IL PRETORE
   Nella  causa  in  materia di previdenza ed assistenza obbligatoria,
 r.g.  n.  6734/1995,  promossa  da  Consonni   Irene,   elettivamente
 domiciliata  in  Brescia  presso  l'avv.  Danilo  Mina,  il  quale la
 rappresenta e  difende  in  forza  di  procura  a  margine  dell'atto
 introduttivo del giudizio, ricorrente;
   Contro  l'I.N.P.S.  -  Istituto nazionale della previdenza sociale,
 con  sede  in  Roma,   in   persona   del   presidente   pro-tempore,
 rappresentato  e  difeso  dagli  avvocati  Oreste  Manzi  ed  Alfonso
 Faienza, procuratori per mandati alle liti a rogito del  dott.  Lupo,
 notaio   in  Roma,  con  domicilio  eletto  nel  proprio  ufficio  di
 avvocatura in Brescia, via Cefalonia n. 49, convenuto;
   Visti gli atti difensivi delle parti;
   Vista  l'ordinanza  26-29  gennaio   1998,   n.   8   della   Corte
 costituzionale,  con  la  quale  e'  stata  dichiarata  "la manifesta
 inammissibilita' delle  questioni  di  illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  1  del  d.-l.    28  marzo  1996, n. 166 (Norme in materia
 previdenziale), nonche' dell'art.  22 della legge 21 luglio 1965,  n.
 903  (Avviamento  della  riforma  e  miglioramento dei trattamenti di
 pensione e della previdenza sociale) e dell'art. 11, comma 22,  della
 legge  24  dicembre  1993,  n.  537 (Interventi correttivi di finanza
 pubblica) - come rispettivamente modificati dalle sentenze n. 495 del
 1993  e  n.  240  del 1994 della Corte costituzionale - sollevate, in
 riferimento all'art. 81 della Costituzione, dal pretore  di  Brescia,
 con  le  ordinanze  in  epigrafe";  Vista  la precedente ordinanza 10
 maggio 1996, emessa nel presente giudizio e pubblicata, con il n. 999
 del  registro  ordinanze  1996,  nella  Gazzetta  Ufficiale  e  della
 Repubblica  n.  41,  prima  serie speciale, del 1996; Visto l'art. 1,
 commi 181, 182, 183 e 184, della legge  23  dicembre  1996,  n.  662,
 nonche'  l'art.  3-bis  (modifiche all'art. 1 della legge 23 dicembre
 1996, n. 662) della legge 28 maggio 1997, n. 140, di conversione, con
 modificazioni, del d.-l. 28 marzo 1997,  n.  79,  recante  misure  di
 riequilibrio della finanza pubblica;
   Visto  l'art.  1  del  d.-l. 28 marzo 1996, n. 166, e la catena dei
 successivi decreti-legge di pura reiterazione n. 295  del  27  maggio
 1996,  n.  396,  del 26 luglio 1996, e n. 499, del 24 settembre 1996,
 tutti decaduti;
   Visto l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903;
   Vista  la  sentenza  29-31  dicembre  1993,  n.  495,  della  Corte
 costituzionale;
   Visto l'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87;
   Visto l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1;
   Visto l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1;
   Visti  gli  artt.  1, 24, 25, 70, 71, 72, 76, 77, 81, 94, 101, 102,
 104, 113, 134 e 136 della Costituzione; Nella pubblica udienza del 15
 giugno 1998, ha pronunciato, dandone integrale lettura,  la  seguente
 ordinanza  di nuova rimessione alla Corte costituzionale di questioni
 di  legittimita'  costituzionale,  rilevate   d'ufficio,   ai   sensi
 dell'art.   134   della  Costituzione,  dell'art.     1  della  legge
 costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1,  e  dell'art.  23  della  legge
 ordinaria 11 marzo 1953, n. 87.
   1. - Le deduzioni e conclusioni formulate dalle parti in causa:
     A) Nelle conclusioni di parte attrice si chiede a questo pretore,
 di  "dichiarare  l'INPS  convenuto tenuto, a favore della ricorrente,
 nei modi e forme di legge, a riliquidare, in esecuzione della  citata
 sentenza  n.  495/1993  della  Corte  costituzionale,  la pensione di
 reversibilita' in relazione alla pensione diretta con  l'integrazione
 al  minimo  di cui il coniuge defunto era titolare od alla quale egli
 aveva comunque diritto, con gli arretrati ab origine o comunque entro
 i limiti della prescrizione decennale, oltre rivalutazione  monetaria
 ed interessi di legge";
     B)  l'INPS,  ha  espresso  le  seguenti,  riportate  testuamente,
 graduate conclusioni: respingere il ricorso "in via preliminare,  per
 carenza  dei  requisiti fattuali di cui alle premesse".  "Nel merito:
 respingere il ricorso siccome inammissibile per scadenza del  termine
 di   decadenza   per   agire   in  giudizio  previsto  dalle  vigenti
 disposizioni".   "In  via  subordinata:  respingere  la  domanda  per
 carenza  di  interesse  in  quanto  il ricorrente gode di pensione di
 reversibilita' per un importo cristallizzato al trattamento  minimo".
 "Respingere   la   domanda   di   riliquidazione  della  pensione  di
 reversibilita' rapportata al trattamento minimo del  dante  causa  in
 quanto riferita a periodi anteriori alla pubblicazione della sentenza
 della Corte costituzionale in materia";
     C) l'istituto resistente ha, inoltre, pur senza addurre argomenti
 di  supporto, senza assumere conclusioni specifiche e senza sollevare
 formale  eccezione  di  legittimita'  costituzionale,  sostenuto  che
 l'interpretazione  dell'art.  22,  legge  n.  903/1965,  nei  termini
 additivi  voluti  dalla  sentenza  n.  495/1993 sarebbe, comunque, in
 contrasto con l'art. 81 della Costituzione;
     D) nessun nuovo argomento difensivo e' stato proposto dalle parti
 in questa processuale, dopo la riassunzione del giudizio.
   2. - La necessita' di una  nuova  valutazione  delle  questioni  di
 legittimita'  costituzionale  gia'  rilevate  d'ufficio nella propria
 ordinanza 10 maggio 1996, pubblicata con il  n.  999  nella  Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  41,  prima serie seciale, dell'anno
 1996.  Con l'ordinanza 10 maggio 1996, emessa  nel  corso  di  questo
 giudizio,  questo pretore rilevava d'ufficio le seguenti questioni di
 legittimita' costituzionale:
     a) questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del d.-l.
 28  marzo  1996,  n.  166,  per   violazione   dell'art.   81   della
 Costituzione;
     b)  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 22 della
 legge 21 luglio 1965, n.  903,  come  modificato  dalla  sentenza  n.
 495/1993  della  Corte  costituzionale,  per  violazione dell'art. 81
 della Costituzione;
   2.a.  -  La  Corte  costituzionale  ha  dichiarato  "la   manifesta
 inammissibilita'   delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art. 1 del d.-l.   28 marzo  1996,  n.  166  (Norme  in  materia
 previdenziale),  nonche' dell'art.  22 della legge 21 luglio 1965, n.
 903 (Avviamento della riforma  e  miglioramento  dei  trattamenti  di
 pensione  e della previdenza sociale) e dell'art. 11, comma 22, della
 legge 24 dicembre 1993, n.  537  (Interventi  correttivi  di  finanza
 pubblica) - come rispettivamente modificati dalle sentenze n. 495 del
 1993  e  n.  240  del 1994 della Corte costituzionale - sollevate, in
 riferimento all'art. 81 della Costituzione, dal pretore  di  Brescia,
 con  le  ordinanze in epigrafe", tra le quali e' compresa l'ordinanza
 10 maggio 1996,  gia'  emessa  nel  corso  del  presente  giudizio  e
 pubblicata, con il n. 999 del registro ordinanze 1996, nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 41 del 1996.
   2.b.  -  Le  stesse  questioni  non sono state valutate dalla Corte
 costituzionale,  perche'  irrilevanti   e   pertanto   manifestamente
 inammissibili,  a  causa della mancata censura della disposizione con
 la quale "tanto nella normativa decretale quanto in quella  di  legge
 (art.  1, comma 183, della legge n. 662 del 1996) viene sancito che i
 giudizi pendenti siano dichiarati estinti d'ufficio", previsione  che
 "trova  diretta  applicazione  anche  nei processi a quibus (come tra
 l'altro avverte lo stesso rimettente)"  e  che  "riveste  preliminare
 rilievo,  in  termini di sovraordinazione logico-processuale rispetto
 ad ogni altra possibile censura di incostituzionalita'".
   2.c. - Preso atto della decisione  della  Corte,  risulta  doveroso
 riconsiderare  le  questioni,  attinenti  il  merito  della  presente
 controversia,   sollevate   nell'ordinanza   precedente,    con    la
 precisazione  che,  in  realta',  il  riesame  di quelle censure deve
 essere svolto,  non  solo  alla  luce  delle  disposizioni  di  legge
 indicate  dalla  Corte,  ma  anche e soprattutto con riferimento alla
 nuova formulazione dell'art. 1 della legge n. 662 del 1996, nel comma
 181 (interamente sostituito) e, nel comma 182 (sostituito nel  quarto
 periodo ed abrogato nell'ultimo), in forza dell'art. 3-bis (modifiche
 all'art. 1, legge n. 662/1996) della legge 28 maggio 1997, n. 140, di
 conversione, con modificazioni, del d.-l. 28 marzo 1997, n. 79.
   3.   -  I  vizi  di  legittimita'  costituzionale  della  normativa
 sopravvenuta attualmente vigente e le relative questioni da  rilevare
 d'ufficio in questa sede.  Prima di procedere alla nuova valutazione,
 alla  luce della normativa sopravvenuta, delle questioni gia' portate
 all'attenzione della  Corte  nella  precedente  ordinanza  emessa  in
 questo  stesso  giudizio,  devono  essere  rilevate  d'ufficio  nuove
 questioni di legittimita' costituzionale  a  carico  della  normativa
 attualmente  vigente.    3.a.  -  Sin dall'epoca della emanazione del
 primo d.-l. n. 166/1996  e  con  riferimento,  poi,  alle  successive
 reiterazioni  con  i  nn. 295, 396 e 499, questo giudice, in numerose
 (e' sufficiente qui ricordare solo le prime  due,  quelle  emesse  in
 data  1 aprile 1996, iscritte ai nn. 524 e 525 del registro ordinanze
 1996, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, prima serie  speciale,  n.
 25  del  19  giugno  1996) ordinanze di trasmissione al giudice delle
 leggi di questioni di legittimita' costituzionale a  carico  di  tale
 serie  di  provvedimenti,  aveva  messo  in  risalto  che  mai si era
 verificato  nella  legislazione  italiana,  pur  tormentata   da   un
 eccessivamente   anomalo  ricorso  alla  decretazione  d'urgenza  del
 Governo, un caso si palesemente evidente di abuso di potere da  parte
 del  potere esecutivo con grave violazione del principio di legalita'
 e delle attribuzioni dei poteri  legislativo  e  giudiziario.    Dopo
 l'entrata  in vigore dell'art. 1, commi 181, 182, 183 e 184, legge 23
 dicembre  1996,  n.  662,  rilevata  l'idoneita'  della  normativa  -
 identica  a  quella  dei  sopra  ricordati decreti-legge decaduti - a
 sottrarre all'autorita' giudiziaria l'amministrazione della giustizia
 in nome del  popolo,  essendole  precluso  l'esercizio  tipico  della
 funzione  giurisdizionale  e cioe' quello di definire le controversie
 in corso con la decisione delle stesse mediante  la  pronuncia  della
 sentenza,  questo  stesso giudice, con ordinanza del 28 gennaio 1997,
 proponeva ricorso, depositato il 1 febbraio 1997 ed iscritto al n. 70
 del registro ammissibilita' conflitti, per conflitto di  attribuzione
 nei confronti delle due Camere del Parlamento.  In quella sede questo
 pretore  denunciava  l'invasione  del  potere legislativo nella sfera
 delle  attribuzioni   dell'autorita'   giudiziaria   ricorrente,   in
 considerazione  del  fatto  che nelle suddette disposizioni era (come
 tuttora e', anche dopo l'entrata  in  vigore  dell'art.  3-bis  della
 legge  28 maggio 1997, n. 140, di conversione, con modificazioni, del
 d.-l. 28 marzo 1997, n. 79) prevista una soluzione legislativa  delle
 controversie,  all'evidenza  sostitutiva  della decisione del giudice
 competente, al quale restava (come resta) solo affidato  il  compito,
 decisamente atipico, di dichiarare d'ufficio l'estinzione dei giudizi
 pendenti  alla  data di entrata in vigore della legge.  Con ordinanza
 n. 278 del 18-25 luglio 1997 (pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale,
 prima  serie speciale, 13 agosto 1997, n. 33) la Corte costituzionale
 ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di  attribuzione
 sopra  ricordato,  cosi', testualmente, motivando:   "considerato ...
 che i commi 181 e 182 dell'art. 1 della legge n.    662  del  1996  -
 concernendo,  il  primo,  le  modalita'  di  pagamento  delle  somme,
 maturate fino al  31  dicembre  1995  sui  trattamenti  pensionistici
 erogati   dagli   enti   previdenziali  interessati,  in  conseguenza
 dell'applicazione delle sentenze di questa Corte n. 495 del 1993 e n.
 240 del 1994 e, il secondo, la titolarita' del diritto  al  pagamento
 delle  somme anzidette nonche' l'esclusione dalla loro determinazione
 degli interessi e della rivalutazione monetaria - sono  per  il  loro
 contenuto evidentemente inidonei a ledere la sfera delle attribuzioni
 costituzionali  del  giudice  ricorrente,  recando esclusivamente una
 disciplina sostanziale di diritti in materia  pensionistica;  che  il
 comma  183  del  medesimo  art.  1  della  legge  n.  662  del 1996 -
 stabilendo che i giudizi pendenti alla  data  di  entrata  in  vigore
 della legge stessa, aventi a oggetto le questioni di cui ai commi 181
 e  182,  sono  dichiarati  estinti  d'ufficio con compensazione delle
 spese fra le parti e che le sentenze non ancora passate in  giudicato
 restano prive di effetti - contiene norme, disciplinanti direttamente
 l'esercizio della giurisdizione, di cui il giudice e' chiamato o puo'
 essere  chiamato  a  fare applicazione per definire giudizi innanzi a
 se' pendenti; che, quindi, per l'eventualita' che il  giudice  stesso
 dubiti  della legittimita' costituzionale delle norme medesime (anche
 sotto il profilo della  possibile  lesione  della  propria  sfera  di
 attribuzioni),   l'ordinamento   appresta   un  rimedio  diverso  dal
 conflitto, vale a  dire  la  questione  incidentale  di  legittimita'
 costituzionale, eventualmente sollevata dal giudice d'ufficio a norma
 degli  artt.  1  della  legge costituzionale n. 1 del 1948 e 23 della
 legge n. 87 del 1953; che le stesse considerazioni valgono anche  per
 la  parte  in  cui  il conflitto e' proposto in relazione all'art. 1,
 comma 6, della legge n.  608  del  1996,  norma  di  sanatoria  degli
 effetti di precedenti decreti-legge non convertiti, aventi i medesimi
 contenuti dei contestati commi 181, 182 e 183 dell'art. 1 della legge
 n.  662 del 1996; che, d'altra parte, le ragioni che indussero questa
 Corte, nella sentenza n. 161 del  1995,  ad  ammettere  che  in  casi
 eccezionali  di  "situazioni  non piu' reversibili ne' sanabili" e in
 vista della tempestivita' della garanzia  costituzionale  di  diritti
 fondamentali,  il  conflitto  di  attribuzioni  possa  affiancarsi al
 sindacato incidentale non valgono, all'evidenza nel caso in esame  in
 cui  si  chiede di riconoscere al giudice il potere di adire la Corte
 tramite lo strumento previsto a  tutela  dell'integrita'  dell'ambito
 delle  sue  competenze  costituzionali,  quando  gia'  dispone  della
 possibilita'   di   attivare   il    giudizio    incidentale    sulla
 costituzionalita' della legge;
     che,  pertanto,  il  conflitto  in  esame e' inammissibile".   In
 considerazione della sopra riferita decisione della Corte, senza  con
 cio  riconoscerne la fondatezza, ma avendo ben presente il divieto di
 cui all'art. 137 della Costituzione, risulta necessario trasformare i
 contenuti del conflitto  dichiarato  inammissibile  in  questioni  di
 legittimita'  costituzionale.  Deve, cosi', rilevarsi la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 181, 182, e 183, della
 legge 23 dicembre 1996, n. 662, nonche'  dell'art.  3-bis  (modifiche
 all'art.  1  della  legge  23  dicembre  1996, n. 662) della legge 28
 maggio 1997, n. 140, di conversione, con modificazioni, del d.-l.  28
 marzo  1997,  n.  79,  recante  misure  di riequilibrio della finanza
 pubblica, per violazione degli artt. 24, 25,  101,  102,  104  e  113
 della Costituzione.
   3.a.1.  -  La  violazione  dell'art.  113  Costituzione.    Invero,
 qualunque sia il contenuto sostanziale dei commi 181 e 182  dell'art.
 1 della legge n. 662/1996, e' di tutta evidenza che le relative norme
 determinano  la  lesione  dell'art.  113  della Costituzione, essendo
 chiaro che, per quanto le domande dei ricorrenti nelle  cause  aventi
 ad   oggetto   la   materia   sottoposta  alla  vigenza  dell'attuale
 formulazione dell'art 1, commi 181, 182 e 183, legge n. 662/1996  non
 siano    dirette    ad    ottenere    una    pronuncia   dichiarativa
 dell'illegittimita' degli atti amministrativi dell'INPS che hanno  in
 passato  negato  i  diritti  vantati  nelle controversie in discorso,
 bensi' ad ottenere le  prestazioni  richieste,  appare  evidente  che
 l'imposta   estinzione  dei  giudizi  in  corso  determina  anche  la
 violazione dell'art. 113, commi 1 e 2,  della  Costituzione,  poiche'
 preclusiva  della  tutela  giurisdizionale  contro i provvedimenti di
 diniego gia' emessi dall'INPS.
   L'art. 113 Cost., infatti, cosi' recita nei suoi primi  due  commi:
 "Contro  gli atti della pubblica amministrazione e' sempre ammessa la
 tutela  giurisdizionale  dei  diritti  e  degli  interessi  legittimi
 dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa".
   "Tale  tutela  giurisdizionale non puo' essere esclusa o limitata a
 particolari mezzi di impugnazione  o  per  determinate  categorie  di
 atti".     La  violazione  dell'art.  113,  come  sopra  individuata,
 determina   anch'essa   un   invasione   illecita   della   specifica
 attribuzione  dell'organo  di  giurisdizione  ordinaria  (giudice del
 lavoro in sede di merito e di legittimita')  competente  a  conoscere
 delle   domande   spiegate   dai   ricorrenti   contro  l'INPS  nelle
 numerosissime cause delle quali si  e'  detto,  poiche'  preclude  la
 tutela  giurisdizionale  contro  tutti  gli atti di diniego dell'INPS
 posti in essere nelle pregresse fasi amministrative.  Tale esclusione
 della tutela giurisdizionale contro i predetti  atti  della  pubblica
 amministrazione, e', non solo illegittima, ma anche tale da eliminare
 la  specifica  attribuzione costituzionale dell'autorita' giudiziaria
 prevista nell'art. 113, con la conseguente ulteriore violazione degli
 artt. 101, 102 e 104 della Costituzione.
   3.a.2. - La violazione degli  artt.  101,  102,  103  e  104  della
 Costituzione.  Inoltre, a causa della situazione di fatto eccezionale
 determinata,  appunto,  ai  commi  181,  182  e  183  della  legge n.
 662/1996,  sussiste  un'ulteriore   compromissione   della   funzione
 giurisdizionale,  poiche'  (si ripete qui quanto gia' prospettato nel
 citato ricorso per  in  sede  di  conflitto  di  attribuzione)  "deve
 mettersi  in  risalto che, comunque e cioe' anche a non voler credere
 alla natura sostanziale di sentenza dell'art. 1,  commi  181,  182  e
 183,  della  legge  23  dicembre  1996,  n.  662,  e'  certo che tale
 disposizione ostacola la funzione giurisdizionale, poiche'  determina
 il  trasferimento  del  contenzioso  giudiziario  pendente,  al quale
 risulta  destinata  la  suddetta  normativa,  di  nuovo  nella   sede
 amministrativa  (ove  si  e'  gia' in precedenza sviluppato con esito
 negativo), senza che la disposta estinzione d'ufficio dei giudizi  in
 corso  possa  eliminarlo,  essendo  ipotizzabile  un  suo riaprirsi e
 rinnovarsi nei casi di decisioni amministrative di diniego,  tali  da
 costringere  i  pensionati  (i  loro  eredi,  senza dubbio) a cercare
 ancora  una  volta  tutela  in  sede  giudiziaria.  Tale  effetto  e'
 certamente  idoneo  a creare turbativa (come gia' l'hanno determinata
 le   identiche   norme   dei   decreti-legge   decaduti)   in   danno
 dell'amministrazione   della   giustizia,   dando  luogo  ad  inutili
 duplicazioni  di  attivita',  con  dilatazione   enorme   dei   tempi
 processuali  e  con  causazione  di  un  aggravio  ingiustificato  ed
 ingiustificabile   di    lavoro    a    carico    delle    parti    e
 dell'amministrazione   stessa,   senza   parlare   delle  difficolta'
 giuridiche connesse alla definizione dei  potenziali  futuri  giudizi
 per   la   carenza   sostanziale  di  regole  nelle  disposizioni  di
 riferimento  da applicare".  Con conseguente lesione degli artt. 101,
 102 e 104 della Costituzione.
   3.a.3. - La violazione degli artt.  24  e  25  della  Costituzione.
 Inoltre  -  cosi' come gia' e' stato messo in rilievo piu' volte e da
 molti  dei  giudici  remittenti  con  riferimento  alla  decretazione
 d'urgenza del Governo, gia' ricordata - anche nei confronti dell'art.
 1,  commi  181,  182  e 183, della legge n. 662 del 1996 deve negarsi
 l'applicabilita' del principio affermatosi nella giurisprudenza della
 Corte costituzionale, secondo il quale non sussiste(rebbe) violazione
 dell'art. 24 della Costituzione, quando la normativa sopravvenuta sia
 idonea a soddisfare, anche se non  integralmente,  le  ragioni  fatte
 valere  nei  giudizi per i quali e' imposta dalla legge l'estinzione,
 purche'  risulti  comunque  arricchito  l'ambito   delle   situazioni
 giuridiche  di  cui  sono  titolari  gli  interessati: la perdita del
 diritto all'azione, conseguente all'estinzione dei  giudizi  prevista
 nel  comma 183, infatti, non trova nei commi precedenti quella misura
 di  arricchimento  degli  interessati  sufficiente  a  far   ritenere
 insussistente  la  violazione dell'art. 24 della Costituzione, stante
 la (oggi parziale) esclusione degli accessori  del  credito  per  gli
 aventi   diritti  e  l'esclusione  degli  eredi  da  ogni  diritto  e
 vantaggio.   Peraltro, non  puo'  omettersi  di  far  notare  che  il
 principio  del  quale  si  e'  appena  detto appare poco convincente,
 poiche' esso risulta  privo  di  riscontro  e  conforto  giuridico  a
 livello  costituzionale.    Invero  l'affermazione della legittimita'
 costituzionale della legge che privi  gli  interessati  della  tutela
 giurisdizionale  solo  sulla  base  della concessione di un vantaggio
 sufficiente, in assenza di totale riconoscimento del diritto,  appare
 in  contrasto  con l'intero sistema costituzionale vigente, nel quale
 la garanzia della giurisdizione  e'  posta  come  essenziale  per  la
 tutela dei diritti e non sembra davvero confrontabile e "barattabile"
 con  parziali  riconoscimenti  economici  attribuiti  dalla legge. Il
 diritto alla tutela giurisdizionale e'  paragonabile  al  diritto  di
 voto,   alla  liberta'  di  espressione,  all'esercizio  dei  diritti
 politici, a tutti quei  diritti,  cioe',  che  danno  concretezza  di
 contenuto  al  concetto  di "Stato di diritto" e che devono ritenersi
 intangibili ed insopprimibili: tenuto conto di quanto  si  e'  appena
 detto, il principio qui sottoposto a critica sembra davvero frutto di
 una mancata visione globale degli interessi costituzionali sottesi al
 diritto  alla tutela giurisdizionale.  Ne' puo', inoltre, negarsi che
 il diritto all'azione non e' di una sola parte del  giudizio,  ma  di
 tutte,  cosicche'  la tutela prevista nell'art. 24 della Costituzione
 e' diretta anche  al  convenuto/resistente  e  non  solo  all'attore/
 ricorrente,  con  la incontestabile conseguenza che nessuna soluzione
 legislativa   diretta   a   soddisfare   le    ragioni    del    solo
 attore/ricorrente, senza dettare una nuova regola destinata ad essere
 applicata   dal   giudice   nel   processo  per  la  decisione  della
 controversia, pu ritenersi legittima e  conforme  all'art.  24  della
 Costituzione.    In  sostanza  non  si  comprende  come  possa essere
 considerata legittima rispetto all'art.  24  della  Costituzione  una
 legge  che  nel negare la tutela giurisdizionale a tutte le parti del
 processo, offra in cambio vantaggi (parziali, con violazione, dunque,
 del primo comma dell'art.  24  Cost.)  alla  sola  parte  ricorrente,
 respingendo  ogni  legittima domanda svolta da quella resistente (con
 palese violazione del secondo comma dell'art. 24 Cost.): e' cio'  che
 si verifica nei giudizi in corso dinanzi a questo giudice per i quali
 risulta  applicabile  l'art.  1, commi 181, 182 e 183, della legge n.
 662/1996, con l'aggravante che anche per  taluni  ricorrenti,  quelli
 che   agiscono   a  titolo  ereditario,  viene  eliminata  la  tutela
 giurisdizionale.   Che, poi, la denunciata  privazione  della  tutela
 giurisdizionale, con violazione dell'art. 24 Cost., concretizzi anche
 una  indebita  ingerenza  nell'ambito  delle  esclusive  attribuzioni
 costituzionali  dell'Autorita'   giudiziaria   appare   di   evidenza
 assoluta,  quando  (come  nel  caso  in esame) la causa della lesione
 all'art. 24  sia  da  rinvenire  nella  sostituzione  ex  lege  della
 decisione  del  giudice  con una soluzione normativa, poiche' in tale
 situazione l'esclusione dell'azione determina senza dubbio alcuno  la
 sottrazione  della funzione giurisdizionale al "potere" al quale essa
 e' affidata.  Ne' puo' ritenersi che l'estinzione a spese  compensate
 dei  giudizi  pendenti ... sia paragonabile nella sua sostanza ad una
 sentenza di cessazione della  materia  del  contendere  (come  si  e'
 affermato  in  precedenti simili ipotesi), poiche' nel caso specifico
 l'estinzione  non  opera  come  una  cessazione  della  materia   del
 contendere,   giacche'   non   si   puo'  ravvisare  nella  soluzione
 prospettata dalla legge per i soggetti interessati (si badi  bene:  i
 soli  ricorrenti  dei  giudizi pendenti, ai sensi dell'art. 183 della
 legge n. 662/1996) un vantaggio tale da far  presumere  in  linea  di
 fatto soddisfatti i diritti dedotti nelle cause da estinguere. Se poi
 si  sposta  l'indagine sulla posizione giuridica degli eredi, parlare
 di cessazione della materia  del  contendere  in  conseguenza  di  un
 sufficiente   raggiungimento  dei  diritti  da  loro  vantati  appare
 francamente,  se  non  umoristico,   impossibile:   per   gli   eredi
 l'estinzione  delle  cause  in  corso  alla data di entrata in vigore
 della legge significa, seccamente, rigetto dei ricorsi  dagli  stessi
 proposti e null'altro.  Quanto poi all'operativita' del comma 183 sui
 commi  181  e 182 e' evidente che il riferimento alle "questioni" non
 consente di escludere dai giudizi da estinguere quelli introdotti  da
 eredi  dei  soggetti individuati nel comma 182 come aventi diritto ai
 pagamenti di cui al comma 181. La norma sul punto  non  lascia  spazi
 aperti a soluzioni interpretative "costituzionalizzanti".
   3.b. - Finora si sono riproposte le contestazioni gia' espessamente
 proposte,  in  altra  sede,  a carico degli artt. 181, 182, 183 della
 legge n. 662/1996 e gia' ben note alla Corte costituzionale, ma anche
 altre norme della Costituzione risultano direttamente  violate  dalla
 medesima normativa.  3.b.1. - La violazione degli artt. 1, 70, 72, 77
 e 94 della Costituzione.
   Le questioni di legittimita' costituzionale che, nel corso di altri
 giudizi, sono state sollevate a carico della serie dei decreti-legge,
 nn.  166,  295, 396 e 499 del 1996, del Governo, per violazione degli
 artt. 1, 70, 72, e  77  della  Costituzione,  ben  lungi  dall'essere
 superate  dall'intervenuto  art.  1, commi 181, 182, 183 e 184, della
 legge  23  dicembre  1996,  n.  662,  devono  essere  trasferite  dai
 precedenti  "contenitori" normativi a quello attuale (come insegna la
 giurisprudenza  della  Corte  costituzionale),  poiche'  le   censure
 rivolte  alla  decaduta  disciplina "provvisoria" del Governo restano
 valide anche nei confronti della normativa approvata dal  Parlamento,
 la  quale non presenta reali modifiche di sostanza, rispetto a quella
 dei decreti-legge  decaduti,  neppure  in  relazione  alla  copertura
 finanziaria  e  cio'  anche  con riferimento all'attuale formulazione
 dell'art.  1  della legge n. 662 del 1996, nel comma 181 (interamente
 sostituito) e, nel  comma  182  (sostituito  nel  quarto  periodo  ed
 abrogato  nell'ultimo),  in forza dell'art. 3-bis (modifiche all'art.
 1, legge n. 662/1996) della legge  28  maggio.    1997,  n.  140,  di
 conversione,  con  modificazioni, del d.-l. 28 marzo 1997, n. 79, dal
 momento che, comunque, resta immutata la previsione di  pagamento  in
 ben  sei  rate  annuali  delle  somme maturate in favore degli aventi
 diritto in applicazione delle sentenze n. 495 del 1993 e n.  240  del
 1994  della  Corte costituzionale.  In verita' le modifiche apportate
 con l'art. 3-bis della legge 28 maggio 1997,  n.  140,  risultano  di
 scarso  peso ai fini della copertura finanziaria della spesa, perche'
 nella sostanza, la previsione del pagamento in contanti  agli  aventi
 diritto,  previa  collocazione  sul  mercato  dei  titoli  di  Stato,
 rispetto al pagamento mediante assegnazione di titoli di  Stato,  non
 muta  il fatto che il pagamento del debito nei confronti degli aventi
 diritto si realizza sempre con un nuovo indebitamento  a  carico  del
 bilancio   dello   Stato.     Permane,  inoltre  ed  in  particolare,
 assolutamente identica la previsione  dell'estinzione  d'ufficio  dei
 processi  pendenti,  nonche'  l'individuazione  dei  soggetti  aventi
 diritto al pagamento delle somme di cui si e' gia' detto,  mentre  le
 modifiche   apportate  successivamente  nei  vari  provvedimenti  del
 Governo ed in quelli del Parlamento all'indicazione  della  copertura
 finanziaria  (come  si  e'  gia' detto) ed, altresi', al regime degli
 accessori del credito non costituiscono vere e reali, non marginali e
 non meramente formali e solo apparenti, modifiche, che diano luogo ad
 una  sostanzialmente  diversa  regolamentazione  rispetto  a   quella
 contenuta  nel  d.-l. n. 166/1996.   3.b.2. - Deve essere riaffermato
 che l'art. 77, ultimo comma, della  Costituzione,  la  ragione  e  la
 logica  impongono  di  escludere che le Camere possano procedere alla
 conversione in legge di decreti-legge iterati  o  reiterati,  quando,
 rispetto  al  suo  precedente,  l'ultimo  decreto non sia destinato a
 regolare un nuovo caso  straordinario  di  necessita'  ed  urgenza  e
 quando  non  contenga  quel  minimo  livello  di novita' e diversita'
 sostanziale,  requisiti  essenziali  per  consentire   di   affermare
 l'autonoma  esistenza.  Quando il contenuto del decreto-legge di pura
 iterazione  o  reiterazione  venga  trasfuso  in   un   provvedimento
 legislativo  approvato  dalle  Camere, non ci si trova davanti ad una
 tipica e tempestiva legge di conversione, ma ad una legge di  anomala
 e  tardiva  conversione,  se  emessa  nel  termine di sessanta giorni
 dall'entrata in vigore del decreto di iterazione o  reiterazione  che
 viene  convertito.  Ci si trova invece dinanzi ad una legge, non solo
 di anomala e tardiva, ma anche di "occulta"  conversione,  quando  il
 contenuto  del decreto-legge iterato o reiterato, decaduto e non piu'
 riproposto, venga trasferito in una  legge  approvata  dalle  Camere,
 senza   un  esame  dei  presupposti  costituzionali  che  legittimano
 l'adozione del provvedimento d'urgenza del Governo.   In  entrambi  i
 casi  la legge che adotta la normativa della decretazione provvisoria
 del Governo e' affetta da tutti i servizi, di forma  e  di  sostanza,
 del provvedimento acquisito.
   3.b.3.  -  Era  ben  presente alla Corte costituzionale il problema
 appena  sopra  considerato  derivante  dal  fenomeno   illecito   dei
 decreti-legge  iterati  o  reiterati,  e  cioe' quello delle leggi di
 conversione o sanatoria di tale genere di decreti, tanto presente che
 la Corte, nella sentenza n. 360/1996, ha  ritenuto  di  dover  (senza
 necessita'  ai fini della decisione) esprimere il seguente principio:
 "Restano, peraltro, salvi gli effetti  dei  decreti-legge  iterati  o
 reiterati  gia'  convertiti  in  legge  o  la cui conversione risulti
 attualmente in corso, ove la stessa intervenga  nel  termine  fissato
 dalla  Costituzione.  A questo proposito va, infatti, considerato che
 il vizio  di  costituzionalita'  derivante  dall'iterazione  o  dalla
 reiterazione  attiene,  in  senso lato, al procedimento di formazione
 del decreto-legge in  quanto  provvedimento  provvisorio  fondato  su
 presupposti  straordinari di necessita' e urgenza:  la conseguenza e'
 che tale vizio puo' ritenersi sanato quando le Camere, attraverso  la
 legge  di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i
 contenuti (o gli effetti) della disciplina adottata  dal  Governo  in
 sede  di  decretazione  d'urgenza".    Non  si  puo'  negare che, nel
 riferito obiter dictum,  la  Corte  affermi  un  principio  esatto  e
 condivisibile,  perche' impone, quale condizione inderogabile, che le
 Camere assumano come propri i contenuti della disciplina adottata dal
 Governo in sede di decretazione d'urgenza e cioe' impone  che  quegli
 stessi  contenuti  acquisiti nella legge di conversione vengano dalle
 Camere approvati per autonoma elaborazione, nel pieno rispetto  delle
 norme  della Costituzione che disciplinano la formazione delle leggi,
 senza "interferenze" e senza "coartazione" del Governo  nell'iter  di
 formazione   della   legge   di   conversione   ed,  altresi',  senza
 "condiscendenza" verso il  potere  esecutivo.    Cosi'  ulteriormente
 sviluppata (si ritiene nel rispetto del suo vero significato) la tesi
 della  Corte  comporta  che,  quando  la  legge  di anomala e tardiva
 conversione  di  decreti-legge  iterati  o  reiterati   non   risulti
 approvata  nel piu' assoluto rispetto degli artt. 70 e seguenti della
 Costituzione e non  costituisca  espressione  di  autonoma  e  libera
 volonta'  ed  incondizionata  determinazione  delle  due  Camere  del
 Parlamento, il vizio di costituzionalita' derivante dall'iterazione o
 dalla reiterazione non  puo'  in  nessun  caso  ritenersi  sanato  e,
 conseguentemente,  determina  l'incostituzionalita'  della  legge  di
 conversione, per effetto del trasferimento ad essa del vizio genetico
 del decreto-legge iterato o reiterato.  La formazione delle leggi non
 e'  stata  lasciata  al  caso  dal  legislatore  costituzionale,   ma
 puntigliosamente  regolamentata,  nella  forte  coscienza  del valore
 assoluto  e  determinante  del  momento  creativo  della  legge   per
 l'esistenza  di  un sistema giuridico fondato su valori di liberta' e
 democrazia come quelli sanciti nella prima parte della  Costituzione:
 cosi'  negli  artt.  70  e  seguenti  si  rinvengono le regole per la
 creazione delle regole.  Alla luce di tali regole costituzionali deve
 affermarsi che e' vietata  al  Parlamento,  sia  la  conversione  dei
 decreti-legge  di pura iterazione o reiterazione, in quanto privi dei
 requisiti essenziali della novita' ed autonomia assoluta rispetto  ai
 decreti  iterati  o reiterati, sia, comunque, l'approvazione di leggi
 che acquisiscano le norme contenute nei decreti-legge non convertiti,
 anche se non iterati.  Infatti la previsione dell'art. 77 Cost.,  ove
 si  dispone  nell'ultimo  periodo  del  secondo  comma che "le Camere
 possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti  sulla
 base  dei  decreti  non convertiti", impone di ritenere precluso allo
 stesso legislatore di recepire in legge le  norme  dei  decreti-legge
 non convertiti.  Se e' certamente vero che l'illegittima prassi della
 reiterazione   incide  sugli  equilibri  istituzionali,  alterando  i
 caratteri della  stessa  forma  di  Governo  e  l'attribuzione  della
 funzione  legislativa,  e'  altrettanto  vero  che  deleteri  effetti
 sull'attribuzione del potere legislativo  vengono  determinati  dalla
 passivita' delle Camere che approvino leggi di anomala conversione (o
 comunque le si voglia denominare), acquisendo, senza propria autonoma
 elaborazione,   le   norme  contenute  nei  decreti-legge  iterati  o
 reiterati ed in quelli non convertiti, perche' anche in  questi  casi
 le   Camere   vengono   ancora   una  volta  espropriate  del  potere
 legislativo,  a  nulla  rilevando   che   cio'   si   verifichi   per
 responsabilita'  delle  stesse  Camere,  perche' risulta nello stesso
 modo violata la Costituzione.   Non  puo'  bastare  a  modificare  il
 pensiero  sopra  esplicitato  il  grande rispetto per l'autonomia del
 Parlamento e per la funzione ad esso attribuita  dalla  Costituzione,
 giacche' e' anzi proprio tale rispetto che deve condurre a confermare
 la  validita'  delle  considerazioni  sopra  espresse:  solo la piena
 fedelta' e conformita' dell'operato  delle  istituzioni  dello  Stato
 alla Costituzione, senza deviazioni le benche' minime, puo' mantenere
 in  vita  lo  Stato  di  diritto.   Il principio della separazione di
 poteri non e' nella nostra Costituzione un puro  simulacro,  un  mero
 retaggio di passate scuole filosofiche:  e' regola diretta a tutelare
 la  democrazia  e  la  liberta'  dello  Stato,  poiche' finalizzata a
 precludere ogni possibile insorgere di situazioni di potere  assoluto
 e   senza   vincoli.      Quando  un  potere  dello  Stato  perde  la
 consapevolezza della propria funzione  e  del  dovere  di  conservare
 intatte  le  proprie attribuzioni - e cio' e' tanto piu' grave quando
 si verifica nel Parlamento, a causa di una sua composizione che  veda
 una  forte prevalenza della maggioranza sull'opposizione -, giungendo
 ad accettare passivamente una condizione di suddittanza nei confronti
 di un altro potere (o piu' altri), conformando, anche solo  in  linea
 di  fatto,  il  proprio  agire istituzionale alla volonta' dell'altro
 potere, si pongono le condizioni per il rischio del verificarsi di un
 pericoloso mutamento del sistema  democratico  in  qualcosa  d'altro,
 difficile da preconizzare, ma sicuramente non in linea con i principi
 costituzionali.
   3.b.4.   -  In  forza  delle  superiori  premesse,  questo  giudice
 rimettente   nutre   fortissime   perplessita'   sulla   legittimita'
 costituzionale  dell'intera  legge  23 dicembre 1996, n. 662, perche'
 approvata  dal  Parlamento  in  dispregio  delle  norme  della  legge
 fondamentale  dello Stato che regolano la produzione legislativa.  La
 stessa struttura della legge n. 662/1996 viola l'art.  72,  primo  ed
 ultimo  comma,  della Costituzione, a causa della sua composizione in
 soli tre articoli,  contenenti  un  coacervo  indistinto  di  materie
 disomogenee,  cosi'  formulata  dal  Governo  al  solo  fine di poter
 chiedere il voto di fiducia (con  violazione  autonoma  dell'art.  94
 della  Costituzione) su pochi articoli, in modo tale da accelerare al
 massimo l'iter parlamentare per rispettare i  tempi  di  approvazione
 della legge di bilancio e collegate, precludendo la discussione sugli
 (come  sempre innumerevoli) emendamenti presentati dall'opposizione e
 cio' a causa delle norme dei regolamenti delle  due  Camere  che  non
 consentono  (all'epoca  ancor meno) tempi ristretti per giungere alla
 definitiva approvazione delle leggi.   Tale realta',  qui  denunciata
 con  riferimento  alla legge n. 662/1996, non e' una novita' e non e'
 l'ultimo caso realizzato di espropriazione del potere legislativo del
 Parlamento,  "connivente"  lo  stesso  Parlamento,  ridotto  a   mero
 esecutore   della  volonta'  del  potere  esecutivo,  mediante  l'uso
 improprio,  e  dunque incostituzionale, della richiesta della fiducia
 da parte del Governo, previa strutturazione  della  legge  in  pochi,
 ipertrofici,  articoli  contenenti  un numero enorme di commi, a loro
 volta distinti in  piu'  parti,  destinati  a  regolare  un  coacervo
 incredibile  di  materie,  estremamente diverse tra loro, in assoluta
 violazione  degli  artt.  70  e  seguenti  della  Costituzione,   con
 particolare riferimento all'art. 72.
   3.b.5.  -  Limitando la disamina alle sole disposizioni applicabili
 nel presente giudizio e cioe' a quelle sole norme rilevanti  ai  fini
 della   decisione,   questo   pretore   dubita   della   legittimita'
 costituzionale, in particolare, dell'art. 1,  commi  181,  182,  183,
 della  legge n.   662/1996, direttamente derivante dal fatto che tale
 articolo, nei suddetti commi si rappresenta  come  puro  clone  delle
 corrispondenti  disposizioni  contenute  nella  decaduta decretazione
 d'urgenza del Govero, espressa nei decreti-legge nn. 166, 295, 396  e
 499  del  1996, giacche' non apporta alcuna modifica sostanziale, ne'
 alcuna elaborazione originale delle due Camere  del  Parlamento  alla
 disciplina introdotta dal Governo, atteggiandosi, nella realta', come
 tardiva  forma  di  "conversione  occulta"  dei  citati decreti-legge
 "seriali", dei quali, si deve  ribadire,  costituisce  ennesima  mera
 clonazione.    Puo',  invero, ritenersi che il Parlamento assuma come
 propri i contenuti  o  gli  effetti  della  disciplina  adottata  dal
 Governo  in  sede  di  decretazione  d'urgenza  solo quando le Camere
 approvino una legge  in  tutto  e  per  tutto  conforme  alle  regole
 costituzionali   sulla   formazione  delle  leggi,  senza  che  possa
 rilevarsi  una  minima  coercizione  da  parte  del   Governo   sulla
 maggioranza  che  lo  sostiene.   Nel caso in esame non si ravvisa la
 possibilita' di ritenere che le Camere abbiano assunto  come  propri,
 nella  legge  n.  662/1996 (Misure di razionalizzazione della finanza
 pubblica),  i  contenuti  dell'art.    1,  commi  1,  2  e   3,   dei
 decreti-legge nn. 166, 295, 396 e 499 decaduti, poiche':
     a)  le relative norme non sono state neppure esaminate in sede di
 approvazione di uno specifico articolo di legge,  a  causa  del  loro
 inserimento  in  un  "mostruoso" art. 1, sotto i commi nn. 181, 182 e
 183;
     b) il mancato esame ed approvazione in  un  articolato  normativo
 coerente  (con  la  manifesta  violazione  dell'art. 72, commi 1 e 4,
 della Costituzione) e' stato voluto dal Governo,  al  fine  unico  di
 rendere   rapida   l'approvazione  complessiva  della  legge  stessa,
 mediante tre sole votazioni sulla mozione di fiducia presentata dallo
 stesso Governo su ogni singolo articolo della legge n. 662/1996.   E'
 chiaro  che  il mancato dibattito parlamentare sulle disposizioni che
 qui interessano (e su tutte le altre della legge n. 662/1996) esclude
 la (piena) riferibilita' al Parlamento del contenuto della disciplina
 in discorso e, dunque, nega la sussistenza di quel requisito  che  la
 Corte  costituzionale  ha affermato dover essere presente, perche' il
 vizio di  legittimita'  costituzionale  derivante  dall'iterazione  o
 dalla  reiterazione  dei decreti-legge, (attinente, in senso lato, al
 procedimento di formazione del decreto-legge in quanto  provvedimento
 provvisorio  fondato  su  presupposti  straordinari  di  necessita' e
 urgenza) possa ritenersi sanato.   Tale realta', qui  denunciata  con
 riferimento  alla  legge  n.  662/1996,  non  e' una novita' e non e'
 l'ultimo caso realizzato di espropriazione del potere legislativo del
 Parlamento,  "connivente"  lo  stesso  Parlamento,  ridotto  a   mero
 esecutore   della  volonta'  del  potere  esecutivo,  mediante  l'uso
 improprio, e dunque incostituzionale, della richiesta  della  fiducia
 da parte del Governo, soprattutto (ed e' la situazione piu' grave) in
 sede  di  approvazione di bilanci e consuntivi, previa strutturazione
 delle relative leggi in pochi, ipertrofici,  articoli  contenenti  un
 numero  enorme  di  commi,  a  loro  volta  distinti  in  piu' parti,
 destinati a regolare un coacervo incredibile di materie, estremamente
 diverse tra loro, in assoluta violazione degli artt.  70  e  seguenti
 della  Costituzione,  come  gia'  si e' detto.   Quanto qui sostenuto
 trova  chiara  conferma  nel  quarto  comma  dell'art.     94   della
 Costituzione,  poiche'  e' chiaro che alla luce di tale disposizione,
 in forza della quale "il voto contrario di una o entrambe  le  Camere
 su  una  proposta  del Governo non importa obbligo di dimissioni", e'
 implicitamente esclusa la possibilita' di una richiesta del  voto  di
 fiducia  da esprimere contestualmente al voto su articoli di legge in
 corso di approvazione.
   3.b.6. - Deve essere, pertanto, rilevata d'ufficio la questione  di
 legittimita'  costituzionale  dei  commi  181,  182 e 183, nella loro
 interezza ed in ogni singola parte e  parola  e  norma  nei  medesimi
 espressa,  dell'art. 1 della legge n. 662/1996, per violazione, degli
 artt. 1, 70, 72, 77 e 94 della Costituzione.
   4.  -  Il  riesame  delle  precedenti  questioni  di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  1  del  d.-l.  28  marzo  1996,  n. 166, e
 dell'art. 22 della legge n.  903  del  1965,  come  manipolato  dalla
 sentenza  della  Corte  costituzionale n. 495 del 1993.  Definite nei
 termini sopra chiariti le questioni di legittimita' costituzionale  a
 carico della normativa sopravvenuta - con la proposizione delle quali
 viene   superata   la   causa  della  dichiarazione  della  manifesta
 inammissibilita' delle precedenti  questioni  portate  all'esame  del
 giudice  delle  leggi  -  e'  giunto il momento di riesaminare quelle
 stesse censure rivolte, nell'ordinanza del 10 maggio  1996,  all'art.
 1 del d.-l. 8 marzo 1996, n. 166 ed all'art. 22 della legge 21 luglio
 1965,  n. 903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre 1993, n.
 495, della Corte costituzionale, per violazione  dell'art.  81  della
 Costituzione.
   4.a. - Di tali questioni non puo' essere riproposta quella relativa
 all'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla
 sentenza  29-31  dicembre  1993,  n. 495, della Corte costituzionale,
 perche', non solo alla luce della normativa  sopravvenuta  nel  corso
 del  presente  giudizio, ma gia' all'epoca dell'entrata in vigore del
 d.-l. n. 166/1996 - ed erroneamente, dunque,  rilevata  d'ufficio  da
 questo  pretore  nella precedente ordinanza del 10 maggio 1996 - deve
 ritenersi non rilevante nel giudizio a quo: l'art. 22 della legge  n.
 903  del  1965,  come  "adeguato"  dalla sentenza n. 495 del 1993 del
 giudice delle leggi, deve, infatti, ritenersi implicitamente abrogato
 dall'art. 1, commi 181 e 182, della  legge  n.  662/1996,  nel  testo
 conseguente  alle  modifche  apportate dall'art. 3-bis della legge n.
 140/1997.   In verita' questo  giudice  deve  riconoscere  di  essere
 giunto  a  tale  conclusione  solo  grazie allo studio dell'ordinanza
 18-25 luglio 1997, n. 278 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, prima
 serie speciale, n. 33  dell'anno  1997)  -  con  la  quale  la  Corte
 costituzionale  ha  dichiarato  l'inammissibilita'  del  conflitto di
 attribuzione proposto da questa autorita' giudiziaria  nei  confronti
 del  Parlamento  -,  poiche'  solo  partendo dalla considerazione del
 fatto  che,  comunque,  i  commi 181 e 182 contengono "una disciplina
 sostanziale  di  diritti  in  materia  pensionistica"  (come  appunto
 precisato  dal  giudice  delle  leggi)  questo pretore e' pervenuto a
 concludere per l'avvenuta abrogazione della norma  "virtuale"  creata
 dalla  sentenza n. 495/1993 della Corte costituzionale.  Il richiamo,
 disapplicante, della  sentenza  n.  495  del  1993  (per  quanto  qui
 interessa,  ma  il  discorso  vale  anche per la sentenza n.  240 del
 1994) operato sin dal d.-l. n. 166/1996 ed  ora  presente  nel  testo
 attualmente  vigente  dell'art.  1,  commi  181 e 182, della legge n.
 662/1996, regolando gli effetti della medesima sentenza sull'art.  22
 della  legge  n.  903/1965,  determina  l'abrogazione   della   norma
 "virtuale"  -  costituita  dalla  decisione  "additiva"  della  Corte
 integrata (secondo  la  teoria  dominante  che  costituisce  "diritto
 vivente")  nella stessa disposizione -, poiche' definisce l'ambito di
 applicabilita' della stessa norma "virtuale"  in  modo  tale  da  non
 consentire  alla  stessa  di  esplicare  in  modo  diverso  i  propri
 potenziali effetti.  Ritiene questo giudice di non  poter  riproporre
 le  censure  di  costituzionalita'  rivolte  alla norma "virtuale" in
 discorso, neppure come ipotesi consequenziale correlata  alla  previa
 contestazione  della legittimita' costituzionale dei commi 181, 182 e
 183 dell'art. 1 della  legge  n.  662/1996,  poiche'  la  prospettiva
 giuridica      conseguente     all'eventuale     dichiarazione     di
 incostituzionalita' dei detti commi non e' necessariamente quella del
 risorgere  della  vigenza  della  disposizione  "virtuale"  abrogata.
 L'incertezza  giuridica  sull'esito  delle  questioni di legittimita'
 costituzionale all'esame del giudice delle leggi e'  assoluta,  anche
 in   considerazione   del   fatto  che  i  numerosissimi  profili  di
 incostituzionalita', sollevati a carico  della  normativa  contenuta,
 prima,  nei  decreti-legge  nn.  166, 295, 396 e 499 del 1996 e, poi,
 trasfusa nei commi 181, 182 e 183 della legge n. 662  del  1996,  non
 sono  univoci e, dunque, non conducono ad un medesimo risultato sulle
 conseguenze   interpretative   di   una    eventuale    dichiarazione
 d'incostituzionalita'  di  una  o  piu'  delle  norme  impugnate, con
 riferimento alle disposizioni di legge  previgenti.    4.b.  -  Deve,
 invece, essere riproposta la prima questione, attinente la violazione
 sempre  dell'art. 81 della Costituzione, sollevata a carico dell'art.
 1  del  d.-l.  n.  166/1996,  con  le  necessarie   precisazioni   ed
 integrazioni  imposte dal trasferimento delle censure da questo e dai
 precedenti provvedimenti "contenitori" della decretazione "d'urgenza"
 del Governo alla legge  approvata  dal  Parlamento,  poiche'  ritiene
 sempre  questo  pretore  che, come gia' la normativa provvisoria gia'
 censurata e tutte le disposizioni  di  identico  tenore  sostanziale,
 prima  contenute  nei successivi decreti-legge nn. 295, 396 e 499 del
 1996, anche quella ora vigente nei commi 181, 182 e 183 dell'art.   1
 della  legge  23 dicembre 1996, n. 662, sia in evidente contrasto con
 l'art. 81 della Costituzione, mancando nel d.-l. n.  166/1996  e  nei
 successivi  suoi  cloni ed infine nella legge n. 662/1996, nonostanti
 le modifiche apportate con l'art. 3-bis della legge 28  maggio  1997,
 n.  140,  la copertura finanziaria della spesa per il pagamento, agli
 aventi  diritto  individuati  nella  stessa  normativa,  delle  somme
 derivanti  dall'applicazione  della sentenza n. 495 del 993.  Come si
 e' gia' notato (al punto 3.b.1.), trattando  della  violazione  degli
 artt.  1,  70, 72, 77 e 94 della Costituzione, le modifiche apportate
 con l'art. 3-bis della legge 28 maggio 1997,  n.  140,  risultano  di
 scarso  peso ai fini della copertura finanziaria della spesa, perche'
 nella sostanza, la previsione del pagamento in contanti  agli  aventi
 diritto,  previa  collocazione  sul  mercato  dei  titoli  di  Stato,
 rispetto al pagamento mediante assegnazione di titoli di  Stato,  non
 muta  il fatto che il pagamento del debito nei confronti degli aventi
 diritto si realizza sempre con un nuovo indebitamento  a  carico  del
 bilancio dello Stato.
   4.b.2.  -  Se  questo  pretore deve dare atto al Parlamento di aver
 finalmente posto rimedio alla violazione  piu'  evidente,  palese  ed
 incontrovertibile dell'art. 81 della Costituzione, comprendendo anche
 gli   anni  1999,  2000  e  2001  nella  previsione  della  copertura
 finanziaria, mai contemplati nella decretazione  d'urgenza,  se  puo'
 anche  ammettersi che per gli aventi diritto ai pagamenti delle somme
 conseguenti alla applicazione della sentenza n.  495/1993  (ed  anche
 della  sentenza  n.  240/1994)  e'  piu' favorevole ricevere somme di
 denaro, piuttosto che titoli  di  Stato,  tuttavia  queste  soluzioni
 normative  non  mutano  la  realta'  della carenza di copertura reale
 della spesa, poiche' nessuna nuova entrata e' prevista, ne' risparmio
 su altri capitoli della spesa pubblica, al fine di non ridurre a mera
 apparenza il finanziamento, che era e resta ridotto a semplice  nuovo
 indebitamento  dello  Stato,  con  permanente violazione dell'art. 81
 della Costituzione.
   4.b.3. - Invero rimane immutato il vulnus al principio di "realismo
 economico" desumibile dall' art. 81, del quale, benche' gia'  portato
 al giudizio del giudice delle leggi in numerose precedenti ordinanze,
 deve  trattarsi anche in questa sede.  La Costituzione contiene tutti
 i principi piu' alti di civilta' e tutela tutte  le  liberta'  ed  e'
 logico  e  naturale  che le disposizioni che contemplano gli uni e le
 altre vengano ritenute fondamentali:   nessun dubbio sussiste  a  tal
 riguardo;  occorre,  pero',  affermare  che  il valore costituzionale
 dell'art. 81 non e' inferiore a nessun  altra  norma  ed  e',  forse,
 superiore.    Non  puo',  infatti, omettersi di rilevare che la legge
 fondamentale della Repubblica, nella  consapevolezza  del  necessario
 rispetto  della  realta'  economica,  impone  proprio nell'art. 81 la
 compatibilita' delle concrete  risorse  economiche,  quale  limite  e
 condizione   essenziale  per  la  concreta  attuabilita'  dei  grandi
 principi di giustizia, uguaglianza e liberta'.  Non puo' negarsi  che
 anche   la  realizzabilita'  dei  grandi  principi  ideali,  etici  e
 materiali,  e'  vincolata  all'esistenza   di   adeguati   mezzi   di
 finanziamento e che ogni singola legge, o atto avente forza di legge,
 che  prevede  una  nuova  spesa  deve indicare con precisione i mezzi
 reali di copertura finanziaria (ai sensi del quarto  comma  dell'art.
 81  Cost.)  e cio' anche quando la spesa sia correlata all'attuazione
 dei fondamentali principi costituzionali. Ma non solo: il  necessario
 rispetto della compabilita' delle concrete risorse economiche - quale
 limite di realta' al "sogno" di perfezione, quale strumento di difesa
 della  realizzabilita'  di  quei  principi,  quale  freno  alla spesa
 illimitata di  ricchezze  non  ancora  prodotte,  quale  monito  alla
 responsabilita'  verso  le  future  generazioni  e alla piu' corretta
 distribuzione  della  ricchezza  prodotta  ed  esistente  per  quelle
 presenti,  quale mezzo di tutela della societa' organizzata - impone,
 non solo l'obbedienza al dettato del quarto comma  dell'art.  81,  ma
 anche  la valutazione degli effetti, sul bilancio dello Stato e degli
 enti pubblici, legati all'attribuzione  di  diritti  comportanti  una
 forte  espansione  della  spesa,  in  relazione  a  tutti  gli  altri
 interessi concorrenti e tutelati da norme costituzionali, valutazione
 essenziale che deve presiedere alla scelta delle priorita' di  spesa,
 in  modo  tale  da  garantire  prima  i diritti essenziali e solo poi
 attribuire  ed  estendere  privilegi,  anche   se   contemplati   nei
 fondamentali   principi   costituzionali.      Sviluppo  compatibile,
 conservazione  delle  risorse,  solidarieta'  tra  generazioni:  sono
 concetti  che  chiariscono  nella loro concisione la complessita' dei
 problemi che il legislatore deve affrontare  ed  i  limiti  che  deve
 rispettare  nel  decidere  a quali dare valore normativo tra le mille
 istanze di tutela, fondate tutte su  forti  principi  costituzionali,
 eppure  concorrenti  e  talvolta  antagoniste,  che  provengono dalla
 societa' reale: il legislatore, in assenza  di  risorse  sufficienti,
 deve  operare  delle  scelte  di  spesa  e  tali  scelte  non possono
 dipendere dalla mera volonta' politica, ma  devono  discendere  dalla
 forza  della  realta'  economica,  restando  cosi' limitata l'area di
 discrezionalita' all'individuazione dei fini prioritari da perseguire
 e dei mezzi  economici  per  farvi  fronte  e,  dunque,  soggetto  al
 controllo  di  legittimita'  costituzionale  il  rispetto dei confini
 della stessa discrezionalita'.   Cosi', se si  volesse  proporre  una
 diversa   classificazione   delle  norme  costituzionali,  l'art.  81
 dovrebbe essere definito "norma di realta'" in contrapposizione  alle
 "norme di ideale" e dovrebbe, in questa prospettiva, essere collocato
 al   vertice   di   una  nuova  graduatoria  d'importanza,  dovendosi
 riconoscere che, pur non affermando elevati  principi  "sacrali",  si
 pone  a  garanzia  della realizzabilita' (invero, sempre tendenziale)
 delle norme di "ideale", statuendo l'obbligatorio rispetto dei limiti
 oggettivi delle risorse disponibili, in modo tale  da  consentire  al
 sistema  economico  dello  Stato di sostenere il costo della continua
 evoluzione dei bisogni di civilta' nei confini del  possibile,  senza
 sperperare  ricchezze  future non ancora prodotte, al fine di evitare
 il grande rischio (ogni giorno che passa sempre piu'  drammaticamente
 concreto, come impietosamente evidenzia la crescita inarrestabile del
 debito pubblico e la necessita' di interventi, sempre piu' frequenti,
 del  Governo  diretti  a  contenere  il deficit di bilancio dentro la
 previsione programmata, con provvedimenti diretti sia  a  ridurre  le
 spese,  sia  ad  aumentare le entrate) di allontanare sempre piu' nel
 tempo e forse di precludere definitivamente l'attuazione delle  norme
 di  "ideale".    In  forza  delle  superiori  premesse,  e'  logico e
 conseguente desumere dall'art. 81 un forte principio  costituzionale,
 sinteticamente  definibile  "principio  di  realismo economico", che,
 benche' non scritto  (come  altri  fondamentali:  quello,  immanente,
 nell'art.   38,   di  "solidarieta'"  e  quello  di  "razionalita'  e
 ragionevolezza", presente nell'art. 3, per citare i piu' noti),  deve
 concorrere  con  gli  altri  principi  e  norme costituzionali per la
 completa e corretta valutazione  della  legittimita'  della  legge  e
 degli  atti  aventi forza di legge.  L'ineludibile riconoscimento dei
 valori costituzionali presenti nell'art. 81 deve determinare a carico
 del legislatore -  ma  anche  del  giudice  delle  leggi,  quando  le
 questioni  portate  al  suo  esame  siano  tali  da lasciare spazio a
 decisioni, non necessariamente "additive", che comportino  una  nuova
 spesa  priva  di  copertura  finanziaria  -  un  particolare rispetto
 dell'art. 81 della Costituzione, quale norma  di  primaria  e  vitale
 importanza.    E'  allora  evidente,  ritornando  alla  questione  di
 legittimita'  costituzionale  ora  in  esame,  sotto il profilo della
 violazione del principio  di  "realismo  economico,  che  non  sembra
 neppure  possibile  ritenere  che  la  previsione del pagamento delle
 somme arretrate mediante denaro  contante,  previa  collocazione  sul
 mercato  dei titoli di Stato, costituisca corretto mezzo di copertura
 finanziaria degli oneri ai quali si vorrebbe dare esecuzione, poiche'
 altro non e' che nuovo indebitamento dello Stato e  quindi  non  puo'
 essere considerato come nuova risorsa per finanziare il pagamento del
 debito:  la  sostituzione  di  un  debito  con un altro debito non e'
 copertura finanziaria di una spesa, ma  solo  operazione  ambigua  di
 puro  equilibrismo  contabile,  del  tutto  priva di limpidezza.   Se
 dovesse passare indenne,  come  sinora  e'  avvenuto,  all'esame  del
 giudice  delle  leggi  una  siffatta  artificiosa  e  solo  apparente
 copertura delle nuove spese, allora dovremmo riconoscere  che  l'art.
 81  della  Costituzione  e' norma inutile, o, peggio, abrogata con il
 decreto-legge che qui si critica insieme a tutti i suoi cloni.   Puo'
 anche  essere  sostenuto che la legge di bilancio non deve rispettare
 la parita' tra entrate e uscite  e  puo'  essere  accettata  la  tesi
 secondo   la   quale  e'  sufficiente  la  previsione  dei  mezzi  di
 finanziamento per la copertura delle nuove spese, per cui vi sare  il
 rispetto  dell'art.    81,  ultimo  comma,  anche se la previsione si
 rivelasse  erronea  ed  ottimistica,  ma  non  si  puo'  accedere   a
 soluzioni,  come  quella adottata dal Governo, nelle quali non vi sia
 neppure  l'ombra  dell'effettivita'  teorica  delle  nuove   risorse,
 limitandosi   l'operazione   a   spostare  la  carenza  di  copertura
 finanziaria ad un'epoca futura, con una sostanziale rinnovazione  del
 debito,  senza  estinzione  dell'obbligazione  reale, la quale resta,
 comunque, sempre a  carico  del  debito  pubblico,  sempre  priva  di
 copertura  finanziaria.  Inoltre, a sommesso avviso di questo giudice
 remittente, la stessa previsione del pagamento degli arretrati  viola
 l'art.  81  della Costituzione nel principio di "realismo economico",
 essendo ben palese (e non da oggi) che il bilancio dello Stato non e'
 in grado di rendere effettivi  i  privilegi  (assai  discutibilmente)
 concessi  dalla  Corte  costituzionale  con  le sentenze "additive di
 spesa" delle  quali  trattasi:  non  e'  questione  di  stabilire  in
 astratto  se  sia legittimo lasciare immutata, o estendere, o ridurre
 l'area di applicazione di determinati benefici, ma piu' semplicemente
 (e,  nel  contempo,  in  obbedienza  ai  principi   di   uguaglianza,
 ragionevolezza e solidarieta', valutati coerentemente al principio di
 "realismo  economico",  soprattuto con etico rispetto verso le future
 generazioni) di accertare in concreto se esistano i  mezzi  economici
 (reali,  si  badi  bene, e non virtuali e sperati, come quello ancora
 attualmente indicato, idoneo solo a determinare un nuovo aggravamento
 del deficit di bilancio, in danno dei  nostri  figli  e  nipoti)  per
 conservare, ampliare o eliminare i medesimi benefici, operando poi di
 conseguenza.  In forza di tutte le considerazioni che precedono deve,
 dunque,    rilevarsi   d'ufficio   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art.  1, commi 181, 182, e 183,  della  legge  23
 dicembre  1996,  n.  662  (Misure  di razionalizzazione della finanza
 pubblica) e dell'art. 3-bis (modifiche  all'art.  1  della  legge  n.
 662/1996)  della  legge  28 maggio 1997, n.  140, di conversione, con
 modificazioni, del d.-l. 28 marzo 1997,  n.  79  (recante  misure  di
 riequilibrio  della  finanza  pubblica)  per  violazione dell'art. 81
 della Costituzione.
   5.  -  Sui requisiti della rilevanza in causa e della non manifesta
 infondatezza delle nuove  questioni  di  legittimita'  costituzionale
 sopra  rilevate.    Le questioni di legittimita' costituzionale sopra
 sviluppate non sono manifestamente infondate e sono anche  rilevanti,
 poiche'    il   presente   giudizio   non   puo'   "essere   definito
 indipendentemente" dalla loro  risoluzione:  la  dichiarazione  della
 illegittimita'  costituzionale  dell'art.  1,  commi  181, 182 e 183,
 della legge 23 dicembre 1996, n. 662,  che  ha,  in  modo  del  tutto
 anomalo,  tardivamente ed "occultamente" convertito in legge l'art. 1
 della serie di decreti-legge nn.  166,  295,  396  e  499  del  1996,
 nonche'  dell'art. 3-bis della legge 28 maggio 1997, n. 140, avrebbe,
 infatti,  l'effetto  di  restituire  integra   a   questa   autorita'
 giudiziaria,    non   piu'   costretta   nella   sua   attivita'   di
 amministrazione della giustizia al solo compito di dichiarare estinti
 d'ufficio  i  processi  pendenti,  la  sua  funzione  e,  cosi',   il
 potere-dovere  di individuare e definire la normativa da applicare al
 caso concreto portato al suo esame, dovendosi valutare se la  perdita
 di   efficacia  delle  disposizioni  di  legge  in  discorso  conduca
 necessariamente  al  ripristino   della   vigenza   della   normativa
 precedente,  ovvero  se altra normativa possa essere applicata in via
 di interpretazione  estensiva  o  per  analogia,  secondo  le  regole
 fissate dall'ordinamento giuridico per l'interpretazione della legge.
   6.  -  Il presente giudizio deve essere sospeso, ai sensi dell'art.
 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87.