IL TRIBUNALE Letti gli atti del procedimento penale in epigrafe indicato nei confronti di: 1) Ricchiuto Tommaso, nato a Tiggiano il 27 ottobre 1945 e residente in Lecce alla via Foscarini n. 15 (domicilio dichiarato), difeso di fiducia dall'avv. Angelo Pallara del Foro di Lecce; 2) Gorgoni Gaetano, nato a Galatina il 26 agosto 1933, residente in Cavallino alla via Crocefisso n. 12, elettivamente domiciliato a Lecce alla via Corvaglia presso lo studio dell'avv. Luigi Rella difeso di fiducia dall'avv. Luigi Rella del Foro di Lecce; 3) Cioffi Ennio, nato a Cavallino il 19 aprile 1935 ed ivi residente in corso Umberto I. n. 5 (domicilio dichiarato), difeso di fiducia dagli avv. Gaetano De Mauro e Domenico Ennio Cioffi del Foro di Lecce; Tutti imputati del solo reato di cui al capo e) che di seguito si trascrive: reato p. e p. dall'art. 110, 81 c.p.v., 319 c.p., perche', in concorso tra loro e con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, abusando dei poteri e delle qualita' di sindaco, rivestite dal Gorgoni e di quelle di vice sindaco, assessore alle attivita' produttive, presidente della Commissione edilizia, presidente della Commissione tecnica per il PIP e presidente della Commissione SPAB del Comune di Cavallino, ricoperte dal Cioffi; dopo che il T.A.R. di Lecce, accogliendo i ricorsi presentati da De Pandis Laura, Ginelli Antonio, Pastore Vincenzo, Palermo Luigi, Caricato Pasquale, De Giorgi Giorgio, Dolce Michele, aveva dichiarato con varie sentenze la illegittimita' della autorizzazione amministrativa all'apertura del centro commerciale, del nulla osta regionale e delle autorizzazioni e prese d'atto all'ampliamento delle superfici di cui al capo a); atti illegittimi ed illecitamente rilasciati dal Comune di Cavallino (proprio da parte del Gorgoni e del Cioffi), in favore della Ipersalento S.r.l. di Ricchiuto Tommaso; intervenivano presso i responsabili della societa' GS, subentrata ad Ipersalento nella titolarita' del nulla osta regionale e di tutte le illegittime autorizzazioni rilasciate dal Comune di Cavallino (ed in particolare quelle rilasciate dal Cioffi e dal Gorgoni con le condotte illecite di cui al capo a), nonche' l'autorizzazione amministrativa all'apertura del centro commerciale rilasciata dal sindaco di Cavallino il 24 aprile 1997 e la concessione edilizia n. 67/97) per l'apertura e l'ampliamento del centro commerciale collocato nel comparto A del PIP e rappresentando loro: la possibilita' di ottenere la rinuncia ai ricorsi da parte dei sette ricorrenti (che erano di fatto assistiti dallo stesso avv. Cioffi e solo formalmente sarebbero stati assistiti dall'avv. Palma, legale messo a disposizione dal Ricchiuto), rendendo cosi' inefficaci le sentenze con cui il T.a.r. aveva annullato i provvedimenti illeciti adottati dall'amministrazione; la disponibilita' del Cioffi e del Gorgoni a consentire alla GS di continuare a beneficiare di tali atti, sia omettendo qualsiasi intervento finalizzato alla revoca delle illegittime autorizzazioni sia consentendo a GS di ottenere ogni necessaria proroga (pure illegittima) e atto amministrativo necessario per potere beneficiare di tali autorizzazioni e la minaccia, in caso contrario, di procedere alla revoca delle autorizzazioni medesime; inducevano la societa' GS ad assumere 1'impegno di garantire posti di lavoro presso il centro commerciale a ciascuno dei sette ricorrenti e ad altre persone indicate dal Gorgoni e dal Cioffi, nonche' ad accollarsi il pagamento di tutte le somme di denaro che i sette ricorrenti avrebbero dovuto corrispondere all'avv. Sante Nardelli del Foro di Bari, che era stato il loro difensore innanzi al T.a.r. e le competenze spettanti all'avv. Palma, che li avrebbe assistiti per la rinuncia al ricorso innanzi al Consiglio di Stato e nella causa civile intentata innanzi al Tribunale di Bari contro i sette commercianti dall'avv. Nardelli. In Cavallino, sino al novembre 2001. Osserva quanto segue. Alla prima udienza del 13 marzo 2009, nell'ambito delle questioni preliminari di cui all'art. 491 c.p.p., il difensore dell'imputato Ricchiuto Tommaso eccepiva la nullita' del decreto che dispone il giudizio, emesso dal g.u.p. presso il Tribunale di Lecce in data 8 gennaio 2009, per l'indeterminatezza dell'imputazione che, sebbene rubricata quale ipotesi di corruzione, in fatto non conteneva gli elementi tipici di tale reato, mancando qualsiasi indicazione in ordine al soggetto corruttore ed al soggetto corrotto, nonche' una precisa e dettagliata descrizione della condotta corruttiva. Gli altri difensori si associavano all'eccezione evidenziando l'anomalia di una contestazione rimasta in fatto ancorata all'originaria imputazione di concussione, ma riferita dal g.u.p. al reato di cui all'art. 319 c.p. All'udienza odierna, il tribunale ha acquisito il verbale dell'udienza preliminare tenutasi dinanzi al g.u.p. presso il Tribunale di Lecce in data 8 gennaio 2009. Il p.m. ha fornito una descrizione cronologica dei fatti che avevano portato il g.u.p. a disporre il rinvio a giudizio degli imputati per il reato di cui all'art. 319 c.p. in luogo dell'originaria contestazione di concussione. I difensori hanno insistito nella sollevata eccezione ampliandone la portata. Invero, hanno evidenziato che il g.u.p. avrebbe impropriamente disposto il rinvio a giudizio per il reato di corruzione, in quanto, a fronte dell'insistenza del p.m. in relazione all'originaria contestazione di concussione, avrebbe dovuto o pronunciare sentenza di proscioglimento in base agli atti a disposizione, ovvero restituire gli atti al medesimo p.m. Il decreto che dispone il giudizio sarebbe pertanto affetto da nullita' o, comunque, abnorme, avendo disposto il rinvio a giudizio dei prevenuti per un diverso reato. All'esito della Camera di consiglio il collegio, tenuto conto delle eccezioni e rilievi difensivi, ritiene di sollevare di ufficio questione di legittimita' costituzionale. La questione di legittimita' costituzionale viene sollevata, in relazione agli artt. 3, 24, 111, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., con riferimento agli artt. 424, 429 e 521, primo comma c.p.p. nella parte in cui consentono al g.u.p. di disporre il rinvio a giudizio dell'imputato in relazione ad un fatto qualificato, di ufficio, giuridicamente in maniera diversa, senza consentire il previo ed effettivo sviluppo del contraddittorio sul punto, chiedendo al p.m. di modificare la qualificazione giuridica del fatto, e, in caso di inerzia dell'organo d'accusa, disponendo la trasmissione degli atti al medesimo p.m. 1) In fatto. Con decreto che dispone il giudizio dell'8 gennaio 2009 il g.u.p. presso il Tribunale di Lecce rinviava a giudizio dinanzi a questo collegio gli imputati in ordine al reato di cui al capo e) su riportato. Si legge testualmente nella motivazione del decreto: «rilevato che, nella specie, non ricorrono le condizioni per emettere sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. nei confronti dei predetti imputati (non risultando 1'insussistenza dei fatti delittuosi, ne' 1'estraneita' ad essi degli imputati, ne' che questi ultimi siano non imputabili o non punibili) e che invece alla stregua delle risultanze processuali acquisite sono emersi validi elementi a carico degli imputati, che legittimano il loro rinvio a giudizio dinanzi al Tribunale di Lecce, in composizione collegiale, seconda sezione penale, per rispondere del reato ascritto in rubrica, come riqualificato in diritto da questo giudice (sulla possibilita' per il giudicante, non ricorrendo la violazione del principio di cui all'art. 521 c.p.p., di ritenere la sussistenza del reato di corruzione invece della piu' grave ipotesi delittuosa della concussione contestata - in questo caso in sede di richiesta di rinvio a giudizio - si veda Cass., e sezione unite, 30 aprile/2 luglio 1997, n. 6402, Dessimone ed altri), non apparendo condivisibile l'originaria contestazione in quanto nella vicenda siccome delineata dalle emergenze processuali non risulta che la societa' GS abbia soggiaciuto alla volonta' dei P.U. imputati operanti in concorso con l'extraneus Ricchiuto Tommaso, ma piuttosto che essa sia stata con essi parte di una transazione di natura illecita da cui ha ricavato un proprio significativo tornaconto dato dall'ottenimento della rinuncia al ricorso proposto innanzi al T.a.r. Puglia, sez. Lecce, da De Pandis Laura all'esito di un giudizio di primo grado favorevole a questi ultimi». Dunque, il g.u.p., riqualificando giuridicamente ex officio, all'esito della discussione di cui all'art. 421 c.p.p., l'originaria imputazione di concussione, disponeva il rinvio a giudizio dei prevenuti per il diverso reato di cui all'art. 319 c.p. La difesa ha eccepito, in limine, la nullita' del decreto che dispone il giudizio per l'indeterminatezza dell'imputazione cosi' formulata per effetto della riqualificazione giuridica, nonche' la nullita' o l'abnormita' dello stesso in quanto si e' disposto il rinvio a giudizio per un diverso reato. Dal verbale di udienza preliminare risulta che il g.u.p. sollecitava il p.m. di udienza a riqualificare giuridicamente il reato di concussione contestato in quello di corruzione. Il p.m. insisteva nell'originaria contestazione. Quindi, si dava corso alla discussione, all'esito della quale, come detto, di ufficio, il g.u.p. rinviava a giudizio gli imputati per il reato di corruzione invece che per il reato di concussione. 2) In punto di rilevanza. Preliminare alla stessa valutazione della fondatezza o meno dell'eccezione di nullita' sollevata dai difensori degli imputati (che sotto questo profilo costituisce occasione, spunto, ma anche conferma, per quello che si dira' in seguito, della fondatezza della censura di incostituzionalita' sollevata) e' la verifica della correttezza dell'operato del g.u.p., che ha, di ufficio, soltanto in sede di decisione in ordine al rinvio a giudizio, riqualificato giuridicamente il fatto, senza consentire alcun effettivo e pieno contraddittorio sul punto, in particolare con gli imputati. E' di tutta evidenza, infatti, che la sollecitazione del g.u.p., in sede di udienza, per la qualificazione giuridica del fatto contestato in corruzione in luogo di concussione e' stata rivolta esclusivamente al p.m., il quale, ribadito l'originario addebito, ha impedito, di fatto, sull'argomento qualsiasi concreto ed effettivo sviluppo del contraddittorio, essendo a quel punto soltanto meramente possibile l'evento riqualificatorio da parte del giudice, peraltro, nemmeno sicuramente a danno dei prevenuti, poiche' poteva anche essere possibile che, riqualificato il fatto, il g.u.p. avesse emesso sentenza di non luogo a procedere. Ne deriva di conseguenza che, a fronte di una mera possibilita' di riqualificazione giuridica del fatto, non era concretamente prospettabile un serio, pieno e concreto esercizio del diritto di difesa in tutte le possibili forme e manifestazioni che, come si dira' in prosieguo, puo' assumere attualmente in sede di udienza preliminare. Sicche', se si ritiene che al g.u.p. spetti un simile potere officioso, e se si ritiene che, nel caso di specie, l'operazione sia consistita effettivamente in una mera riqualificazione giuridica del fatto originariamente contestato ai prevenuti nella richiesta di rinvio a giudizio, l'operato del giudice, anche in relazione all'eccezione difensiva, non potra' essere passibile di alcuna censura. Ma se, al contrario, si reputa che tale potere al g.u.p. non spetti neppure a fronte di una sicura riqualificazione giuridica del fatto, ecco che allora l'operato del giudice dovra' essere vagliato e verificato nella prospettiva del rispetto del diritto di difesa e, quindi, nella prospettiva dell'eventuale dichiarazione di nullita' del decreto che ha disposto, di ufficio e senza alcun effettivo e pieno contraddittorio sul punto, il giudizio dei prevenuti, in relazione ad un fatto diversamente giuridicamente qualificato, per violazione degli artt. 178, lett. c) e 180 c.p.p. 3) In punto di non manifesta infondatezza della questione. 3.1.) Lo stato della giurisprudenza sulla possibilita' di riqualificare giuridicamente un fatto originariamente rubricato come concussione in corruzione. Andando per gradi, de iure condito, giova evidenziare che la giurisprudenza di legittimita' e' pressocche' pacifica nel ritenere che non viola il principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza la condanna per corruzione nell'ipotesi cui l'imputato sia stato rinviato a giudizio per concussione (Cass. pen., sez. I, 19 dicembre 1967, n. 2702; Cass. pen., sez. VI, 16 aprile 1971, n. 482; Cass. pen., sez. I, 5 luglio 1982, n. 1515; piu' di recente Cass. pen., sez. VI, 5 febbraio 1998, n. 2894). Invero, riscontrandosi in entrambe le predette figure criminose l'elemento comune della dazione o promessa di denaro o altra utilita', l'accertamento della sussistenza dell'esclusiva attivita' delittuosa del pubblico ufficiale e altro soggetto (caratterizzante la corruzione) incide su una modalita' del fatto formante oggetto del capo di imputazione che non ne modifica sostanzialmente la struttura ne' ne diversifica il contenuto essenziale, in quanto, nel caso di concussione, l'ipotesi dell'esclusiva attivita' delittuosa del pubblico ufficiale comprende e assorbe, come un quid pluris, ogni altra ipotesi nella quale il vantaggio economico venga realizzato dal pubblico ufficiale attraverso la volonta' non coartata, ma libera, del privato (Cass. pen., sez.u., 30 aprile 1997, n. 6402). Al contrario, secondo una parte della giurisprudenza, si ha violazione del principio di correlazione fra l'accusa contestata e la sentenza nell'ipotesi inversa, e cioe' quando, contestato il delitto di corruzione, sia stata poi pronunciata condanna per il delitto di concussione (Cass. pen., sez. VI, 20 giugno 1979, n. 2939; piu' di recente Cass. pen., sez. VI, 26 settembre 1996, n. 9213, dove si precisa che i due reati differiscono in primo luogo per l'elemento della condotta, in quanto nel caso della concussione l'agente deve avere creato o insinuato nel soggetto passivo uno stato di paura o di timore atto ad eliderne o viziarne la volonta', mentre nella corruzione i due soggetti agiscono su un piano paritario nella conclusione del patto criminoso, per cui l'evento della datio o della promessa, pur esistendo in entrambi i reati, a fonti diverse; in secondo luogo, diversa e' la struttura soggettiva dei due reati, essendo la corruzione, a differenza della concussione, un reato necessariamente plurisoggettivo, sicche' diversa e' anche la posizione del solvens). Secondo altra parte della giurisprudenza, invece, e' possibile che il giudice riqualifichi giuridicamente il reato originariamente contestato di corruzione in concussione (si veda Cass. pen., sez. VI, 5 novembre 2003, n. 46805, dove la cassazione ha ritenuto legittimo il comportamento del giudice di appello che aveva riqualificato giuridicamente il fatto, ritenuto dal giudice di primo grado di corruzione, come concussione). In conclusione, l'operazione compiuta dal g.u.p. presso il Tribunale di Lecce, allo stato della pacifica giurisprudenza della S.C., rientra nell'ambito della riqualificazione giuridica del fatto, in quanto espressione del principio iura novit curia codificato nell'art. 521, primo comma, c.p.p. 3.2.) I poteri del giudice in tema di modifiche dell'imputazione. Sempre de iure condito nel nostro ordinamento e' chiaramente distinta, in relazione a tutte le fasi del procedimento penale, la disciplina delle ipotesi di modifica del fatto oggetto di imputazione da quelle che concernono il nomen iuris attribuito al medesimo fatto. Invero, il nostro processo penale distingue nettamente il regime del mutamento in fatto dell'imputazione da quello in diritto, sicche', mentre gli artt. 521, primo comma, e 597, secondo e terzo comma, c.p.p. consentono di riqualificare giuridicamente il fatto al giudice, sia di primo che di secondo grado (ma anche alla Cassazione, per la quale, in assenza di espressa previsione normativa, la sussistenza del potere qualificatorio trova fondamento nella stessa funzione nomofilattica svolta dal giudice di legittimita': cfr. Cass. pen., sez. VI, 18 settembre 1997, Donna) - entro il limite della propria competenza ed attribuzione monocratica o collegiale, per il giudice di primo grado, ed entro il limite della competenza del giudice di primo grado e del divieto di reformatio in peius per il giudice di appello (e la Cassazione: cfr. la gia' citata sez. VI, 18 settembre 1997, Donna e Cass. pen., e sez. IV, 16 gennaio 2008, Husher e altri) -, il combinato disposto degli artt. 516 e ss., 521, secondo comma, 598, 604, 620 lett. e) ed f), 621 c.p.p., rende chiaro che di fronte all'acclarata diversita' in fatto dell'addebito gli atti devono essere rimessi al pubblico ministero, a tutela soprattutto del diritto di difesa dell'imputato, al fine di evitare che questi possa essere condannato per un fatto in relazione al quale non ha avuto modo di difendersi (Cass. pen., sez. I, 5 giugno 1992, Raciti; Cass. pen., sez. V, 5 febbraio 1993, Langella; Cass. pen. sez. I, 5 maggio 1994, Cotuzzi). Al riguardo, se il giudice di appello accerta che il fatto e' diverso da quello contestato, non potendo decidere in ordine allo stesso perche' altrimenti sottrarrebbe all'imputato un grado di giudizio e ne violerebbe conseguentemente in maniera irreparabile il diritto di difesa, non puo' che annullare con sentenza quella di primo grado e, nel contempo, disporre, con ordinanza, la trasmissione degli atti al pubblico ministero, ai sensi degli artt. 521, secondo comma, 598 e 604, comma 3, c.p.p., perche' si proceda ad un nuovo giudizio (cfr. Cass. pen., sez.u. 6 dicembre 1991, Paglini; Cass. pen., sez. VI, 14 aprile 2003, Bucci; Cass. pen., sez. I, 31 gennaio 2006, Cennamo e altri; Cass: pen., sez. I, 17 febbraio 2006, Vecchione). Giova evidenziare che, secondo la giurisprudenza delle sezioni unite (cfr. sez. u., giugno 1996, Di Francesco), il principio di cui all'art. 521, primo comma, c.p.p. trova applicazione anche in sede cautelare, consentendo al g.i.p., come anche al tribunale della liberta', di modificare ex officio il nomen iuris dell'addebito fattuale elevato anche in ambito incidentale. Peraltro, sempre secondo il supremo Consesso (cfr. sez.u. 5 luglio 2000, Monforte) la diversa qualificazione giuridica data al fatto dal giudice cautelare, come anche dal giudice del procedimento principale, produrrebbe effetti, anche in peius, nei confronti dell'imputato, indipendentemente dalla formulazione di una nuova contestazione cautelare da parte del p.m. e dall'emissione di un'ulteriore ordinanza cautelare che la recepisce. Dunque, la riqualificazione giuridica del fatto in ambito cautelare puo' avvenire senza che si attivi quel meccanismo di tutela delle esigenze difensive (costituito dalla presentazione della richiesta cautelare ex art. 291 c.p.p., dall'emissione dell'ordinanza ai sensi dell'art. 292 c.p.p., dall'effettuazione dell'interrogatorio di garanzia secondo il disposto dell'art. 294 c.p.p., e dall'eventuale controllo in sede di impugnazione ex artt. 309 e 310 c.p.p.) ben tracciato dalla citata sentenza Monforte con riferimento alle modifiche in fatto dell'imputazione. In passato una parte della dottrina aveva posto in rilievo il disagio che poteva avvertire l'imputato che, attraverso la riqualificazione giuridica del fatto operata anche ex officio dal giudice, si vedeva attribuire un giudizio di disvalore diverso (ed al limite anche piu' grave) da quello originariamente contestatogli. D'altra parte, la Commissione redigente il codice di rito del 1988, nel riproporre nel comma 1 dell'art. 521 c.p.p. il principio della non obbligatorieta' della necessaria correlazione tra la decisione sul tema giuridico dell'accusa e le conclusioni del pubblico ministero, si era posta il problema che cio' potesse sacrificare le esigenze della difesa, in particolare nel caso in cui la diversa qualificazione giuridica implicasse una pena piu' grave. Invero, aveva anche ipotizzato delle alternative, e cioe' una disciplina costruita in modo analogo a quella concernente la contestazione del fatto diverso (iniziativa del pubblico ministero - termine a difesa - eventuale trasmissione degli atti), ovvero la previsione di un dovere di rendere nota preventivamente la decisione di modificare la qualificazione giuridica, consentendo la discussione sul punto. Entrambe le soluzioni, pero', venivano scartate, perche' avrebbero comportato un dispendio di attivita' probabilmente eccessivo, e il rischio, in pratica, di indurre il giudice a conformarsi in ogni caso al nomen iuris contestato (cfr. relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988, in Gazzetta Ufficiale, 24 ottobre 1998, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 119). Questa scelta legislativa, come e' noto, e' stata criticata da una parte della dottrina, che ha evidenziato come non e' affatto irrilevante, dal punto di vista del diritto di difesa, la modifica del titolo di reato, sicche' sarebbe stato opportuno assoggettarla a garanzie analoghe a quelle previste per la modifica del fatto, almeno nel caso in cui dalla diversa qualificazione giuridica fosse derivata una pena piu' grave. 3.2.1.) Lo stato della giurisprudenza in ordine ai poteri del giudice dell'udienza preliminare in tema di modifiche dell'imputazione. La giurisprudenza di legittimita' ha raggiunto oramai un pacifico punto di equilibrio anche in ordine ai poteri del giudice dell'udienza preliminare in tema di modifiche dell'imputazione. Al riguardo, significative appaiono due sentenze delle sezioni unite. La prima sentenza (la gia' citata Cass. pen., sez.u., 19 giugno 1996, Di Francesco), dopo avere fissato il principio che, in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, si' da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, ha reso un'altra rilevante affermazione, e cioe' che, in applicazione del principio di legalita', al giudice, e quindi anche al giudice dell'udienza preliminare, e' sempre consentito attribuire al fatto descritto nell'imputazione la corretta qualificazione giuridica, senza che cio' incida sull'autonomo potere di iniziativa del p.m., che rileva esclusivamente sotto il diverso profilo dell'immutabilita' della formulazione del fatto inteso come accadimento materiale. Sicche', mentre l'art. 423 c.p. detta la disciplina per procedere in udienza preliminare alle modifiche in fatto dell'imputazione, modifiche per le quali non si puo' prescindere dall'iniziativa del p.m., ben e' possibile che, in applicazione analogica dell'art. 521, primo comma, c.p.p., il g.u.p. riqualifichi giuridicamente il fatto originariamente contestato dal p.m. nella richiesta di rinvio a giudizio. La seconda e piu' recente sentenza (Cass. pen., sez.u., 20 dicembre 2007, Battistella) ha, invece, individuato un percorso virtuoso che il g.u.p. deve seguire nel caso in cui rilevi che il fatto descritto nell'imputazione risulti diverso da quello emerso dagli atti processuali. Invero, il giudice, rilevata la diversita', deve prima sollecitare nelle forme che ritiene piu' opportune il p.m. a procedere ad apportare le necessarie modifiche ai sensi dell'art. 423 c.p.p., e, soltanto in caso di inerzia del p.m., puo' disporre la restituzione degli atti stesso organo della pubblica accusa in applicazione analogica del disposto dell'art. 521, secondo comma, c.p.p. In caso contrario, l'ordinanza con la quale il g.u.p. disponga immediatamente la restituzione degli atti al p.m. per ritenuta difformita' del fatto viene ad assumere la natura dell'atto abnorme. Dunque, in buona sostanza, il g.u.p. puo', anche di ufficio, in applicazione analogica del disposto di cui all'art. 521, primo comma, c.p.p., riqualificare giuridicamente il fatto contestato all'imputato disponendone anche il rinvio a giudizio in ordine a tale reato; in presenza, invece, di un fatto diverso il g.u.p. deve sollecitare il p.m. ad effettuare le modifiche del caso ai sensi dell'art. 423 c.p.p., e, solo in caso di inerzia di quest'ultimo, puo' disporre la restituzione degli atti allo stesso p.m. in applicazione analogica dell'art. 521, secondo comma, c.p.p. Nel caso in cui il g.u.p. disponesse il rinvio a giudizio dell'imputato in ordine ad un fatto diverso (e, quindi, non in ordine ad un fatto giuridicamente qualificato in maniera diversa rispetto all'originaria contestazione) la cassazione e' giunta ad attribuire al decreto che dispone il giudizio la natura giuridica di atto abnorme, in quanto tale rimuovibile anche con il ricorso per cassazione (cfr. Cass. pen., sez. I, 30 marzo 1994, n. 1471; Cass. pen., sez. V, 4 dicembre 1996, n. 5316; Cass. pen., sez. IV, 7 aprile 2005, n. 22632, tutte fattispecie relative a fatti nuovi aggiunti a carico dell'imputato dal g.u.p. di ufficio nel decreto che dispone il giudizio). Palese, in effetti, sarebbero in questo caso l'esercizio da parte del g.u.p. di un potere costituzionalmente attribuito al p.m. (art. 112 Cost.), e cioe' il potere di esercizio dell'azione penale in relazione ad un determinato fatto-reato; ma palese sarebbe anche la violazione del diritto di difesa, perche' in tale modo si porrebbe a carico del prevenuto un fatto-reato mai contestatogli in precedenza. 3.3.) La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di modifiche dell'imputazione e di riqualificazione giuridica del fatto. Chiarito lo stato dell'arte nel diritto interno, mette conto evidenziare che l'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali stabilisce al § 3, lett. a) che l'accusato ha diritto ad essere informato nel piu' breve tempo possibile del contenuto dell'accusa elevata contro di lui. Come ha chiarito la Corte europea dei diritti dell'uomo, l'accusa gioca un ruolo decisivo del procedimento penale, in quanto, la citata disposizione riconosce all'imputato il diritto di essere informato non solo della causa dell'accusa, cioe' dei fatti materiali posti a suo carico e su cui si basa l'azione penale, ma anche della qualificazione giuridica data a questi fatti e cio' in modo dettagliato. La portata di questa disposizione deve essere valutata alla luce del piu' generale diritto a un processo equo, come garantito dal § 1 dell'art. 6 della Convenzione. In materia penale, la precisa e completa informazione delle accuse mosse nei confronti di un imputato e, quindi, la qualificazione giuridica del fatto che la giurisdizione potra' ritenere a suo carico, sono una condizione essenziale per l'equita' del processo (Corte europea diritti uomo, grande camera, 25 marzo 1999, Pelissier e Sassi contro Francia, nonche' sez. II, 1° marzo 2001, Dallos contro Ungheria e, piu' di recente, sez. I, 20 aprile 2006, I.H. contro Austria). Certo, la disposizione di cui all'art. 6, § 3, lett. a) della Convenzione non impone alcuna forma particolare riguardante il come l'imputato deve essere informato della natura e della causa dell'accusa contro di lui. Eppero', la Corte di Strasburgo ha evidenziato chiaramente il legame che sussiste tra le lett. a) e b) del citato § 3 dell'art. 6 della Convenzione, sicche' il diritto di essere informati della natura e della causa di accusa deve essere considerato alla luce del diritto dell'accusato di preparare la sua difesa (cfr. la gia' citata sentenza Pelissier e Sassi contro Francia). Pertanto, prosegue la Corte, se i giudici hanno, quando tale diritto e' riconosciuto dalla legge, la possibilita' di riqualificare i fatti di cui siano regolarmente investiti, essi devono garantire che gli accusati abbiano la possibilita' di esercitare i loro diritti di difesa sul punto in modo concreto ed efficace. Cio' implica che essi siano informati in tempo utile, non solo della causa dell'accusa, cioe' dei fatti materiali posti a loro carico e sui quali si fonda l'accusa, ma anche della qualificazione giuridica data a questi fatti in maniera dettagliata (Corte europea diritti uomo, sez. II, 11 dicembre 2007, Drassich contro Italia). Quanto alle modalita' attraverso le quali tale informazione deve essere resa, pur nella possibile varieta' gia' evidenziata, il giudice europeo non sembra, pero', attribuire rilievo ad una mera sollecitazione del giudice alle parti, essendo necessario che possa poi esserci un contraddittorio sulle «conseguenze» della riqualificazione (Corte europea diritti uomo, 21 febbraio 2002, Sipavicius contro Lituania). In buona sostanza, proprio in virtu' del collegamento della formulazione dell'accusa al diritto di difesa, non e' sufficiente la mera prospettazione della riqualificazione giuridica, ma e' necessario che sul punto sia sviluppato un effettivo e concreto contraddittorio. 3.4.) Ricadute interne dell'interpretazione dell'art. 6, § 3, lett. a) CEDU elabor dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con particolare riferimento all'udienza preliminare. I principi affermati dalla Corte europea nella materia de qua devono essere necessariamente «calati» nel nostro ordinamento processuale penale. Invero, alla luce dell'equiparazione della modifica in iure dell'imputazione a quella in fatto resa dal giudice di Strasburgo, il nostro sistema processuale, caratterizzato, invece, da una netta differenza di disciplina giuridica tra le due ipotesi, mostra qualche limite. Al riguardo, mette conto ribadire che nel nostro processo penale e' sempre legittimo da parte del giudice procedere ex officio alla riqualificazione giuridica del fatto oggetto di imputazione, senza dovere necessariamente attivare sul punto alcun preventivo ed effettivo contraddittorio; al contrario, in caso di modifica dell'addebito fattuale, deve essere pienamente garantito il diritto di difesa, fino alla possibilita' di disporre la restituzione degli atti al p.m., affinche' eserciti correttamente i suoi poteri in ordine all'azione penale. Cio' avviene, come detto, anche in sede di udienza preliminare, dove il g.u.p. puo' disporre il rinvio a giudizio dell'imputato in ordine ad un fatto diversamente qualificato dal punto di vista giuridico senza essere tenuto a preannunciare tale sua decisione e senza essere tenuto a consentire sul punto alcun effettivo e concreto contraddittorio, mentre, al contrario, se rileva la diversita' del fatto, deve dapprima invitare il p.m. a modificarlo e, in caso di inerzia, deve disporre la restituzione degli atti all'organo di accusa. Deve precisarsi, per vero, che come evidenziato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 224/2001), «a seguito delle importanti innovazioni introdotte, in particolare, dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, l'udienza preliminare ha subito una profonda trasformazione sul piano sia della quantita' e qualita' di elementi valutativi che vi possono trovare ingresso, sia dei poteri correlativamente attribuiti al giudice, e, infine, per cio' che attiene alla piu' estesa gamma delle decisioni che lo stesso giudice e' chiamato ad adottare. L'esigenza di completezza delle indagini preliminari, riaffermata anche di recente dal giudice delle leggi (v. sentenza n. 115 del 2001) ed ora significativamente valutabile anche in sede di udienza preliminare, al cui giudice e' attribuito il potere di disporre l'integrazione delle indagini stesse (art. 421-bis cod. proc. pen.); l'analogo potere di integrazione concernente i mezzi di prova, a fronte del quale il giudice puo' assumere anche d'ufficio le prove delle quali appaia evidente la decisivita' ai fini della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 cod. proc. pen.): le nuove cadenze delle indagini difensive - introdotte dalla legge 7 dicembre 2000, n. 397 - ed il conseguente ampliamento del tema decisorio, non piu' limitato al materiale raccolto dall'organo dell'accusa: sono tutti elementi di novita' che postulano, all'interno della udienza preliminare, da un lato, un contraddittorio piu' esteso rispetto al passato, e, dall'altro, un incremento degli elementi valutativi, cui necessariamente corrisponde - quanto alla determinazione conclusiva - un apprezzamento del merito ormai privo di quei caratteri di "sommarieta'" che prima della riforma erano tipici di una delibazione tendenzialmente circoscritta allo "stato degli atti". Accanto a cio', vengono poi in considerazione i nuovi "contenuti" che, sempre alla stregua degli apporti novellistici, puo' assumere la decisione con la quale il giudice e' chiamato a definire l'udienza preliminare. In base alla nuova formulazione dell'art. 425 cod. proc. pen., infatti, la regula iuris posta a fondamento del rinvio a giudizio, si radica - in positivo - sulla sufficienza, non contraddittorieta' e, comunque, idoneita' degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio, imponendosi, in caso di diverso apprezzamento, l'adozione della sentenza di non luogo a procedere. Quest'ultima, a sua volta, puo' scaturire anche dal riconoscimento di circostanze attenuanti e dalla correlativa applicazione della disciplina di cui all'art. 69 cod. pen., con i riflessi tipici delle statuizioni che incidono sul merito della causa; ed ugualmente sul merito finisce per proiettarsi la sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilita' - ora consentita, quando non ne consegua l'applicazione di una misura di sicurezza - trattandosi di sentenza che, come questa Corte ha gia' avuto modo di affermare, postula "il necessario accertamento di responsabilita' in ordine al fatto reato" (cfr. sentenza n. 41 del 1993)» (nello stesso senso, si veda anche Corte cost. sentenza n. 335/2002; ordinanze n. 269/2003 e 20/2004). Dunque, l'udienza preliminare e' il luogo dove si realizza oramai un pieno contraddittorio, caratterizzato, dal punto di vista difensivo, in relazione ai possibili epiloghi della stessa (rinvio a giudizio - sentenza di non luogo a procedere) dalla possibilita' di semplicemente argomentare, in sede di discussione, rispetto all'imputazione formulata con la richiesta di rinvio a giudizio; di produrre elementi di prova acquisiti ai sensi degli artt. 391-bis e ss. c.p.p. da sottoporre alla valutazione del giudice; di sollecitare lo svolgimento di ulteriori indagini o l'assunzione di prove ai sensi degli artt. 421-bis e 422 c.p.p. L'udienza preliminare e' il luogo privilegiato per l'accesso ai riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato, che costituiscono pur sempre espressioni del diritto di difesa (cfr. Corte cost. 11 marzo 1993, n 76; Corte cost. 5 maggio 1993, n. 214; Corte cost. 30 giugno 1994, n. 265; Corte cost. 11 dicembre 1995, n. 497; Corte cost. 15 marzo 1996, n. 70; Corte cost. 25 maggio 2004, n. 148). Sotto questo profilo, pertanto, non puo' dirsi indifferente rispetto alle esigenze difensiva, la preventiva conoscenza dell'accusa, in tutte le sue componenti, in fatto ed in diritto, da parte dell'imputato, il quale e' proprio con riferimento ad essa che e' in grado di calibrare le proprie scelte e strategie difensive. Ne' puo' dirsi che la possibilita' che il prevenuto ha di difendersi in sede dibattimentale rispetto ad un'imputazione, diversamente qualificata giuridicamente dal g.u.p., ex officio, nel decreto che dispone il giudizio, e' sufficiente a scongiurare il pregiudizio subito rispetto al diritto di difesa. Invero, non puo' escludersi a priori che, a fronte del nuovo nomen iuris attribuito al fatto, l'imputato non possa prospettare una strategia difensiva in sede di udienza preliminare che lo porti ad evitare il pregiudizio derivante dal dovere affrontare il giudizio dibattimentale. Al riguardo, si e' gia' evidenziata la varieta' di scelte difensive che si prospettano, nell'attuale sistema, al prevenuto anche in sede di udienza preliminare con riferimento ai molteplici epiloghi, anche interlocutori, della stessa. 3.5.) Efficacia della norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, nel diritto interno. Cio' posto, appare opportuno rilevare che di recente la Corte costituzionale, con due note sentenze (Corte cost. 22-24 ottobre 2007, nn. 348 e 349), ha ricostruito in termini estremamente innovativi i rapporti tra le norme della CEDU e quelle dell'ordinamento giuridico interno. Il giudice delle leggi ha, invero, escluso che, allo stato, possa essere attribuita alla CEDU rilevanza ai sensi degli artt. 10 e 11 Cost. Ha, altresi', escluso la «comunitarizzazione» della CEDU, e, quindi, la possibilita' di disapplicare la norma interna in contrasto con la stessa. Cio' posto, la Consulta non ha potuto evitare di evidenziare come in alcune pronunce e' stato anche riconosciuto valore interpretativo alla CEDU, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate, ad esempio, richiamando, per avvalorare una determinata esegesi, le indicazioni normative anche di natura sopranazionale (sentenza n. 231 del 2004); oppure per svolgere argomentazioni espressive di un'interpretazione conforme alla Convenzione (sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero per avere conforto rispetto all'esegesi accolta (sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003), avvalorandola anche in considerazione della sua conformita' con i valori espressi dalla Convenzione, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo (sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998). Inoltre, la Corte ha rilevato che la peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l'adesione alla convenzione e' stata tenuta ben presente dal legislatore ordinario, che ha provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l'adempimento delle pronunce della Corte europea, attraverso opportuni interventi normativi (si veda l'art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12, «disposizioni in materia di pronunce della Corte c.d.u.» e l'art. 1, comma 1217, legge 27 dicembre 2006, n. 296, «legge finanziaria anno 2007») coinvolgenti anche profili organizzativi (si veda d.p.c. 1° febbraio 2007 - «misure per l'esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n. 12», istitutivo di un dipartimento ad hoc della Presidenza del Consiglio dei ministri per gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo). Cio' posto, il Giudice delle leggi ha messo in risalto che il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost. come modificato dall'art. 2 della l.c. 18 ottobre 2001, n. 3, « modifiche al titolo V della Cost.», ha colmato una lacuna giuridica del sistema, che non consentiva alcun controllo della conformita' del diritto interno rispetto alla norma convenzionale internazionale, non inquadrabile negli schemi degli artt. 10 e 11 Cost., e, quindi, anche delle norme della CEDU, se non nei limiti in cui la norma di diritto interno si poneva in diretto contrasto con le norme costituzionali. Invero, l'art. 117, primo comma, Cost. prevede esplicitamente che la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Cio' non significa, beninteso, che con l'art. 117, primo comma Cost. si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, come e' il caso delle norme CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli «obblighi internazionali» di cui all'art. 117, primo comma, viola per cio' stesso tale parametro costituzionale. Con l'art. 117, primo comma, si e' realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale da' vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata «norma interposta». Ne consegue che al giudice comune spetta interpreti norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio' sia permesso dai testi delle norme. Qualora cio' non sia possibile, ovvero dubbi della compatibilita' della norma interna con la disposizione della convenzionale «interposta» egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimita' costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. In relazione alla CEDU, inoltre, la Consulta ne ha evidenziato la sua peculiarita' rispetto alla generalita' degli accordi internazionali, poiche', per espressa previsione, l'interpretazione centralizzata delle norme della stessa e' stata attribuita dagli Stati membri alla Corte di Strasburgo. In considerazione di cio', la rilevanza della CEDU, cosi' come interpretata dal «suo» giudice, rispetto al diritto interno e' certamente diversa rispetto a quella della generalita' degli accordi internazionali, la cui interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in caso di controversia, la composizione del contrasto mediante negoziato o arbitrato o comunque un meccanismo di conciliazione di tipo negoziale. In definitiva, il Giudice delle leggi ha messo in risalto il diverso ruolo delle due Corti: l'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, mentre alla Corte costituzionale, qualora sia sollevata una questione di legittimita' costituzionale di una norma nazionale rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. per contrasto - insanabile in via interpretativa - con una o piu' norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, ma di verificare la compatibilita' della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui tale compito e' stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tale modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che cio' possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa. Mette conto, infine, rilevare, che, ancora recentemente, la Corte costituzionale (Corte cost. 16-30 aprile 2008, n. 129), nell'ambito della complessa vicenda relativa al condannato Dorigo, ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 630, primo comma, lett. a) c.p.p. che le era stata prospettata dalla Corte di appello di Bologna in funzione di giudice dell'esecuzione. Invero, la Corte remittente aveva cercato di superare il vuoto normativo circa gli effetti viene pronunce del giudice di Strasburgo, dichiarative della non equita' di determinati processi per violazione delle norme CEDU, nei relativi giudizi conclusisi con sentenze passate in giudicato sollevando questione di legittimita' costituzionale della citata norma nella parte in cui esclude dai casi di revisione l'impossibilita' che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza della Corte europea che abbia accertato l'assenza di equita' del processo. Il Giudice delle leggi, pur evidenziando l'improrogabile necessita' che l'ordinamento predisponga adeguate misure atte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite dalla violazione dei principi della CEDU in tema di «processo equo», ha ritenuto infondate le censure di incostituzionalita' mosse dal giudice a quo sotto il profilo degli artt. 3, 10 e 27 Cost., ponendo in risalto quanto sia problematica l'individuazione di un punto di equilibrio tra l'esigenza di assicurare meccanismi riparatori, a fronte dei sempre possibili errori del giudice, e quella, contrapposta alla prima, di preservare la certezza e la stabilita' della res iudicata, e, quindi, quanto sia correlativamente ampia la sfera entro la quale trova spazio la discrezionalita' del Legislatore. Sicche', pur muovendo un pressante appello al Legislatore ad adottare i provvedimenti ritenuti piu' idonei al fine di consentire all'ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea di Strasburgo, la Consulta non ha potuto che dichiarare l'infondatezza della questione sollevata dalla Corte bolognese. Dunque, allo stato attuale, non esiste un rimedio giuridico che consenta di rimuove un giudicato penale frutto di un processo «non equo». Sicche', ritiene il tribunale che, in tale contesto di vuoto normativo, e' doveroso che il giudice adegui, in corso di giudizio, gli istituti processuali ai principi in materia di «processo equo» di cui alla CEDU, se possibile in via interpretativa, ma, se cio' non fosse possibile per un insanabile contrasto tra i principi della CEDU ed il diritto interno, e' doveroso da parte del giudice sottoporre al vaglio della Corte costituzionale l'eventuale contrasto delle norme interne con le «norme interposte» pattizie della Convenzione sotto il profilo della violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in modo da evitare il piu' possibile future censure da parte del giudice europeo. 3.6.) Rilevanza della questione in relazione agli artt. 3, 24, 111, terzo comma, e 117, primo comma, Cost. Delineati anche i rapporti tra CEDU e diritto interno, tornando al tema oggetto di scrutinio, ritiene il tribunale che il divario esistente tra il diritto processuale penale interno, con riferimento ai poteri di riqualificazione giuridica del fatto riconosciuti al g.u.p. ex officio senza necessita' di previo, effettivo e concreto contraddittorio, e 1'art. 3, lett. a) e b) della Convenzione non sia superabile in via interpretativa, come la vicenda in esame, del resto, dimostra. Invero, a tale fine non potrebbe essere sufficiente da parte del g.u.p. sollecitare il p.m. di udienza a riqualificare giuridicamente il fatto, come e' avvenuto nel caso di specie, poiche', nell'ipotesi in cui il p.m. ometta di farlo ed, anzi, insisti nell'originaria imputazione, l'imputato potrebbe essere indotto a non esercitare attivita' difensiva nella sola ipotetica eventualita' di una riqualificazione giuridica che il giudice potrebbe effettuare soltanto in sede decisoria e che, peraltro, potrebbe essergli pregiudizievole solo in caso di rinvio a giudizio. Insomma, mancherebbe ogni seria e concreta prospettiva di contraddittorio, come e' avvenuto nella fattispecie in esame, dove gli imputati, a fronte della mera sollecitazione riqualificatoria pervenuta al p.m. da parte del g.u.p., ed a fronte del diniego dell'organo di accusa di modificare il nomen iuris attribuito al fatto contestato, non hanno prospettato altra difesa se non in relazione all'originaria imputazione, non avendo ragionevolmente, alcun diverso concreto interesse difensivo. Si potrebbe ipotizzare una soluzione ermeneutica che attribuisse al g.u.p., prima dell'esercizio del definitivo potere decisorio, di riqualificare giuridicamente il fatto con un'apposita ordinanza. Ma questa soluzione, piuttosto eccentrica all'interno del sistema, presterebbe il fianco a censure sotto il profilo della compatibilita' del giudice, espressosi sulla corretta qualificazione giuridica da dare al fatto, a tenere il prosieguo dell'udienza preliminare. Invero, qualificare giuridicamente il fatto e' operazione che logicamente presuppone l'accertamento e la sussistenza di un certo fatto storico, sicche', il giudice che dovesse esprimersi in ordine alla corretta qualificazione giuridica da attribuire al fatto non potrebbe prescindere dall'esprimersi anche in ordine alla sussistenza del fatto da riqualificare. Insomma, se anche si volesse escludere in questo caso un'incompatibilita' del g.u.p. ai sensi dell'art. 34 c.p.p. (come estensivamente interpretato alla luce delle gia' citate pronunce della Corte cost. n. 335/2002, n. 269/2003, n. 271/2003 e n. 20/2004), non si potrebbe escludere del tutto una sua ricusabilita' ai sensi dell'art. 37, lett. b) c.p.p. Orbene, l'imparzialita' del giudice e' valore di rango costituzionale (artt. 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.) che trova pieno riconoscimento anche all'interno della CEDU (art. 6, § 1), ed e' un valore fondamentale del «giusto processo». Non puo' esservi un giusto processo se non e' garantita la terzieta' ed imparzialita' del giudice dinanzi alle parti. Ne consegue che interpretazioni che possano minare tale fondamentale principio e valore costituzionale non sono prospettabili. Non e' neppure prospettabile, in via interpretativa, l'estensione della disciplina della modifica in iure dell'imputazione a quella dell'addebito fattuale (soluzione auspicabile considerata l'equiparazione che in ambito europeo hanno i due aspetti). Invero, una simile interpretazione concretizzerebbe una sostanziale disapplicazione dell'art. 521, primo comma, c.p.p. in favore della norma convenzionale, non ammissibile, pero', attesa la non comunitarizzazione della CEDU. A questo punto, non sembra possibile altra soluzione se non la pronuncia della Corte costituzionale, che, intervenendo sulle norme censurate, parifichi la disciplina della modifica della qualificazione giuridica del fatto a quella della modificazione del fatto medesimo. Solo in questo modo e' salvaguardato fino in fondo il diritto di difesa. Invero, quando il g.u.p. ritiene che il fatto vada riqualificato giuridicamente, puo' prospettarlo al p.m., che, o si adegua, modificando il nomen iuris (ed eventualmente anche quegli aspetti del fatto per meglio adattarlo alla nuova veste giuridica, come sarebbe stato auspicabile nel caso di specie, dove, a fronte della nuova contestazione di corruzione e' rimasta inalterata la descrizione del fatto come ipotesi concussiva), oppure si vede restituire gli atti ai sensi dell'art. 521, secondo comma, c.p.p. In questo modo l'imputato non subisce alcun pregiudizio: al contrario gode fino in fondo delle prerogative dategli dalla legge, anche con riferimento alla fase prodromica rispetto al deposito della richiesta di rinvio a giudizio (per intenderci quella relativa alla notifica dell'avviso ex art. 415-bis c.p.p.). D'altra parte, la soluzione prospettata, che sarebbe pienamente attuativa del dettato convenzionale di cui all'art. 6, § 3, lett. a) e b) CEDU, ma, altresi', dell'art. 111, terzo comma, Cost., nella parte in cui stabilisce che la legge deve assicurare che la persona accusata di un reato sia, nel piu' breve tempo possibile, informata della natura e dei motivi dell'accusa in modo da disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa (che, secondo una parte della dottrina, essendo in effetti trasposizione dell'art. 6 CEDU, dovrebbe essere interpretato alla stesa stregua), non si pone in contrasto con altri valori costituzionali, in primis, quello della ragionevole durata del processo sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost. Invero, proprio ragioni di economia processuale avevano indotto il legislatore del 1988 ad evitare qualsiasi, equiparazione della disciplina della modificazione in fatto rispetto a quella in diritto dell'imputazione. E' noto, pero', che, secondo il pacifico orientamento della Consulta, il principio ragionevole durata del processo, proprio in quanto «ragionevole», deve essere bilanciato rispetto ad altri valori costituzionali e non puo' comportare la vanificazione di questi valori che in esso sono coinvolti, primo fra tutti il diritto di difesa, che l'art. 24, secondo comma, Cost., proclama inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (cfr. C. cost., 22 giugno 2001, n. 204; Corte cost., 11 dicembre 2001. n. 399; Corte cost., 19 novembre 2002, n. 458). Sicche', quando vengono in gioco profili di tutela del diritto di difesa, non puo' mai ritenersi prevalente, nell'ambito del necessario bilanciamento, il principio della ragionevole durata del processo e, quindi, non possono legittimarsi norme che, per ragioni di economia processuale, sacrifichino, al di la' del ragionevole, le esigenze difensive. Orbene, considerando il rilievo non solo costituzionale (artt. 24 e 111, terzo comma, Cost.) ma altresi' convenzionale (art. 6, § 3, lett. a) e b) CEDU) del diritto dell'imputato ad una contestazione in fatto ed in diritto chiara e precisa dell'addebito, che consenta, in qualunque fase del processo, un esercizio pieno ed effettivo del diritto di difesa, non puo' ritenersi che l'estensione della disciplina delle modifiche in fatto dell'imputazione a quelle relative al solo nomen iuris, che, indubbiamente, puo' anche determinare la regressione del processo, configuri un'irragionevole lungaggine processuale. Non vanno taciuti, infine, profili di possibile illegittimita' costituzionale anche rispetto all'art. 3 Cost. Invero, non pare ragionevole una disciplina che penalizzi, sotto il profilo difensivo, l'imputato che si vede rinviato a giudizio per un fatto diversamente qualificato giuridicamente, rispetto a quell'imputato che tale modifica non viene a subire. Quest'ultimo, infatti, avra' esercitato pienamente il suo diritto di difesa rispetto ad una contestazione rimasta immutata; lo stesso non puo' dirsi per l'altro imputato che, per effetto di un provvedimento «a sorpresa» (il rinvio a giudizio per un fatto diversamente qualificato) si vede privato della pienezza difensiva rispetto ad una fase processuale. La questione, ove accolta, configurerebbe una violazione degli artt. 178, lett. c) e 180 c.p.p. nell'operato del g.u.p. presso il Tribunale di Lecce, poiche', a fronte del rifiuto del p.m. di modificare la qualificazione giuridica dell'imputazione, il giudice ha disposto di ufficio il rinvio a giudizio degli imputati in ordine ad un fatto diversamente qualificato, senza farlo precedere da alcun effettivo e preventivo contraddittorio, attraverso la doverosa restituzione degli atti al p.m., che avrebbe potuto elevare un addebito, meglio calibrato nella descrizione del fatto con riferimento alla diversa qualificazione giuridica, che avrebbe potuto evitare ambigue contestazioni (di cui si e' doluta la difesa degli imputati) suscettibili di ulteriori modifiche giuridiche nel corso del giudizio (di merito, di primo o secondo grado, o anche di legittimita'). E' consapevole il collegio che la Cassazione, in uno specifico caso, pur affermando l'immanenza nel nostro ordinamento del principio del contraddittorio su ogni profilo dell'accusa, anche nel giudizio di legittimita', come ricavabile dalla giurisprudenza europea, che ha evidenziato una vera e propria violazione di sistema del nostro ordinamento processuale penale relativa al principio del giusto processo configurato dall'art. 6, § 3, lett. a) e b) CEDU, il quale impone che l'imputato, una volta informato dell'accusa e cioe' dei fatti e della qualificazione giuridica a essi attribuita, deve essere messo in grado di discutere in contraddittorio su ogni profilo che li investe, contraddittorio che deve essere garantito anche la' dove l'ordinamento riconosca al giudice - come nel nostro - il potere di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione ascritta ab origine all'imputato; pur ritenendo che il sistema vada integrato con la regola enunciata dalla Corte di Strasburgo, ha ritenuto di poterlo fare, nel caso sottopostole all'esame, in via interpretativa, mediante il ricorso analogico all'istituto di cui all'art. 625 bis c.p.p. (Cass. pen. sez. I, 12 novembre 2008, n. 45807). Eppero', a prescindere dalla validita' del percorso ermeneutico seguito dal supremo Consesso (relativo all'estensibilita' analogica dell'istituto del ricorso straordinario per cassazione per errore materiale o di fatto), sul quale e' legittimo nutrire qualche dubbio alla luce del pacifico orientamento delle sezioni unite (si veda Cass. pen., sez.u., 27 marzo 2002, Basile, che ha escluso l'applicabilita' analogica dell'istituto di cui all'art. 625-bis c.p.p.), si trattava di una fattispecie molto particolare, in cui si disquisiva delle modalita' attraverso le quali poteva trovare adeguamento, rispetto al giudicato interno, un pronunciato della Corte europea dei diritti dell'uomo che aveva riscontrato la violazione dell'art. 6 CEDU in un procedimento in cassazione conclusosi con una sentenza con la quale la suprema Corte aveva riqualificato di ufficio il nomen iuris di determinati reati, e, quindi, non era oggetto di disamina il procedimento da seguire ordinariamente in caso di ritenuta necessita' di riqualificare giuridicamente il fatto (per intendersi, a seguito della revoca della sentenza della Cassazione, frutto di una procedura giudicata iniqua dalla Corte europea, nulla vieta al supremo Consesso, chiamato nuovamente a pronunciarsi sul caso, di promuovere giudizio di illegittimita' costituzionale, non ritenendo di potere superare in via interpretativa il contrasto tra' i1 diritto interno e quello convenzionale in punto di riqualificazione giuridica del fatto). Alla luce delle considerazioni su esposte appare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 3, 24, 111, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., con riferimento agli artt. 424, 429 e 521, primo comma c.p.p.