LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico
di  Serra  Paolino,  nato  a Thiesi il 12 ottobre 1940, ivi residente
viale Madonna di Seunis 32, imputato:
        A)  del  delitto  di  cui  all'art. 610  c.p.  per avere, con
minaccia  di  tirargli  delle  pietre,  costretto  Ruiu Gian Marco ad
interrompere  l'aratura  dei  campi  che  eseguiva  per  conto  delle
proprietarie Spanedda Francesca Antonia e Giovanna;
        B)  del  delitto di cui agli artt. 81 cpv., 388, 633 c.p. per
avere,  con piu' atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, per
sottrarsi   agli  adempimenti  civili  nascenti  dalla  sentenza  del
Tribunale  di  Sassari  del  16  giugno  2001,  invaso  il  fondo  di
proprieta'  di Spanedda Francesca Antonia e Giovanna, realizzando una
pista  d'accesso  con  l'apposizione  di  una  rete  metallica per il
transito del bestiame.
    Commessi in agro di Thiesi, nel febbraio 2002.
    Ritenuto  che,  tratto  al  giudizio  del  Tribunale  di Sassari,
sezione  distaccata di Alghero per rispondere della imputazione sopra
indicata  insieme  ai  co-imputati  Serra  Filippo e Serra Salvatore,
Serra  Paolino  venne,  con  sentenza  del  5  ottobre  2004, mandato
assolto,  insieme  agli altri imputati, con formule varie di merito e
che contro questa decisione si e' appellato, chiedendo l'affermazione
di  responsabilita'  e  la  condanna del Serra, il p.g. presso questa
corte.
    Ritenuto  che,  a  norma  dell'art. 10,  legge  20 febbraio 2006,
n. 46,  dovrebbe  dichiararsi  la inammissibilita' della impugnazione
proposta  dal  procuratore generale restando a questo la possibilita'
di proporre ricorso per cassazione giusta il disposto del terzo comma
del medesimo art. 10;
     Ritenuto che vi e' tuttavia motivo di dubitare della conformita'
della  legge  anzidetta  alla  Costituzione e che il medesimo p.g. ha
ritenuto ravvisabili i profili di incostituzionalita' gia' denunciati
da questa corte in casi analoghi.

                            O s s e r v a

    L'art. 111  della  Costituzione  garantisce  il  principio  della
parita'   delle   parti  nel  processo,  e  questo  principio,  nella
previsione  costituzionale,  non  soffre  di eccezioni di sorta (come
invece puo' avvenire per altri principi, come quello della formazione
della  prova  in contraddittorio pure stabilito dal medesimo articolo
111). L'esclusione della possibilita' che il pubblico ministero possa
gravarsi  contro  le  sentenze di proscioglimento con lo stesso mezzo
riconosciuto  all'imputato  avverso  le sentenze di condanna comporta
l'introduzione   nel  sistema  delle  impugnazioni  di  una  evidente
irragionevole   disparita'   di  trattamento  che  contrasta  con  il
richiamato  principio della parita' delle parti nello svolgimento del
processo.
    Ad  avviso di questa corte l'enunciato ora espresso non confligge
con le ripetute pronunce negative della Corte costituzionale chiamata
ad  esprimersi  sulle  limitazioni  al  potere d'appello del pubblico
ministero  stabilite  dall'art. 443.3  c.p.p.,  essendo le disparita'
derivanti  da questa disposizione ragionevolmente giustificabili alla
luce  del  risultato  perseguito  con il ricorso al rito abbreviato e
delle  peculiarita'  di  questo.  Il risultato e' quello della rapida
definizione  dei  processi  penali conseguita attraverso la decisione
del  processo solo sulla base del materiale probatorio raccolto dalla
parte   pubblica  fuori  del  contraddittorio,  e  pertanto  con  una
correlativa  rinuncia dell'imputato, in vista del miglior trattamento
sanzionatorio   a   lui   riservato   in   caso  di  affermazione  di
responsabilita', ad intervenire nel delicato momento della formazione
della   prova.  E  tuttavia,  se  in  un  quadro  siffatto  e'  parso
ragionevole   limitare  la  facolta'  di  impugnazione  del  pubblico
ministero  quanto  alle sentenze di condanna (e pertanto in relazione
alla  quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa
dirsi  in  relazione  alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a
seguito  di  rito  abbreviato,  stante  il perdurante interesse della
parte   pubblica  all'accertamento  della  verita'  (e  quindi  della
responsabilita'  dell'imputato  che  dall'acclaramento  della verita'
possa  risultare),  come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata
conservata  al  p.m.  la facolta' di appellarsi contro le sentenze di
condanna  che  modifichino  il  titolo  del  reato. E a proposito del
generale  interesse del p.m. a proporre appello contro le sentenza di
proscioglimento  conserva  piena  validita' il richiamo contenuto nel
messaggio  del  Presidente  della  Repubblica alle Camere la' dove si
osserva   che   «la   soppressione  dell'appello  delle  sentenze  di
proscioglimento  ...  fa  si' che la stessa posizione delle parti nel
processo  venga  ad  assumere una condizione di disparita' che supera
quella  compatibile  con  la  diversita'  delle funzioni svolte dalle
parti  stesse  nel  processo.  Le  asimmetrie  tra  accusa  e  difesa
costituzionalmente  compatibili  non  devono mai travalicare i limiti
fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione».
    Ne'  appaiono  decisive  le  obbiezioni che potrebbero farsi alla
tesi  qui sostenuta e secondo le quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di accoglimento del ricorso
per  cassazione  proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il
processoritornera'   in   primo   grado   con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato.  Il principio di non colpevolezza implica soltanto che
gli  effetti  pratici  della  condanna  possano discendere solo dalla
sentenza  definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da esso circa
l'iter  per  il  quale si debba pervenire al giudicato. Quello per il
quale  la  colpevolezza puo' essere affermata solo quando sia provata
oltre  ogni  ragionevole  dubbio  sembra,  invece, in questo caso, mi
principio   di   lettura  equivoca,  posto  che  se  si  sostiene  la
inappellabilita'  della  sentenza  con  la  quale  un  giudice  abbia
pronunciato  assoluzione  poiche' l'eventuale successiva condanna non
potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe
altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un
giudizio  d'appello  contro una sentenza di condanna che, ad esito di
un  processo  celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe
pronunciata  sulla scorta di prove che dimostrino la colpevolezza con
lo stesso grado di sicurezza.
    E'  stato  peraltro  espresso  l'avviso  che  l'esclusione  della
appellabilita'  delle  sentenze  di  proscioglimento  da  parte della
accusa  pubblica  sia  coerente  all'esplicazione  dei  diritti della
difesa:  deve in proposito osservarsi che insopprimibile funzione del
processo  penale  e'  quello  dell'accertamento della verita', e tale
prospettiva  deve  essere  perseguita  nel rispetto dei diritti della
difesa da far valere tuttavia nell'ambito del processo e non gia' nel
senso  che  il  confronto  fra le tesi debba essere evitato (in altri
termini:  deve  esercitarsi  la  difesa  nel  processo e non gia' dal
processo). Nessuno dubita che anche nel giudizio d'appello l'imputato
debba  godere  del  pieno  dispiegamento dei diritti che la legge gli
riconosce:  ma  non  si  vede in che cosa la celebrazione del secondo
grado  del  giudizio  di  merito,  sia  pure  ad istanza del pubblico
ministero,  possa compromettere il diritto di difesa (diverso sarebbe
se  ci  si  appellasse al principio del favor rei, che pero' vale nei
soli  casi  in  cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta
essere stato ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte  le  notazioni  sopra  svolte  puo'  aggiungersi  che il
contrasto  delle  disposizioni  denunciate  rispetto all'art. 111 (ed
anche, a questo punto, all'art. 3) della Costituzione apparira' ancor
piu'  evidente  quando  si osservi che nella stesura definitiva della
legge  20  febbraio  2006  n. 46  alla  parte  civile e' stato invece
conservato  il  diritto  d'appello avverso le sentenze di assoluzione
(la  genesi  della locuzione del secondo periodo dell'art. 576 c.p.p.
alinea  nell'attuale  formulazione  persuade  che  l'impugnazione ivi
menzionata  consista  nell'appello).  Si deve constatare pertanto che
alla parte pubblica, portatrice degli interessi rilevantissimi su cui
si  tornera'  tra  breve,  e'  stato  del  tutto  ingiustificatamente
riservato  un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto che alle parti
private  e  questo  dato, indubitabile, non puo' che far risaltare in
maniera ancor piu' evidente il vulnus subito, per effetto delle norme
che  vengono  sottoposte  al Giudice delle leggi, dal principio della
parita' delle parti.
    Oltre  a  tutto  quanto sopra enunciato, partendo dal rilievo che
gli  interessi  tutelati dal pubblico ministero sono, in uno Stato di
diritto,  apprezzabili  quanto  quelli  delle  altre  parti, compreso
l'imputato  (ed  in  realta', per quanto le ultime riforme in materia
processuale  abbiano  avuto di mira soprattutto il riequilibrio della
posizione  dell'imputato rispetto a quella del p.m., mai l'importanza
degli  interessi  tutelati  attraverso  l'azione  di questo era stata
reputata  sottovalente  rispetto a quella degli interessi delle altre
parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al pubblico ministero il
potere   di  appellarsi  contro  le  sentenze  di  assoluzione  o  di
proscioglimento  significa  rendere  piu'  difficoltosa  l'attuazione
della  ricerca  della  verita'  e,  quindi  dell'istanza di giustizia
propria della collettivita', istanza che e' addirittura pregiuridica,
posto  che su di essa si basa qualsiasi civile convivenza nella quale
si voglia evitare che i consociati siano tentati di ricorrere a forme
private   di   giustizia.   Di   questo   primario   interesse  della
collettivita'   e'  espressione  la  previsione  dell'art. 112  della
Costituzione  e,  in  definitiva,  anche  quella  circa  l'emenda del
condannato   sancita   dal  terzo  comma  dell'art. 27  della  stessa
Costituzione:  dalla lettura coordinata di queste due norme si ricava
che  il  pubblico  ministero  (parte  pubblica,  e  quindi  tenuta al
rispetto di comportamenti ispirati a massima correttezza e moralita',
oltre  che  onerata  anche  della  ricerca  degli elementi favorevoli
all'imputato)  non  e'  un  ottuso  persecutore  degli  incolpati, ma
soggetto che persegue il compito, della cui primaria importanza si e'
detto, di far si' che i devianti vengano recuperati ad una convivenza
civile e ordinata. E menomare i mezzi attraverso i quali l'azione del
pubblico  ministero,  nel  rispetto  del  principio  di parita' delle
parti,  si  deve  esplicare  significa  in  definitiva  legiferare in
contrasto,   anche,   con   le   due  previsioni  costituzionali  ora
richiamate.
    La  corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
delle  sopra  illustrate  questioni  di  legittimita' costituzionale,
riconosciuta  la  impossibilita'  di  addivenire  alla  decisione del
processo   sottoposto   al   suo   giudizio  indipendentemente  dalla
risoluzione  delle  cennate  questioni  (l'applicazione  delle  norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile   ribaltamento,  quanto  agli  aspetti  penalistici,  della
decisione  di  primo  grado  e la condanna dell'imputato), dispone la
trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale sospendendo il
giudizio in corso.