IL TRIBUNALE Nel procedimento penale n. 362207 R.G. nei confronti di Villella Pasquale, nato a Lamezia. Terme il 20 ottobre 1983, imputato del reato di falsa testimonianza (art. 372 c.p.), pronuncia la seguente ordinanza con la quale si solleva, a norma dell'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 372 c.p. (Falsa testimonianza) nella parte in cui, con l'art. 11, comma 2, del d.l. 8 giugno 1992 n. 306, in tema di criminalita' mafiosa (intitolato «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa»), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, l'originaria pena edittale minima e' stata quadruplicata. M o t i v a z i o n e I Villella Pasquale e' stato chiamato a rispondere del reato di falsa testimonianza, perche' all'udienza dibattimentale penale del 25 ottobre 2006 testimoniava riferendo, contrariamente al vero, che Nicolazzo Domenico non aveva partecipato al furto di quattro cerchioni di automobile. Esperita la istruzione probatoria dibattimentale nel corso della quale il maresciallo CC. Dalri' asseriva di avere visto anche il Nicolazzo partecipare all'azione di impossessamento dei cerchioni unitamente al Villella (che per il furto aveva patteggiato la pena, con sentenza divenuta irrevocabile al tempo della testimonianza), in sede di discussione il pubblico ministero chiedeva la condanna ad anni tre di reclusione, mentre la difesa instava per la assoluzione. Il tribunale dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 372 c.p. (falsa testimonianza) in relazione da un canto agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dall'altro ai principi di ragionevolezza e di proporzione quantitativa che devono presiedere alla funzione legiferante in merito alla entita' della pena criminale sanzionante gli illeciti penali. La dedotta questione di legittimita' costituzionale e' rilevante e non manifestamente infondata. E' rilevante perche' da essa dipende, nei confronti del giudicabile, l'applicazione in concreto della pena in esito alla istruzione probatoria dibattimentale svolta. Non manifestamente infondata, per le ragioni qui di seguito esposte. II Con l'art. 11, comma 2, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in tema di criminalita' mafiosa (intitolato «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa»), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, l'originaria pena detentiva da sei mesi a tre anni di reclusione, che sanzionava il reato di falsa testimonianza, e' stata aumentata da due a sei anni di reclusione. E' elementare osservare che con l'intervenuto inasprimento sanzionatorio, il minimo edittale di pena e' stato quadruplicato e il suo massimo edittale e' stato raddoppiato rispetto al passato. Gia' il modo stesso di produzione legislativa in materia penale, che da piu' lustri e' diventato quello del decreto legge, costituisce mezzo denso di forte carica eversiva dello spirito della Costituzione siccome incidente in maniera diretta sui diritti di liberta' del cittadino. Col severo inasprimento edittale, il reato di falsa testimonianza ora e' punito piu' gravemente di altre fattispecie criminose considerate da sempre come ontologicamente similari, quali la frode processuale, il favoreggiamento personale (anche con riguardo all'aggravante ex art. 416-bis di cui al capoverso dell'art. 378 c.p.), la simulazione di reato. Trattasi di fattispecie criminose che, per lontana tradizione, sia la legge che la dottrina e la giurisprudenza hanno reputato avvinte dalla identica oggettivita' giuridica, che si e' detto risiedere nell'interesse dello Stato alla retta amministrazione della giustizia che deve quanto piu' possibile cogliere nel segno, nonche' nella necessita' diretta ad impedire che la giustizia possa essere indirizzata su falsa strada. Va poi osservato che ora il reato di falsa testimonianza e' posto sanzionatoriamente sullo stesso piano della calunnia, reato quest'ultimo che per antichissima tradizione giuridica (nella quale erasi trasfusa la sapienza di secoli) e' stato sempre considerato, ed avvertito anche dall'anima popolare, piu' grave e piu' riprovevole della falsa testimonianza. Cio' che connota, rispetto alla falsa testimonianza, di maggiore gravita' la calunnia, e' l'aggressione portata a un duplice bene giuridico: a quello (comune alla falsa testimonianza e a tutti i delitti contro l'attivita' giudiziaria) relativo al retto funzionamento dell'amministrazione della giustizia acciocche' essa non venga fuorviata attraverso il mendacio, nonche' a quella, che non puo' predicarsi meno importante, alla liberta' e all'onore del cittadino innocente, nel che consiste il quid pluris che connota di maggiore riprovevolezza la condotta del calunniatore. La falsa testimonianza e' ora piu' gravemente punita, e in cio' si palesa una stridente irragionevolezza sostanziale, finanche del favoreggiamento personale nella ipotesi aggravata del capoverso di cui all'art. 378 c.p., che sanziona il reo con la reclusione «non inferiore a due anni» mentre il massimo e' di quattro anni di reclusione, quando il delitto commesso e' «quello previsto dall'art. 416-bis» del codice penale. Grave aporia della legge, perche' - osserva il tribunale - colui che come l'imputato abbia mentito in ordine al furto di quattro cerchioni d'automobile e' punito come o piu' gravemente di chi ha eluso le investigazioni dell'autorita' in un delitto di mafia, vale a dire nella stragrande maggioranza dei casi in efferati delitti di sangue. Difetta quindi la necessaria proporzionalita tra disvalore del singolo fatto tipico e sanzioni edittali per esso comminate. Ma v'e' di piu'. Mentre nel favoreggiamento si distingue in modo assai netto la gravita' edittale del delitto in relazione alla gravita' del reato presupposto, nella falsa testimonianza il fatto resta, sul piano edittale, del tutto «insensibile» a tali variazioni di gravita': la falsa testimonianza e' normativamente la stessa, sia che si riferisca ad un procedimento la cui posta e' l'ergastolo, sia che riguardi invece una contravvenzione punita con la sola pena dell'ammenda. Appare allora enorme, ed estraneo ad ogni criterio di giustizia distributiva, che la falsa testimonianza commessa per un procedimento per l'ultima delle bagatelle contravvenzionali sia punita con la reclusione da due a sei anni, mentre il favoreggiamento e', nella stessa ipotesi, sanzionato con la sola pena della multa (art. 378 comma 3 c.p.). Piu' razionale sarebbe stato che il legislatore avesse correlato l'inasprimento alla peculiare gravita' dei reati cui la falsa testimonianza si riferisce, secondo la prospettiva gia' delineata nel favoreggiamento sia personale che reale. Se nel codice Rocco la falsa testimonianza era punita in misura tendenzialmente meno grave del favoreggiamento (con un massimo piu' basso anche se il minimo risultava piu' consistente), cio' non dipendeva certo da un'inopinata «mitezza» del legislatore degli anni '30 dello scorso secolo, ma da considerazioni di elementare evidenza. Mentre il favoreggiamento personale realizza sul piano obiettivo quanto meno un intralcio alle indagini o alle ricerche dell'autorita', ed esprime in termini soggettivi la volonta' di ostacolare il corso della giustizia, la falsa testimonianza assume connotati lesivi piu' «formali», in quanto risulta punibile anche se non abbia in effetti pregiudicato il corso del procedimento o non sia stata affatto determinata dall'intenzione di deviarlo. Postulato il concetto che e' conforme al criterio di eguaglianza trattare diversamente posizioni diseguali e egualmente posizioni eguali, desta perplessita' il denunciato inasprimento sanzionatorio per il falso testimone, per l'aporia non compatibile con i parametri costituzionali e soprattutto con l'art. 3 della Costituzione, nonche' con il generalissimo principio di ragionevolezza che sempre deve informare il contenuto delle leggi. III Perplessita' desta anche la trascuranza dei remoti precedenti storico-legislativi, giacche' l'inafferrabile presente e' figlio della storia e padre del futuro, onde e' normale l'aspettativa collettiva che non si devii dal percorso secolare per le fluttuanti contingenze della cronaca. Sia gli individui che i popoli hanno deboli memorie, ma il legislatore non puo' farsi supino esecutore di ogni istanza repressiva, non puo' soggiacere all'«angoscia delle cose», poiche' suo compito e' di filtrare senza affanno il retroterra culturale e tendere a razionalmente trasformarlo. Congruo rispetto allo scopo era quanto stabilito dal codice penale Zanardelli (dato il 30 giugno 1889) all'art. 214, adottante quanto alla falsa testimonianza un concetto complesso di fattispecie tipica e graduando la sanzione in relazione alla gravita' del bene giuridico offeso. Ragionevole era la pena di cui all'art. 214 del codice Zanardelli - comminata da uno a trenta mesi di reclusione - per la ipotesi «base» il cui precetto fu letteralmente riprodotto nell'art. 372 c.p., pena poi graduata in maniera crescente (da uno a cinque anni di reclusione) se il fatto fosse stato «commesso a danno di un imputato, o nel dibattimento in un processo per delitto» (art. 214, capoverso, c.p. Zanardelli). In quel lontano testo di legge e' dato apprezzare tutta la struttura composita del disvalore d'azione dell'illecito, che veniva punito in maniera edittalmente proporzionale alla gravita' della condotta. Si puo', quindi, affermare che la comminatoria di due anni di reclusione come minimo edittale per la falsa testimonianza, e quindi come pena inevitabile anche per le piu' modeste infrazioni (spesso di dettaglio, nell'ampio spettro delle condotte valutate), non e' consona alla tradizione italiana, depositaria dei valori etici e filosofici dell'umanesimo giuridico che, subordinando la comminatoria penale a precisi limiti (massimamente quello della proporzionalita': quel che di pena eccede e' da considerarsi ingiusto e percio' tirannico), rappresenta il vero e benefico antidoto contro ricadute nel totalitarismo penale contro sproporzioni tra delitto e castigo. Tradizione giuridica che pare oggi relegata in un limbo fatto di abbandono e di oblio, quasi luce intermittente che sta per spegnersi. IV Col grave aumento del minimo edittale (ripetesi, guadruplicato rispetto al passato), il legislatore del 1992 ha invece azzerato ogni rapporto tra misura della pena, offesa al bene giuridico e modalita' di aggressione, appiattendo tutta la vasta gamma delle condotte possibili - dalle piu' gravi alle meno gravi - su un disvalore d'evento e d'azione rispetto ai quali non appare razionale una uniformita' sanzionatoria «dal basso». Nel quadro di una piu' attenta considerazione dell'art. 27 della Costituzione, e' ora precluso al giudice l'esercizio concreto della discrezionalita' vincolata di cui all'art. 133 codice penale, essendogli interdetta l'opera di adeguamento della pena alle circostanze oggettive e soggettive del reato, vitale per il sistema essendo la esigenza di una articolazione legale dell'impianto sanzionatorio che renda possibile un adeguamento della pena alla natura del reato e alla personalita' del colpevole. Tale minimo edittale si presenta assolutamente sperequato in eccesso rispetto a quella platea statisticamente estesa di soggetti agenti che non presentano le stigmate della personalita' criminale. Riecheggia nell'aria un certo sapore di pena commisurata al c.d. tipo d'autore (come e' spiegato in dettaglio nel successivo paragrafo V della presente ordinanza). Di qui il sospetto di una violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, poiche' la irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo disvalore dei fatti e alla personalita' del reo, statisticamente spesso di scarsa se non nulla caratura criminale come e' riscontrabile nella pratica giudiziaria, compromette la finalita' rieducativa della pena. Un'altra considerazione discende «per li rami». Coincidendo il minimo edittale (anni due di reclusione) con il limite di pena oltre il quale non e' usufruibile la sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p., e' giocoforza lamentare che cio' comprime al massimo, di fatto quasi annullandolo, il margine di operativita' dell'anzidetto beneficio, accordabile al reo primario che ne possa essere meritevole. V Non pare sovrabbondante un rapido richiamo alla genesi storico-politico-istituzionale che ha condotto all'inasprimento sanzionatorio, della cui legittimita' costituzionale il tribunale dubita. L'inasprimento della pena per il reato di falsa testimonianza fu, come e' noto, varato insieme ad altre misure repressive all'indomani del martirio dei giudici Falcone e Borsellino barbaramente trucidati da mano mafiosa, e fu una delle tante risposte dell'Autorita' che si raccolse in un fascio potente di sentimenti e di energie. L'inasprimento sanzionatorio e' stato, quindi, ritagliato per una tipologia di persone ad alta valenza criminale. Questi inasprimenti penali, frettolosamente varati sotto il vento «emergenziale», sono destinati non a cessare finita l'«emergenza» che li ha causati, ma a sedimentarsi in eterno. Ma quel che stride e' che l'aggravamento edittale, finalizzato nella sua genesi a reprimere il mendacio nell'ambito del crimine organizzato, nella pratica giudiziaria quotidiana si rifrange prismaticamente, nella strabocchevole moltitudine dei casi considerati, su una tipologia di soggetti e di comportamenti che sono abissalmente lontani dalle «carriere criminali» sottese a questo cupo sfondo delinquenziale. Il procedimento penale che ci occupa non ne e' che un esempio tra i tanti, ergendosi come contraddizione vivente di una legislazione «emergenziale» abbracciante soggetti cui essa naturaliter non dovrebbe dirigersi, e per cio' stesso invalidata sul piano scientifico. Modellata la pena (dal suo minimo edittale) su un tipo criminologico d'autore (cioe' il mafioso, le «carriere criminali») che non si puo' dire costituisca il proprium del reato di falsa testimonianza, il legislatore ha affondato le fattispecie concrete, che e' dato contemplare nelle aule di giustizia, nella sfera astratta di un diritto punitivo lontana dalla realta' naturalistica, individuale e sociale, varia e complessa, in cui esse sono immerse. Il cittadino comune, e con esso l'odierno imputato, paga per una ipotesi di Tatbestand che non gli si addice. Tutto cio' non e' giusto, e' irragionevole e rappresenta della norma un «indotto» e un impatto difficilmente razionalizzabile in termini di reale equita'. VI Non e' di troppo qualche considerazione metagiuridica. Gia' la filosofia morale (Beccaria, Filangieri) insegnava che l'aggravamento delle pene criminali si impone solo per contenere la esplosione, statisticamente rilevante, di condotte antisociali a raffrenare le quali la originaria sanzione non ha piu' forza deterrente. E' constatazione elementare che non e' questo il caso della falsa testimonianza, ove solo si osservi che nessuna evidenza sociologica ne ha mai esaltato la recrudescenza nella societa' italiana. E allora il fenomeno dell'innalzamento delle pene e il vigoroso rilancio del punibile cui si assiste nelle stesse societa' democratiche, tende solo ad una preoccupante utilizzazione del diritto penale a fini latamente politici. La «quantita» di diritto penale, e con esso l'inasprimento delle sanzioni, sono andate via via piu' crescendo in maniera impressionante negli ultimi tre lustri, dando vita ad un fenomeno di elefantiasi ormai ampiamente descritto ed analizzato persino a livello manualistico. E' la cosiddetta legislazione simbolica (cfr. E. Musco, Consenso e legislazione penale, in Riv. Ital. dir. proc. penale, 1/1993). Implicito e' il rischio che in tale contesto la materia oggetto di normazione sia scarsamente ponderata, obliterandosi i limiti etico-giuridici della «risposta» sanzionatoria ed offuscandosi la doverosa ricerca di proporzionalita' ed intima armonia del sistema giuridico. Questa incontenibile pulsione alla produzione sanzionatoria penale non ha prodotto effetti benefici sulla tenuta general-preventiva dell'intero sistema, da un lato per l'inevitabile caduta del suo tasso di effettivita', dall'altro perche' criminalizza a tappeto (o ne aggrava la pena) tipologie di condotte non sempre di allarme sociale e non sempre veramente meritevoli di inasprimenti di pena. Chi osserva con animo disincantato la realta' quotidiana non puo' non riconoscere che, in fondo, quanto ai piu' gravi reati (vale poi a dire quelli che aggrediscono la persona umana) il bisogno collettivo di sicurezza rimane insoddisfatto. Si ha quindi l'impressione che la genesi di questa torsione penale trovi la sua scaturigine e la sua ragione ultima nella funzione di orientare e di rassicurare i consociati sulla controllabilita' dei fenomeni devianti che piu' li allarmano e dare l'impressione che, con l'inasprimento della pena criminale, il problema sia stato in qualche maniera messo sotto controllo. Ma il processo penale e' sempre una sconfitta per lo Stato, perche' dimostra che non si e' stati in grado di prevenire il reato. Il problema vero non risiede nel fatto che troppo basse siano le pene comminate dalle leggi italiane, quanto piuttosto nella mancanza di certezza ed effettivita' della pena, che se giunge ad esecuzione (ed e' gia' un miracolo se cio' avvenga in tempi ragionevoli) incontra una flessibilita' non sempre accetta alla generalita' dei consociati. Questa paradossale situazione viene bene illustrata dalla moderna dottrina criminologica e penitenziaria con una icastica e attuale considerazione, che qui si vuole ripetere: «Un principe severo solo a parole, un giudice indulgente nei fatti e un Popolo ''distratto'' dalla politica» (Pavarini, La Magistratura di Sorveglianza, Quaderni del C.S.M., 1995, n. 80, pag. 44). VII Sotto tutti questi profili non pare che possa definirsi manifestamente infondato il dubbio di legittimita' costituzionale, onde si ritiene di sottoporre al giudice delle leggi il vaglio di costituzionalita' dell'art. 372 c.p., laddove viene comminato il minimo edittale in anni due di reclusione, anziche' in altra pena, di uguale specie, ma nella misura piu' bassa.