ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  34,  comma  2,
 del  codice  di  procedura  penale, promosso con ordinanza emessa l'8
 febbraio 1996 dal giudice  per  le  indagini  preliminari  presso  il
 tribunale  di Messina, iscritta al n. 538 del registro ordinanze 1996
 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  25,  prima
 serie speciale, dell'anno 1996;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  18 giugno 1997 il giudice
 relatore Carlo Mezzanotte.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Con ordinanza in data 8  febbraio  1996,  il  giudice  per  le
 indagini  preliminari presso il tribunale di Messina ha sollevato, in
 riferimento agli artt. 3, primo comma, e  24,  secondo  comma,  della
 Costituzione,  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 34,
 comma 2, del codice di procedura  penale,  nella  parte  in  cui  non
 prevede  l'incompatibilita'  alla funzione di giudizio per il giudice
 che abbia disposto  la  custodia  cautelare  in  carcere  dei  correi
 dell'imputato  sottoposto  al  suo giudizio, motivando la sussistenza
 dei gravi indizi di colpevolezza a loro carico con  le  dichiarazioni
 confessorie  ed accusatorie rese dal medesimo imputato, nei confronti
 del quale, tuttavia, non era stata adottata alcuna  misura  cautelare
 in assenza di richiesta in tal senso del pubblico ministero.
   Il   remittente  premette  di  essere  chiamato  a  decidere  sulla
 richiesta di giudizio abbreviato  avanzata  da  un  collaboratore  di
 giustizia  nei  confronti  del quale, pur non essendo stata emessa la
 misura  custodiale  perche'  non  richiesta  difettando  le  esigenze
 cautelari,  ha  tuttavia  espresso, nella ordinanza applicativa della
 custodia  cautelare  nei  confronti  dei   correi,   "una   pregnante
 valutazione  di  merito",  avendo  ritenuto  la chiamata in correita'
 attendibile e decisiva sia ai fini della applicazione della  custodia
 cautelare,   sia   ai   fini   della  autoincolpazione  dell'imputato
 sottoposto al suo giudizio.
   In questo caso,  prosegue  il  giudice  a  quo,  non  potrebbe  non
 ritenersi  compromessa (come del resto gia' affermato da questa Corte
 nella sentenza n. 432 del 1995 in relazione  al  giudice  chiamato  a
 giudicare  l'imputato nei confronti del quale aveva emesso una misura
 cautelare) la genuinita' e la correttezza del processo formativo  del
 convincimento  del  giudice  per  la tendenza a mantenere un giudizio
 gia' espresso, condizionato da una forma involontaria di prevenzione.
 Cio' tanto piu' deve affermarsi, ad avviso del remittente, in  quanto
 questa  Corte,  nella citata sentenza n. 432 del 1995, non ha operato
 alcuna distinzione tra coloro che  confessano  i  propri  addebiti  e
 coloro  che si professano innocenti, tra collaboratori di giustizia e
 comuni  imputati,  ma  ha  posto  unicamente   l'accento   sul   dato
 sostanziale    della    valutazione   di   merito   incidente   sulla
 responsabilita' dell'imputato  (valutazione  certamente  non  esclusa
 dalla  mancata  applicazione  della  custodia  in carcere solo per la
 insussistenza di esigenze cautelari).
   Da  cio' discenderebbe, secondo il giudice a quo, la violazione del
 principio del giusto processo, desumibile dagli artt. 3, primo comma,
 e 24, secondo comma, della Costituzione.
                         Considerato in diritto
   1. - L'ordinanza di rimessione ha ad oggetto l'art.  34,  comma  2,
 del  codice  di  procedura  penale,  del  quale  viene  denunciata la
 illegittimita'  costituzionale  nella  parte  in  cui   non   prevede
 l'incompatibilita' alla funzione di giudizio per il giudice che abbia
 disposto  la  custodia  cautelare in carcere dei correi dell'imputato
 sottoposto al suo giudizio, motivando la sussistenza dei gravi indizi
 di  colpevolezza  a  loro  carico  sulla  base  delle   dichiarazioni
 confessorie  rese  dal  medesimo  imputato,  nei confronti del quale,
 tuttavia, non era stata adottata alcuna misura cautelare  in  assenza
 di richiesta in tal senso del pubblico ministero.
   Ad  avviso del giudice a quo, la mancata previsione di una causa di
 incompatibilita'  in  una  situazione   in   cui   le   dichiarazioni
 confessorie dell'imputato sono state ritenute attendibili al punto di
 fondare  su di esse l'emissione di una misura cautelare nei confronti
 dei correi, contrasterebbe con  il  principio  del  giusto  processo,
 desumibile  dagli  artt.  3,  primo comma, e 24, secondo comma, della
 Costituzione.
   2. - La questione e' inammissibile.
   E' necessario premettere che  il  principio  del  giusto  processo,
 secondo  la giurisprudenza di questa Corte, risponde all'esigenza che
 il giudice non sia ne' appaia condizionato da precedenti  valutazioni
 compiute   nei   confronti   delle   parti,  tali  da  far  risultare
 pregiudicata la sua posizione di terzieta'.  Tale  principio  non  si
 realizza nel nostro ordinamento secondo un modulo processuale unico e
 infungibile.    Alla  sua tutela sono infatti preordinati due diversi
 istituti: da un lato le incompatibilita' determinate da atti compiuti
 nel procedimento (art. 34 cod. proc. pen.) e dall'altro  l'astensione
 (art.  36  cod.    proc.  pen.)  e la ricusazione (art. 37 cod. proc.
 pen.).
   Si tratta, va subito precisato, di strumenti tutti  orientati  alla
 garanzia  dell'indipendenza  del  giudice, intesa nella sua specifica
 accezione di terzieta'-non pregiudizio, come dimostra  il  fatto  che
 ciascuna  delle situazioni di incompatibilita' previste dall'art.  34
 e'  destinata  a  risolversi  in  una  causa  di  astensione   e   di
 ricusazione.
   Nonostante  che  il  trattamento  giuridico  sia,  nel  suo  nucleo
 centrale, alla fine lo  stesso  (ogni  pregiudizio  da'  luogo  a  un
 diritto della parte pregiudicata di proporre istanza di ricusazione),
 collocare  le  varie  fattispecie  soltanto  nell'area  dei  casi  di
 astensione o di ricusazione ovvero anche nell'ambito delle situazioni
 di incompatibilita' non e' del tutto indifferente: in  questa  scelta
 si  riflette una diversa articolazione della tutela del principio del
 giusto processo. Se e' vero, infatti, che, nella disciplina contenuta
 nel Capo VII, Titolo I del Libro I del codice di procedura penale,  a
 quanto  risulta  dal diritto vivente, le conseguenze della violazione
 del principio di terzieta' sono sempre le  stesse  e  approdano  solo
 all'attivazione dei procedimenti di cui agli artt. 36 e 38 cod. proc.
 pen.,  non puo' tuttavia negarsi che quando il motivo di astensione o
 di  ricusazione  consista  in  una   ipotesi   di   incompatibilita',
 codificata  come tale, quel principio riceve un supplemento di tutela
 in via preventiva.
   Una  volta  tipizzata  in  riferimento  all'avvenuto svolgimento di
 funzioni, l'incompatibilita' e', in  effetti,  prevedibile  e  quindi
 prevenibile,   sicche'   la   terzieta'   del   giudice  puo'  essere
 organizzata, cosi' da manifestarsi, prima  ancora  che  come  diritto
 delle   parti   ad   un  giudice  terzo,  come  modo  d'essere  della
 giurisdizione nella sua oggettivita' (sentenza n. 155 del 1996).
   Ma la pretesa che la terzieta' sia previamente  organizzata  appare
 ragionevole  solo se riferita ad un medesimo procedimento e a tipi di
 funzioni definibili in astratto; solo se non si estenda,  quindi,  ad
 atti  adottati  in  procedimenti diversi e considerati in ragione del
 loro contenuto in concreto (sentenza n. 308 depositata in pari data).
 Altrimenti, nella varieta' delle relazioni  che  possono  instaurarsi
 tra  procedimenti distinti, e nella molteplicita' dei contenuti che i
 relativi  atti  sono  suscettibili  di  assumere,  si   avrebbe   una
 dilatazione enorme dei casi nei quali un qualche pregiudizio potrebbe
 essere  ravvisato e l'intera materia delle incompatibilita', dispersa
 in una casistica  senza  fine,  diverrebbe  refrattaria  a  qualsiasi
 tentativo   di   amministrazione   mediante  atti  di  organizzazione
 preventiva.
   3. - La collocazione delle incompatibilita' nascenti dall'esercizio
 di  funzioni  giurisdizionali  nell'apposito  elenco   dell'art.   34
 risponde dunque, in larga massima, a una scelta non irragionevole del
 legislatore,   incentrata  sulla  percezione  della  possibilita'  di
 organizzare in via preventiva la  tutela  del  principio  del  giusto
 processo. E la giurisprudenza della Corte si e' generalmente attenuta
 a  tale criterio.   Nelle numerose sentenze che si sono susseguite in
 materia di incompatibilita' e  che  hanno  prolungato,  con  pronunce
 additive,   l'elenco   dell'art.      34   cod.  proc.  pen.,  comune
 caratteristica  era  l'assecondare  l'opzione  del   legislatore   di
 riferire   il   pregiudizio   all'avvenuto   esercizio   di  funzioni
 all'interno dello stesso procedimento, sul presupposto che in  questo
 modo  la  terzieta' del giudice puo' e deve essere apprezzata sin dal
 momento della formazione dei collegi  e  degli  uffici  giudicanti  e
 organizzata con tempestive e giustificate deroghe alle tabelle o agli
 ordinari  criteri  di  assegnazione  degli  affari (sentenza n.   306
 depositata in pari data).
   Solo in un caso, nelle sentenze  in  materia,  la  sistematica  del
 legislatore  appare  disattesa  con  l'introduzione  di una figura di
 incompatibilita' che non proviene dall'esercizio di  funzioni  in  un
 medesimo  procedimento,  ma  dal  contenuto degli atti compiuti in un
 procedimento diverso. Si tratta della sentenza n. 371 del  1996,  che
 ha  dichiarato  illegittimo l'art. 34 cod. proc. pen., nella parte in
 cui non prevede che non possa partecipare al giudizio  nei  confronti
 di  un  imputato  il  giudice  che  abbia  pronunciato  o  concorso a
 pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri  soggetti,
 nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua
 responsabilita'  penale  sia  gia'  stata  comunque  valutata. L'atto
 pregiudicante era stato pero' emesso in  quel  caso  in  una  vicenda
 processuale  sostanzialmente  unitaria  ed  era  una sentenza, l'atto
 cioe' con il quale  il  processo  penale  viene  definito  e  che  e'
 l'espressione  piu'  pregnante  della funzione giurisdizionale. E dal
 contenuto di tale atto emergeva  un  pregiudizio,  non  su  questo  o
 quell'aspetto   strumentale   o  collaterale  della  fattispecie,  ma
 sull'essenza della giurisdizione penale, vale a dire la  valutazione,
 sia  pure  incidentale,  in  ordine alla responsabilita' di un terzo.
 L'atto pregiudicante era, insomma, per forma e per tipo di contenuto,
 anche se ovviamente non  per  effetti,  manifestazione  tipica  della
 giurisdizione  penale.  E  di fronte all'eventualita' che un medesimo
 giudice persona fisica ritornasse, con una  sentenza  successiva,  su
 valutazioni  di  responsabilita'  gia'  compiute  in  una  precedente
 sentenza penale, appariva necessario  che  il  principio  del  giusto
 processo  si  dispiegasse  al  pieno  delle  sue potenzialita'; e che
 pertanto  le  funzioni  esercitate  nei  due   procedimenti   penali,
 formalmente  diversi  ma  riguardanti  una  medesima vicenda, fossero
 qualificate come "incompatibili", a causa, questa volta, della natura
 dell'atto nel quale  si  erano  estrinsecate  (sentenza)  e  del  suo
 concreto  contenuto  (valutazione  di  responsabilita'  penale  di un
 terzo);  fossero  trattate,  in  altre  parole,  al  di   la'   della
 sistematica  legislativa,  come se ci si fosse trovati in presenza di
 funzioni esercitate nello stesso procedimento (sentenze nn. 306 e 308
 depositate in pari data). E cio' in  vista  della  realizzazione,  il
 piu'  possibile  spontanea  e  non  rimessa  alla sola iniziativa del
 giudice    o    delle    parti,    del    requisito    costituzionale
 dell'indipen-denza,    apparendo,    in   simili   casi,   certamente
 impegnativi, ma non sproporzionati ne' incongrui rispetto all'entita'
 dei principii in gioco, gli oneri di organizzazione preventiva che si
 venivano ad imporre all'amministrazione della giurisdizione penale.
   4. - Nella vicenda  che  forma  oggetto  del  giudizio  a  quo,  il
 remittente  ravvisa  una situazione di pregiudizio nel fatto di avere
 adottato una ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti
 di due correi, e di avere motivato la sussistenza di gravi indizi  di
 colpevolezza a loro carico sulla base delle dichiarazioni confessorie
 di  un  terzo,  anch'egli  correo,  non colpito a sua volta da misura
 cautelare  in  assenza  di  richiesta  in  tal  senso  del   pubblico
 ministero, e che ora si trova a dover giudicare col rito abbreviato.
   A  questa  Corte  non  appare  implausibile  che, nella fattispecie
 rappresentata,  il  remittente  percepisca  il  celebrando   giudizio
 abbreviato  come  condizionato dalla positiva valutazione prognostica
 da lui  gia'  formulata  nella  motivazione  della  misura  cautelare
 personale  adottata  nei  confronti dei concorrenti. Ed in effetti il
 principio del giusto processo rischia in questo caso  di  subire  una
 vulnerazione.
   A  una  pronuncia  di  accoglimento osta tuttavia il rilievo che il
 pregiudizio non solo proviene da un procedimento che, a seguito della
 separazione, e' formalmente diverso, ma deriva da un'ordinanza emessa
 nei confronti di soggetti diversi e che non e' espressione conclusiva
 della potesta' di giudizio in materia  penale.  Non  appaiono  quindi
 sussistenti  le  ragioni  che  hanno  sostenuto  la  dichiarazione di
 illegittimita' costituzionale dell'art. 34 nella sentenza n. 432  del
 1995  (giudice  chiamato  a pronunciarsi sulla responsabilita' penale
 del  medesimo  imputato  nei  cui  confronti  aveva   emesso   misura
 cautelare);  ne'  quelle poste a fondamento della sentenza n. 371 del
 1996  (valutazione  incidentale  sulla  responsabilita'   del   terzo
 contenuta  in  una  precedente  sentenza penale), che hanno indotto a
 trattare il pregiudizio come se  provenisse  da  funzioni  esercitate
 nello stesso procedimento.
   Nella  fattispecie dalla quale prende le mosse il giudice a quo, il
 giusto  processo,  pur  mantenendo  intatta  la   propria   capacita'
 qualificatoria,  presenta  una attitudine a concretizzarsi attraverso
 gli strumenti e le forme di garanzia corrispondenti alla  sistematica
 del  codice.  Non vi sono infatti ragioni sufficienti per imporre una
 diversa collocazione degli strumenti preordinati alla tutela di  quel
 principio,  posto  che  la  piena  realizzazione  della  funzione  di
 garanzia supplementare propria dell'istituto  della  incompatibilita'
 comporterebbe  oneri  di  organizzazione  preventiva del principio di
 terzieta'  che  la  indeterminata  tipologia  delle   situazioni   di
 pregiudizio  che  possono  concretamente verificarsi nelle reciproche
 relazioni tra processi diversi renderebbe difficilmente esigibili.
   Cio' non vuol  dire  che  il  principio  del  giusto  processo  sia
 destinato  a  restare  inappagato  di fronte a situazioni come quella
 nella quale si trova il giudice remittente. Vuol  dire  solo  che  lo
 strumento  di  tutela non puo' essere una ulteriore sentenza additiva
 sull'art.   34, ma deve essere  ricercato  nell'area  degli  istituti
 della   astensione   e   ricusazione,   anch'essi   preordinati  alla
 salvaguardia  della  terzieta'  del  giudice.  Ed  e'   guardando   a
 quest'area, e alle potenzialita' interpretative che essa esprime, che
 il  giudice  a  quo,  eventualmente  anche richiedendo un succes-sivo
 intervento di questa  Corte,  dovra'  dare  attuazione  al  principio
 costituzionale al quale si e' mostrato sensibile.