IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunziato  la seguente ordinanza su ricorso 696/1996 proposto
 da Cagliero Giancarlo, rappresentato e difeso dagli avvocati  Claudio
 Dal  Piaz e Carlo Emanuele Gallo, ed elettivamente domiciliato presso
 lo studio del primo, in Torino, via S. Agostino n. 12;
   Contro il comune di Torino, in  persona  del  sindaco  pro-tempore,
 rappresentato  e  difeso  dall'avv.  Luciano  Marcon,  presso  il cui
 studio, in Torino, palazzo civico, piazza Palazzo di Citta' n. 1,  e'
 elettivamente domiciliato;
   Per   l'annullamento   della  deliberazione  assunta  dalla  Giunta
 comunale  di  Torino  in  data  22  febbraio  1996,  prot.  n.   mec.
 9601190/04,  notificata  il  22  febbraio 1996, con la quale e' stata
 disposta  la  destituzione  dall'impiego  del  ricorrente,  a   norma
 dell'art. 115 del regolamento generale per il personale del comune di
 Torino,   nonche'   per   l'annullamento   degli   atti  antecedenti,
 preordinati,  come,  in  particolare,   il   parere   assunto   dalla
 commissione  disciplinare,  nella  riunione  del  21  dicembre  1995,
 consequenziali e, comunque connessi del relativo procedimento;
   Visto il ricorso con i relativi allegati;
   Visto  l'atto  di  costituzione  in  giudizio  dell'amministrazione
 intimata;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Uditi  alla  pubblica  udienza  del  29  aprile  1998  il relatore,
 referendario dott. Bernardo  Massari;  uditi,  altresi',  l'avv.  Dal
 Piaz,  per  il  ricorrente,  e  l'avv.  Marcon, per l'amministrazione
 resistente;
   Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   Il  ricorrente,  con  ricorso  notificato  il  5  aprile  1996,  ha
 impugnato la delibera assunta dalla Giunta comunale di Torino, con la
 quale si e' disposta la destituzione dall'impiego del medesimo.
   La  richiesta  di  annullamento  della delibera viene, tra l'altro,
 fondata sulla asserita violazione dell'art. 9, comma 2, della legge 7
 febbraio 1990, n. 19.
   Evidenzia  il  ricorrente,  in  proposito,  che  la   delibera   di
 destituzione  e'  stata  assunta  molto  oltre i termini previsti dal
 citato art. 9, che, come e' noto stabilisce i termini entro cui  deve
 essere  iniziato  e  concluso il procedimento disciplinare, quando e'
 connesso a fatti divenuti rilevanti in sede  penale  e  definiti  con
 sentenza irrevocabile di condanna del dipendente pubblico.
   Piu'   precisamente,   la   parte  riferisce  che  il  procedimento
 disciplinare non solo non si e' concluso entro i novanta  giorni  dal
 suo  promovimento,  ma e' proseguito per piu' di un anno: infatti, la
 constatazione degli addebiti e' avvenuta il 19 dicembre 1994,  mentre
 il  provvedimento  di  destituzione  della  Giunta  comunale e' stato
 emesso il 20 febbraio 1996.
   Il ricorrente ha richiamato precedenti giurisprudenziali,  al  fine
 di  sostenere  la  tesi difensiva secondo cui il succitato termine ha
 natura   perentoria,   e   dimostrare,    quindi,    l'illegittimita'
 dell'attivita' svolta dell'amministrazione intimata.
   Ritiene   il   collegio   di   sollevare   d'ufficio  questione  di
 costituzionalita' del comma  2  del  citato  articolo,  apparendo  la
 questione  rilevante  e non manifestamente infondata, con riferimento
 agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
                             D i r i t t o
   1. - Sulla rilevanza della questione.
   Il ricorrente  si  duole  della  illegittimita'  del  provvedimento
 impugnato, deducendo una pluralita' di motivi.
   Rivestendo,  tuttavia, ad avviso del collegio, carattere assorbente
 le censure proposte con riferimento al superamento del limite  di  90
 giorni per la conclusione del procedimento, diviene decisiva, ai fini
 del  decidere,  l'interpretazione  da  assegnare alla norma contenuta
 nell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19.
   Il ricorrente invoca, infatti, l'annullamento del provvedimento  di
 destituzione,  al  fine  che qui rileva, poiche' emesso in violazione
 palese dei termini previsti dalla normativa di riferimento.
   Occorre, dunque, verificare se il termine indicato dalla  norma  in
 parola  sia  da  reputarsi  meramente  ordinatorio con la conseguente
 reiezione della doglianza di parte, ovvero se esso non sia  piuttosto
 da  considerare  come  un  limite  temporale  invalicabile, a pena di
 determinare l'invalidita' dell'intero procedimento disciplinare.
   La questione di diritto sulla quale  si  controverte,  concerne  la
 portata  dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in
 forza del quale nei confronti del pubblico dipendente, condannato  in
 sede  penale  "la  destituzione puo' sempre essere inflitta all'esito
 del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o  promosso
 entro 180 giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia
 della sentenza irrevocabile e concluso nei successivi 90 giorni".
   La   norma  predetta  ha  dato  luogo  a  numerose  difficolta'  di
 interpretazione e a contrasti giurisprudenziali circa  la  natura  di
 tali termini.
   Taluni  giudici  hanno,  infatti, ritenuto viziato da violazione di
 legge il provvedimento di destituzione adottato dopo la scadenza  del
 termine  in  parola  previsto  per  la  conclusione del procedimento,
 argomentandone il carattere perentorio  dal  tenore  letterale  della
 norma  ("...  deve essere ... concluso"), in relazione all'intenzione
 del legislatore di  delimitare  rigidamente  l'esercizio  del  potere
 disciplinare, sotto il profilo temporale.
   Altre  pronunce  hanno,  di  contro,  affermato  che  il termine in
 questione  ha  carattere  ordinatorio,  e  percio'  il  provvedimento
 assunto  dopo  90  giorni  dalla  contestazione degli addebiti non e'
 illegittimo, in quanto, alla luce di una  lettura  sistematica  della
 normativa  contenuta  nel  testo unico n. 3 del 1957, il procedimento
 disciplinare e' composto da piu' fasi, volte a contemperare due sfere
 contrapposte   di   interessi:       quello    pubblico-istituzionale
 dell'amministrazione  e quello di consentire l'adeguato esercizio del
 diritto di difesa del dipendente.
   Anche le sentenze del Consiglio di  Stato  sull'argomento  si  sono
 mosse  intorno  a  questo dualismo interpretativo, sottolineando piu'
 volte come il superamento del  termine  non  puo'  sempre  comportare
 l'estinzione   automatica   del   procedimento,  ogni  qualvolta  sia
 documentato che detto travalicamento e' sorretto da adeguate esigenze
 istruttorie, in relazione, del resto, alla eliminazione,  all'interno
 del   procedimento   disciplinare,  di  ogni  automatismo  valutativo
 conseguente alla sentenza della Corte costituzionale n. 971 del 1988.
   Peraltro, con ordinanza n. 16  del  3  settembre  1997,  l'adunanza
 plenaria  del  Consiglio  di  Stato ha ritenuto che l'unica possibile
 interpretazione  della   norma   in   questione   sia   quella   che,
 privilegiando   il   tenore  letterale  della  medesima,  dispone  la
 perentoria conclusione del procedimento  nel  termine  di  90  giorni
 indicato dalla legge.
   Tale  lettura,  supportata,  altresi',  dall'individuazione  di una
 ratio legis rinvenuta nell'esigenza di definire nel piu' breve  tempo
 possibile   la   critica   condizione   dell'impiegato  sottoposto  a
 procedimento disciplinare  ed,  ancora,  nell'interesse  pubblico  ad
 acquisire in tempi certi un giudizio su fatti che potrebbero condurre
 all'adozione  di provvedimenti modificativi o sospensivi dello status
 del dipendente, e' condivisa dal  collegio,  per  il  quale,  d'altro
 canto, essa costituisce diritto vivente.
   Nondimeno,  proprio  per  le  ragioni  in parte gia' illustrate, la
 norma della quale si discute potrebbe porsi in contrasto  con  alcuni
 principi costituzionali, come appresso illustrato.
   2. - Sulla non manifesta infondatezza.
   A) Violazione dell'art. 3 della Costituzione.
   Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 971 del 14
 ottobre  1988,  sono  state espunte dall'ordinamento le norme che, in
 materia   di   sanzioni   disciplinari   del   pubblico   dipendente,
 consentivano    all'amministrazione    l'automatica    adozione    di
 provvedimenti conseguenti a sentenze penali di  condanna  passate  in
 giudicato.
   Ne  e'  conseguita una situazione per la quale l'amministrazione e'
 sempre tenuta,  prima  di  adottare  qualsivoglia  determinazione  in
 proposito,  a  porre  in essere un articolato procedimento che, da un
 lato consenta all'incolpato di esercitare in  ogni  fase  il  proprio
 diritto  di  difesa,  dall'altro  ponga  l'organo inquirente e quello
 giudicante nella condizione di  rivalutare  il  materiale  probatorio
 gia'   emerso   nel   processo   penale,   eventualmente   acquisendo
 autonomamente nuove fonti di prova.
   Non vi e' chi non veda come tali imprescindibili esigenze  rischino
 di  essere  pretermesse  di  fronte  alla  necessita'  di  concludere
 perentoriamente il procedimento entro 90 giorni dalla sua apertura.
   Appare  illogica,  percio',  alla  luce  del   principio   generale
 dell'art.    3 della Costituzione, l'introduzione nell'ordinamento di
 una norma che  riduce  in  modo  sostanziale,  sia  per  la  pubblica
 amministrazione che per il dipendente, il tempo utile per individuare
 ed  apportare al procedimento elementi istruttori e probatori, che in
 novanta giorni spesso non e' facile reperire (si pensi in particolare
 alle sentenze penali non pronunciate in esito a dibattimento).
   B) violazione dell'art. 97 della Costituzione.
   Appare, inoltre, violato dall'articolo in questione il principio di
 buon andamento e di  imparzialita'  della  pubblica  amministrazione,
 sancito dall'art. 97 della Carta costituzionale.
   Il  principio  in  questione e' canone essenziale di condotta della
 pubblica amministrazione che, tra l'altro, si invera per  il  tramite
 dell'adozione  di  una  serie  di  regole  procedimentali  dell'agire
 amministrativo.
   La   drastica   riduzione   del   tempo   utile   per    addivenire
 all'accertamento   delle  responsabilita'  del  pubblico  dipendente,
 imposta dalla norma in discorso, non puo' che incidere negativamente,
 fino a eventualmente determinarne  la  compromissione,  nei  predetti
 valori.
   Cio'   appare   tanto  piu'  rilevante  ove  si  consideri  che  il
 procedimento disciplinare, in quanto volto ad  accertare  l'eventuale
 responsabilita'  dell'impiegato,  si  propone,  tra  l'altro,  la non
 secondaria finalita' di evitare la permanenza nella  struttura  degli
 uffici   di   soggetti  che  per  la  gravita'  dei  fatti  commessi,
 eventualmente accertati in modo incontrovertibile dal giudice penale,
 non potrebbero che arrecare corrispondente pregiudizio  al  prestigio
 e, in definitiva, alla funzionalita' dell'amministrazione stessa.