IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Sulla  richiesta  presentata  dalla  procura  della  Repubblica  di
 Venezia, in data  23  marzo  1999,  di  revoca  del  beneficio  della
 sospensione  condizionale  della pena concesso a Ziggiotto Davide con
 sentenza del tribunale di Vicenza, in data 22 novembre 1995, divenuta
 esecutiva il 15 dicembre 1995, di applicazione  della  pena  di  mesi
 dieci di reclusione e L. 2.600.000 di multa;
   A  scioglimento  della  riserva formulata all'esito dell'udienza in
 camera di consiglio del 25 maggio 1999;
                             O s s e r v a
   Ziggiotto Davide, con  sentenza  del  18  novembre  1998,  divenuta
 esecutiva  in  data  4  gennaio  1999,  del  g.i.p.  del tribunale di
 Venezia, ha riportato l'applicazione della pena di anni  uno  e  mesi
 sei  di reclusione, senza il beneficio della sospensione condizionale
 della pena, per i reati di falso in atto pubblico e truffa  aggravata
 commessi  rispettivamente  il  10  giugno  1993  e 27 gennaio 1994, e
 percio' in data anteriore al passaggio in  giudicato  della  sentenza
 del tribunale di Vicenza.
   La  pena  complessiva  supera  gli  anni  due  di  reclusione, e di
 conseguenza, ai sensi dell'art. 168,  comma  1,  n.  2  c.p.  sarebbe
 obbligatoria  la  revoca  della  sospensione  condizionale della pena
 concessa con la sentenza del tribunale di Vicenza.
   Tale revoca, pero', non  puo'  essere  disposta,  alla  luce  della
 consolidata   giurisprudenza  delle  sezioni  unite  della  Corte  di
 cassazione, che con due successive  sentenze,  la  prima  in  data  8
 maggio  1996,  De  Leo,  e la seconda del 26 febbraio 1997, Bahrouni,
 hanno affermato  che  poiche'  la  sentenza  emessa  all'esito  della
 procedura di applicazione pena, (e quella del g.i.p. del tribunale di
 Venezia,  del  18  novembre  1998,  e', come si e' detto, sentenza di
 applicazione pena), non ha natura di sentenza di condanna,  non  puo'
 costituire  il  presupposto  al  quale  l'art. 168 c.p. riconnette la
 revoca del beneficio della sospensione condizionale.
   La citata giurisprudenza della  Corte  di  cassazione  si  applica,
 naturalmente,   in  entrambi  i  casi  di  revoca  di  diritto  della
 sospensione, previsti dell'art. 168, comma 1 c.p.,  sia  nell'ipotesi
 prevista  dal  n.  1)  che in quella del n. 2), dal momento che se il
 primo comma del citato  articolo  recita,  al  n.  1):  "commetta  un
 delitto  ..."  al  n.  2),  ripete: "riporta un'altra condanna per un
 delitto anteriormente commesso ...".
   In  entrambe  le  ipotesi  dunque,  presupposto  della  revoca  del
 beneficio  e'  che  il  condannato  a pena sospesa, commetta un altro
 reato per il quale riporti sentenza di condanna e  le  sezioni  unite
 della  Corte di cassazione negano che sia tale quella di applicazione
 della pena.
   Infatti, a prescindere dalle altre  questioni  interpretative  alle
 quali  pure  le sentenze fanno riferimento, pare a questo giudice che
 centrale e decisiva, nelle argomentazioni  della  Corte,  sia  quella
 della natura che si attribuisce alla sentenza di applicazione pena.
   Lo  riconoscono  le  stesse sezioni unite, quando, nella sentenza 8
 maggio 1996, scrivono che "la soluzione della questione, pertanto, e'
 condizionata dal convincimento che si viene a  formare  sul  suddetto
 tipo  di sentenza, (di applicazione pena), e cioe' muta in un senso o
 nell'altro a seconda che si ritenga o no che la sentenza contenga  un
 accertamento   della   responsabilita'  dell'imputato,  e  quindi  un
 giudizio di colpevolezza ...".
   Anche nella sentenza del 26 febbraio 1997, la Corte  di  cassazione
 premette che: "a quell'affermazione di principio, secondo la quale la
 sentenza  che  applica  la pena concordata tra le parti... non e' una
 sentenza di condanna ma a questa e' soltanto equiparata ..., vero  e'
 che   quell'affermazione  di  principio  ha  presentato  soltanto  la
 necessaria premessa ... imposta dall'inequivocabile  contenuto  della
 norma  prevista  dall'art.  445  c.p.p.  ..." e, piu' oltre, prosegue
 "trattasi,   (la  richiesta  di  applicazione  pena)  di  una  scelta
 processuale che puo' essere fatta ancor prima  che  si  sia  conclusa
 l'acquisizione  degli elementi necessari per giustificare il rinvio a
 giudizio, scelta che  puo'  trovare  la  sua  appagante  e  legittima
 giustificazione nei piu' disparati motivi tutti confluenti nell'ampia
 prospettiva  degli  ampi  benefici previsti dal legislatore per chi a
 quel procedimento faccia  ricorso  ...  il  fatto  che  persista  una
 latente  resistenza  a  recepire,  nella  sua  totale estensione tale
 conclusione, non puo', certamente indurre questa suprema Corte ad una
 diversa decisione ...".
   La Corte  di  cassazione  sostiene,  dunque,  che  la  sentenza  di
 applicazione  pena,  puo'  vivere nell'ordinamento giuridico vigente,
 senza che la deliberazione del giudice, (in base agli ampi poteri che
 gli sono conferiti ex artt. 444 e segg. c.p.p.), unita alla richiesta
 delle  parti,  sia  sufficiente  ad  integrare  quel  che  basta   ad
 attribuirle natura di sentenza di condanna.
   Ritiene, pero', questo giudice che l'affermazione di tale principio
 sia in contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma,
 27,  primo,  secondo  e  terzo  comma,  76  e 112 della Costituzione,
 contrasta, innanzi tutto con l'art. 76 della Costituzione.
   L'istituto  della  applicazione  pena  e'  previsto   dall'art.   2
 direttiva  n.  45  della  legge  delega  16  febbraio 1987 n. 81, che
 recita:  "previsione  che  il  p.m.  col  consenso  dell'imputato   o
 l'imputato,  col  consenso  del  p.m.  possano  chiedere  al  giudice
 ....l'applicazione delle sanzioni sostitutive nei casi  consentiti  o
 della  pena  detentiva  irrogabile  per il reato ..." senza che nella
 norma vi si alcunche'  che  induca  a  ritenere  che  si  sia  inteso
 conferire   al   legislatore   delegante   il  potere  di  introdurre
 nell'ordinamento un nuovo genere  di  sentenza,  non  di  condanna  e
 nemmeno  di  proscioglimento,  a meno che non si voglia ritenere tale
 quella di applicazione della pena.
   E non pare che il legislatore delegato  abbia  inteso  operare  una
 tale  innovativa  scelta  nella relazione al progetto preliminare del
 codice e al testo definitivo, si  legge  che  non  si  tratta  di  un
 "beneficio"  ma  di uno speciale procedimento collegato ad un accordo
 tra imputato e pubblico ministero sull'applicazione  della  pena  che
 quindi,  riguarda il merito e si riflette sul rito ... "e piu' oltre:
 ''il nuovo patteggiamento'' esce, dunque  dall'ambiguita'  che  aveva
 connotato quello della legge n. 689, (e si ricordi che la cassazione,
 a  sezioni  unite,  con  sentenza  del 23 novembre 1988, era giunta a
 qualificare di proscioglimento la sentenza emanata ai sensi dell'art.
 77, legge 24 novembre 1981, n. 689). ... La specifica  individuazione
 di  queste  misure  ed  anche  dei  contenuti  e  degli effetti della
 sentenza applicativa della pena, ha evitato  le  ambiguita'  teoriche
 della legge n. 689...".
   E  nell'illustrazione  dei  singoli articoli si commenta che "si e'
 ritenuto di  non  poter  consentire  al  difensore  di  formulare  la
 richiesta  o di dare il consenso, trattandosi di atti personalissimi,
 che possono incidere sulla  sfera  della  liberta'  personale,  e  su
 quella  patrimoniale  dell'imputato,  oltre che sull'iter processuale
 ...".
   Anche nella  relazione  al  nuovo  processo  penale  a  carico  dei
 minorenni  si  sottolinea  che  pur  essendo evidente l'importanza di
 tutti gli istituti processuali previsti dal nuovo codice per favorire
 una rapida uscita dal circuito penale, si e'  ritenuto  incompatibile
 col   processo   minorile  il  procedimento  per  decreto  come  pure
 l'applicazione della pena  su  richiesta  ...  quest'ultimo  istituto
 presuppone,  infatti, nell'imputato una capacita' di valutazione e di
 maturazione  che  richiede  piena  maturita'  e   consapevolezza   di
 scelta..".
   Esclusione   che   la   Corte   costituzionale   ha   ritenuto  non
 irragionevole, con sentenza del 27 aprile 1995 n.  135,  dal  momento
 che  l'applicazione della pena si risolve in una sentenza "negoziale"
 sul contenuto della decisione, che impedirebbe al giudice di definire
 il processo con tutte quelle misure, (perdono giudiziale, sospensione
 del  processo  e  messa  alla  prova,  non  luogo  a  procedere   per
 irrilevanza del fatto ...), previste per il recupero del minore.
   Al  di  la' della stessa volonta' del legislatore delegato, dunque,
 la norma assume, nell'interpretazione ormai invalsa, un significato e
 un valore  in  chiaro  contrasto  con  la  legge  delega,  contrasta,
 inoltre,  con gli artt. 13, primo comma, 25, secondo comma, 27, primo
 comma della Costituzione.
   La  liberta'  personale  che  l'art.   13,   primo   comma,   della
 Costituzione  definisce  "inviolabile"  e' un diritto fondamentale ed
 indisponibile e tale da non potere essere in alcun  modo  sacrificato
 da una richiesta dell'imputato medesimo alla quale non faccia seguito
 un   "accertamento   nel   merito"   (sia   pure   in  forma  diversa
 dall'ordinario dibattimento o dal giudizio allo stato degli atti), da
 parte del giudice.
   Affermare che "nessuno puo' essere punito se non in  forza  di  una
 legge  entrata  in  vigore  prima  del  fatto  commesso",  significa,
 naturalmente escludere, a maggior ragione, che qualcuno possa  essere
 punito  per un fatto non commesso, e dunque non si vede come si possa
 applicare una pena, (anche concretamente  eseguibile,  se  non  viene
 richiesta ed applicata la sospensione condizionale della pena), senza
 il  contestuale  riconoscimento,  (anche implicito o "negoziale") che
 l'imputato ha commesso quel fatto.
   E stabilire che "la  responsabilita'  penale  (con  la  conseguente
 possibilita'  di essere sottoposto all'irrogazione di una sanzione di
 natura penale) e' personale", comporta  non  solo  che  nessuno  puo'
 essere  chiamato  a  rispondere  per  un  fatto  altrui, ma anche che
 nessuno puo' essere  chiamato  a  rispondere  se  non  per  un  fatto
 proprio, di cui e', davanti all'ordinamento, responsabile.
   Una  corretta  lettura di tali principi implica, a parere di questo
 giudice, che a nessuno del quale non sia stata ritenuta  dal  giudice
 la  penale responsabilita', nei modi di legge, (pur se all'infuori di
 un accertamento giudiziario al termine di un pubblico  dibattimento),
 possono essere inflitte sanzioni di natura penale ed anche detentive.
   Soltanto  la  persona  che  l'ordinamento  giuridico  ritiene,  (al
 termine di  un  legale  processo),  autore  del  reato,  puo'  essere
 chiamato a subirne le conseguenze.
   Non si dimentichi che il nostro ordinamento giuridico conosce anche
 il  delitto  di  autocalunnia:  l'art.  369 c.p. punisce colui che si
 dichiari falsamente autore di un reato non  avvenuto  o  commesso  da
 altri;   non   si  vuol  dire,  naturalmente,  che  la  richiesta  di
 applicazione pena, se l'imputato si sa innocente,  possa  configurare
 tale  delitto,  si  vuole  solo  meglio  ribadire  come,  nel  nostro
 ordinamento, a nessuno sia consentito di "accettare",  contrariamente
 al vero, una sanzione penale, contrasta, anche con l'art. 27, secondo
 comma della Costituzione, per il quale "l'imputato non e' considerato
 colpevole  fino alla sentenza definitiva" che ne abbia, naturalmente,
 ritenuto la responsabilita' ed abbia, quindi, natura di  sentenza  di
 condanna.
   La  Corte  costituzionale,  con  la  sentenza del 2 luglio 1990, n.
 313, dopo avere escluso che il  giudice  richiesto  dell'applicazione
 pena,  abbia  poteri  di  carattere  "notarile",  ovvero che si debba
 limitare a prendere atto dell'accordo delle parti, ha  affermato  che
 "se l'imputato ritiene di possedere elementi per l'affermazione della
 propria  innocenza, nessuno lo obbliga a richiedere l'applicazione di
 una pena, ed egli ha a disposizione le garanzie del  rito  ordinario.
 In altri termini, chi chiede l'applicazione di una pena vuol dire che
 rinuncia  ad  avvalersi  della facolta' di contestare l'accusa, senza
 che  cio'  significhi  violazione  del   principio   di   presunzione
 d'innocenza,  che  continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non
 sia irrevocabile la sentenza".
   Ma  se  la  sentenza  di  applicazione  pena  non  contiene   alcun
 accertamento  di  responsabilita', la presunzione di non colpevolezza
 non  puo'  che  permanere,  pur  quando  la  sentenza   e'   divenuta
 definitiva,  col  risultato  che  si infligge e si fa espiare, in via
 definitiva, la  pena  ad  una  persona  (come  a  Ziggiotto,  che  ha
 patteggiato,  davanti  a  questo  giudice, una pena non sospesa), che
 l'ordinamento  presume,  con  sentenza  passata  in  giudicato,  dopo
 l'espletamento di tutti i gradi di giudizio, non colpevole.
   E  che,  a  voler trarre tutte le conseguenze dall'affermazione del
 principio di diritto stabilito  dalle  sezioni  unite,  non  potrebbe
 nemmeno  beneficiare  del  divieto di un secondo giudizio, atteso che
 l'art. 649 c.p.p. stabilisce che non puo' essere di nuovo  sottoposto
 a procedimento penale, l'imputato prosciolto o condannato, laddove il
 termine   "condannato"  implica  chiaramente  un  accertamento  sulla
 responsabilita', contrasta, soprattutto, con l'art. 27,  terzo  comma
 della Costituzione, il cui principio, che le pene devono tendere alla
 rieducazione  del condannato, ha gia' guidato la Corte costituzionale
 quando con  la  citata  sentenza  del  2  luglio  1990,  n.  313,  ha
 dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  444, comma 2
 c.p.p., nella parte in cui  non  prevedeva  che  il  giudice  potesse
 valutare  la "congruita'" della pena indicata dalle parti, rigettando
 la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione.
   Nella motivazione della sentenza la  Corte  ha  osservato  che  "e'
 anche evidente che nel procedere al riconoscimento delle attenuanti o
 al  giudizio  di  bilanciamento  (il  giudice) dovra' necessariamente
 attenersi ai criteri di cui all'art. 133 c.p., specie per  quanto  si
 riferisce  alle cosiddette attenuanti non scritte, (art. 62-bis c.p.)
 che per pacifica ammissione di dottrina e  giurisprudenza  non  hanno
 altro  indice  di riferimento se non quello, diretto ed immediato, di
 cui ai criteri dettati dall'art. 133 c.p.".
   Tali affermazioni hanno un senso solo se si  ritiene  che  la  pena
 vada  applicata,  nonostante la peculiarita' del rito, a chi e', alla
 luce della valutazione che  il  giudice  effettua,  responsabile  del
 fatto.
   Ritenere  che  il  tutto si riduca ad un artificio e che il giudice
 debba  compiere  cosi'  delicato   e   complesso   giudizio,   (sulla
 sussistenza  delle  attenuanti e la comparazione con le aggravanti, e
 la congruita' della pena),  "come  se  l'imputato  fosse  colpevole",
 senza  che  possa dirsi formato sul punto un accertamento giudiziale,
 ridurre il tutto ad una fictio juris che prescinda da un principio di
 reale proporzione, giudizialmente accertato, tra  la  qualita'  e  la
 quantita'  della  sanzione,  determinata  in  base  ai criteri di cui
 all'art. 133  c.p.  e  la  personalita'  chi  e',  per  l'ordinamento
 giuridico,   responsabile   del  fatto  reato,  appare  in  stridente
 contrasto con la norma costituzionale.
   L'applicazione di una pena a chi non e', di fronte  all'ordinamento
 giuridico,  responsabile  del  reato,  non puo' in alcun modo tendere
 alla  sua  rieducazione,  visto  che  chi  non  e'  nemmeno  ritenuto
 responsabile  di  un  fatto  reato,  non  ha  alcun bisogno di essere
 rieducato e  contrasta,  in  particolar  modo,  con  l'art.  3  della
 Costituzione,   nella   parte  in  cui  stabilisce  il  principio  di
 ragionevolezza e di uguaglianza di trattamento.
   Non  pare  razionale  un  sistema  per  il  quale  la  sentenza  di
 applicazione  pena,  in quanto non ha natura di sentenza di condanna,
 e'  ostativa  alla  revoca  del  beneficio  della  sospensione  pena,
 concesso  con una precedente sentenza, e pero' puo' comportare, nello
 stesso tempo, l'esecuzione della pena applicata senza la  concessione
 del beneficio della sospensione, e dunque espiabile.
   Nel  caso di specie Ziggiotto, ha chiesto ed ottenuto, con sentenza
 del g.i.p. di Venezia, del 18  novembre  1998,  l'applicazione  della
 pena  di  anni uno e mesi sei di reclusione, senza il beneficio della
 sospensione condizionale, e quindi di una pena che deve espiare.
   La natura della sentenza, percio', non e' d'ostacolo all'esecuzione
 della pena applicata e pero', contemporaneamente,  proprio  tale  sua
 natura,  impedisce  la revoca del beneficio e l'espiazione della pena
 applicata con la precedente sentenza del tribunale di Vicenza, del 22
 novembre  1995,  disciplina  della  cui  ragionevolezza   e'   lecito
 dubitare.
   Inoltre,  il  complessivo  sistema  che  ne  deriva,  in materia di
 sospensione della pena, portata l'affermazione  delle  sezioni  unite
 alle  sue  logiche  conseguenze,  rimane privo di qualsiasi parametro
 legale ed affidato esclusivamente alla discrezionalita'  del  giudice
 con decisa lesione del principio di uguaglianza, e della certezza del
 diritto.
   Innanzi  tutto,  se la sospensione puo' essere concessa solo quando
 il giudice, avuto riguardo alle  condizioni  indicate  dall'art.  133
 c.p.,  presume  che il colpevole si asterra' dal commettere ulteriori
 reati,  se  si  prescinde  da  una  ipotesi   di   colpevolezza   del
 richiedente,  non  si  vede  in  base  a  quali  parametri il giudice
 potrebbe concedere o rigettare la richiesta ai sensi  dell'art.  445,
 comma 3 c.p.p.
   Inoltre,  alla  luce  della  disciplina dell'art. 164, comma 4 c.p.
 per il quale il beneficio della  sospensione  condizionale  non  puo'
 essere  concesso  piu'  di  una  volta e il giudice puo' disporlo una
 seconda volta, nell'infliggere una "nuova condanna", con la  sentenza
 di  applicazione  pena,  che  non  e' "condanna", non dovrebbe essere
 consentita  la  rinnovazione  del  beneficio,  trovando  applicazione
 esclusivamente  il  principio  generale,  per il quale la sospensione
 puo' essere disposta solo una volta.
   Ma  si puo' fondatamente, sostenere che ricavata la possibilita' di
 sospendere  condizionalmente   la   pena   applicata   dall'esplicita
 previsione dell'art. 444, comma 3 c.p.p., non troverebbe applicazione
 nessuna  delle limitazioni previste dagli artt. 163 e segg. c.p., dal
 momento che tale disciplina riguarda esclusivamente  le  sentenze  di
 condanna,  e non quelle di applicazione pena, che non lo sono, con la
 conseguente possibilita' di concedere il beneficio non due, ma piu' e
 piu' volte a discrezione del  p.m.  che  presta  il  consenso  e  del
 giudice che accoglie l'accordo.
   Ognuna di tali possibili interpretazioni, sinteticamente enunciate,
 potrebbe  essere  sostenuta da adeguate argomentazioni, tutte facenti
 perno sulla natura della sentenza di applicazione pena, non  ritenuta
 sentenza di condanna.
   Con  effetti  discutibili  sul  piano  della  razionalita'  e della
 uguaglianza di trattamento, contrasta, infine, con l'art.  112  della
 Costituzione,   che  afferma  l'obbligatorieta'  dell'azione  penale,
 intesa, alla luce dei principi del c.p.p. vigente, nel senso  che  il
 p.m.  e' tenuto ad esercitarla, tranne che nei casi in cui ritenga la
 inutilita' del processo, per infondatezza della notizia di reato,  (e
 si  richiama  la  sentenza della Corte costituzionale del 15 febbraio
 1991, n. 88), o perche' non risulta identificato il responsabile.
   Il p.m. ove si convinca che la notizia di reato non  e'  infondata,
 ed e' noto l'autore, non ha alcun potere di scegliere se esercitare o
 meno  l'azione  penale,  (ad  esempio  in considerazione della scarsa
 rilevanza del fatto, o della qualita'  delle  parti  o  dell'avvenuto
 risarcimento del danno, o per altre simili considerazioni, ampiamente
 discrezionali),  ma  deve  esercitarla,  ovviamente  in  vista di una
 decisione  giurisdizionale  sull'azione   medesima   o   nel   merito
 dell'accusa.
   Il  p.m. che non deve richiedere l'archiviazione, (per infondatezza
 della  notitia  criminis  ai  sensi  dell'art.  405  c.p.p.,  formula
 l'imputazione  o  richiede al giudice il rinvio a giudizio, sempre ed
 in ogni caso, perche' il giudice decida su ogni fatto reato  ascritto
 ad  ogni  imputato, non potendo, come si e' detto, sottrarne nessuno,
 per  ragioni  meramente  discrezionali,  al  giudizio,  ordinario   o
 speciale che sia, e alla decisione che ne consegue.
   L'esercizio  dell'azione  penale  consiste  proprio nella richiesta
 rivolta al giudice  di  procedere  al  giudizio  e  di  emettere  una
 decisione  sulla  notitia  criminis,  e  non avrebbe senso parlare di
 obbligatorieta' dell'azione  penale,  ove  si  prescindesse  dal  suo
 effettivo  contenuto,  che  il  giudice  si pronunci sulla fondatezza
 della  notizia  di  reato:    il  principio  espresso   dalla   norma
 costituzionale,  inteso in senso sostanziale e non meramente formale,
 rende doverosa la repressione di tutte, e proprio tutte, le  condotte
 violatrici della norma penale, in osservanza dei criteri di legalita'
 e di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge penale.
   Con  l'applicazione  della  pena, intesa come la intende la suprema
 Corte, il processo si chiude, invece, con  una  sentenza  che,  priva
 come'  di  qualsiasi  accertamento  sul fatto e sul suo responsabile,
 impedisce al giudice, per l'appunto, di  pronunciarsi  sulla  notitia
 criminis  e  quindi  di esercitare un effettivo controllo sull'azione
 penale.
   Se dal punto di vista dell'ordinamento la sentenza di  applicazione
 pena,  non contiene nessuna affermazione giudiziale sulla sussistenza
 del  fatto  e  la  responsabilita'  dell'imputato,  vuol   dire   che
 l'ordinamento  rinuncia ad ogni pronuncia giurisdizionale in merito a
 quella  notitia  criminis, (se e' fondata, se il fatto sussiste e chi
 lo ha commesso, se e' punibile, etc. ....), e a seguito di una scelta
 ampiamente discrezionale del p.m. e della parte privata.
   Con la sentenza del 18 novembre 1998, il giudice  per  le  indagini
 preliminari  del  tribunale  di  Venezia, ha applicato a Ziggiotto la
 pena di anni uno e mesi sei di reclusione, (senza il beneficio  della
 sospensione  condizionale),  per  i reati di falso in atto pubblico e
 truffa,  ma,  pur  essendo  la   sentenza   passata   in   giudicato,
 l'ordinamento  ignora se quei reati sussistano e se Ziggiotto ne vada
 ritenuto responsabile.
   Con l'accordo tra loro, il p.m. e la parte privata, che si e' posta
 come se fosse il responsabile del fatto, (ma senza che sul  punto  si
 sia  formata,  con  la  sentenza,  un accertamento giudiziale), hanno
 sottratto, in definitiva, quel fatto e quell'imputato alla  decisione
 del giudice.
   Il  p.m., che per dettato costituzionale, non puo' scegliere, a sua
 discrezione, quali imputati vanno sottoposti a giudizio e  quali  no,
 ma  deve  sempre e comunque investire il giudice di ogni decisione in
 proposito, puo' evitare, cosi', semplicemente prestando  il  consenso
 all'applicazione  della pena, che su quell'imputato e quel fatto cada
 la cognizione del giudice, che puo' chiamare ad emettere una sentenza
 che prescinda da ogni valutazione sulla notizia di reato,  sulla  sua
 fondatezza e sulla attribuzione di quel fatto a quell'imputato.
   E  tanto non solo prima che abbia compiuto le sue valutazioni sulla
 fondatezza  della  notitia  criminis,  come   accade   se   l'accordo
 interviene nel corso delle indagini preliminari, ma anche dopo, se la
 richiesta viene formulata nell'udienza preliminare, o successivamente
 al rinvio a giudizio.
   L'imputato  medesimo,  per  "una scelta processuale che puo' essere
 fatta ancor prima che si sia conclusa l'acquisizione  degli  elementi
 necessari  per  giustificare  il  rinvio  a giudizio, scelta che puo'
 trovare  la  sua  appagante  e  legittima  giustificazione  nei  piu'
 disparati  motivi  tutti confluenti nell'ampia prospettiva degli ampi
 benefici previsti dal legislatore per chi a quel procedimento  faccia
 ricorso  per  usare  le parole della Corte di cassazione), e' libero,
 dal canto suo, di sottrarsi, di fatto, al processo, e alla cognizione
 del giudice, semplicemente chiedendo ed  ottenendo  una  sentenza  di
 applicazione  della pena, che lo mette al riparo da ogni accertamento
 sulla sua  responsabilita'.
   E non va dimenticato  che  la  pena  puo'  essere  applicata  anche
 all'esito  del  dibattimento  di  primo  grado,  o  nel  giudizio  di
 impugnazione, ai sensi dell' art. 448, comma 1 parte seconda, c.p.p..
   Non  varrebbe  sostenere  che  l'imputato   non   puo'   conseguire
 l'applicazione  della  pena richiesta ove manchi il consenso del p.m.
 sia perche' l'azione penale e' obbligatoria, come si e' visto,  anche
 per  il  p.m.   diretto destinatario del precetto costituzionale, sia
 perche' il giudice  puo'  applicare  la  pena  anche  quando  ritenga
 ingiustificato  il dissenso del p.m. nei casi previsti dall'art. 448,
 comma 1 seconda parte c.p.p..
   Con la sentenza di applicazione della  pena,  (intesa  la  sentenza
 come    l'intende    la    Corte   di   cassazione),   il   principio
 dell'obbligatorieta'   dell'azione   penale    viene    completamente
 vanificato  dal  momento  che  il  p.m. e l'imputato, si limitano, di
 comune  accordo, a chiedere al giudice, ed ottengono dal giudice, una
 sentenza che, pur non essendo di improcedibilita', non contiene alcun
 accertamento sul fatto  che  pure,  per  il  dettato  costituzionale,
 doveva essere obbligatoriamente portato alla sua cognizione.
   Vi  e',  in  sostanza,  solo  un  "apparente" esercizio dell'azione
 penale, nel senso che e' il giudice ad  emettere  la  sentenza,  che,
 pero',  prescindendo  da  qualsiasi  giudizio  sul  fatto  e  sul suo
 responsabile, si risolve, in realta', nella  mancata  repressione  di
 una  violazione della legge penale, (a meno che non si ritenga che in
 tale sentenza sia implicito un giudizio di infondatezza della notizia
 di  reato),  in  accoglimento   dell'accordo   rimesso   alla   piena
 discrezionalita'  delle  parti  e  in palese violazione del principio
 costituzionale, che non attribuisce al p.m.  discrezionalita'  alcuna
 nell'esercizio dell'azione penale.
   La  questione  e'  rilevante  ove  in  difformita'  dal consolidato
 orientamento delle sezioni unite, si  attribuisse  alla  sentenza  di
 applicazione  pena,  la natura di sentenza di condanna, o comunque di
 un accertamento  giudiziale  in  punto  di  responsabilita',  benche'
 diverso da quello di un giudizio ordinario o del giudizio abbreviato,
 la revoca della sospensione condizionale concessa a Ziggiotto Davide,
 con  sentenza  del  tribunale  di  Vicenza, in data 22 novembre 1995,
 divenuta esecutiva il 15 dicembre 1995,  seguirebbe  di  diritto,  ai
 sensi  dell'art.  168,  comma  1  n. 2 c.p, al passaggio in giudicato
 della successiva sentenza di questo giudice, del 18 novembre 1998,  e
 questo  giudice  potrebbe  disporla in via interpretativa delle norme
 vigenti.
   Anche la conclusione  che  la  sentenza  di  applicazione  pena  e'
 sentenza  di condanna, potrebbe forse essere tentata in via meramente
 interpretativa, facendo leva soprattutto sulla  giurisprudenza  della
 Corte  costituzionale,  non  solo  sulla  gia'  citata sentenza del 2
 luglio 1990 n. 313, o sull'ordinanza del 2-6 giugno 1995 n. 230, dove
 la Corte espressamente afferma che  "sul  piano  sistematico  ...  lo
 stesso  diritto  vivente  identifica  nella  sentenza di applicazione
 della pena su richiesta una pronuncia di condanna", ma  non  si  puo'
 dimenticare  che  la  Corte  di  cassazione,  nella  sentenza  del 26
 febbraio  1997,  ha  ribattuto  che  "non  e'  poi  in  nessun   modo
 condivisibile l'affermazione secondo la quale la Corte costituzionale
 in  numerose  occasioni ... sarebbe pervenuta a conclusioni del tutto
 diverse rispetto  a  quelle  gia'  indicate  da  questa  corte  nella
 sentenza dell'8 maggio 1996 ...".
   La  Corte  di cassazione, dunque, ha compiuto una valutazione anche
 della giurisprudenza costituzionale, e l'ha  considerata  compatibile
 col  principio affermato, sicche' non rimane che riconoscere come nel
 diritto vivente la sentenza di applicazione della pena ex art.    444
 c.p.p. ha preso a vivere e ad essere intesa, per giurisprudenza ormai
 pacifica  e  consolidata,  come una pronuncia che non contiene nessun
 accertamento in punto di responsabilita' dell'imputato  al  quale  la
 pena  stessa  viene  applicata,  a  sua richiesta o col suo consenso,
 interpretazione che non  puo',  allo  stato,  essere  in  alcun  modo
 disattesa  e che contrasta, a parere di questo giudice con i principi
 costituzionali sopra indicati.
   Adeguandosi  al  principio  di  diritto  affermato  dalla  Corte di
 cassazione, si  finirebbe  col  discostarsi,  pero',  dalle  sentenze
 interpretative della Corte costituzionale in materia, sopra indicate,
 e  in  tal  caso  il  giudice non ha "altra alternativa che sollevare
 nuovamente la questione di legittimita' costituzionale,  non  potendo
 mai   assegnare   alla  formula  normativa  un  significato  ritenuto
 incompatibile con la Costituzione", come si e' espressa la  Corte  di
 cassazione, a sezioni unite, con le sentenze 29 gennaio 1996, Clarke,
 e  24  settembre 1998, Gallieri, che hanno configurato, la seconda in
 particolare, un vero e proprio onere per il giudice,  di  riproporre,
 in tal caso, la questione di costituzionalita'.
   Non si chiede alla Corte costituzionale una sentenza additiva volta
 ad  integrare  le  cause  di  revoca  di  diritto  della  sospensione
 condizionale della pena, tassativamente previste dall'art. 168, comma
 1 c.p., ragione per la  quale  la  Corte  ha  piu'  volte  dichiarato
 manifestamente  inammissibili  questioni sollevate in casi analoghi a
 questo, (e si veda per tutte l'ordinanza del 10-16 dicembre  1998  n.
 413),  ma  una  sentenza concettualmente analoga alla sentenza del 28
 gennaio  1991  n.  35,  con  la  quale   la   Corte   ha   dichiarato
 incostituzionale l'art.  4, comma 1 n. 7, del decreto-legge 10 luglio
 1982 n. 429, nella parte in cui non prevedeva che la condotta dovesse
 concretarsi   in  forme  artificiose,  ritenuta  incostituzionale  la
 diversa interpretazione fornita dalla giurisprudenza.
   Si chiede, in conclusione, alla Corte  solo  ed  esclusivamente  di
 valutare se la natura della sentenza di applicazione pena, cosi' come
 introdotta  e  disciplinata  nel  nostro  ordinamento giuridico dagli
 artt. 444 e segg. del c.p.p. del 1989,  e  come  concretamente  viene
 intesa  dalla  giurisprudenza della Corte di cassazione, nelle citate
 sentenze  a  sezioni  unite,  sia   in   armonia   con   i   principi
 costituzionali invocati.