamente infondate le censure  mosse
 dalla difesa del detenuto avverso il citato art. 15, secondo comma, e
 dispone pertanto la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale
 per i seguenti
                              M O T I V I
    1.  -  Contrasto fra l'art. 3 della Costituzione e l'art. 15.2 del
 d.-l. 8 giugno 1992, n. 306.
    L'art. 15.2 del  d.-l.  n.  306/1992,  testualmente  recita:  "nei
 confronti  delle  persone detenute o internate per taluno dei delitti
 indicati nel primo periodo del primo comma, che fruiscano, alla  data
 di  entrata  in vigore del presente decreto, delle misure alternative
 alla detenzione o di permessi premio, o  siano  assegnate  al  lavoro
 all'esterno,  l'autorita'  di  polizia,  ove  lo ritenga, comunica al
 giudice di sorveglianza competente che le  persone  medesime  non  si
 trovano  nella  condizione per l'applicazione dell'art. 58- ter della
 legge 26 luglio  1975,  n.  354.  In  tal  caso  il  tribunale  o  il
 magistrato di sorveglianza dispone la revoca della misura alternativa
 alla detenzione o del permesso premio.
    Analogo  provvedimento  e'  adottato dalla competente autorita' in
 riferimento all'assegnazione al lavoro all'esterno".
    Pertanto, l'autorita' di polizia puo'  decidere  di  segnalare  al
 giudice  di  sorveglianza  il  fatto  che  determinati  condannati (o
 internati) per uno dei delitti di cui  alla  prima  parte  del  primo
 comma  dello stesso art. 15 (e fra tali delitti e' compreso quello di
 cui all'art. 630  del  c.p.)  e  fruenti  di  uno  dei  benefici  ivi
 specificati  non  sono  nelle condizioni di cui all'art. 58- ter o.p.
 Alla comunicazione dell'autorita' di polizia consegue la  revoca  del
 beneficio.
    Il   testo   sopra   riportato  non  consente  di  operare  alcuna
 distinzione fra le  situazioni,  anche  assai  diverse,  dei  singoli
 condannati,    cosi'    che,   previa   la   semplice   comunicazione
 dell'autorita' di polizia, si dovrebbero revocare i benefici concessi
 a chi mai abbia offerto ne' offra collaborazione, rilevante  ex  art.
 58-ter  o.p.,  assumendo  nei  confronti  degli organi dello Stato un
 atteggiamento affatto negativo o di  perdurante  solidarieta'  con  i
 correi  eventualmente  ancora  liberi,  e  dovrebbe  assumersi eguale
 decisione nei riguardi di chi, per aver commesso da solo il  reato  a
 lui  ascritto  o  perche' ogni aspetto della vicenda criminosa che lo
 riguardi sia stato chiarito, nessuna collaborazione  puo'  piu'  pre-
 stare  (e'  appena  il  caso  di  ricordare  come l'art. 58- ter o.p.
 riguardi solo la collaborazione relativa alla  particolare  attivita'
 delittuosa  per  la  quale  sia  intervenuta condanna, e non gia' una
 generica collaborazione attinente a fatti delittuosi diversi).
    Per i predetti detenuti  si  afferma  che  l'intervenuto  completo
 chiarimento  dell'episodio delittuoso che lo ha portato in carcere e'
 di  ostacolo  alla  prestazione   -   anche   in   futuro   -   della
 collaborazione,  e d'altra parte il tribunale, stante l'automaticita'
 della  decisione  imposta  dalla  norma  in questione, non puo' darsi
 carico della verifica  della  circostanza  allegata.  Si  deve  pero'
 ammettere  che la formulazione dell'art. 15, secondo comma, del d.-l.
 n. 306/1992 finisce  per  accomunare  nel  trattamento  penitenziario
 situazioni profondamente diverse, finendo pero', paradossalmente, per
 favorire  proprio quei condannati che, per avere agito nell'ambito di
 una struttura criminale piu' articolata e  segreta,  sono  di  solito
 piu'  pericolosi,  ma  si  trovano  dipoi  nella condizione di potere
 utilmente "spendere" la propria collaborazione.
    Di qui il denunciato non manifestamente infondato contrasto  della
 norma in argomento con l'art. 3 della Costituzione.
    2.  -  Contrasto  fra l'art. 15, secondo comma, del d.-l. 8 giugno
 1992, n. 306, e l'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
    La  norma  in  discussione   confliggerebbe   con   il   principio
 Costituzionale  della  non retroattivita' della legge penale: secondo
 l'interpretazione piu' logica, il concetto di legge in  virtu'  della
 quale  si  deve  irrogare  una  sanzione, cui si riferisce l'art. 25,
 secondo comma, della Costituzione, non puo' comprendere le sole norme
 che descrivano fattispecie penalmente illecite e stabiliscano le rel-
 ative sanzioni, ma si  estende  a  tutte  le  norme  che,  anche  nel
 precisare il contenuto della pena, descrivono il quadro sanzionatorio
 riguardante  chi  dovra'  espiare  le  pene  previste  per le singole
 ipotesi
 criminose. E  se  vero  che  e'  stata  autorevolmente  criticata  la
 costruzione   teorica   di  chi  voglia  "fissare  al  momento  della
 commissione del reato non solo l'entita' della  pena  che  da  questo
 puo'  conseguire  ma  anche  il tipo di trattamento penitenziario, si
 dovra' pure ammettere, con  la  migliore  dottrina,  che  almeno  dal
 momento  del  passaggio in giudicato della sentenza si stabilisca fra
 lo Stato e il condannato un  "patto"  che  atterra'  alla  estensione
 della  pretesa  del  primo  e  -  per converso - alle aspettative del
 secondo. Patto che non sembra, durante lo svolgimento del trattamento
 da esso disciplinato, possa essere modificato, neppure con legge  che
 stabilisca per il condannato condizioni deteriori e, pertanto aggravi
 la punizione alla quale lo ha esposto la sua condotta.
    E poiche' la norma in discussione, nel far discendere - in maniera
 pressoche'  decisiva  -  conseguenze  favorevoli per il condannato da
 comportamenti per il passato non essenziali ai  fini  dell'ammissione
 ai  benefici  da essa indicati, opera un innegabile peggioramento del
 trattamento sanzionatorio, si reputa non manifestamente infondato  il
 denunciato   contrasto   con   l'art.   25,   secondo   comma,  della
 Costituzione.
    3. - Contrasto fra l'art. 15, secondo comma, del  d.-l.  8  giugno
 1992, n. 306, e l'art. 27, secondo comma, della Costituzione.
    Quanto esposto al punto precedente vale in parte a dar conto della
 non  manifesta  infondatezza  del denunciato contrasto fra l'art. 15,
 secondo comma del d.-l. n. 306/1992 e  la  norma  costituzionale  che
 indica  l'emenda  del  condannato  quale finalita' della pena: appare
 evidente l'effetto deleterio che sulla  rieducazione  del  condannato
 puo'  avere la frustrazione delle sue legittime aspettative esistenti
 al momento di inizio della espiazione della pena o sorte per  effetto
 di successive disposizioni.
    L'art.  15,  secondo  comma,  in  discussione  stabilendo  - nelle
 precisate condizioni -  la  revoca  di  benefici  gia'  in  corso  di
 fruizione,   rischia  di  rendere  vana  in  molti  casi  l'opera  di
 rieducazione che, proprio nei casi di condannati per gravi reati,  e'
 particolarmente  impegnativa  per  operatori penitenziari e detenuti.
 Non si vuole certo porre in dubbio il valore, in ipotesi apprezzabile
 anche come sintomo di emenda, di  una  collaborazione  prestata  agli
 organi  dello Stato, soprattutto quando - come nel caso dei sequestri
 di persona per estorsione - si impediscano gli sviluppi di un delitto
 in corso di svolgimento; ma non sembra coerente con le finalita'  del
 citato dettato costituzionale ancorare - nei casi di pena in corso di
 espiazione  -  la  fruzione  dei noti benefici alla prestazione della
 collaborazione, poiche' la prestazione di questa puo' intervenire per
 le  ragioni  piu'  disparate  (anche  tali  da   poter   non   essere
 dimostrative,  necessariamente,  di emenda), mentre anche una mancata
 collaborazione,  accompagnata  (e'  chiaro  da  una   dimostrata   ed
 effettiva rottura con la scala di valori gia' posta a base della vita
 pregressa  del  condannato) dovrebbe non costituire elemento ostativo
 alla prosecuzione del "convenuto" trattamento penitenziario.
    E' appena il caso di notare come non si intende certo censurare la
 legittimita' ed opportunita' della previsione di incentivi  a  favore
 dei  collaboratori  della  giustizia.  Ma  negare,  in  sostanza e in
 pratica, che  possa  essere,  per  i  responsabili  di  certi  reati,
 apprezzato  positivamente il comportamento serbato pur in mancanza di
 collaborazione, significa - quando a tanto si giunga nei confronti di
 persone delle quali sia in corso, anche con  risultati  positivi,  il
 trattamento  penitenziario  -  operare  in possibile contrasto con la
 previsione costituzionale in discussione.
    4. - Contrasto fra l'art. 15, secondo comma, del  d.-l.  8  giugno
 1992,   n.   306,  e  gli  artt.  24,  secondo  comma,  e  111  della
 Costituzione.
    L'art. 111 della  Costituzione  prevede  che  tutti  provvedimenti
 giurisdizionali  devono essere motivati: e' stato piu' volte chiarito
 che  la  motivazione  non  puo'  esser  puramente  formale  ne'  puo'
 consistere in mere clausole di stile (c.d. motivazione apparente), ma
 deve  dare  ragione  dell'apprezzamento  dei  fatti  e  dei motivi di
 applicazione della legge da parte del giudice.
    Si  e'  gia'  rilevata,  sotto  altro  profilo,   la   sostanziale
 automaticita'  della  pronuncia  che  il magistrato o il tribunale di
 sorveglianza e' chiamato a rendere quando gli pervenga dall'autorita'
 di polizia la comunicazione di cui all'art.  15,  secondo  comma  del
 d.-l.  n.  306/1992:  si  nota  ora che il provvedimento di revoca da
 questa norma previsto deve essere, proprio perche'  dovuto,  adottato
 senza  che  il  giudice  possa esprimere alcun apprezzamento circa la
 sussistenza  del  presupposto  di  esso,  essendogli  in   definitiva
 sottratta  perfino  la  valutazione  circa  la riconducibilita' della
 situazione del singolo condannato alla fattispecie  di  cui  all'art.
 58-  ter  o.p.  E'  stato  osservato  che nell'ambito della revoca in
 argomento la  funzione  del  giudice  diviene  puramente  notarile  e
 dichiarativa  della  volonta'  altrui:  essa  pone capo pertanto alla
 adozione di un provvedimento che, per consistere in  una  mera  presa
 d'atto,  non puo' essere motivato. La norma che prevede la emanazione
 di tale provvedimento appare in  modo  non  manifestamente  infondato
 contrastante con l'art. 111 della Costituzione.
    Proprio  quanto  si  e'  ora  notato  a proposito della carenza di
 motivazione normale al provvedimento di  revoca  in  argomento  rende
 palese  come  non  sia manifestamente infondata la questione relativa
 alla  denunciata  violazione  dell'art.  24,  secondo  comma,   della
 Costituzione: posto che l'attivita' del giudice si esaurirebbe in una
 presa d'atto non preceduta da momenti valutativi, la stessa attivita'
 del  difensore  sarebbe  del tutto impossibile non potendo la difesa,
 nei casi come quello in esame,  svolgere  alcuna  utile  funzione  di
 critica, di sollecitazione, di illustrazione del caso, in una parola,
 difensiva in senso proprio.
    Sollevata   la   questione   di  legittimita'  costituzionale,  il
 procedimento in corso resta sospeso.
    In questa situazione e' certo - dati i tempi  critici  -  che  una
 decisione  nel merito da parte dell'interessato tribunale, non potra'
 intervenire entro trenta  giorni  dalla  data  (15  giugno  1992)  di
 ricezione degli atti relativi alla revoca della semiliberta', secondo
 il disposto dell'art. 51- ter ord. pen.
    Di  conseguenza  non ha piu' alcun senso il decreto di sospensione
 adottato  dal  magistrato  di  sorveglianza  ai  sensi  del  predetto
 articolo;   attesa   infatti   la   natura   cautelare  del  medesimo
 provvedimento, appare imprescindibile - se non altro in via teorica -
 il suo collegamento con il provvedimento di  merito  del  quale  deve
 assicurare gli effetti.
    Poiche',  come  si  e'  notato,  detto  provvedimento  - stante la
 necessaria sospensione del procedimento instaurato in vista della sua
 adozione - non potra' intervenire nel termine massimo di legge, viene
 meno la strumentalita' della sospensione cautelativa, che non ha piu'
 alcuna ragione di essere e va percio' revocata.  I  detenuti  devono,
 conseguentemente,   essere   riammessi   a   godere   del  regime  di
 semiliberta'  disposto  con   le   ordinanze   loro   rispettivamente
 notificate  secondo  il programma di trattamento gia' stabilito ed in
 corso al  momento  dei  decreti  9  giugno  1992  del  magistrato  di
 sorveglianza di Nuoro.