IL TRIBUNALE 
    Letti gli atti del procedimento penale in epigrafe  indicato  nei
confronti di: 
        1) Ricchiuto Tommaso, nato a Tiggiano il 27  ottobre  1945  e
residente in Lecce alla via Foscarini n. 15  (domicilio  dichiarato),
difeso di fiducia dall'avv. Angelo Pallara del Foro di Lecce; 
        2) Gorgoni Gaetano,  nato  a  Galatina  il  26  agosto  1933,
residente in Cavallino  alla  via  Crocefisso  n.  12,  elettivamente
domiciliato a Lecce alla via Corvaglia  presso  lo  studio  dell'avv.
Luigi Rella difeso di fiducia  dall'avv.  Luigi  Rella  del  Foro  di
Lecce; 
        3) Cioffi Ennio, nato a Cavallino il 19 aprile  1935  ed  ivi
residente in corso Umberto I. n. 5 (domicilio dichiarato), difeso  di
fiducia dagli avv. Gaetano De Mauro e Domenico Ennio Cioffi del  Foro
di Lecce; 
    Tutti imputati del solo reato di cui al capo e) che di seguito si
trascrive: 
        reato p. e p. dall'art. 110, 81 c.p.v., 319 c.p., perche', in
concorso tra loro e con piu' azioni esecutive di un medesimo  disegno
criminoso, abusando dei poteri e delle qualita' di sindaco, rivestite
dal Gorgoni e di quelle di vice  sindaco,  assessore  alle  attivita'
produttive, presidente della Commissione edilizia,  presidente  della
Commissione tecnica per il PIP e presidente  della  Commissione  SPAB
del Comune di Cavallino, ricoperte dal Cioffi; 
        dopo che il T.A.R. di Lecce, accogliendo i ricorsi presentati
da De Pandis Laura, Ginelli Antonio, Pastore Vincenzo, Palermo Luigi,
Caricato Pasquale, De Giorgi Giorgio, Dolce Michele, aveva dichiarato
con   varie   sentenze   la   illegittimita'   della   autorizzazione
amministrativa all'apertura del centro commerciale,  del  nulla  osta
regionale e delle autorizzazioni e prese d'atto all'ampliamento delle
superfici di cui  al  capo  a);  atti  illegittimi  ed  illecitamente
rilasciati dal Comune di Cavallino (proprio da parte  del  Gorgoni  e
del Cioffi), in favore della Ipersalento S.r.l. di Ricchiuto Tommaso; 
        intervenivano  presso  i  responsabili  della  societa'   GS,
subentrata ad Ipersalento nella titolarita' del nulla osta  regionale
e di tutte le illegittime autorizzazioni  rilasciate  dal  Comune  di
Cavallino (ed in particolare  quelle  rilasciate  dal  Cioffi  e  dal
Gorgoni  con  le  condotte  illecite  di  cui  al  capo  a),  nonche'
l'autorizzazione amministrativa all'apertura del  centro  commerciale
rilasciata  dal  sindaco  di  Cavallino  il  24  aprile  1997  e   la
concessione edilizia n. 67/97) per  l'apertura  e  l'ampliamento  del
centro commerciale collocato nel comparto A del PIP e  rappresentando
loro: 
          la possibilita' di ottenere la rinuncia ai ricorsi da parte
dei sette ricorrenti (che erano di fatto assistiti dallo stesso  avv.
Cioffi e solo formalmente sarebbero stati assistiti dall'avv.  Palma,
legale messo a disposizione dal Ricchiuto), rendendo cosi' inefficaci
le sentenze  con  cui  il  T.a.r.  aveva  annullato  i  provvedimenti
illeciti adottati dall'amministrazione; 
          la disponibilita' del Cioffi e  del  Gorgoni  a  consentire
alla GS di continuare a  beneficiare  di  tali  atti,  sia  omettendo
qualsiasi  intervento  finalizzato  alla  revoca  delle   illegittime
autorizzazioni sia consentendo  a  GS  di  ottenere  ogni  necessaria
proroga (pure  illegittima)  e  atto  amministrativo  necessario  per
potere beneficiare di tali autorizzazioni  e  la  minaccia,  in  caso
contrario, di procedere alla revoca delle autorizzazioni medesime; 
          inducevano  la  societa'  GS  ad  assumere   1'impegno   di
garantire posti di lavoro presso il centro commerciale a ciascuno dei
sette ricorrenti e ad  altre  persone  indicate  dal  Gorgoni  e  dal
Cioffi, nonche' ad accollarsi il  pagamento  di  tutte  le  somme  di
denaro che i sette ricorrenti avrebbero dovuto corrispondere all'avv.
Sante Nardelli del Foro di Bari, che  era  stato  il  loro  difensore
innanzi al T.a.r. e le competenze spettanti all'avv.  Palma,  che  li
avrebbe assistiti per la rinuncia al ricorso innanzi al Consiglio  di
Stato e nella causa civile intentata innanzi  al  Tribunale  di  Bari
contro i sette commercianti dall'avv. Nardelli. 
    In Cavallino, sino al novembre 2001. 
    Osserva quanto segue. 
    Alla prima udienza del 13 marzo 2009, nell'ambito delle questioni
preliminari di cui all'art. 491 c.p.p.,  il  difensore  dell'imputato
Ricchiuto Tommaso eccepiva la nullita' del  decreto  che  dispone  il
giudizio, emesso dal g.u.p. presso il Tribunale di Lecce  in  data  8
gennaio 2009, per l'indeterminatezza  dell'imputazione  che,  sebbene
rubricata quale ipotesi di corruzione, in  fatto  non  conteneva  gli
elementi tipici di tale  reato,  mancando  qualsiasi  indicazione  in
ordine al soggetto corruttore ed al soggetto  corrotto,  nonche'  una
precisa e dettagliata descrizione della condotta corruttiva. 
    Gli altri difensori  si  associavano  all'eccezione  evidenziando
l'anomalia  di  una   contestazione   rimasta   in   fatto   ancorata
all'originaria imputazione di concussione, ma riferita dal g.u.p.  al
reato di cui all'art. 319 c.p. 
    All'udienza  odierna,  il  tribunale  ha  acquisito  il   verbale
dell'udienza  preliminare  tenutasi  dinanzi  al  g.u.p.  presso   il
Tribunale di Lecce in data 8 gennaio 2009. Il  p.m.  ha  fornito  una
descrizione cronologica dei fatti che avevano  portato  il  g.u.p.  a
disporre il rinvio a giudizio degli imputati  per  il  reato  di  cui
all'art.  319  c.p.  in  luogo   dell'originaria   contestazione   di
concussione. I difensori hanno insistito  nella  sollevata  eccezione
ampliandone la portata.  Invero,  hanno  evidenziato  che  il  g.u.p.
avrebbe impropriamente disposto il rinvio a giudizio per il reato  di
corruzione, in quanto, a fronte dell'insistenza del p.m. in relazione
all'originaria  contestazione  di  concussione,  avrebbe   dovuto   o
pronunciare  sentenza  di  proscioglimento  in  base  agli   atti   a
disposizione, ovvero restituire gli atti al medesimo p.m. Il  decreto
che dispone il giudizio  sarebbe  pertanto  affetto  da  nullita'  o,
comunque, abnorme, avendo disposto il rinvio a giudizio dei prevenuti
per un diverso reato. 
    All'esito della Camera di consiglio  il  collegio,  tenuto  conto
delle eccezioni e rilievi difensivi, ritiene di sollevare di  ufficio
questione di legittimita' costituzionale. 
    La questione di legittimita' costituzionale viene  sollevata,  in
relazione agli artt. 3, 24, 111, terzo comma,  e  117,  primo  comma,
Cost., con riferimento agli artt. 424, 429 e 521, primo comma  c.p.p.
nella parte in cui consentono al  g.u.p.  di  disporre  il  rinvio  a
giudizio dell'imputato in  relazione  ad  un  fatto  qualificato,  di
ufficio, giuridicamente  in  maniera  diversa,  senza  consentire  il
previo ed effettivo sviluppo del contraddittorio sul punto, chiedendo
al p.m. di modificare la qualificazione giuridica del  fatto,  e,  in
caso di inerzia  dell'organo  d'accusa,  disponendo  la  trasmissione
degli atti al medesimo p.m. 
1) In fatto. 
    Con decreto che dispone il giudizio dell'8 gennaio 2009 il g.u.p.
presso il Tribunale di Lecce rinviava a  giudizio  dinanzi  a  questo
collegio gli imputati in ordine  al  reato  di  cui  al  capo  e)  su
riportato. 
    Si legge testualmente nella motivazione  del  decreto:  «rilevato
che, nella specie, non ricorrono le condizioni per emettere  sentenza
di non luogo a  procedere  ex  art.  425  c.p.p.  nei  confronti  dei
predetti  imputati  (non   risultando   1'insussistenza   dei   fatti
delittuosi, ne' 1'estraneita' ad essi degli imputati, ne' che  questi
ultimi siano non imputabili o non punibili) e che invece alla stregua
delle risultanze processuali acquisite sono emersi validi elementi  a
carico degli imputati, che legittimano  il  loro  rinvio  a  giudizio
dinanzi al Tribunale di Lecce, in  composizione  collegiale,  seconda
sezione penale, per rispondere del reato ascritto  in  rubrica,  come
riqualificato in diritto da questo giudice (sulla possibilita' per il
giudicante,  non  ricorrendo  la  violazione  del  principio  di  cui
all'art.  521  c.p.p.,  di  ritenere  la  sussistenza  del  reato  di
corruzione  invece  della  piu'  grave   ipotesi   delittuosa   della
concussione contestata - in questo  caso  in  sede  di  richiesta  di
rinvio a giudizio - si  veda  Cass.,  e sezione  unite,  30  aprile/2
luglio  1997,  n.  6402,   Dessimone   ed   altri),   non   apparendo
condivisibile l'originaria  contestazione  in  quanto  nella  vicenda
siccome delineata dalle emergenze  processuali  non  risulta  che  la
societa'  GS  abbia  soggiaciuto  alla  volonta'  dei  P.U.  imputati
operanti in concorso con l'extraneus Ricchiuto Tommaso, ma  piuttosto
che essa sia stata con  essi  parte  di  una  transazione  di  natura
illecita da cui ha ricavato un proprio significativo tornaconto  dato
dall'ottenimento della rinuncia al ricorso proposto innanzi al T.a.r.
Puglia, sez. Lecce, da De Pandis Laura all'esito di  un  giudizio  di
primo grado favorevole a questi ultimi». 
    Dunque, il  g.u.p.,  riqualificando  giuridicamente  ex  officio,
all'esito della discussione di cui all'art. 421 c.p.p.,  l'originaria
imputazione di  concussione,  disponeva  il  rinvio  a  giudizio  dei
prevenuti per il diverso reato di cui all'art. 319 c.p. 
    La difesa ha eccepito, in limine, la  nullita'  del  decreto  che
dispone il giudizio  per  l'indeterminatezza  dell'imputazione  cosi'
formulata per effetto della riqualificazione  giuridica,  nonche'  la
nullita' o l'abnormita' dello stesso in  quanto  si  e'  disposto  il
rinvio a giudizio per un diverso reato. 
    Dal  verbale  di  udienza  preliminare  risulta  che  il   g.u.p.
sollecitava il p.m. di  udienza  a  riqualificare  giuridicamente  il
reato di concussione contestato in  quello  di  corruzione.  Il  p.m.
insisteva nell'originaria contestazione. Quindi, si dava  corso  alla
discussione, all'esito della quale, come detto, di ufficio, il g.u.p.
rinviava a giudizio gli imputati per il reato  di  corruzione  invece
che per il reato di concussione. 
2) In punto di rilevanza. 
    Preliminare alla  stessa  valutazione  della  fondatezza  o  meno
dell'eccezione di nullita' sollevata  dai  difensori  degli  imputati
(che sotto questo profilo costituisce  occasione,  spunto,  ma  anche
conferma, per quello che si dira' in seguito, della fondatezza  della
censura  di  incostituzionalita'  sollevata)  e'  la  verifica  della
correttezza dell'operato del g.u.p., che ha, di ufficio, soltanto  in
sede di decisione in  ordine  al  rinvio  a  giudizio,  riqualificato
giuridicamente il fatto, senza consentire  alcun  effettivo  e  pieno
contraddittorio sul punto, in particolare con gli imputati. 
    E' di tutta evidenza, infatti, che la sollecitazione del  g.u.p.,
in sede  di  udienza,  per  la  qualificazione  giuridica  del  fatto
contestato in corruzione in luogo di  concussione  e'  stata  rivolta
esclusivamente al p.m., il quale, ribadito l'originario addebito,  ha
impedito, di fatto, sull'argomento qualsiasi  concreto  ed  effettivo
sviluppo del contraddittorio, essendo a quel punto soltanto meramente
possibile l'evento riqualificatorio da parte del  giudice,  peraltro,
nemmeno sicuramente a  danno  dei  prevenuti,  poiche'  poteva  anche
essere possibile che, riqualificato il fatto, il g.u.p. avesse emesso
sentenza di non luogo a procedere. 
    Ne deriva di conseguenza che, a fronte di una  mera  possibilita'
di  riqualificazione  giuridica  del  fatto,  non  era  concretamente
prospettabile un serio, pieno e concreto  esercizio  del  diritto  di
difesa in tutte le possibili forme  e  manifestazioni  che,  come  si
dira' in prosieguo, puo' assumere  attualmente  in  sede  di  udienza
preliminare. 
    Sicche', se si ritiene che al  g.u.p.  spetti  un  simile  potere
officioso, e se si ritiene che, nel caso di specie, l'operazione  sia
consistita effettivamente in una mera riqualificazione giuridica  del
fatto originariamente contestato  ai  prevenuti  nella  richiesta  di
rinvio  a  giudizio,  l'operato  del  giudice,  anche  in   relazione
all'eccezione  difensiva,  non  potra'  essere  passibile  di  alcuna
censura. 
    Ma se, al contrario, si reputa che  tale  potere  al  g.u.p.  non
spetti neppure a fronte di una sicura riqualificazione giuridica  del
fatto, ecco che allora l'operato del giudice dovra' essere vagliato e
verificato nella prospettiva del rispetto del diritto  di  difesa  e,
quindi, nella prospettiva dell'eventuale  dichiarazione  di  nullita'
del decreto che ha disposto, di ufficio e  senza  alcun  effettivo  e
pieno contraddittorio  sul  punto,  il  giudizio  dei  prevenuti,  in
relazione ad un fatto diversamente  giuridicamente  qualificato,  per
violazione degli artt. 178, lett. c) e 180 c.p.p. 
3) In punto di non manifesta infondatezza della questione. 
    3.1.)  Lo  stato  della  giurisprudenza  sulla  possibilita'   di
riqualificare giuridicamente un fatto originariamente rubricato  come
concussione in corruzione. 
    Andando per gradi, de iure  condito,  giova  evidenziare  che  la
giurisprudenza di legittimita' e' pressocche' pacifica  nel  ritenere
che non viola il principio di correlazione  tra  fatto  contestato  e
fatto ritenuto in sentenza la condanna  per  corruzione  nell'ipotesi
cui l'imputato sia stato rinviato a giudizio per  concussione  (Cass.
pen., sez. I, 19 dicembre 1967, n. 2702;  Cass.  pen.,  sez.  VI,  16
aprile 1971, n. 482; Cass. pen., sez. I, 5 luglio 1982, n. 1515; piu'
di recente Cass. pen., sez. VI, 5 febbraio 1998,  n.  2894).  Invero,
riscontrandosi in entrambe le predette  figure  criminose  l'elemento
comune  della  dazione  o  promessa  di  denaro  o  altra   utilita',
l'accertamento della sussistenza dell'esclusiva attivita'  delittuosa
del  pubblico  ufficiale  e  altro   soggetto   (caratterizzante   la
corruzione) incide su una modalita' del fatto  formante  oggetto  del
capo di imputazione che non ne modifica sostanzialmente la  struttura
ne' ne diversifica il contenuto essenziale, in quanto,  nel  caso  di
concussione,  l'ipotesi  dell'esclusiva  attivita'   delittuosa   del
pubblico ufficiale comprende e assorbe, come  un  quid  pluris,  ogni
altra ipotesi nella quale il vantaggio economico venga realizzato dal
pubblico ufficiale attraverso la volonta' non  coartata,  ma  libera,
del privato (Cass. pen., sez.u., 30 aprile 1997, n. 6402). 
    Al contrario, secondo  una  parte  della  giurisprudenza,  si  ha
violazione del principio di correlazione fra l'accusa contestata e la
sentenza nell'ipotesi inversa, e cioe' quando, contestato il  delitto
di corruzione, sia stata poi pronunciata condanna per il  delitto  di
concussione (Cass. pen., sez. VI, 20 giugno 1979, n.  2939;  piu'  di
recente Cass. pen., sez. VI, 26 settembre  1996,  n.  9213,  dove  si
precisa che i due reati differiscono in primo  luogo  per  l'elemento
della condotta, in quanto nel caso della  concussione  l'agente  deve
avere creato o insinuato nel soggetto passivo uno stato di paura o di
timore  atto  ad  eliderne  o  viziarne  la  volonta',  mentre  nella
corruzione i due  soggetti  agiscono  su  un  piano  paritario  nella
conclusione del patto criminoso, per cui l'evento della datio o della
promessa, pur esistendo in entrambi i  reati,  a  fonti  diverse;  in
secondo luogo, diversa e' la  struttura  soggettiva  dei  due  reati,
essendo la corruzione,  a  differenza  della  concussione,  un  reato
necessariamente  plurisoggettivo,  sicche'  diversa   e'   anche   la
posizione del solvens). 
    Secondo altra parte della giurisprudenza,  invece,  e'  possibile
che il giudice riqualifichi giuridicamente il  reato  originariamente
contestato di corruzione in concussione (si veda Cass. pen., sez. VI,
5 novembre 2003, n. 46805, dove la cassazione ha  ritenuto  legittimo
il comportamento del  giudice  di  appello  che  aveva  riqualificato
giuridicamente il fatto, ritenuto  dal  giudice  di  primo  grado  di
corruzione, come concussione). 
    In  conclusione,  l'operazione  compiuta  dal  g.u.p.  presso  il
Tribunale di Lecce, allo stato della  pacifica  giurisprudenza  della
S.C., rientra nell'ambito della riqualificazione giuridica del fatto,
in quanto espressione  del  principio  iura  novit  curia  codificato
nell'art. 521, primo comma, c.p.p. 
3.2.) I poteri del giudice in tema di modifiche dell'imputazione. 
    Sempre de iure condito  nel  nostro  ordinamento  e'  chiaramente
distinta, in relazione a tutte le fasi del  procedimento  penale,  la
disciplina delle ipotesi di modifica del fatto oggetto di imputazione
da quelle che concernono il nomen iuris attribuito al medesimo fatto. 
    Invero, il nostro processo penale distingue nettamente il  regime
del  mutamento  in  fatto  dell'imputazione  da  quello  in  diritto,
sicche', mentre gli artt. 521, primo comma, e 597,  secondo  e  terzo
comma, c.p.p. consentono di riqualificare giuridicamente il fatto  al
giudice, sia di primo che di secondo grado (ma anche alla Cassazione,
per la  quale,  in  assenza  di  espressa  previsione  normativa,  la
sussistenza del potere qualificatorio trova fondamento  nella  stessa
funzione nomofilattica svolta dal giudice di legittimita': cfr. Cass.
pen., sez. VI, 18 settembre 1997, Donna)  -  entro  il  limite  della
propria competenza ed attribuzione monocratica o collegiale,  per  il
giudice di primo grado, ed  entro  il  limite  della  competenza  del
giudice di primo grado e del divieto di reformatio in  peius  per  il
giudice di appello (e la Cassazione: cfr. la gia' citata sez. VI,  18
settembre 1997, Donna e Cass.  pen.,  e sez.  IV,  16  gennaio  2008,
Husher e altri) -, il combinato disposto degli artt. 516 e ss.,  521,
secondo comma, 598, 604, 620 lett. e) ed f), 621 c.p.p., rende chiaro
che di fronte all'acclarata diversita'  in  fatto  dell'addebito  gli
atti  devono  essere  rimessi  al  pubblico   ministero,   a   tutela
soprattutto del diritto di difesa dell'imputato, al fine  di  evitare
che questi possa essere condannato per un fatto in relazione al quale
non ha avuto modo di difendersi (Cass. pen., sez. I, 5  giugno  1992,
Raciti; Cass. pen., sez. V, 5 febbraio  1993,  Langella;  Cass.  pen.
sez. I, 5 maggio 1994,  Cotuzzi).  Al  riguardo,  se  il  giudice  di
appello accerta che il fatto e' diverso  da  quello  contestato,  non
potendo  decidere  in   ordine   allo   stesso   perche'   altrimenti
sottrarrebbe all'imputato  un  grado  di  giudizio  e  ne  violerebbe
conseguentemente in maniera irreparabile il diritto  di  difesa,  non
puo' che  annullare  con  sentenza  quella  di  primo  grado  e,  nel
contempo, disporre, con ordinanza,  la  trasmissione  degli  atti  al
pubblico ministero, ai sensi degli artt. 521, secondo  comma,  598  e
604, comma 3, c.p.p., perche' si proceda ad un nuovo  giudizio  (cfr.
Cass. pen., sez.u. 6 dicembre 1991, Paglini; Cass. pen., sez. VI,  14
aprile 2003, Bucci; Cass. pen., sez. I, 31 gennaio  2006,  Cennamo  e
altri; Cass: pen., sez. I, 17 febbraio 2006, Vecchione). 
    Giova evidenziare che, secondo la  giurisprudenza  delle  sezioni
unite (cfr. sez. u., giugno 1996, Di Francesco), il principio di  cui
all'art. 521, primo comma, c.p.p. trova applicazione  anche  in  sede
cautelare, consentendo al  g.i.p.,  come  anche  al  tribunale  della
liberta', di modificare  ex  officio  il  nomen  iuris  dell'addebito
fattuale  elevato  anche  in  ambito  incidentale.  Peraltro,  sempre
secondo il supremo Consesso (cfr. sez.u. 5 luglio 2000, Monforte)  la
diversa qualificazione giuridica data al fatto dal giudice cautelare,
come anche  dal  giudice  del  procedimento  principale,  produrrebbe
effetti,   anche   in    peius,    nei    confronti    dell'imputato,
indipendentemente  dalla  formulazione  di  una  nuova  contestazione
cautelare  da  parte  del  p.m.  e  dall'emissione  di   un'ulteriore
ordinanza cautelare che la  recepisce.  Dunque,  la  riqualificazione
giuridica del fatto in ambito cautelare puo' avvenire  senza  che  si
attivi quel meccanismo di tutela delle esigenze difensive (costituito
dalla presentazione della richiesta cautelare  ex  art.  291  c.p.p.,
dall'emissione  dell'ordinanza  ai  sensi   dell'art.   292   c.p.p.,
dall'effettuazione  dell'interrogatorio  di   garanzia   secondo   il
disposto dell'art. 294 c.p.p., e dall'eventuale controllo in sede  di
impugnazione ex artt. 309 e 310 c.p.p.) ben  tracciato  dalla  citata
sentenza  Monforte  con   riferimento   alle   modifiche   in   fatto
dell'imputazione. 
    In passato una parte della dottrina aveva  posto  in  rilievo  il
disagio  che  poteva  avvertire   l'imputato   che,   attraverso   la
riqualificazione giuridica del fatto operata  anche  ex  officio  dal
giudice, si vedeva attribuire un giudizio di disvalore diverso (ed al
limite anche piu' grave) da quello originariamente contestatogli. 
    D'altra parte, la Commissione redigente il  codice  di  rito  del
1988, nel riproporre nel comma 1 dell'art. 521  c.p.p.  il  principio
della  non  obbligatorieta'  della  necessaria  correlazione  tra  la
decisione  sul  tema  giuridico  dell'accusa  e  le  conclusioni  del
pubblico ministero,  si  era  posta  il  problema  che  cio'  potesse
sacrificare le esigenze della difesa, in particolare nel caso in  cui
la diversa qualificazione giuridica implicasse una pena  piu'  grave.
Invero,  aveva  anche  ipotizzato  delle  alternative,  e  cioe'  una
disciplina  costruita  in  modo  analogo  a  quella  concernente   la
contestazione del fatto diverso (iniziativa del pubblico ministero  -
termine a difesa - eventuale  trasmissione  degli  atti),  ovvero  la
previsione di un dovere di rendere nota preventivamente la  decisione
di modificare la qualificazione giuridica, consentendo la discussione
sul punto. Entrambe le soluzioni, pero', venivano  scartate,  perche'
avrebbero  comportato  un  dispendio   di   attivita'   probabilmente
eccessivo, e  il  rischio,  in  pratica,  di  indurre  il  giudice  a
conformarsi in ogni caso al nomen iuris contestato (cfr. relazione al
progetto preliminare del codice di  procedura  penale  del  1988,  in
Gazzetta Ufficiale, 24 ottobre 1998, n. 250, suppl.  ord.  n.  2,  p.
119). 
    Questa scelta legislativa, come e' noto, e'  stata  criticata  da
una parte della dottrina, che ha  evidenziato  come  non  e'  affatto
irrilevante, dal punto di vista del diritto di  difesa,  la  modifica
del titolo di reato, sicche' sarebbe stato opportuno assoggettarla  a
garanzie analoghe a quelle previste per la modifica del fatto, almeno
nel caso in cui dalla diversa qualificazione giuridica fosse derivata
una pena piu' grave. 
3.2.1.) Lo stato della giurisprudenza in ordine ai poteri del giudice
dell'udienza preliminare in tema di modifiche dell'imputazione. 
    La giurisprudenza di legittimita' ha raggiunto oramai un pacifico
punto  di  equilibrio  anche  in  ordine  ai   poteri   del   giudice
dell'udienza preliminare in tema di modifiche dell'imputazione. 
    Al riguardo, significative appaiono due  sentenze  delle  sezioni
unite. 
    La prima sentenza (la gia' citata Cass. pen., sez.u.,  19  giugno
1996, Di Francesco), dopo avere fissato il principio che, in tema  di
correlazione  fra  imputazione  contestata  e  sentenza,  per  aversi
mutamento del fatto occorre una  trasformazione  radicale,  nei  suoi
elementi  essenziali,  della  fattispecie  concreta  nella  quale  si
riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, si' da pervenire ad
un'incertezza sull'oggetto  dell'imputazione  da  cui  scaturisca  un
reale  pregiudizio  dei  diritti  della  difesa,  ha  reso   un'altra
rilevante affermazione, e cioe' che, in applicazione del principio di
legalita',  al  giudice,  e  quindi  anche  al  giudice  dell'udienza
preliminare, e'  sempre  consentito  attribuire  al  fatto  descritto
nell'imputazione la corretta qualificazione giuridica, senza che cio'
incida sull'autonomo  potere  di  iniziativa  del  p.m.,  che  rileva
esclusivamente sotto  il  diverso  profilo  dell'immutabilita'  della
formulazione del fatto inteso come  accadimento  materiale.  Sicche',
mentre l'art. 423 c.p. detta la disciplina per procedere  in  udienza
preliminare alle modifiche in fatto dell'imputazione,  modifiche  per
le quali non si puo' prescindere dall'iniziativa  del  p.m.,  ben  e'
possibile che, in applicazione analogica dell'art. 521, primo  comma,
c.p.p.,   il   g.u.p.   riqualifichi    giuridicamente    il    fatto
originariamente contestato dal  p.m.  nella  richiesta  di  rinvio  a
giudizio. 
    La seconda e  piu'  recente  sentenza  (Cass.  pen.,  sez.u.,  20
dicembre 2007,  Battistella)  ha,  invece,  individuato  un  percorso
virtuoso che il g.u.p. deve seguire nel caso in  cui  rilevi  che  il
fatto descritto nell'imputazione risulti  diverso  da  quello  emerso
dagli atti processuali. 
    Invero,  il  giudice,  rilevata   la   diversita',   deve   prima
sollecitare  nelle  forme  che  ritiene  piu'  opportune  il  p.m.  a
procedere ad apportare le necessarie modifiche ai sensi dell'art. 423
c.p.p., e, soltanto in caso di inerzia del  p.m.,  puo'  disporre  la
restituzione degli  atti  stesso  organo  della  pubblica  accusa  in
applicazione analogica del disposto  dell'art.  521,  secondo  comma,
c.p.p. In caso contrario, l'ordinanza con la quale il g.u.p. disponga
immediatamente la  restituzione  degli  atti  al  p.m.  per  ritenuta
difformita' del fatto viene ad assumere la natura dell'atto abnorme. 
    Dunque, in buona sostanza, il g.u.p. puo', anche di  ufficio,  in
applicazione analogica del disposto di cui all'art. 521, primo comma,
c.p.p., riqualificare giuridicamente il fatto contestato all'imputato
disponendone anche il rinvio a giudizio in ordine a  tale  reato;  in
presenza, invece, di un fatto diverso il g.u.p. deve  sollecitare  il
p.m. ad effettuare le modifiche  del  caso  ai  sensi  dell'art.  423
c.p.p., e, solo in caso di inerzia di quest'ultimo, puo' disporre  la
restituzione degli atti allo stesso p.m.  in  applicazione  analogica
dell'art. 521, secondo comma, c.p.p. 
    Nel caso in  cui  il  g.u.p.  disponesse  il  rinvio  a  giudizio
dell'imputato in ordine ad un fatto diverso (e, quindi, non in ordine
ad un fatto giuridicamente qualificato in  maniera  diversa  rispetto
all'originaria contestazione) la cassazione e' giunta  ad  attribuire
al decreto che dispone  il  giudizio  la  natura  giuridica  di  atto
abnorme,  in  quanto  tale  rimuovibile  anche  con  il  ricorso  per
cassazione (cfr. Cass. pen., sez. I, 30 marzo 1994,  n.  1471;  Cass.
pen., sez. V, 4 dicembre 1996, n. 5316; Cass. pen., sez. IV, 7 aprile
2005, n. 22632, tutte fattispecie relative a fatti nuovi  aggiunti  a
carico dell'imputato dal g.u.p. di ufficio nel decreto che dispone il
giudizio). Palese, in effetti, sarebbero in questo  caso  l'esercizio
da parte del g.u.p. di un  potere  costituzionalmente  attribuito  al
p.m. (art. 112 Cost.), e cioe' il  potere  di  esercizio  dell'azione
penale in relazione ad un determinato fatto-reato; ma palese  sarebbe
anche la violazione del diritto di difesa, perche' in  tale  modo  si
porrebbe a carico del prevenuto un fatto-reato mai  contestatogli  in
precedenza. 
3.3.) La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo  in
tema di modifiche dell'imputazione e  di  riqualificazione  giuridica
del fatto. 
    Chiarito lo stato dell'arte  nel  diritto  interno,  mette  conto
evidenziare  che  l'art.  6  della   Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
stabilisce al § 3, lett. a)  che  l'accusato  ha  diritto  ad  essere
informato nel piu' breve tempo possibile  del  contenuto  dell'accusa
elevata contro di lui. 
    Come ha chiarito la Corte europea dei diritti dell'uomo, l'accusa
gioca un ruolo decisivo del procedimento penale, in quanto, la citata
disposizione riconosce all'imputato il diritto  di  essere  informato
non solo della causa dell'accusa, cioe' dei fatti materiali  posti  a
suo carico  e  su  cui  si  basa  l'azione  penale,  ma  anche  della
qualificazione  giuridica  data  a  questi  fatti  e  cio'  in   modo
dettagliato. La portata di questa disposizione deve  essere  valutata
alla luce  del  piu'  generale  diritto  a  un  processo  equo,  come
garantito dal § 1 dell'art. 6 della Convenzione. In  materia  penale,
la precisa e completa informazione delle accuse mosse  nei  confronti
di un imputato e, quindi, la qualificazione giuridica del  fatto  che
la giurisdizione potra' ritenere a suo carico,  sono  una  condizione
essenziale per l'equita' del processo (Corte  europea  diritti  uomo,
grande camera, 25 marzo  1999,  Pelissier  e  Sassi  contro  Francia,
nonche' sez. II, 1° marzo 2001, Dallos contro  Ungheria  e,  piu'  di
recente, sez. I, 20 aprile 2006, I.H. contro Austria). 
    Certo, la disposizione di cui all'art. 6, §  3,  lett.  a)  della
Convenzione non impone alcuna forma particolare riguardante  il  come
l'imputato  deve  essere  informato  della  natura  e   della   causa
dell'accusa contro  di  lui.  Eppero',  la  Corte  di  Strasburgo  ha
evidenziato chiaramente il legame che sussiste tra le lett. a)  e  b)
del citato § 3 dell'art. 6 della Convenzione, sicche' il  diritto  di
essere informati della natura e della causa  di  accusa  deve  essere
considerato alla luce del diritto dell'accusato di preparare  la  sua
difesa (cfr.  la  gia'  citata  sentenza  Pelissier  e  Sassi  contro
Francia). 
    Pertanto, prosegue la Corte, se  i  giudici  hanno,  quando  tale
diritto e' riconosciuto dalla legge, la possibilita' di riqualificare
i fatti di cui siano regolarmente investiti,  essi  devono  garantire
che gli accusati abbiano la possibilita' di esercitare i loro diritti
di difesa sul punto in modo concreto ed efficace.  Cio'  implica  che
essi  siano  informati  in  tempo  utile,  non   solo   della   causa
dell'accusa, cioe' dei fatti materiali posti  a  loro  carico  e  sui
quali si fonda l'accusa, ma anche della qualificazione giuridica data
a questi fatti in maniera dettagliata (Corte  europea  diritti  uomo,
sez. II, 11 dicembre 2007, Drassich contro Italia). 
    Quanto alle modalita' attraverso le quali tale informazione  deve
essere resa,  pur  nella  possibile  varieta'  gia'  evidenziata,  il
giudice europeo non sembra, pero', attribuire  rilievo  ad  una  mera
sollecitazione del giudice alle parti, essendo necessario  che  possa
poi   esserci   un   contraddittorio   sulle   «conseguenze»    della
riqualificazione (Corte  europea  diritti  uomo,  21  febbraio  2002,
Sipavicius contro Lituania). In buona sostanza, proprio in virtu' del
collegamento della formulazione dell'accusa al diritto di difesa, non
e'  sufficiente  la  mera   prospettazione   della   riqualificazione
giuridica, ma e' necessario che sul punto sia sviluppato un effettivo
e concreto contraddittorio. 
3.4.) Ricadute interne dell'interpretazione dell'art. 6, §  3,  lett.
a) CEDU  elabor  dalla  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  con
particolare riferimento all'udienza preliminare. 
    I principi affermati dalla Corte europea  nella  materia  de  qua
devono  essere  necessariamente  «calati»  nel   nostro   ordinamento
processuale penale. 
    Invero, alla  luce  dell'equiparazione  della  modifica  in  iure
dell'imputazione a quella in fatto resa dal giudice di Strasburgo, il
nostro sistema processuale,  caratterizzato,  invece,  da  una  netta
differenza di disciplina giuridica tra le due ipotesi, mostra qualche
limite. Al riguardo, mette conto ribadire  che  nel  nostro  processo
penale e' sempre legittimo da parte del giudice procedere ex  officio
alla riqualificazione giuridica del  fatto  oggetto  di  imputazione,
senza dovere necessariamente attivare sul punto alcun  preventivo  ed
effettivo  contraddittorio;  al  contrario,  in  caso   di   modifica
dell'addebito fattuale, deve essere pienamente garantito  il  diritto
di difesa, fino alla possibilita' di disporre la  restituzione  degli
atti al p.m., affinche'  eserciti  correttamente  i  suoi  poteri  in
ordine all'azione penale. 
    Cio' avviene, come detto, anche in sede di  udienza  preliminare,
dove il g.u.p. puo' disporre il rinvio a  giudizio  dell'imputato  in
ordine ad un  fatto  diversamente  qualificato  dal  punto  di  vista
giuridico senza essere tenuto a preannunciare tale  sua  decisione  e
senza essere tenuto a consentire sul punto alcun effettivo e concreto
contraddittorio, mentre, al contrario, se rileva  la  diversita'  del
fatto, deve dapprima invitare il p.m. a modificarlo  e,  in  caso  di
inerzia, deve disporre  la  restituzione  degli  atti  all'organo  di
accusa. 
    Deve precisarsi, per  vero,  che  come  evidenziato  dalla  Corte
costituzionale (sentenza n. 224/2001), «a  seguito  delle  importanti
innovazioni introdotte, in particolare, dalla legge 16 dicembre 1999,
n. 479, l'udienza preliminare ha subito una  profonda  trasformazione
sul piano sia della quantita' e qualita' di elementi  valutativi  che
vi  possono  trovare  ingresso,  sia  dei   poteri   correlativamente
attribuiti al giudice, e, infine, per  cio'  che  attiene  alla  piu'
estesa gamma delle decisioni che lo stesso  giudice  e'  chiamato  ad
adottare.  L'esigenza  di  completezza  delle  indagini  preliminari,
riaffermata anche di recente dal giudice delle leggi (v. sentenza  n.
115 del 2001) ed ora significativamente valutabile anche in  sede  di
udienza preliminare, al  cui  giudice  e'  attribuito  il  potere  di
disporre l'integrazione delle  indagini  stesse  (art.  421-bis  cod.
proc. pen.); l'analogo potere di integrazione concernente i mezzi  di
prova, a fronte del quale il giudice puo' assumere anche d'ufficio le
prove delle quali  appaia  evidente  la  decisivita'  ai  fini  della
sentenza di non luogo a procedere (art.  422  cod.  proc.  pen.):  le
nuove cadenze delle indagini difensive -  introdotte  dalla  legge  7
dicembre 2000, n. 397  -  ed  il  conseguente  ampliamento  del  tema
decisorio,  non  piu'  limitato  al  materiale  raccolto  dall'organo
dell'accusa:  sono  tutti  elementi   di   novita'   che   postulano,
all'interno della udienza preliminare, da un lato, un contraddittorio
piu' esteso rispetto al passato, e, dall'altro, un  incremento  degli
elementi valutativi, cui necessariamente corrisponde  -  quanto  alla
determinazione conclusiva - un apprezzamento del merito  ormai  privo
di quei caratteri di "sommarieta'"  che  prima  della  riforma  erano
tipici di una delibazione tendenzialmente  circoscritta  allo  "stato
degli atti". Accanto a cio', vengono poi in  considerazione  i  nuovi
"contenuti" che, sempre alla stregua degli apporti novellistici, puo'
assumere la decisione con la quale il giudice e' chiamato a  definire
l'udienza preliminare. In base alla nuova formulazione dell'art.  425
cod. proc. pen., infatti, la regula  iuris  posta  a  fondamento  del
rinvio a giudizio, si radica - in positivo - sulla  sufficienza,  non
contraddittorieta' e, comunque, idoneita' degli elementi acquisiti  a
sostenere l'accusa in  giudizio,  imponendosi,  in  caso  di  diverso
apprezzamento, l'adozione della sentenza di non  luogo  a  procedere.
Quest'ultima, a sua volta, puo' scaturire anche dal riconoscimento di
circostanze  attenuanti  e  dalla  correlativa   applicazione   della
disciplina di cui all'art. 69 cod. pen., con i riflessi tipici  delle
statuizioni che incidono sul merito della causa;  ed  ugualmente  sul
merito finisce per proiettarsi la sentenza di non luogo  a  procedere
per difetto di imputabilita' - ora consentita, quando non ne consegua
l'applicazione di una misura di sicurezza - trattandosi  di  sentenza
che, come questa Corte ha gia' avuto modo di affermare,  postula  "il
necessario accertamento di responsabilita' in ordine al fatto  reato"
(cfr. sentenza n. 41 del 1993)» (nello stesso senso,  si  veda  anche
Corte cost. sentenza n. 335/2002; ordinanze n. 269/2003 e 20/2004). 
    Dunque, l'udienza preliminare e' il luogo dove si realizza oramai
un  pieno  contraddittorio,  caratterizzato,  dal  punto   di   vista
difensivo, in relazione ai possibili epiloghi della stessa (rinvio  a
giudizio - sentenza di non luogo a procedere) dalla  possibilita'  di
semplicemente  argomentare,  in   sede   di   discussione,   rispetto
all'imputazione formulata con la richiesta di rinvio a  giudizio;  di
produrre elementi di prova acquisiti ai sensi degli artt.  391-bis  e
ss. c.p.p. da sottoporre alla valutazione del giudice; di sollecitare
lo svolgimento di ulteriori indagini o l'assunzione di prove ai sensi
degli artt. 421-bis e 422 c.p.p. L'udienza preliminare  e'  il  luogo
privilegiato per l'accesso ai riti alternativi del  patteggiamento  e
del giudizio abbreviato, che costituiscono pur sempre espressioni del
diritto di difesa (cfr. Corte cost. 11 marzo 1993, n 76; Corte  cost.
5 maggio 1993, n. 214; Corte cost. 30  giugno  1994,  n.  265;  Corte
cost. 11 dicembre 1995, n. 497; Corte cost. 15  marzo  1996,  n.  70;
Corte cost. 25 maggio 2004, n. 148). 
    Sotto questo  profilo,  pertanto,  non  puo'  dirsi  indifferente
rispetto  alle   esigenze   difensiva,   la   preventiva   conoscenza
dell'accusa, in tutte le sue componenti, in fatto ed in  diritto,  da
parte dell'imputato, il quale e' proprio con riferimento ad essa  che
e' in grado di calibrare le proprie scelte e strategie difensive. 
    Ne' puo' dirsi  che  la  possibilita'  che  il  prevenuto  ha  di
difendersi  in  sede  dibattimentale  rispetto   ad   un'imputazione,
diversamente qualificata giuridicamente dal g.u.p., ex  officio,  nel
decreto che dispone il giudizio,  e'  sufficiente  a  scongiurare  il
pregiudizio subito rispetto al diritto di difesa.  Invero,  non  puo'
escludersi a priori che, a fronte del nuovo nomen iuris attribuito al
fatto, l'imputato non possa prospettare una  strategia  difensiva  in
sede di udienza preliminare che lo porti ad  evitare  il  pregiudizio
derivante  dal  dovere  affrontare  il  giudizio  dibattimentale.  Al
riguardo, si e' gia' evidenziata la varieta' di scelte difensive  che
si prospettano, nell'attuale sistema, al prevenuto anche in  sede  di
udienza preliminare con riferimento  ai  molteplici  epiloghi,  anche
interlocutori, della stessa. 
3.5.) Efficacia della norma convenzionale,  come  interpretata  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo, nel diritto interno. 
    Cio' posto, appare opportuno rilevare che  di  recente  la  Corte
costituzionale, con due note  sentenze  (Corte  cost.  22-24  ottobre
2007,  nn.  348  e  349),  ha  ricostruito  in  termini  estremamente
innovativi  i  rapporti  tra   le   norme   della   CEDU   e   quelle
dell'ordinamento giuridico interno. 
    Il giudice delle leggi ha, invero, escluso che, allo stato, possa
essere attribuita alla CEDU rilevanza ai sensi degli artt.  10  e  11
Cost. Ha, altresi', escluso la «comunitarizzazione»  della  CEDU,  e,
quindi, la possibilita' di disapplicare la norma interna in contrasto
con la stessa. Cio' posto, la  Consulta  non  ha  potuto  evitare  di
evidenziare come in  alcune  pronunce  e'  stato  anche  riconosciuto
valore interpretativo  alla  CEDU,  in  relazione  sia  ai  parametri
costituzionali che alle norme censurate, ad esempio, richiamando, per
avvalorare una determinata esegesi, le indicazioni normative anche di
natura sopranazionale (sentenza n. 231 del 2004); oppure per svolgere
argomentazioni  espressive  di   un'interpretazione   conforme   alla
Convenzione (sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero  per
avere conforto rispetto all'esegesi accolta (sentenze n. 299 del 2005
e n. 29 del 2003), avvalorandola anche in  considerazione  della  sua
conformita'  con  i  valori  espressi  dalla   Convenzione,   secondo
l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo (sentenze  n.  299
del 2005; n. 299 del 1998). 
    Inoltre, la Corte ha rilevato che la  peculiare  rilevanza  degli
obblighi internazionali assunti con l'adesione  alla  convenzione  e'
stata  tenuta  ben  presente  dal  legislatore  ordinario,   che   ha
provveduto  a  migliorare  i  meccanismi  finalizzati  ad  assicurare
l'adempimento  delle  pronunce  della   Corte   europea,   attraverso
opportuni interventi normativi  (si  veda  l'art.  1  della  legge  9
gennaio 2006, n. 12, «disposizioni in materia di pronunce della Corte
c.d.u.» e l'art. 1, comma 1217,  legge  27  dicembre  2006,  n.  296,
«legge   finanziaria   anno   2007»)   coinvolgenti   anche   profili
organizzativi  (si  veda  d.p.c.  1°  febbraio  2007  -  «misure  per
l'esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n.  12»,  istitutivo  di  un
dipartimento ad hoc della Presidenza del Consiglio dei  ministri  per
gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo). 
    Cio' posto, il Giudice delle leggi ha messo  in  risalto  che  il
nuovo  testo  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.  come  modificato
dall'art. 2 della l.c. 18 ottobre 2001, n. 3, « modifiche al titolo V
della Cost.», ha colmato una lacuna giuridica del  sistema,  che  non
consentiva alcun controllo  della  conformita'  del  diritto  interno
rispetto alla norma convenzionale  internazionale,  non  inquadrabile
negli schemi degli artt. 10 e 11 Cost., e, quindi, anche delle  norme
della CEDU, se non nei limiti in cui la norma di diritto  interno  si
poneva in diretto contrasto con le norme costituzionali. 
    Invero, l'art. 117, primo comma, Cost. prevede esplicitamente che
la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel
rispetto  della   Costituzione,   nonche'   dei   vincoli   derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. 
    Cio' non significa, beninteso, che con l'art.  117,  primo  comma
Cost. si possa attribuire rango costituzionale alle  norme  contenute
in  accordi  internazionali,  oggetto  di  una  legge  ordinaria   di
adattamento, come e' il caso delle norme CEDU. 
    Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l'obbligo
del  legislatore  ordinario  di  rispettare  dette  norme,   con   la
conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la  norma  della
CEDU e dunque con gli «obblighi internazionali» di cui all'art.  117,
primo comma, viola per cio' stesso tale parametro costituzionale. Con
l'art. 117, primo comma, si e' realizzato, in definitiva,  un  rinvio
mobile alla norma convenzionale di  volta  in  volta  conferente,  la
quale  da'  vita  e  contenuto  a  quegli   obblighi   internazionali
genericamente evocati e, con essi,  al  parametro,  tanto  da  essere
comunemente  qualificata  «norma  interposta».  Ne  consegue  che  al
giudice comune spetta interpreti norma interna in modo conforme  alla
disposizione internazionale,  entro  i  limiti  nei  quali  cio'  sia
permesso dai testi delle  norme.  Qualora  cio'  non  sia  possibile,
ovvero  dubbi  della  compatibilita'  della  norma  interna  con   la
disposizione della convenzionale  «interposta»  egli  deve  investire
questa Corte della relativa questione di legittimita'  costituzionale
rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. 
    In relazione alla CEDU, inoltre, la Consulta ne ha evidenziato la
sua   peculiarita'   rispetto   alla   generalita'   degli    accordi
internazionali, poiche', per espressa  previsione,  l'interpretazione
centralizzata delle norme della  stessa  e'  stata  attribuita  dagli
Stati membri alla Corte di Strasburgo. In considerazione di cio',  la
rilevanza della CEDU, cosi'  come  interpretata  dal  «suo»  giudice,
rispetto al diritto interno e' certamente diversa rispetto  a  quella
della   generalita'   degli   accordi    internazionali,    la    cui
interpretazione rimane in capo alle Parti contraenti, salvo, in  caso
di controversia, la composizione del contrasto mediante  negoziato  o
arbitrato  o  comunque  un  meccanismo  di  conciliazione   di   tipo
negoziale. 
    In definitiva, il Giudice delle leggi  ha  messo  in  risalto  il
diverso ruolo delle due Corti: l'interpretazione della Convenzione di
Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di  Strasburgo,  mentre  alla
Corte  costituzionale,  qualora  sia  sollevata  una   questione   di
legittimita' costituzionale di una norma nazionale rispetto  all'art.
117,  primo  comma,  Cost.  per  contrasto  -   insanabile   in   via
interpretativa - con una o  piu'  norme  della  CEDU,  spetta  invece
accertare il contrasto e,  in  caso  affermativo,  verificare  se  le
stesse  norme  CEDU,  nell'interpretazione  data   dalla   Corte   di
Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti  fondamentali  almeno
equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non  si
tratta, invero,  di  sindacare  l'interpretazione  della  norma  CEDU
operata dalla Corte di Strasburgo, ma di verificare la compatibilita'
della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui  tale  compito
e'  stato  espressamente  attribuito  dagli  Stati  membri,  con   le
pertinenti norme della Costituzione. In tale modo, risulta realizzato
un corretto bilanciamento tra l'esigenza  di  garantire  il  rispetto
degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e  quella  di
evitare che cio' possa comportare per  altro  verso  un  vulnus  alla
Costituzione stessa. 
    Mette conto, infine, rilevare, che, ancora recentemente, la Corte
costituzionale (Corte cost. 16-30 aprile 2008, n.  129),  nell'ambito
della complessa vicenda relativa al condannato Dorigo, ha  dichiarato
la non fondatezza  della  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 630,  primo  comma,  lett.  a)  c.p.p.  che  le  era  stata
prospettata dalla Corte di appello di Bologna in funzione di  giudice
dell'esecuzione. 
    Invero, la Corte remittente aveva cercato di  superare  il  vuoto
normativo circa gli effetti viene pronunce del giudice di Strasburgo,
dichiarative della non equita' di determinati processi per violazione
delle norme  CEDU,  nei  relativi  giudizi  conclusisi  con  sentenze
passate   in   giudicato   sollevando   questione   di   legittimita'
costituzionale della citata norma nella parte in cui esclude dai casi
di revisione l'impossibilita' che  i  fatti  stabiliti  a  fondamento
della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza
della Corte europea che abbia  accertato  l'assenza  di  equita'  del
processo. 
    Il  Giudice  delle  leggi,   pur   evidenziando   l'improrogabile
necessita' che  l'ordinamento  predisponga  adeguate  misure  atte  a
riparare, sul  piano  processuale,  le  conseguenze  scaturite  dalla
violazione dei principi della CEDU in tema  di  «processo  equo»,  ha
ritenuto  infondate  le  censure  di  incostituzionalita'  mosse  dal
giudice a quo sotto il profilo degli artt. 3, 10 e 27 Cost.,  ponendo
in risalto quanto sia problematica l'individuazione di  un  punto  di
equilibrio tra l'esigenza  di  assicurare  meccanismi  riparatori,  a
fronte  dei  sempre  possibili  errori   del   giudice,   e   quella,
contrapposta alla prima, di preservare la certezza  e  la  stabilita'
della res iudicata, e, quindi, quanto sia correlativamente  ampia  la
sfera  entro  la  quale  trova   spazio   la   discrezionalita'   del
Legislatore.  Sicche',  pur  muovendo   un   pressante   appello   al
Legislatore ad adottare i provvedimenti ritenuti piu' idonei al  fine
di consentire all'ordinamento di adeguarsi alle sentenze della  Corte
europea di Strasburgo, la  Consulta  non  ha  potuto  che  dichiarare
l'infondatezza della questione sollevata dalla Corte bolognese. 
    Dunque, allo stato attuale, non esiste un rimedio  giuridico  che
consenta di rimuove un giudicato penale frutto di  un  processo  «non
equo». 
    Sicche', ritiene il tribunale che,  in  tale  contesto  di  vuoto
normativo, e' doveroso che il giudice adegui, in corso  di  giudizio,
gli istituti processuali ai principi in materia di «processo equo» di
cui alla CEDU, se possibile in via interpretativa, ma,  se  cio'  non
fosse possibile per un insanabile contrasto tra i principi della CEDU
ed il diritto interno, e' doveroso da parte del giudice sottoporre al
vaglio della Corte costituzionale l'eventuale contrasto  delle  norme
interne con le «norme interposte» pattizie della Convenzione sotto il
profilo della violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.,  in  modo
da evitare il piu' possibile future  censure  da  parte  del  giudice
europeo. 
3.6.) Rilevanza della questione in relazione agli artt. 3,  24,  111,
terzo comma, e 117, primo comma, Cost. 
    Delineati anche i rapporti tra CEDU e diritto  interno,  tornando
al tema oggetto di scrutinio, ritiene il  tribunale  che  il  divario
esistente tra il diritto processuale penale interno, con  riferimento
ai poteri di riqualificazione giuridica  del  fatto  riconosciuti  al
g.u.p. ex officio senza necessita' di previo,  effettivo  e  concreto
contraddittorio, e 1'art. 3, lett. a) e b) della Convenzione non  sia
superabile in via interpretativa,  come  la  vicenda  in  esame,  del
resto, dimostra. 
    Invero, a tale fine non potrebbe essere sufficiente da parte  del
g.u.p. sollecitare il p.m. di udienza a riqualificare  giuridicamente
il fatto, come e' avvenuto nel caso di specie, poiche',  nell'ipotesi
in cui il p.m. ometta di  farlo  ed,  anzi,  insisti  nell'originaria
imputazione, l'imputato potrebbe  essere  indotto  a  non  esercitare
attivita'  difensiva  nella  sola  ipotetica  eventualita'   di   una
riqualificazione  giuridica  che  il  giudice   potrebbe   effettuare
soltanto  in  sede  decisoria  e  che,  peraltro,  potrebbe  essergli
pregiudizievole solo in caso di rinvio a giudizio. 
    Insomma,  mancherebbe  ogni  seria  e  concreta  prospettiva   di
contraddittorio, come e' avvenuto nella fattispecie  in  esame,  dove
gli imputati, a fronte  della  mera  sollecitazione  riqualificatoria
pervenuta al p.m. da parte  del  g.u.p.,  ed  a  fronte  del  diniego
dell'organo di accusa di modificare  il  nomen  iuris  attribuito  al
fatto contestato, non  hanno  prospettato  altra  difesa  se  non  in
relazione all'originaria  imputazione,  non  avendo  ragionevolmente,
alcun diverso concreto interesse difensivo. 
    Si potrebbe ipotizzare una soluzione ermeneutica che  attribuisse
al g.u.p., prima dell'esercizio del definitivo potere  decisorio,  di
riqualificare giuridicamente il fatto con un'apposita ordinanza. 
    Ma  questa  soluzione,  piuttosto  eccentrica   all'interno   del
sistema, presterebbe il fianco  a  censure  sotto  il  profilo  della
compatibilita' del giudice, espressosi sulla corretta  qualificazione
giuridica da dare  al  fatto,  a  tenere  il  prosieguo  dell'udienza
preliminare.  Invero,  qualificare   giuridicamente   il   fatto   e'
operazione che logicamente presuppone l'accertamento e la sussistenza
di un certo fatto storico, sicche', il giudice che dovesse esprimersi
in ordine alla corretta qualificazione  giuridica  da  attribuire  al
fatto non potrebbe prescindere dall'esprimersi anche in  ordine  alla
sussistenza del fatto da riqualificare. Insomma, se anche si  volesse
escludere in questo caso  un'incompatibilita'  del  g.u.p.  ai  sensi
dell'art. 34 c.p.p. (come estensivamente interpretato alla luce delle
gia' citate pronunce della Corte cost. n. 335/2002, n.  269/2003,  n.
271/2003 e n. 20/2004), non si potrebbe escludere del tutto  una  sua
ricusabilita' ai sensi dell'art. 37, lett. b) c.p.p. 
    Orbene,  l'imparzialita'  del  giudice   e'   valore   di   rango
costituzionale (artt. 101,  secondo  comma,  e  111,  secondo  comma,
Cost.) che trova pieno riconoscimento anche  all'interno  della  CEDU
(art. 6, § 1), ed e' un valore fondamentale  del  «giusto  processo».
Non puo' esservi un giusto processo se non e' garantita la  terzieta'
ed imparzialita' del giudice dinanzi  alle  parti.  Ne  consegue  che
interpretazioni che possano  minare  tale  fondamentale  principio  e
valore costituzionale non sono prospettabili. 
    Non e' neppure prospettabile, in via interpretativa, l'estensione
della disciplina della modifica in  iure  dell'imputazione  a  quella
dell'addebito    fattuale    (soluzione    auspicabile    considerata
l'equiparazione che in ambito europeo hanno i due  aspetti).  Invero,
una   simile   interpretazione   concretizzerebbe   una   sostanziale
disapplicazione dell'art. 521, primo comma, c.p.p.  in  favore  della
norma  convenzionale,  non  ammissibile,   pero',   attesa   la   non
comunitarizzazione della CEDU. 
    A questo punto, non sembra possibile altra soluzione  se  non  la
pronuncia della Corte costituzionale, che, intervenendo  sulle  norme
censurate,   parifichi   la   disciplina   della    modifica    della
qualificazione giuridica del fatto a quella della  modificazione  del
fatto medesimo. 
    Solo in questo modo e' salvaguardato fino in fondo il diritto  di
difesa. 
    Invero, quando il g.u.p. ritiene che il fatto vada  riqualificato
giuridicamente,  puo'  prospettarlo  al  p.m.,  che,  o  si   adegua,
modificando il nomen iuris (ed eventualmente anche quegli aspetti del
fatto per meglio adattarlo alla nuova veste giuridica,  come  sarebbe
stato auspicabile nel caso di specie,  dove,  a  fronte  della  nuova
contestazione di corruzione e' rimasta inalterata la descrizione  del
fatto come ipotesi concussiva), oppure si vede restituire gli atti ai
sensi dell'art. 521, secondo comma, c.p.p. 
    In questo modo  l'imputato  non  subisce  alcun  pregiudizio:  al
contrario gode fino in fondo delle prerogative dategli  dalla  legge,
anche con riferimento alla fase prodromica rispetto al deposito della
richiesta di rinvio a giudizio (per intenderci quella  relativa  alla
notifica dell'avviso ex art. 415-bis c.p.p.). 
    D'altra parte, la soluzione prospettata, che  sarebbe  pienamente
attuativa del dettato convenzionale di cui all'art. 6, § 3, lett.  a)
e b) CEDU, ma, altresi', dell'art. 111,  terzo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui stabilisce che la legge deve assicurare che  la  persona
accusata di un reato sia, nel piu' breve tempo  possibile,  informata
della natura e dei motivi dell'accusa in modo da disporre del tempo e
delle condizioni necessari per preparare la sua difesa (che,  secondo
una parte della dottrina, essendo in effetti trasposizione  dell'art.
6 CEDU, dovrebbe essere interpretato alla stesa stregua), non si pone
in contrasto con altri valori costituzionali, in primis, quello della
ragionevole durata del processo sancito dall'art. 111, secondo comma,
Cost. Invero, proprio ragioni di economia processuale avevano indotto
il legislatore del 1988 ad  evitare  qualsiasi,  equiparazione  della
disciplina della modificazione in fatto rispetto a quella in  diritto
dell'imputazione. 
    E' noto, pero',  che,  secondo  il  pacifico  orientamento  della
Consulta, il principio ragionevole durata del  processo,  proprio  in
quanto «ragionevole», deve essere bilanciato rispetto ad altri valori
costituzionali e non  puo'  comportare  la  vanificazione  di  questi
valori che in esso sono coinvolti, primo  fra  tutti  il  diritto  di
difesa, che l'art. 24, secondo comma, Cost., proclama inviolabile  in
ogni stato e grado del procedimento (cfr. C. cost., 22  giugno  2001,
n. 204; Corte cost., 11  dicembre  2001.  n.  399;  Corte  cost.,  19
novembre 2002, n. 458). Sicche', quando vengono in gioco  profili  di
tutela del diritto di difesa,  non  puo'  mai  ritenersi  prevalente,
nell'ambito  del  necessario  bilanciamento,   il   principio   della
ragionevole durata del processo e, quindi, non  possono  legittimarsi
norme che, per ragioni di economia processuale, sacrifichino,  al  di
la' del ragionevole, le esigenze difensive. 
    Orbene, considerando il rilievo non solo costituzionale (artt. 24
e 111, terzo comma, Cost.) ma altresi' convenzionale (art.  6,  §  3,
lett. a) e b) CEDU) del diritto dell'imputato ad una contestazione in
fatto ed in diritto chiara e precisa dell'addebito, che consenta,  in
qualunque fase del processo, un  esercizio  pieno  ed  effettivo  del
diritto  di  difesa,  non  puo'  ritenersi  che  l'estensione   della
disciplina  delle  modifiche  in  fatto  dell'imputazione  a   quelle
relative  al  solo  nomen  iuris,  che,  indubbiamente,  puo'   anche
determinare la regressione del processo,  configuri  un'irragionevole
lungaggine  processuale.  Non  vanno  taciuti,  infine,  profili   di
possibile illegittimita' costituzionale  anche  rispetto  all'art.  3
Cost. 
    Invero, non pare ragionevole una disciplina che penalizzi,  sotto
il profilo difensivo, l'imputato che si vede rinviato a giudizio  per
un  fatto  diversamente  qualificato   giuridicamente,   rispetto   a
quell'imputato che tale modifica non viene  a  subire.  Quest'ultimo,
infatti,  avra'  esercitato  pienamente  il  suo  diritto  di  difesa
rispetto ad una contestazione rimasta immutata; lo  stesso  non  puo'
dirsi per l'altro imputato che, per effetto di  un  provvedimento  «a
sorpresa»  (il  rinvio  a  giudizio   per   un   fatto   diversamente
qualificato) si vede privato della pienezza difensiva rispetto ad una
fase processuale. 
    La questione, ove accolta, configurerebbe  una  violazione  degli
artt. 178, lett. c) e 180 c.p.p. nell'operato del  g.u.p.  presso  il
Tribunale di Lecce,  poiche',  a  fronte  del  rifiuto  del  p.m.  di
modificare la qualificazione giuridica dell'imputazione,  il  giudice
ha disposto di ufficio il rinvio a giudizio degli imputati in  ordine
ad un fatto diversamente qualificato, senza farlo precedere da  alcun
effettivo  e  preventivo  contraddittorio,  attraverso  la   doverosa
restituzione degli atti  al  p.m.,  che  avrebbe  potuto  elevare  un
addebito,  meglio  calibrato  nella   descrizione   del   fatto   con
riferimento alla diversa qualificazione giuridica, che avrebbe potuto
evitare ambigue contestazioni (di cui si e' doluta  la  difesa  degli
imputati) suscettibili di ulteriori modifiche  giuridiche  nel  corso
del giudizio (di merito,  di  primo  o  secondo  grado,  o  anche  di
legittimita'). 
    E' consapevole il collegio che la Cassazione,  in  uno  specifico
caso, pur affermando l'immanenza nel nostro ordinamento del principio
del contraddittorio su ogni profilo dell'accusa, anche  nel  giudizio
di legittimita', come ricavabile dalla giurisprudenza europea, che ha
evidenziato una vera e  propria  violazione  di  sistema  del  nostro
ordinamento processuale  penale  relativa  al  principio  del  giusto
processo configurato dall'art. 6, § 3, lett. a) e b) CEDU,  il  quale
impone che l'imputato, una volta informato dell'accusa  e  cioe'  dei
fatti e della qualificazione giuridica a essi attribuita, deve essere
messo in grado di discutere in contraddittorio su ogni profilo che li
investe, contraddittorio che deve essere  garantito  anche  la'  dove
l'ordinamento riconosca al giudice - come nel nostro - il  potere  di
dare al fatto una definizione giuridica diversa da  quella  enunciata
nell'imputazione ascritta ab origine all'imputato; pur ritenendo  che
il sistema vada integrato con la  regola  enunciata  dalla  Corte  di
Strasburgo, ha  ritenuto  di  poterlo  fare,  nel  caso  sottopostole
all'esame, in  via  interpretativa,  mediante  il  ricorso  analogico
all'istituto di cui all'art. 625 bis c.p.p. (Cass. pen.  sez.  I,  12
novembre 2008, n. 45807). 
    Eppero', a prescindere dalla validita' del  percorso  ermeneutico
seguito dal supremo Consesso (relativo  all'estensibilita'  analogica
dell'istituto del ricorso straordinario  per  cassazione  per  errore
materiale o di fatto), sul quale e' legittimo nutrire qualche  dubbio
alla luce del pacifico orientamento  delle  sezioni  unite  (si  veda
Cass.  pen.,  sez.u.,  27  marzo  2002,  Basile,   che   ha   escluso
l'applicabilita' analogica  dell'istituto  di  cui  all'art.  625-bis
c.p.p.), si trattava di una fattispecie molto particolare, in cui  si
disquisiva  delle  modalita'  attraverso  le  quali  poteva   trovare
adeguamento, rispetto al  giudicato  interno,  un  pronunciato  della
Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  che  aveva  riscontrato   la
violazione  dell'art.  6  CEDU  in  un  procedimento  in   cassazione
conclusosi con una sentenza con  la  quale  la  suprema  Corte  aveva
riqualificato di ufficio il nomen  iuris  di  determinati  reati,  e,
quindi, non era  oggetto  di  disamina  il  procedimento  da  seguire
ordinariamente  in  caso  di  ritenuta  necessita'  di  riqualificare
giuridicamente il fatto (per intendersi, a seguito della revoca della
sentenza della Cassazione, frutto di una procedura  giudicata  iniqua
dalla Corte  europea,  nulla  vieta  al  supremo  Consesso,  chiamato
nuovamente  a  pronunciarsi  sul  caso,  di  promuovere  giudizio  di
illegittimita' costituzionale, non ritenendo di  potere  superare  in
via interpretativa il contrasto tra'  i1  diritto  interno  e  quello
convenzionale in punto di riqualificazione giuridica del fatto). Alla
luce  delle  considerazioni  su  esposte  appare  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt.  3,
24, 111, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., con riferimento agli
artt. 424, 429 e 521, primo comma c.p.p.