LA CORTE DEI CONTI

    Ha emesso la seguente ordinanza n. 05/A/2007/ORD., nei giudizi in
materia  di responsabilita' amministrativa iscritti al n. 1837/A/RESP
e  n. 1838/A/RESP  del  registro di segreteria e promossi dai signori
Vito  Failla  e  Paolo  Maggio,  entrambi  col  patrocinio degli avv.
Giovanni  Pitruzzella  e  Massimiliano  Mangano,  avverso la sentenza
n. 2515/2005 della Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana.
    Visti gli atti e i documenti di causa;
    Uditi,  nella  Camera  di  consiglio  del  7  dicembre  2006,  il
relatore,  consigliere  Salvatore  Cilia,  l'avv. Mangano e il V.P.G.
Salvatore Marcinno'.

                              F a t t o

    Con  atto  di  citazione,  depositato in segreteria l'11 febbraio
2005,  la  Procura  regionale  (a seguito della relazione 11 novembre
2004  del Comitato nucleo regionale della Polizia tributaria, che era
stato  appositamente  delegato  dalla stessa Procura) ha convenuto in
giudizio  i  signori  Francesco  Passariello,  Antonino Sansone, Vito
Failla  e  Paolo  Maggio,  il  primo  ex  presidente  e  gli altri ex
direttori  del  Comitato  provinciale  della  C.R.I.  di Palermo, per
sentirli condannare al pagamento, in favore di tale ente, della somma
complessiva  di  Euro 685.367,62, da imputarsi per Euro 342.638,81 al
Passariello,  per  Euro  227.446,79 al Sansone, per Euro 71.784,92 al
Failla e per Euro 43.452,10 al Maggio, oltre rivalutazione monetaria,
interessi  legali  e  spese  di  giudizio.  (Ma l'importo complessivo
risulta  indicato  -  sia  nell'atto  di citazione che nella sentenza
appellata - in Euro 675.267,65).
    La  vicenda  trae  origine da una ispezione disposta dal Comitato
centrale  della  C.R.I.  nei  confronti  del  Comitato provinciale di
Agrigento  per  fatti  analoghi  a  quelli  che  formano  oggetto del
presente giudizio, e, a conclusione degli accertamenti istruttori, il
pubblico  ministero  ha  rilevato  l'illegittimita'  dei  mandanti di
pagamento  emessi  dal  mese  di ottobre 1999 al mese di luglio 2001,
sottoscritti  dai  convenuti ed aventi oggetto rimborsi forfettari di
L.  40.000  (nella  prima fase) e di L. 60.000 (a partire dal mese di
ottobre  2000)  corrisposti,  in violazione della normativa all'epoca
vigente, per ogni turno superiore alle otto ore, a ciascun volontario
impegnato   sia   nel   servizio   «118»  che  in  generici  «servizi
d'istituto».
    Il presidente Passariello ha adottato la determinazione n. 64 del
18  ottobre  1999 per estendere, ai militari richiamati senza assegni
ed  ai  volontari  del  soccorso,  la  legge  n. 21/1991,  il  d.P.R.
n. 349/1995   e   il   d.P.R.  n. 360/1996  a  supporto  delle  somme
corrisposte, ma il p.m. ha puntualizzato, da una parte, che la citata
non  era nella specie applicabile in quanto riguardava il trattamento
di  missione  da  corrispondere  al  personale  inviato  in localita'
distanti  almeno  10  chilometri dal centro abitato sede dell'ufficio
(peraltro  a  seguito  della presentazione di regolare documentazione
giustificativa),  e,  dall'altra,  che,  nonostante  che il consiglio
direttivo  avesse  sospeso  (in  data  10  novembre 1999) la suddetta
determinazione  -  con  la  motivazione  dell'esigenza di rivedere il
criterio  dei  pagamenti, previa richiesta di chiarimenti al comitato
regionale - i mandati sono stati egualmente liquidati.
    La  Procura  regionale  ha  riconosciuto  in capo ai convenuti la
colpa  grave  per  avere  disposto  i  pagamenti «violando le precise
disposizioni  in  ordine  al trattamento di missione e sull'eventuale
attribuzione  del  buono-pasto»,  con  ripartizione  del  danno nella
misura del 50% a carico del presidente Passariello e del 50% a carico
dei direttori pro-tempore.
    Con  la  sentenza n. 2515/2005, la Sezione giurisdizionale - dopo
aver riconosciuto l'avvenuta prescrizione (eccepita dal difensore del
signor  Sansone)  per  due  mandati  (pari  a Euro 18.551,13), il cui
pagamento  era  anteriore  al  quiquennio dalla data di notificazione
dell'invito  a  dedurre  (effettuata  il  15  dicembre  2004)  -  nel
condividere pienamente l'impostazione accusatoria, condanna i quattro
convenuti nei termini quantitativi risultanti dall'atto di citazione,
salvo per il signor Sansone, il cui addebito e' stato diminuito dalla
predetta somma di Euro 18.551,13 per l'avvenuta prescrizione.
    I  quattro  convenuti hanno appellato la sentenza di primo grado;
in  particolare,  i signori Maggio e Failla col patrocinio degli avv.
Pitruzzella  e  Mangano (atti di appello in segreteria il 28 novembre
2005).
    La  difesa  dei  predetti  convenuti  si fonda sostanzialmente su
motivazioni   analoghe   (salvo  un  aspetto  specifico,  concernente
esclusivamente  il  Failla,  di  ci si dira' in seguito), che possono
quindi   essere  unificate  nell'esposizione,  in  base  ai  seguenti
profili:
        1) la sentenza di primo grado appare errata ove si consideri,
da  una  parte,  che  i  signori  Maggio  e  Failla  hanno  agito  in
conformita' al Regolamento di contabilita' e di amministrazione della
C.R.I., e, dall'altra, che, in ogni caso, la rispettiva firma apposta
-  nei diversi momenti - sui mandati non poteva avere un ruolo attivo
nella  decisione e nella realizzazione di quanto contestato; infatti,
anteriormente   all'adozione   del   nuovo   Statuto   della   C.R.I.
(approvazione  con  d.P.C.m. n. 208 del 5 luglio 2002), non vigeva il
principio  di separazione tra le funzioni di indirizzo e di controllo
e le funzioni di gestione, per cui il potere decisionale (e quindi la
responsabilita)  spettava  al  presidente,  con la conseguenza che le
funzioni  dei  signori Maggio e Failla erano di mera esecuzione degli
atti emanati dal presidente stesso;
        2)  la  sentenza appellata e' errata anche nella parte in cui
non  ha dato rilievo alla circostanza (messa in luce dalla difesa del
signor  Sansone)  che  l'ufficio di ragioneria non ha sollevato alcun
rilievo  sui  mandati  di  pagamento  e «non avere riconosciuto alcun
valore  alla  fondamentale  circostanza  che  gli appellanti sono dei
militari  che  sono  stati  comandati  d'urgenza  a prestare servizio
presso  la  C.R.I.  al  fine  di "garantire la necessaria continuita'
logistica  ed amministrativa", essendo vacante nel comitato la figura
del  direttore»;  da  cui  deriva  che  gli  appellanti  - chiamati a
svolgere  il  proprio  servizio in un'ottica meramente sostitutiva di
colmare  una  vacanza  -  non  potevano avere perfetta conoscenza, da
subito, la normativa applicabile in materia di rimborso spese;
        3)  inoltre,  la  sentenza  impugnata  ha  trascurato di dare
rilievo  all'utilitas  derivata alla comunita' dell'ergogazione delle
somme  in  questione, tenuto conto che comunque e' stato garantito lo
svolgimento  di un servizio che altrimenti si sarebbe bloccato, «come
dimostrano  le  agitazioni  e  le  contestazioni verificatesi in quei
giorni».  D'altra  parte,  «non sarebbe stato in alcun modo possibile
svolgere   il   medesimo   servizio,  sulla  cui  efficienza  nessuna
contestazione  e' stata posta in essere, ad un costo minore», per cui
si  puo'  affermare che «la gestione contestata, in realta', non solo
non  ha  arrecato  alcun  danno  alla  C.R.I. ma, lo si ribadisce, ha
comportato, per la stessa C.R.I. un bilancio positivo», fino al punto
che  la sentenza di primo grado avrebbe ragionato «in una prospettiva
tipica della ormai superata teoria sulla responsabilita' formale»;
        4)  infine,  viene  richiamata una sentenza di questa Sezione
che  -  in  un  caso  analogo  -  si  sarebbe  sostanzialmente  mossa
nell'ottica prospettata dalla difesa.
    Per   quanto  riguarda,  in  particolare,  il  signor  Failla,  i
difensori mettono in rilievo che due dei mandati di pagamento (pari a
L. 94.710.000 e a L. 5.360.000) che - al 50% - gli vengono addebitati
(nell'atto  di  citazione  e  nella sentenza di condanna), in effetti
sono  privi della sottoscrizione dello stesso, tanto e' vero che tali
mandati sono stati ammessi a pagamento con la sola sottoscrizione del
presidente.
    La  conclusione  degli  atti di appello e' nel senso della totale
assoluzione dei convenuti e, per il caso specifico del signor Failla,
anche  della  declaratoria  di  assenza  di responsabilita' per i due
mandati appena citati.
    Per entrambi gli appelli di cui si e' trattato, in data 19 giugno
2006  gli avvocati Pitruzzella e Mangano hanno depositato istanza per
l'applicazione  dell'art.  1,  commi  231,  232  e  233,  della legge
n. 266/2005,  chiedendo  la definizione del giudizio col pagamento di
una  somma  pari  al  10% (e comunque non superiore al 20%) del danno
quantificato nella sentenza.
    In  data  31  ottobre  2006,  la  Procura  generale ha depositato
separati  atti  conclusionali  con  riferimento  ai  quattro  appelli
chiedendo,  in  definitiva, la piena conferma della sentenza di primo
grado,  mentre, con riferimento agli appelli relativamente ai quali i
difensori  hanno chiesto la definizione agevolata, in data 4 dicembre
2006  ha  depositato  il  parere  previsto dalla legge, proponendo di
determinare la somma dovuta dai signori Maggio e Failla in misura non
inferiore al 30% del danno quantificato in sentenza.
    Chiamando  i quattro giudizi all'udienza del 14 novembre 2006, la
Sezione  ha  rinviato  a  nuovo  ruolo  i  giudizi  recanti  i numeri
1805/A/RESP e 1959/A/RESP (Passariello e Sansone), mentre fissato per
gli  altri  due la camera di consiglio del 7 dicembre 2006, nel corso
della  quale,  sia  l'avv.  Mangano che il V.P.G. hanno confermato le
richieste formulate con i rispettivi atti scritti.

                            D i r i t t o

    La  Sezione,  dopo  aver  preliminarmente  riunito  i due giudizi
indicati  in  epigrafe  ai  sensi dell'art. 335 cod. proc. civ., deve
immediatamente  rilevare  che  l'art. 1 della legge 23 dicembre 2005,
n. 266,  pone  -  ai  commi  231,  232  e  233  -  i seguenti (nuovi)
meccanismi  sostanziali  e  processuali  applicabili  nei  giudizi di
responsabilita'  dinanzi  alla  Corte  dei conti per i fatti commessi
antecedentemente  alla  data di entrata in vigore della legge stessa:
1)  «i  soggetti  nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di
condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede
di  impugnazione,  che  il  procedimento  venga  definito mediante il
pagamento  di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore
al  20  per  cento  del  danno  quantificato  nella sentenza»; 2) «la
sezione  di  appello,  con decreto in camera di consiglio, sentito il
procuratore  competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso
di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al
30  per  cento  del danno quantificato nella sentenza di primo grado,
stabilendo  il termine per il versamento»; 3) «il giudizio di appello
si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta
di versamento presso la segreteria della sezione di appello».
    Tali  disposizioni,  in  sostanza,  introducono,  nella  fase  di
appello,   un   procedimento   camerale   diretto   alla  definizione
«agevolata»  del  giudizio  di  responsabilita'  innanzi la Corte dei
conti;  ma  la  Sezione  dubita della legittimita' costituzionale del
complesso di tali disposizioni, per violazione degli artt. 3, 24, 97,
103 e 111 della Costituzione.
    Il   ragionamento   della  Sezione  prende  le  mosse  da  quella
giurisprudenza  costituzionale  (fra  le  altre, sentenze n. 68/1971,
n. 63/1973  e  n. 1032/1988)  in base alla quale la concreta garanzia
dei  principi  costituzionali di eguaglianza, di buon andamento e del
controllo   contabile   sia   sostanzialmente   affidata  alla  legge
ordinaria,   nel   senso   che   sono   riservate   al  discrezionale
apprezzamento  del  legislatore  non  solo  la  determinazione  e  la
graduazione  dei  tipi  e  dei  limiti  di  responsabilita'  che - in
relazione   alle  varie  categorie  di  dipendenti  pubblici  o  alle
particolari  situazioni regolate - appaiono come le forme piu' idonee
a   garantire   l'attuazione  dei  predetti  principi  costituzionali
(sentenza   n. 411/1988   e  ordinanza  n. 549/1988,  nonche'  -  con
riferimento  all'art.  28 della Costituzione - le sentenze n. 2/1968,
n. 123/1972,  n. 164/1982  e n. 26/1987), ma anche la possibilita' di
stabilire un limite patrimoniale della responsabilita' amministrativa
(sentenza n. 340/2001).
    Cio'  sta  a  significare,  in definitiva, da una parte, che, per
quanto  non  sia  possibile trarre di taluni parametri costituzionali
(in  particolare, artt. 917 e 103, secondo comma, della Costituzione)
un   principio   di   inderogabilita'   delle   comuni  regole  della
responsabilita',  si puo' tuttavia ricavare dagli stessi parametri la
regola  secondo  la  quale  la  discrezionalita' del legislatore, per
essere  considerata  corretta  nel  suo esercizio, deve determinare e
graduare,  caso  per  caso i tipi e i limiti della responsabilita' in
riferimento  alle  diverse  categorie  di  dipendenti pubblici e alle
diverse situazioni concrete, fissando, per ciascuna di esse, le forme
piu' idonee a garantire i principi del buon andamento e del controllo
contabile  (sentenza  n. 371/1998);  e,  dall'altra,  che, in sede di
giudizio  di  legittimita'  costituzionale, le leggi disciplinanti la
responsabilita'   dei   pubblici   dipendenti  sono  sindacabili,  in
riferimento  ai  parametri  invocati,  solo  sotto  il  profilo della
ragionevolezza   della   disciplina   adottata   e  delle  diversita'
introdotte (cioe', relazione all'art. 3 della Costituzione).
    Conseguentemente,   pur   non   potendosi  negare,  in  linea  di
principio,  la  possibilita' di un intervento legislativo del tipo di
quello  esaminato  in  questa sede, e' tuttavia pur sempre necessario
che   l'intervento   stesso   sia  strettamente  (e  ragionevolmente)
collegato  alle  specifiche  peculiarita'  del  caso  in modo tale da
escludere  qualsiasi  ipotesi  di arbitrio nella fase di sostituzione
della  disciplina  generale  con  una (successiva) eccezionale (Corte
costituzionale,  sentenza  n. 14/1999, e altre precedenti ivi citate)
sotto  il  profilo  tanto  del rispetto del principio di eguaglianza,
quanto  della  tutela  del  buon andamento e della salvaguardia della
funzione  giurisdizionale  da  indebite  interferenze  da parte delle
potere  legislativo.  Senonche',  rispetto  alle  norme di cui si sta
trattando,  appare alquanto problematica l'individuazione della ratio
che  le  sorregge,  che  non sia quella - puramente e semplicemente -
della   limitazione   del   risarcimento  patrimoniale  del  soggetto
condannato  in  primo  grado,  circostanza  che,  proprio per questo,
caratterizza  l'innovazione  normativa  per la sua irrazionalita' e -
conseguentemente - per la sua arbitrarieta'.
    In  merito,  potrebbe  essere utile richiamare due esempi, tratti
dalla normativa, che - pur eventualmente «criticabili» sul piano lato
sensu «politico» - presentano una ratio che consente di superare, sul
piano  giuridico,  i  dubbi  di  irrazionalita' e arbitrarieta': uno,
concerne  il c.d. «condono fiscale» che, pur attivabile «dinanzi alle
commissioni  tributarie  od  al  giudice in ogni grado del giudizio e
anche  a  seguito  di  rinvio»  (da ultimo, art. 16 legge 27 dicembre
2002,  n. 289),  e'  chiaramente  finalizzato  all'incremento  - e in
termini  brevi  -  delle  entrate  fiscali,  oltre a deflazionare, in
qualche  misura,  il contenzioso tributario; un altro, concernente la
«applicazione  della  pena  su richiesta delle parti» (ai sensi degli
artt.  444  e  segg. cod. proc. pen.), che, potendo essere richiesta,
nel  giudizio ordinario, fino alla presentazione delle conclusioni di
cui  agli  art.  421, comma 3, e 422, comma 3 (e, in caso di giudizio
direttissimo,  fino alla dichiarazione di apertura di dibattimento di
primo  grado), e' chiaramente finalizzata a deflazionare il carico di
lavoro  del giudice penale per i reati meno rilevanti e, al contempo,
a  limitare  drasticamente  le  pene  detentive e quindi limitare gli
accessi alle carceri, notoriamente superaffollate.
    Conseguentemente,  raffrontando  le citate situazioni con il caso
che  interessa  in  questa  sede,  a  giudizio della Sezione appaiono
violati    gli    artt.    97    (principio    di    buon   andamento
dell'amministrazione   pubblica)   e   103,   secondo   comma,  della
Costituzione  (controllo  contabile) stante che le norme sottoposte a
scrutinio  costituzionale, da una parte, non incidono minimamente (in
senso  riduttivo) sull'entita' del contenzioso contabile (considerato
che  le  norme  stesse operano esclusivamente in sede di appello, nel
cui  ambito  il  sostituire  una  pubblica  udienza con una camera di
consiglio  e  una  sentenza  con un decreto e' sicuramente di piccolo
momento),  e,  dall'altra,  che producono (quasi sicuramente, facendo
astrazione  ovviamente  dall'ipotesi  di  condanna in sede di appello
ordinario)  una minore entrata (fra il 90 per cento e il 70 per cento
del danno quantificato nella sentenza di primo grado), per cui rimane
soltanto  l'irrazionale e incongruo «effetto premiale» (nei confronti
del convenuto condannato), che, in quanto tale, si appalesa del tutto
ingiustificato.
    D'altra   parte,   la   Sezione   ritiene   che   tali  parametri
costituzionali  siano violati anche sotto un altro profilo. Infatti -
premesso che nel sistema vigente l'attenuazione della responsabilita'
amministrativo-contabile  e'  rimessa,  nei  singoli  casi, al potere
riduttivo   del   giudice,   che,  a  tal  fine,  puo'  tenere  conto
(fondamentalmente)    del    comportamento    e    del   livello   di
responsabilita',  ma  anche  delle  capacita' economiche del soggetto
responsabile  -  appare  assolutamente  irragionevole  (e,  in questo
senso,  viene  implicato  anche  l'art.  3  della  Costituzione)  una
riduzione    predeterminata    e    pressoche'    automatica    della
responsabilita' e della misura del risarcimento, lasciando al giudice
una   valutazione  minima  in  ordine  al  comportamento  complessivo
dell'agente  (Corte  costituzionale,  sentenza  n. 340/2001);  con la
ulteriore  conseguenza  che il complesso normativo esaminato potrebbe
incidere  (limitandolo)  sul  principio del «libero convincimento del
giudice»,  violando  cosi' l'art. 101 della Costituzione, limitandolo
anche  nel  senso  che  l'inciso  «in  caso  di  accoglimento»  della
richiesta  del  soggetto condannato (comma 232), non contenendo alcun
criterio  di orientamento per il giudice, comporta - in conclusione e
in  sostanza  - l'assenza di qualsiasi «discrezionalita» nell'an (per
cui il procedimento, in certo qual modo, diventa «obbligatorio»).
    A  sua  volta,  il  principio di eguaglianza appare ulteriormente
violato nella considerazione che la normativa e' applicabile soltanto
ai  «soggetti  nei  cui  confronti  sia stata pronunciata sentenza di
condanna»,  con  la  conseguenza  che la situazione concreta potrebbe
rilevarsi  negativa  nei confronti dei soggetti che risultino assolti
in  primo  grado  nel  senso che la relativa sentenza potrebbe essere
appellata  dal  pubblico  ministero  e  che  la  sentenza  di appello
potrebbe  essere di condanna, senza che il convenuto possa fruire dei
vantaggi  della norma «di condono». E''ben vero che, nella specie, si
e'  in  presenza  di  soggetti  condannati  in  primo  grado,  con la
conseguenza  che  la prospettazione che precede potrebbe apparire non
rilevante,  ma,  nell'economia  complessiva  della  normativa, appare
comunque  irrazionale  una  previsione  legislativa  che  esclude dai
benefici  quei  soggetti la cui posizione - dopo la sentenza di primo
grado  -  appare  chiaramente meno «pensante» di quella dei convenuti
condannati;   mentre   difficilmente   potrebbe   pervenirsi  ad  una
interpretazione  «adeguatrice»,  non  solo  perche',  in  tale  caso,
dovrebbe  superarsi  la «lettera» della «condanna» in primo grado, ma
anche  perche' si dovrebbe «creare» il criterio al quale correlare le
percentuali del 10, del 20 o del 30 previste dalla legge.
    Appare   violato   anche   l'art.   24   della  Costituzione  (in
particolare,  il  secondo comma: «la difesa e' diritto inviolabile in
ogni  stato  e grado del procedimento» nella parte in cui il pubblico
ministero  presso la Corte dei conti viene evocato nel solo comma 232
e  solo per «essere sentito» in camera di consiglio quando la Sezione
di  appello  deve deliberare «in merito alla richiesta»; infatti, per
tale    funzione,    limitata   e   marginale   (che   si   sostanzia
nell'espressione   di   un   «parere»,  del  pubblico  ministero,  il
procedimento  regolato  dai  commi  231 - 233 dell'art. 1 della legge
n. 266/2005  non  assume,  sostanzialmente, carattere bilaterale, per
cui   la   funzione  di  «parte»  del  pubblico  ministero  contabile
(nell'ottica  -  anche  del  «giusto  processo» - dell'art. 111 della
Costituzione)   viene,   nella  specie,  quasi  pretermessa  (con  la
conseguenza  -  fra  l'altro - che, in tal modo, vengono pesantemente
compressi  i  diritti e gli interessi della pubblica amministrazione,
dei  quali  il  pubblico  ministero  e' chiaramente portatore, in uno
all'interesse generale dell'Ordinamento).
    Le  questioni  di  legittimita' costituzionale che precedono, non
superabili  in  via interpretativa, sono non manifestamente infondate
per i motivi che precedono e rilevanti in quanto le norme denunciate,
ove  venissero  dichiarate  incostituzionali,  non  potrebbero essere
applicabili  nel presente giudizio, che proseguirebbe secondo il rito
ordinario.