LA CORTE DI APPELLO

    Riunita  in camera di consiglio, nel procedimento penale a carico
di  Ben  Said  Khemais  Ben  Mohamed  sentite  le  parti, ha emesso e
pronunciato la seguente ordinanza.
    Con  decreto  depositato  il 12 settembre 2001 veniva disposto il
giudizio immediato a carico di Ben Said Khemais Ben Mohamed, chiamato
a  rispondere  dinanzi  al  Tribunale  di  Sciacca,  in  composizione
monocratica,  dei reati di cui agli artt. 337 del codice penale (capo
A),  61  n. 10,  582,  585 in relazione all'art. 576 ipotesi n. 1 del
codice  penale (capo B), 61 n. 10, 582, 585 in relazione all'art. 576
ipotesi  n. 1  del  codice penale (capo C) e 635 commi 1 e 2, ipotesi
n. 3),  codice  penale  (capo  D),  commessi in Villafranca Sicula il
31 luglio 2001.
    All'esito  del  giudizio,  con la sentenza del 24 giugno 2002, il
Tribunale  dichiarava  il  Ben Said colpevole dei reati contestati e,
concesse   le   circostanze   attenuanti   generiche  e  ritenuta  la
continuazione,  lo  condannava  alla  pena  sospesa  di mesi sette di
reclusione.
    Nelle  motivazioni  della  sentenza  il  tribunale dava, in primo
luogo, succinto conto dello svolgimento del processo, ricordando, tra
l'altro,  che  con  apposita  ordinanza  erano  state respinte alcune
questioni preliminari sollevate dalla difesa.
    Avverso  detta decisione ha proposto rituale appello il difensore
del  Ben  Said eccependo, in primo luogo, la nullita' del decreto che
aveva  disposto il giudizio immediato e chiedendo la rimessione degli
atti al procuratore della Repubblica.
    Al  riguardo, dopo aver ricordato che la eccezione era gia' stata
respinta  dal primo giudice con la ordinanza del 19 novembre 2001, ha
dedotto  che  il  decreto  (che  era stato notificato all'imputato il
17 settembre 2001 ed al difensore il 9 ottobre 2001 - dopo il decorso
dei quindici giorni previsti dalla vigente formulazione dell'art. 458
del  c.p.p.  per  l'eventuale opzione per riti alternativi) era nullo
per   violazione   dell'art. 178,   lettera c),   c.p.p.,  in  quanto
nell'avviso  (in esso contenuto secondo la prescrizione dell'art. 456
del  c.p.p.) relativo ai termini per la presentazione della eventuale
richiesta  di  riti  alternativi  era  stato indicato erroneamente un
termine  di sette giorni, inferiore allo spatium liberandi assicurato
dalla  vigente  formulazione dell'art. 458 del c.p.p., che, a seguito
della   modifica   introdotta   dall'art. 14   legge  1° marzo  2001,
garantiva, a detto fine, quindici giorni.
    La  indebita  compressione  del  termine  in questione implicava,
secondo  l'appellante,  la violazione di una disposizione concernente
l'intervento dell'imputato e la conseguente nullita'.
    Sotto  altro  profilo  e' stato prospettato che l'imputato poteva
essersi determinato, decorsi i primi sette giorni citati nel decreto,
a  contattare  il  proprio  difensore  solo in prossimita' della data
dell'udienza  fissata  per  il  giudizio  (e  quindi oltre i quindici
giorni  previsti  dalla  normativa  in  questione), ovvero a rimanere
contumace,  sulla  base  dell'erroneo presupposto di non avere alcuna
alternativa al dibattimento.
    In   proposito   e'   stata   citata   la  sentenza  della  Corte
costituzionale  n. 497  dell'11 dicembre  1995,  secondo cui l'avviso
concernente   la   facolta'  di  ricorrere  ai  riti  alternativi  e'
funzionale al tempestivo esercizio del diritto di difesa.
    Di  seguito  l'appellante  difensore,  premesso  che  secondo  la
pacifica  interpretazione  data  alla  norma  in  questione (e' stata
richiamata,   per  tutte,  Cassazione,  Sezione  IV,  26 marzo  1993,
n. 3000)   prima  che  la  Corte  costituzionale  ne  dichiarasse  la
incostituzionalita'  (con la sentenza del 16 aprile 2002, n. 120), il
termine  di  quindici  giorni  per  optare  per  i  riti  alternativi
decorreva dalla notifica del decreto all'imputato e non al difensore,
rilevava  che  la  gravita'  della  violazione nel caso di specie era
ancora  piu'  evidente,  posto che il decreto era stato notificato al
difensore quando erano gia' decorsi i quindici giorni utili.
    L'appellante  ha  richiamato integralmente, ad ulteriore sostegno
della   eccepita   nullita'  del  decreto,  le  ragioni  che  avevano
determinato  la  Corte costituzionale a dichiarare, con la menzionata
sentenza n. 120 del 2002, la illegittimita' della disposizione «nella
parte  in  cui  non  prevede che il termine entro cui l'imputato puo'
chiedere  il  giudizio  abbreviato  decorre  dalla  notificazione del
decreto  di  giudizio  immediato anzicche' dall'ultima notificazione,
all'imputato  o  al  difensore,  rispettivamente  del  decreto ovvero
dell'avviso della data fissata per il giudizio immediato».
    La  Corte  osserva  che,  in  punto  di  fatto, le prospettazioni
dell'appellante  sono  fondate,  essendo  certa,  in  particolare, la
erronea indicazione del termine di sette giorni per optare per i riti
alternativi,  evidentemente  frutto  di un omesso aggiornamento della
predisposta  formulazione  del  decreto  che  ha disposto il giudizio
immediato   alla   modifica   legislativa  dell'art. 458  del  c.p.p.
introdotta dall'art. 14, comma 1, legge n. 63/2001.
    Deve   ritenersi  che  tale  inesattezza  abbia  determinato  una
situazione di insufficienza dell'avviso di cui all'art. 456, comma 2,
c.p.p.,  avendo  compresso il termine dilatoria previsto (peraltro, a
pena di decadenza) dall'art. 458 del c.p.p. per fare valere la scelta
per  i  riti alternativi ed avendo, comunque, al riguardo, fornito al
destinatario  una  indicazione  fuorviante,  suscettibile di incidere
sulle  sue  determinazioni.  Ed infatti, e', al riguardo, sufficiente
considerare  che  il  predetto,  decorsi  vanamente  i  sette  giorni
menzionati  nel  decreto,  era  autorizzato a ritenere, erroneamente,
ormai  precluso  il  ricorso  ai  riti alternativi e conseguentemente
inutile  la  presentazione di una istanza in tal senso: cio' priva di
conducenza la obiezione formulata in prime cure dal p.m., secondo cui
la   questione  poteva  assumere  rilevanza  solo  se  fossero  state
concretamente  proposte,  sia  pure  tardivamente,  istanze  volte  a
definire  il procedimento con il ricorso ad uno dei riti alternativi,
cosa  che,  peraltro, e' avvenuta nelle fasi preliminari del giudizio
di  primo  grado,  avendo la difesa inutilmente chiesto, senza che il
p.m.  abbia  formulato  alcuna  opposizione,  di  essere  rimessa nei
termini  per  avanzare  istanza  di  «patteggiamento»  e di «giudizio
abbreviato».
    Nel   rigettare   la  eccezione  di  nullita'  il  primo  giudice
(ordinanza  del  19 novembre 2001) ha rimarcato che tra le ipotesi di
nullita'  del decreto di giudizio immediato non e' prevista la omessa
indicazione  dell'avviso in questione e che l'art. 456 del c.p.p. non
contempla la necessita' di menzionare anche il termine entro il quale
possa farsi valere la relativa opzione.
    Tralasciando  che,  sulla  scorta  di  tali  rilievi  si potrebbe
astrattamente  escludere  la  nullita'  nel  caso di omissione totale
della  indicazione della facolta' de qua ovvero del relativo termine,
ma  non  gia'  la incidenza, potenzialmente fuorviante, della erronea
menzione di uno spatium deliberandi piu' ristretto di quello previsto
dall'art. 458  del  c.p.p.,  si  osserva  che nel valutare la materia
l'interprete  non  puo'  non  considerare i principi dettati da altra
norma  che  regola  un  caso  del  tutto  analogo: ci si riferisce al
comma 2  dell'art. 552  del  c.p.p.,  il  quale  non e' espressamente
richiamato  dall'art. 456  del  c.p.p.,  che,  per quanto riguarda le
eventuali  nullita',  fa  rinvio  invece al comma 2 dell'art. 429 del
c.p.p.,  norma che disciplina il contenuto e la eventuale invalidita'
del decreto che dispone il giudizio e che necessariamente non prevede
alcun  avviso  della facolta' di optare per i riti alternativi, ormai
in quella fase preclusi.
    Il  citato  art. 552,  comma 2,  c.p.p.,  che  ha  riformulato il
precedente  art. 555 del c.p.p., recependo il principio affermato, in
relazione  a  quest'ultima  disposizione,  dalla sentenza della Corte
costituzionale  n. 497 del 1995, ha previsto espressamente come causa
di  nullita'  del decreto di citazione la mancanza o la insufficiente
indicazione,  tra  l'altro,  del requisito di cui alla lettera f) del
precedente comma 1, concernente «l'avviso che, qualora ne ricorrano i
presupposto  l'imputato,  prima  della  apertura  del dibattimento di
primo  grado, puo' presentare le richieste previste dagli artt. 438 e
444 ovvero presentare domanda di oblazione».
    Se  si applicasse lo stesso principio, il quale, si ribadisce, e'
stato   introdotto  recependo  la  precisa  indicazione  della  Corte
costituzionale  che  aveva  dichiarato  la illegittimita' dell'allora
vigente art. 555, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non prevedeva la
nullita'   del  decreto  di  citazione  a  giudizio  per  mancanza  o
insufficiente indicazione dei requisiti previsti dal precedente comma
1,  lett.  e) (Corte costituzionale, 11-12-1995, n. 497, Bussachini),
si  dovrebbe, dunque, dichiarare la nullita' del decreto introduttivo
del  presente giudizio, posto che, come rilevato, la erronea menzione
del   termine   in  questione  radica  una  insufficiente  ed,  anzi,
fuorviante formulazione del prescritto avviso.
    Sennonche',  ai  sensi  dell'art. 177 del c.p.p., il regime delle
nullita' e' tassativo e non ammette applicazione analogica, cosicche'
si  deve  valutare  se  la  situazione  in  esame integri, cosi' come
prospettato dall'appellante, un caso di nullita' di ordine generale -
art. 178,  lettera c),  c.p.p.  -  ovvero  se  si  sia verificata una
inosservanza     delle    disposizioni    concernenti    l'intervento
dell'imputato   (ritualmente   dedotta  nella  fase  preliminare  del
giudizio di primo grado).
    Al  quesito la Corte ritiene si debba rispondere in modo negativo
anche  alla  stregua  della  richiamata  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale, che ha ritenuto di dover intervenire con una sentenza
additiva  di  una specifica causa di nullita', escludendo, dunque, la
irrilevanza  della  questione proposta alla sua attenzione per essere
la nullita' gia' desumibile dalla applicazione dell'art. 178, lettera
c), c.p.p..
    Esclusa,  pertanto,  la  prospettata  ipotesi  di una nullita' di
ordine  generale,  rimane da verificare la possibile ricorrenza della
non  manifesta  incostituzionalita'  dell'art. 456,  comma  1, c.p.p.
nella  parte  in  cui  non  prevede  la  nullita'  del decreto che ha
disposto   il   giudizio   immediato   nel  caso  in  cui  sia  stato
potenzialmente  pregiudicato l'esercizio della facolta' di optare per
i  riti  alternativi  a  causa  della mancanza, della insufficienza o
della  inesattezza  della  indicazione  dell'avviso di cui al comma 2
della  medesima disposizione, questione la cui rilevanza nel presente
giudizio  viene  radicata  con  ogni evidenza da quanto fin qui si e'
esposto.
    Ora,  la  Corte  ritiene  che  non  sia necessario spendere molte
parole  per  rimarcare,  anche  alla  stregua della pregressa, citata
giurisprudenza   della   Corte   costituzionale,   la  non  manifesta
infondatezza  della profilata questione di costituzionalita', essendo
sufficiente, al riguardo, considerare:
        la  possibile  violazione  dell'art. 3 Cost. scaturente dalla
difforme  disciplina  conferita  dal  vigente  ordinamento a casi che
presentano   natura   sostanzialmente   identica   (quello   regolato
dall'art. 552, comma 2, c.p.p. e quello in esame);
        la  possibile lesione del principio di cui all'art. 24 Cost.,
nella  parte  in  cui  assicura il diritto inviolabile alla difesa in
ogni stato e grado del procedimento;
        la  possibile lesione dell'art. 111 Cost., nella parte in cui
riconosce  all'imputato  il  diritto  di  disporre «del tempo e delle
condizioni necessari per preparare la sua difesa».
    Non  rimane,  allora,  che rimettere alla Corte costituzionale la
decisione sulla questione.