Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  23,  comma  4,
del decreto legislativo 11 maggio 1999  n.  152  (Disposizioni  sulla
tutela delle acque dall'inquinamento e  recepimento  della  direttiva
91/271/CEE concernente il trattamento delle  acque  reflue  urbane  e
della direttiva  91/676/CEE  relativa  alla  protezione  delle  acque
dall'inquinamento  provocato  dai  nitrati   provenienti   da   fonti
agricole), come modificato dall'art. 7  del  decreto  legislativo  18
agosto 2000,  n.  258  (Disposizioni  correttive  e  integrative  del
decreto legislativo 11 maggio 1999, n.  152,  in  materia  di  tutela
delle acque dall'inquinamento, a  norma  dell'articolo  1,  comma  4,
della legge 24 aprile 1998, n. 128), che sostituisce  l'art.  17  del
regio  decreto  11  dicembre  1933,  n.  1775  (Testo   unico   delle
disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), promosso dal
Tribunale  di  Firenze,  sezione  distaccata  di   Pontassieve,   con
ordinanza del 3 marzo 2009, iscritta al n. 328 del registro ordinanze
2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  4, 1ª
serie speciale, dell'anno 2010. 
    Visti gli atti di costituzione di R.A. ed altri, di C.M. e  P.V.,
nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore
Gaetano Silvestri; 
    Uditi gli avvocati Tullio Padovani, Eriberto Rosso, Anna Francini
per S.G. ed altri, Giuseppe Giuffre' e Giandomenico Falcon per  R.A.,
Gemma Bearzotti per C.M., Paolo Dell'Anno per P.V. e l'avvocato dello
Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ordinanza depositata il 3 marzo 2009,  il  Tribunale  di
Firenze,  sezione  distaccata  di  Pontassieve,  ha   sollevato,   in
riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 23, comma  4,  del  decreto  legislativo  11
maggio  1999,  n.  152  (Disposizioni  sulla   tutela   delle   acque
dall'inquinamento   e   recepimento   della   direttiva    91/271/CEE
concernente  il  trattamento  delle  acque  reflue  urbane  e   della
direttiva   91/676/CEE   relativa   alla   protezione   delle   acque
dall'inquinamento  provocato  dai  nitrati   provenienti   da   fonti
agricole), come modificato dall'art. 7  del  decreto  legislativo  18
agosto 2000,  n.  258  (Disposizioni  correttive  e  integrative  del
decreto legislativo 11 maggio 1999, n.  152,  in  materia  di  tutela
delle acque dall'inquinamento, a  norma  dell'articolo  1,  comma  4,
della legge 24 aprile 1998, n. 128), nella parte in cui,  sostituendo
l'art. 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n.  1775  (Testo  unico
delle disposizioni  di  legge  sulle  acque  e  impianti  elettrici),
sanziona come mero illecito amministrativo le condotte di derivazione
o utilizzazione di acqua pubblica  in  assenza  di  provvedimento  di
autorizzazione o concessione dell'autorita' competente. 
    1.1. - Il rimettente riferisce che il procedimento a quo riguarda
soggetti,  gia'  responsabili   di   cantieri   approntati   per   la
realizzazione della tratta ferroviaria ad alta velocita' tra  Firenze
e Bologna, ai quali si contesta l'indebito impossessamento  di  acque
pubbliche utilizzate nel  corso  dei  lavori.  In  particolare,  agli
imputati e' contestato il delitto di furto aggravato, perpetrato «con
piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso,  in  concorso
tra loro, ciascuno  nelle  rispettive  qualita'  ricoperte  nell'arco
temporale  indicato,  al  fine  di  trarne   un   ingiusto   profitto
(consistito nell'impiego gratuito di acqua pubblica a servizio  delle
proprie attivita' di cantiere con particolare riferimento all'impiego
di acqua negli  impianti  di  betonaggio  e  al  lavaggio  dei  mezzi
meccanici e in generale all'impiego di acque chiare  nelle  attivita'
di cantiere)». 
    Il rimettente riferisce ancora che l'acqua oggetto di furto,  per
un quantitativo stimato in non meno di cinque milioni di metri  cubi,
sarebbe stata in parte prelevata dalle falde sotterranee intercettate
durante i lavori di scavo nelle gallerie, in parte estratta  mediante
perforazione di  pozzi,  e  in  parte  prelevata  dai  corsi  d'acqua
limitrofi  ai  cantieri,  il  tutto  in  assenza   delle   prescritte
autorizzazioni e concessioni del  Genio  Civile  della  Provincia  di
Firenze.  Sempre  in  ipotesi  accusatoria,  le  condotte  contestate
sarebbero state poste in essere nel periodo dal  1997  al  2005  (con
l'esclusione del 2001, anno in cui era stata chiesta la concessione). 
    Il pubblico ministero - secondo quanto segnala  il  rimettente  -
ritiene ininfluente, in punto  di  qualificazione  penalistica  delle
condotte, la disposizione contenuta nell'art. 23, comma 4, del d.lgs.
n. 152  del  1999,  che  sanziona  come  illecito  amministrativo  la
condotta di «derivazione o utilizzo» di acque pubbliche in assenza di
autorizzazione  o  concessione,  perche'  diverso  sarebbe  il   bene
giuridico tutelato penalmente, attraverso la  fattispecie  del  furto
aggravato,   rispetto   a   quello    presidiato    dalla    sanzione
amministrativa: nel primo caso il patrimonio dello Stato, nel secondo
la regolamentazione del  prelievo  delle  acque  e  la  tutela  della
salubrita'  di  queste.  Di  conseguenza,  la  stessa  condotta,  ove
accertata, darebbe luogo alla violazione sia del precetto penale  sia
di quello amministrativo, con  applicazione  concomitante  delle  due
norme indicate. 
    In senso contrario, prosegue il giudice a quo,  le  difese  degli
imputati hanno sostenuto la tesi della specialita'  della  norma  che
prevede  l'illecito  amministrativo,  rispetto  alla  previsione  del
delitto di furto, con conseguente irrilevanza penale  della  condotta
di prelievo di acque sotterranee o superficiali per fini industriali,
a norma dell'art. 9 della legge 24 novembre 1989, n.  681  (Modifiche
al sistema penale). 
    1.2.  -  Il  rimettente  considera  pregiudiziale,  nel  contesto
descritto, una verifica della asserita  prevalenza  della  norma  che
sanziona in via amministrativa il prelievo abusivo di acqua su quella
penale contestata, «atteso che  qualunque  verifica  in  fatto  della
imputazione deve presupporre  necessariamente  la  giurisdizione  del
giudice penale». 
    Lo stesso rimettente procede quindi a richiamare per grandi linee
l'evoluzione della disciplina delle  acque,  osservando  come,  ancor
prima della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in  materia  di
risorse idriche), gia' l'art. 1 del r.d.  n.  1775  del  1933  avesse
attribuito alle acque classificate di «pubblico  generale  interesse»
il  carattere  della  demanialita'.  Le  acque  prive  di   rilevanza
pubblica, e non inserite espressamente negli elenchi  previsti  dalla
legge, erano rimaste oggetto delle disposizioni  del  codice  civile.
Con la legge n. 36 del 1994, emanata in una fase storica in  cui  era
ormai diffusa l'attenzione alla  tutela  delle  risorse  idriche,  il
legislatore nazionale ha proceduto a ridefinire  l'intera  disciplina
delle  acque  pubbliche,  in  una  prospettiva  di  vero  e   proprio
rovesciamento dei principi sottesi alla regolamentazione del prelievo
e dell'utilizzo dell'acqua. Per effetto della cosiddetta legge Galli,
si e' passati da un regime ordinario di carattere  privatistico,  che
richiedeva una specifica  classificazione  da  parte  della  pubblica
amministrazione per qualificare un'acqua come di pubblico  interesse,
ad un regime «rigidamente pubblico in ordine  alla  proprieta'  della
risorsa  idrica»,  nel  quale  tutte   le   acque,   superficiali   e
sotterranee, sono pubbliche, rimanendo nella  discrezionalita'  della
pubblica  amministrazione  soltanto   il   potere   di   disciplinare
diversamente le modalita' di utilizzo  delle  acque,  a  seconda  dei
soggetti e delle finalita'. 
    Successivamente, e' entrato in vigore il d.lgs. n. 152 del  1999,
di recepimento di numerose direttive comunitarie, il quale ha dettato
norme a tutela delle acque dall'inquinamento, ed e' intervenuto anche
sul  testo  unico  approvato  con  il  r.d.  n.  1775  del  1933,  in
particolare sostituendo l'art. 17 di  quest'ultimo  con  il  comma  4
dell'art. 23 del citato d.lgs. La previsione richiamata ha  stabilito
il  divieto  di  derivare  o  utilizzare  acqua  pubblica  senza   un
provvedimento autorizzativo o concessorio dell'autorita'  competente,
comminando al contravventore, «fatti salvi ogni altro  adempimento  o
comminatoria   previsti   dalle   leggi   vigenti»,   una    sanzione
amministrativa pecuniaria, oltre alla cessazione dell'utenza  abusiva
e al pagamento dei canoni non corrisposti. 
    A partire quindi dall'entrata in vigore del  d.lgs.  n.  152  del
1999, si e' posto il problema di individuare la  norma  sanzionatoria
applicabile in relazione  a  condotte  di  impossessamento  di  acque
pubbliche analoghe a quelle descritte nel capo di imputazione. 
    Il giudice a quo segnala come, dopo qualche iniziale  incertezza,
la giurisprudenza di legittimita' si sia consolidata su posizioni  di
«sostanziale  abrogazione  della  rilevanza  penale  della   condotta
descritta», affermando da ultimo (Corte di  cassazione,  sentenza  n.
25548 del 2007) che la previsione contenuta nell'art.  23,  comma  4,
del d.lgs. n. 152 del 1999  costituisce  norma  speciale  rispetto  a
quella generale di cui all'art. 624  del  codice  penale,  in  quanto
presenta due elementi specializzanti: l'oggetto  dell'impossessamento
(l'acqua pubblica) ed il dolo specifico (la finalita' industriale). 
    Il rimettente richiama anche un  precedente  di  segno  contrario
(Corte di cassazione, sentenza n. 37237 del 2001), che aveva ritenuto
sussistente un concorso reale e non apparente tra le norme, la'  dove
la previsione amministrativa sarebbe volta a tutelare  la  salubrita'
delle acque e quella codicistica il bene nel suo valore patrimoniale.
Il Tribunale  tuttavia,  in  assonanza  con  la  giurisprudenza  piu'
recente, ritiene che la verifica del rapporto  di  specialita'  debba
fondarsi su una comparazione strutturale tra le fattispecie piu'  che
sulla loro funzione protettiva, ed aggiunge,  richiamando  ancora  la
sentenza n. 25548 del 2007 della Corte di cassazione, che  «anche  il
d.lgs. n. 152 del 1999, art. 23 tutela la proprieta' delle acque, sia
pure sotto un peculiare profilo». In particolare, la disposizione che
configura  l'illecito  amministrativo  presidierebbe  gli   interessi
patrimoniali dell'Erario in quanto stabilisce che  il  contravventore
deve  corrispondere,  in  ogni  caso,  i  canoni   evasi,   i   quali
rappresentano il corrispettivo del bene ai sensi degli artt. 13 e  18
della  legge  n.  36  del  1994.  Inoltre,  nel  caso   oggetto   del
procedimento principale, la condotta  di  impossessamento  dell'acqua
sotterranea  e  superficiale  sarebbe  stata  posta  in  essere   con
specifica finalita' industriale, con la conseguenza che, in  base  al
criterio di specialita' previsto dall'art. 9 della legge n.  681  del
1989, dovrebbe trovare applicazione la sola sanzione amministrativa. 
    Tutto cio' premesso, il rimettente ritiene  che  la  disposizione
che  configura  l'illecito  amministrativo   sia   costituzionalmente
illegittima, per violazione del canone  della  ragionevolezza  e  del
principio di uguaglianza. 
    1.3. - Con riguardo alla rilevanza della questione, il  Tribunale
precisa, innanzitutto, che fino alla pubblicazione del d.lgs. n.  258
del 2000, di integrazione e correzione del d.lgs. n. 152 del 1999, le
condotte di impossessamento di acque pubbliche per fini di  vantaggio
patrimoniale erano punite a titolo di furto. Pertanto,  per  i  fatti
antecedenti posti ad oggetto del procedimento a quo,  in  ipotesi  di
declaratoria di illegittimita'  costituzionale  della  norma  che  ha
configurato l'illecito amministrativo,  potrebbe  nuovamente  trovare
applicazione  la  fattispecie  incriminatrice,   non   ostandovi   il
principio sancito dall'art.  2  cod.  pen.,  a  sua  volta  attuativo
dell'art. 25 Cost. 
    Dopo aver richiamato ampiamente la sentenza n. 394 del 2006 della
Corte costituzionale sul tema del sindacato di costituzionalita'  con
effetti in malam partem, il  giudice  a  quo  afferma  che  la  norma
censurata  sarebbe  sussumibile  nella  categoria  delle  «norme   di
favore», in quanto avrebbe operato una «depenalizzazione "di  favore"
in   relazione   a   determinati   soggetti,   con    carattere    di
irragionevolezza con riferimento alla gerarchia  dei  beni  giuridici
tutelati dall'ordinamento». 
    1.4.  -  Con  riguardo  alla  non  manifesta  infondatezza  della
questione, il giudice a quo nuovamente si riporta  alla  sentenza  n.
394 del 2006, nella parte in cui si afferma  che  «un  sindacato  sul
merito delle scelte legislative e' possibile solo ove esse trasmodino
nella  manifesta  irragionevolezza   o   nell'arbitrio».   Cio'   che
ricorrerebbe nel caso odierno,  in  quanto  il  regime  sanzionatorio
introdotto nel 1999 per le condotte di derivazione e utilizzo abusivi
di  acque  pubbliche  a  fini  industriali,   sarebbe   viziato   «da
irragionevolezza e grave contraddizione con  alcune  norme  di  rango
costituzionale». 
    In particolare, l'introduzione di una norma  di  depenalizzazione
dell'impossessamento abusivo, a fini di lucro, di un  bene  giuridico
di  cui  si  e'  riconosciuto   il   valore   fondamentale   per   la
collettivita', risulta, secondo il rimettente, «manifestamente  privo
di razionalita' e di armonia con il sistema di  tutela  dato»,  ancor
piu' se si pone mente al fatto che in precedenza, cioe' fino all'anno
2000, le stesse condotte erano sanzionate penalmente. 
    L'irrazionalita' della  scelta  legislativa  sarebbe  ancor  piu'
palese considerando che continua ad essere penalmente  sanzionata  la
sottrazione di beni patrimoniali i  quali,  nella  scala  di  valori,
risultano di importanza di gran lunga inferiore alla risorsa idrica. 
    Sussisterebbero dunque, secondo il Tribunale di Firenze,  profili
di illegittimita' costituzionale della norma censurata, la' dove essa
«non soltanto introduce una disparita' di  trattamento  sanzionatorio
di condotte identiche relative allo stesso bene giuridico,  ancorche'
poste in essere in  momenti  diversi,  senza  che  emerga  ragione  a
fondamento, ma introduce una disparita' di trattamento  sanzionatorio
fra beni di diverso  valore  sociale,  apprestando  tutela  diminuita
proprio a quel bene che, con la medesima legge, si  intende  tutelare
piu' incisivamente». 
    Inoltre, l'illegittimita' della norma censurata emergerebbe anche
in relazione al diverso trattamento riservato ad «altre  condotte  di
impossessamento relative al medesimo bene giuridico, e  da  ritenersi
ancora sanzionate dalla norma incriminatrice generale di cui all'art.
624 cod. pen.». 
    A  tale  proposito   il   rimettente   richiama   nuovamente   la
giurisprudenza della Corte di cassazione, e in  particolare  la  gia'
citata sentenza n. 25548 del 2007, per dissentire dalla  affermazione
ivi contenuta, secondo la quale le due norme - artt. 624 cod. pen.  e
23, comma 4, d.lgs. n. 152 del 1999 -  regolano  la  stessa  materia,
vale a dire l'impossessamento di un bene altrui per trarne vantaggio.
Cio' sarebbe vero solo con riferimento alle condotte che, al pari  di
quelle  contestate  nel  procedimento   principale,   consistano   in
«derivazione o utilizzo», locuzioni che,  peraltro,  configurerebbero
soltanto alcuni possibili  modi  di  impossessamento  dell'acqua.  Vi
sarebbero dunque «casi di impossessamento che non vengono  realizzati
attraverso una derivazione, o che non sono  finalizzati  all'utilizzo
industriale del bene, ma che sono comunque caratterizzati da fine  di
lucro, i quali necessariamente sfuggono alla previsione  della  norma
amministrativa, e ricadono [...]  sotto  l'impero  della  fattispecie
penale,  questa  volta  essa  stessa  speciale  rispetto  alla  norma
amministrativa». 
    A titolo  esemplificativo,  il  Tribunale  cita  il  caso  di  un
soggetto il quale procedesse alla trivellazione di un pozzo di  acque
sotterranee, ritenendole di  pregio,  al  fine  di  farne  commercio,
«anche eventualmente mediante la pura e semplice cessione a terzi. In
tal caso l'impossessamento non si realizzerebbe mediante derivazione,
ne' avrebbe come finalita' un utilizzo  dell'acqua  pubblica  a  fini
industriali (utilizzo che presuppone nella quasi totalita'  dei  casi
il  rilascio  del  bene  stesso  dopo  il  suo  utilizzo),  e  quindi
necessariamente  sarebbe  la  norma  penale  a  dispiegare  i  propri
effetti». 
    Pertanto,  la  norma  censurata  avrebbe  anche  introdotto   una
ingiustificata disparita' di trattamento sanzionatorio  tra  condotte
di identico disvalore, relative allo stesso bene, «ancorche' poste in
essere con motivazioni differenti». 
    1.5. -  Il  Tribunale  di  Firenze  argomenta  ulteriormente  sul
profilo della rilevanza della questione, con  specifico  riguardo  al
fenomeno  della  successione  delle  leggi,  osservando  come,  nella
perdurante vigenza della norma censurata, una parte delle condotte in
contestazione   -   quelle   successive   alla   depenalizzazione   -
risulterebbe  priva  di  rilevanza  penale,  mentre  l'altra   parte,
costituita dalle condotte precedenti, risulterebbe non piu'  punibile
ai sensi dell'art. 2, secondo comma, cod. pen. 
    In caso di accoglimento della questione,  si  verificherebbe  «la
nuova espansione della norma incriminatrice penale», quantomeno per i
fatti  pregressi,  al  momento  non  ancora  prescritti.  Trattandosi
infatti di condotte antecedenti all'entrata in vigore della norma  di
favore, non verrebbe in  rilievo  il  principio  di  irretroattivita'
della norma penale, bensi' il diverso principio della  retroattivita'
della norma  penale  piu'  mite,  che,  peraltro,  nella  specie  non
potrebbe spiegare alcun effetto. 
    In proposito, e' ancora richiamata la sentenza n.  394  del  2006
della Corte costituzionale, nella parte in cui si trova affermato che
«e' giocoforza ritenere che  il  principio  di  retroattivita'  della
norma  penale  piu'  favorevole  in  tanto  e'  destinato  a  trovare
applicazione, in quanto  la  norma  sopravvenuta  sia,  di  per  se',
costituzionalmente legittima». 
    Le stesse conclusioni sarebbero applicabili,  sempre  secondo  il
rimettente, alla ipotesi della declaratoria di illegittimita' di  una
norma a carattere amministrativo con effetti di depenalizzazione. 
    2. - Con atto depositato il 16 febbraio 2010, e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   la
questione sia dichiarata manifestamente  inammissibile  o,  comunque,
infondata. 
    La difesa dello Stato osserva come il giudice a quo  -  il  quale
dichiara  di  aderire  all'orientamento  della  Corte  di  cassazione
secondo cui l'art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999  e'  norma  speciale
rispetto all'art. 624 cod. pen. -, non  abbia  assolto  all'onere  di
verificare    se    sia     possibile     dare     un'interpretazione
costituzionalmente orientata alla norma in esame. 
    Sarebbe questo, a parere dell'Avvocatura generale, il percorso da
seguire nel caso  di  specie,  posto  che  il  citato  art.  23,  nel
sanzionare  in  via  amministrativa  le  condotte  di  derivazione  e
utilizzo  abusivi  di  acque   pubbliche,   intende   assicurare   la
realizzazione degli obiettivi indicati dall'art. 144  del  d.lgs.  n.
152  del  2006,  come  sarebbe  dimostrato  dalla  previsione   della
possibilita' di presentare domanda di concessione  in  sanatoria,  ai
sensi dell'art. 96, comma 6, del medesimo decreto. 
    Differente, invece, risulterebbe  l'ambito  di  applicazione  del
delitto di furto, sicche' tra le due previsioni non  ricorrerebbe  un
rapporto di specialita', come affermato  dal  rimettente,  bensi'  un
concorso formale di reati, disciplinato dall'art. 81 cod. pen. 
    Tale  opzione  ermeneutica,  secondo  la  difesa   dello   Stato,
consentirebbe  di  fugare  i  dubbi  di  legittimita'  costituzionale
sollevati dal rimettente. 
    3. - Con comparsa depositata l'11 febbraio 2010, si e' costituito
in giudizio M.C., imputato nel procedimento  principale,  concludendo
per la manifesta infondatezza della questione. 
    La difesa dell'imputato richiama l'ordinanza di rimessione  nella
parte in cui il giudice a quo effettua la comparazione tra l'art.  23
del d.lgs. n. 152 del 1999, che punisce la violazione del divieto  di
derivazione  o  utilizzo  di   acqua   pubblica   con   la   sanzione
amministrativa, e l'art. 624 cod. pen., dando atto  che,  secondo  la
giurisprudenza  di   legittimita'   consolidata,   la   condotta   di
impossessamento  abusivo  di  acque  pubbliche  non  riveste   (piu')
rilevanza penale (Corte di cassazione, sentenza n. 25548 del 2007). 
    Cio' posto, si osserva come il rimettente, che pure  dichiara  di
aderire  a  tale  orientamento  giurisprudenziale,  abbia   sollevato
questione di  legittimita'  costituzionale  ritenendo  la  previsione
richiamata in contrasto con l'art. 3 Cost., sicche' la violazione del
principio   di   uguaglianza   deriverebbe   proprio    dall'elemento
specializzante della «finalita' industriale». 
    In realta', prosegue la  stessa  difesa,  il  rimettente  avrebbe
omesso di analizzare le ragioni su cui si  fonda  la  scelta  di  non
sanzionare penalmente la condotta descritta nell'art.  23,  comma  4,
del d.lgs. n. 152 del 1999,  avendo  focalizzato  la  sua  attenzione
sulla presunta contraddittorieta' tra il sistema delineato dal d.lgs.
n. 152 del 1999, di tutela rafforzata del bene  giuridico  costituito
dalle acque pubbliche, e la introduzione, in quello  stesso  sistema,
di una norma che ne depenalizza «l'impossessamento illecito a fini di
lucro». 
    La parte privata segnala inoltre come, nel  percorso  logico  del
giudice a quo, il fine industriale venga equiparato al fine di lucro,
cio' che appare quanto meno riduttivo se si considera che il primo, a
differenza del secondo,  presuppone  un'organizzazione  di  lavoro  e
trascende l'interesse del singolo. 
    Sarebbe poi evidente che, mentre nella fattispecie che punisce il
delitto di furto l'interesse primario e' rappresentato  dalla  tutela
della proprieta' privata, in quella delineata dall'art. 23 del d.lgs.
n. 152 del 1999 oggetto di tutela e' la riserva  idrica,  all'interno
di un regime concessorio, con sanzioni pecuniarie sicuramente elevate
se raffrontate al costo dell'acqua. 
    Il  differente  disvalore  sociale   delle   condotte   indicate,
giustificherebbe quindi il diverso sistema sanzionatorio. 
    Del resto, nel bilanciamento tra interessi  parimenti  meritevoli
di tutela, non di rado il  legislatore  ha  privilegiato  l'attivita'
industriale e commerciale a scapito delle esigenze  ambientali,  come
avviene  per  l'inquinamento  acustico  delle  zone  limitrofe   agli
aeroporti e per l'inquinamento  atmosferico  prodotto  dai  mezzi  di
trasporto urbani. Si tratta di  scelte  sicuramente  discutibili  sul
piano politico, ma non prive di ragionevolezza, sicche' la  questione
sarebbe manifestamente infondata. 
    4. - Con atto depositato il 15 febbraio 2010, si sono  costituiti
in giudizio R.A., S.C., G.G., Z.F., L.M.,  M.N.,  F.G.,  C.U.,  O.C.,
M.P.P. e M.C., tutti imputati nel  procedimento  a  quo,  nonche'  il
Consorzio C.A.V.E.T. Alta Velocita' Emilia-Toscana,  in  persona  del
legale rappresentante pro tempore, in qualita' di responsabile civile
e civilmente obbligato per la pena pecuniaria. 
    La difesa delle parti indicate svolge alcune  considerazioni  sul
ragionamento  prospettato  dal  giudice  a  quo  a  fondamento  della
questione,   concludendo   per   l'inammissibilita'   o,    comunque,
l'infondatezza della stessa. 
    4.1. -  Si  osserva  in  primo  luogo,  sotto  il  profilo  della
rilevanza, che il rimettente si sarebbe  limitato  ad  affrontare  le
ricadute dell'eventuale pronuncia  di  accoglimento  in  rapporto  al
fenomeno della successione delle leggi  penali  nel  tempo,  regolato
dall'art. 2 cod. pen., mentre  in  realta',  come  sollecitato  dalla
stessa difesa, il  giudice  a  quo  avrebbe  dovuto  prioritariamente
stabilire se, stante il disposto dell'art. 48 del r.d.  n.  1775  del
1933, nel caso  di  specie  possano  trovare  applicazione  la  norma
censurata ovvero quella che punisce il furto, invocata in alternativa
dal medesimo giudice. 
    Il richiamato art. 48, terzo comma,  stabilisce  che  «quando  il
regime di un corso d'acqua o di  un  bacino  di  acqua  pubblica  sia
modificato permanentemente per esecuzione da  parte  dello  Stato  di
opere rese necessarie da ragioni  di  pubblico  interesse,  l'utente,
oltre all'eventuale riduzione o cessazione del canone, ha diritto  ad
una indennita', qualora non gli sia possibile senza  spese  eccessive
di adattare la derivazione al corso di acqua modificato». 
    Se  infatti,  incontestabilmente,  l'esecuzione   del   tracciato
ferroviario  per  l'alta  velocita'  tra   Firenze   e   Bologna   e'
qualificabile alla stregua di un'opera di pubblica utilita'  eseguita
dallo Stato, esiste il presupposto per l'applicazione  dell'art.  48,
terzo comma,  con  la  conseguenza  che  sarebbe  esclusa  in  radice
l'antigiuridicita'  delle  condotte,  venendo  cosi'  a  mancare   la
rilevanza della questione. 
    4.2. - Nel merito, la difesa osserva come rientri nella piena  ed
insindacabile discrezionalita' del legislatore, con  il  solo  limite
della ragionevolezza delle opzioni  assunte,  l'individuazione  delle
condotte punibili, nonche'  la  scelta  e  la  quantificazione  delle
relative sanzioni. 
    Nel caso in esame, pur essendo innegabile  che  l'acqua  pubblica
costituisca un oggetto di tutela di primario valore, cio' che  assume
importanza nel sistema normativo «non e' tanto la materiale fisicita'
del bene, quanto la  concreta  disponibilita'  dello  stesso».  Posto
dunque che la capacita' di disporre  delle  acque  pubbliche  non  e'
libera ma  amministrata,  la  scelta  di  qualificare  come  illecito
amministrativo  il  prelievo  abusivo  delle  predette  acque  sembra
tutt'altro che irrazionale, risultando il naturale  completamento  di
una disciplina di base amministrativa, e dimostrandosi  consona  alla
peculiare forma aggressiva in esame. 
    Piu'  specificamente,  mentre  il  delitto   di   furto   tipizza
un'aggressione ad un potere altrui (che  non  e'  proprio,  o  anche,
dell'agente), la fattispecie di prelievo abusivo di  acque  pubbliche
tipizza «una aggressione ad un potere che e' di tutti, ma che e' tale
in forza di una programmata e controllata parcellizzazione  ad  opera
di un soggetto-filtro la cui volonta', in definitiva, e' la  prima  e
piu' importante ad essere frodata». 
    Non risulterebbe sussistente neppure la disparita' di trattamento
sanzionatorio tra il prelievo abusivo di acque pubbliche  finalizzato
al mero commercio della risorsa idrica,  in  assunto  del  rimettente
punito come illecito penale, e il medesimo prelievo  diretto  ad  uso
industriale, punito come illecito amministrativo. Il ragionamento del
giudice a quo sarebbe sul punto viziato dalla mancata  considerazione
del  rilievo  che  riveste,  nella  fattispecie  sanzionata  in   via
amministrativa, il dolo specifico, che, pur non essendo  un  elemento
materiale del fatto, nondimeno costituisce elemento della fattispecie
e concorre alla tipizzazione della stessa. 
    L'elemento del dolo specifico, sottolinea la  difesa,  «determina
una indubbia specificazione dell'illecito, contribuendo all'emersione
di una peculiarita' che poi  si  riflette  sull'intera  struttura  di
quello, rendendola un unicum e, conseguentemente,  meritevole  di  un
proprio non estensibile giudizio disvaloriale». 
    La differente struttura delle fattispecie di prelievo abusivo  di
acque pubbliche finalizzato al commercio delle stesse, e di  prelievo
abusivo finalizzato  all'uso  industriale,  esige,  contrariamente  a
quanto sostenuto dal rimettente,  un  trattamento  differenziato,  in
ossequio al principio sancito dall'art. 3, secondo comma, Cost. 
    5. - Con atto depositato il 15 febbraio 2010 si e' costituito  in
giudizio P.V., pure imputato nel procedimento a quo, per sostenere la
manifesta infondatezza della questione  sollevata  dal  Tribunale  di
Firenze. 
    5.1. - La difesa della parte procede  innanzitutto  al  riepilogo
del quadro normativo di riferimento, per  evidenziare  come  il  solo
sintetico  esame  degli  interventi  legislativi  succedutisi   nella
regolamentazione  della  materia  in  esame  sarebbe  sufficiente   a
smentire  le  argomentazioni  poste  dal  rimettente   a   fondamento
dell'incidente di legittimita' costituzionale. 
    E' vero infatti che l'art. 17 del r.d. n.  1775  del  1933,  come
novellato dal d.lgs. n. 152 del 1999, regola la medesima  fattispecie
contemplata dalla previsione  del  furto  di  cosa  pubblica,  e  che
pertanto, secondo la giurisprudenza consolidata,  trova  applicazione
il disposto dell'art. 9, comma 2, della legge n. 689  del  1981,  con
conseguente prevalenza della disciplina amministrativa. 
    La condotta contemplata dalle due  fattispecie  e'  perfettamente
coincidente e consiste nell'impossessamento mediante sottrazione  del
bene al legittimo  detentore,  mentre  risulta  «irrilevante  l'altro
elemento strutturale che caratterizza il reato ex art. 624,  il  dolo
specifico - finalita'  di  profitto  -  dal  momento  che  l'illecito
amministrativo  e'  circoscritto  alla  sola  condotta  del  prelievo
volontario ed  al  correlato  utilizzo  della  risorsa  idrica  senza
concessione e senza pagamento del canone». 
    5.2. - La difesa dell'imputato  procede  quindi  all'esame  delle
censure   prospettate   dal   rimettente,   secondo   il   quale   la
discrezionalita' del legislatore, nell'individuazione delle  condotte
connotate  da  disvalore  sociale  e  nella  scelta  delle   sanzioni
applicabili, sarebbe stata male esercitata. 
    La  stessa  difesa   richiama   sul   punto   la   giurisprudenza
costituzionale secondo cui la discrezionalita'  legislativa  incontra
il   limite   dell'arbitrarieta',   o   manifesta    irragionevolezza
dell'opzione adottata (sentenze n. 206 del 2003 e n. 287  del  2000),
vizi entrambi ravvisabili  quando  «la  sperequazione  normativa  tra
fattispecie omogenee assuma aspetti e dimensioni tali da non  potersi
considerare protetta da alcuna ragionevole giustificazione» (sentenza
n. 394 del 2006). 
    Nella specie, tuttavia, non emergerebbero indizi  in  tal  senso:
lungi  dall'aver  semplicemente  depenalizzato  la  fattispecie   del
prelievo abusivo di acque pubbliche, l'intervento legislativo attuato
con il d.lgs. n. 152 del 1999  «ha  disciplinato  in  modo  organico,
innovativo e globale» la materia delle utenze  idriche,  introducendo
uno speciale regime amministrativo di consenso. 
    Nemmeno sarebbe ravvisabile un contrasto con altre norme di rango
costituzionale, peraltro non indicate  dal  rimettente,  giacche'  la
disciplina in esame risulterebbe perfettamente coerente con  il  piu'
ampio disegno governativo di gestione delle risorse idriche, sotto il
profilo sia quantitativo sia qualitativo, che assoggetta  a  permessi
tanto il prelievo quanto lo scarico di acque dopo l'utilizzo. 
    A proposito poi della distinzione tra «fruizione» e tutela  delle
risorse ambientali,  la  difesa  richiama  ancora  la  giurisprudenza
costituzionale   (sentenza   n.   105   del   2008),   con   riguardo
all'affermazione secondo  cui  l'emersione  del  problema  ambientale
avrebbe spinto il legislatore ad  intervenire  per  la  tutela  della
risorsa idrica mediante specifica e  organica  disciplina,  superando
cosi'  l'impostazione  del  testo  unico  del  1933,  limitata   alla
regolamentazione del solo profilo della fruizione (sentenza n. 1  del
2010). 
    Risulterebbe del resto opinabile l'idea di fondo che sorregge  il
percorso motivazionale seguito dal giudice a  quo,  secondo  cui  per
assicurare tutela puntuale ed efficace l'ordinamento non puo' fare  a
meno della sanzione  penale  detentiva;  al  contrario,  la  sanzione
amministrativa, specie se consistente, puo' rappresentare un efficace
deterrente per enti e imprese. 
    In una prospettiva piu' ampia,  prosegue  la  difesa,  la  scelta
legislativa  di  trasformare   la   risorsa   idrica   in   un   bene
esclusivamente pubblico si giustifica, come avviene  per  altri  beni
del demanio, con la necessita' di  regolarne  l'uso  (con  misure  di
programmata gestione) in modo da consentirne  la  fruizione  diffusa,
risultando altresi' rilevante la diversita' ontologica della  risorsa
idrica,  come  bene  pubblico,  rispetto  agli  altri  beni  protetti
dall'art. 624 cod. pen. 
    La  stessa  difesa  passa  quindi  ad  esaminare  la   denunciata
disparita' di trattamento sanzionatorio tra la condotta  di  prelievo
non  autorizzato  di  acque,  sanzionata  in  via  amministrativa,  e
l'impossessamento di altri beni, perseguito a titolo di furto, e cio'
perfino in casi di particolari forme di impossessamento del  medesimo
bene costituito dall'acqua pubblica. 
    Dopo  aver   segnalato   la   genericita'   ed   indeterminatezza
dell'assunto, si osserva che, per un verso,  i  beni  protetti  dalla
norma penale non rivestono minore significato valoriale rispetto alla
risorsa idrica, come agevolmente desumibile da un pur sintetico esame
delle circostanze aggravanti menzionate dall'art. 625 cod.  pen.  (la
tutela riguarda, infatti, non solo l'oggetto dell'impossessamento, ma
anche le modalita' con le quali si realizza  tale  effetto),  e,  per
altro  verso,   che   la   denunciata   disparita'   di   trattamento
sanzionatorio delle possibili  diverse  condotte  di  impossessamento
dell'acqua e' frutto di un ragionamento privo di fondamento. 
    Premessa  la  condivisibile  distinzione  tra  la   condotta   di
impossessamento  e  quella   di   utilizzazione   (in   rapporto   di
presupposizione), la difesa dell'imputato  rileva  come  la  condotta
delineata  dalla  norma  oggetto  di  censura   non   distingua   tra
derivazione  e  utilizzazione,  ne'  ponga  un   limite   finalistico
all'utilizzazione dell'acqua, posto  che  l'unico  limite  esistente,
costituito dall'uso domestico,  opera  in  senso  inverso,  esentando
l'utente dall'obbligo di ottenere la previa concessione. 
    In  realta',   a   parere   della   stessa   difesa,   l'illecito
amministrativo  deve  ritenersi  integrato  per  il  solo  fatto  che
l'utente abusivo si e' sottratto non  solo  al  potere  di  controllo
dell'amministrazione concedente, ma  anche  alla  corresponsione  del
canone per l'uso dell'acqua, con la conseguenza che tutti  gli  altri
usi, ad eccezione  di  quello  domestico,  risulterebbero  ugualmente
sanzionabili ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999. 
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale  sarebbe   dunque
inammissibile perche' sollevata su una erronea interpretazione  della
normativa censurata. 
    6. - In prossimita' dell'udienza pubblica,  la  difesa  di  S.C.,
G.G., Z.F., L.M.,  M.N.,  F.G.,  C.U.,  O.C.,  M.P.P.,  M.C.,  e  del
Consorzio C.A.V.E.T. Alta  Velocita'  Emilia-Toscana,  ha  depositato
memoria illustrativa  nella  quale  sono  riesaminati  i  profili  di
censura prospettati dal rimettente. 
    6.1. - In via preliminare, la difesa delle parti suddette  reputa
le questioni inammissibili in quanto la prevalenza  della  norma  che
sanziona in via amministrativa le condotte in esame, affermata  dalla
giurisprudenza della Corte di cassazione e condivisa dal  rimettente,
costituisce espressione di una scelta politico-criminale riservata al
legislatore,  non  manifestamente  irragionevole   ne'   lesiva   del
principio di uguaglianza. 
    Il rimettente, prosegue la difesa,  vorrebbe  che  la  norma  che
configura l'illecito amministrativo fosse dichiarata illegittima allo
scopo di consentire la «riespansione» della norma penale, in tal modo
richiedendo un intervento con esiti in malam partem, ma la  Corte  ha
gia' piu' volte  dichiarato  inammissibili  questioni  con  le  quali
venivano   richiesti   interventi   di    contrasto    alle    scelte
depenalizzatrici compiute dal legislatore ordinario. 
    Ne' varrebbero in senso contrario gli argomenti con  i  quali  la
stessa Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la normativa  «di
favore» in materia di reati elettorali (sentenza n.  394  del  2006):
nella  citata  pronuncia  si  trova  affermato   che,   per   potersi
qualificare una norma come «di favore», deve trattarsi  di  norma  di
privilegio in senso proprio, la quale sottrae  una  certa  classe  di
soggetti o di condotte all'ambito  di  applicazione  di  altra  norma
maggiormente comprensiva, e si trovi in rapporto di  compresenza  con
quest'ultima. 
    La  norma  censurata  dall'odierno  rimettente,  viceversa,   non
presenterebbe i caratteri indicati, trattandosi di previsione che  al
piu', secondo la teorizzazione contenuta nella stessa sentenza n. 394
del   2006,   «delimita   l'area   di   intervento   di   una   norma
incriminatrice», con la quale si esprime una valutazione  legislativa
in termini di meritevolezza ovvero di "bisogno di pena", cui la Corte
non potrebbe sovrapporre una diversa strategia di criminalizzazione. 
    6.2. - Un ulteriore profilo di inammissibilita'  delle  questioni
sarebbe collegato  alla  applicabilita',  alle  condotte  contestate,
della disposizione contenuta all'art. 48, terzo comma,  del  r.d.  n.
1775 del 1933. 
    L'argomento, sul quale il rimettente non avrebbe preso  posizione
nonostante le sollecitazioni provenienti dalle parti, e'  gia'  stato
esposto nella memoria di costituzione  e  sintetizzato  al  paragrafo
4.1. 
    6.3. - La difesa assume inoltre che  la  norma  che  sanziona  il
delitto di furto non potrebbe comunque trovare applicazione nel  caso
in esame, stante la natura dell'opera  eseguita.  L'applicazione  del
richiamato art. 48, pure se non intesa  come  limite  al  divieto  di
derivazione  senza  provvedimento  concessorio,  determinerebbe   una
"disponibilita' materiale" in capo al soggetto  esecutore  dell'opera
pubblica, qualificabile come detenzione, tale da escludere  a  priori
la configurabilita' del furto. Tutt'al piu'  si  potrebbe  ipotizzare
l'applicabilita'  delle   diverse   fattispecie   dell'appropriazione
indebita, sanzionata dall'art. 646 cod. pen., ovvero della deviazione
di acque e modificazione dello stato dei luoghi, punita dall'art. 632
cod.  pen.,  dovendosi  peraltro  considerare,  quanto   alla   prima
fattispecie, che mancherebbe comunque la querela,  e,  riguardo  alla
seconda fattispecie, che essa ricorre solo in presenza della  «totale
sottrazione dell'acque  dalla  sua  naturale  destinazione,  in  modo
permanente o anche solo saltuario» (e' richiamata la  sentenza  della
Corte di cassazione n. 48057 del 2009). 
    Risulterebbe  pertanto  erronea  la  individuazione  della  norma
penale che verrebbe a «riespandere» il proprio campo di applicazione,
ove  la  previsione  dell'illecito  amministrativo  fosse  dichiarata
illegittima costituzionalmente. 
    6.4. - Nel merito,  la  stessa  difesa  evidenzia  l'infondatezza
della questione. 
    Richiamati i profili di censura prospettati  dal  rimettente,  si
osserva che oggetto di tutela della norma censurata non e' la risorsa
in  se',  quanto  la  funzione  amministrativa  che   garantisce   il
contemperamento di diversi  interessi.  Non  vi  sarebbe  dunque  una
"intangibilita'" assoluta della risorsa idrica,  e  l'intero  sistema
dei «servizi idrici», per quanto  fondato  sul  riconoscimento  delle
acque come risorsa da proteggere, e' finalizzato a disciplinare  «non
l'acqua ma gli usi della stessa». 
    L'articolato modello organizzativo presuppone che la capacita' di
disporre  delle  acque  pubbliche  non   e'   libera   ma,   appunto,
amministrata e dunque  controllata.  In  tal  senso,  la  tutela  del
profilo quantitativo delle risorse idriche risulta  piu'  appropriata
di quella penale, che puo' invece risultare  tecnicamente  necessaria
nell'ambito  della  tutela  qualitativa,  ove  occorre   evitare   il
deterioramento potenzialmente irreversibile  della  risorsa  e  della
salute, quali effetti dell'inquinamento. 
    La difesa richiama la Circolare della  Presidenza  del  Consiglio
dei Ministri dedicata ai  «Criteri  orientativi  per  la  scelta  tra
sanzioni penali e sanzioni amministrative» (Circ. P.C.M. 19.12.1983),
nella  quale  sono  indicati  i  principi   di   proporzionalita'   e
sussidiarieta' ai quali deve ispirarsi il legislatore, tanto piu' nei
casi in cui oggetto di tutela  sia  una  funzione  amministrativa  di
gestione. 
    Quanto alla censura di  disparita'  di  trattamento  di  condotte
diverse, egualmente aggressive del medesimo bene giuridico, la stessa
sarebbe manifestamente infondata per due ordini di ragioni. 
    In  primo  luogo,  il  rimettente  muoverebbe   da   un   erroneo
presupposto, vale a dire che il legislatore avrebbe distinto  tra  le
diverse motivazioni che sorreggono la  condotta  vietata,  mentre  in
realta' la distinzione esiste tra "ambiti oggettivi di attivita'": da
un lato le attivita' strumentali all'uso domestico, per le quali  non
e'  necessaria  autorizzazione,  e  dall'altro   le   attivita'   non
strumentali a tale uso. Tra queste ultime  nessuna  distinzione  puo'
essere fatta: sono tutte vietate, a prescindere dal fine di lucro, se
consistono in derivazione o utilizzazione  di  acqua  in  assenza  di
provvedimento autorizzativo dell'autorita' competente. 
    E  del  resto,  come  correttamente  posto  in   evidenza   dalla
giurisprudenza della Corte di cassazione, la sanzione  amministrativa
tutela anch'essa gli  interessi  patrimoniali  dello  Stato,  con  la
conseguenza che la norma censurata e la fattispecie  che  punisce  il
furto si trovano sicuramente in rapporto di specialita'. 
    In  conclusione,  si  richiama  l'attenzione   sulla   diversita'
intercorrente tra la situazione oggetto del procedimento  principale,
di realizzazione di un'opera di interesse pubblico, e altri  casi  di
uso della risorsa idrica  a  fini  di  lucro  al  di  fuori  di  tale
contesto.  L'eventuale  differente  trattamento   sanzionatorio   non
sarebbe irragionevole. 
    7. - In data 15 giugno 2010 ha depositato memoria R.A.,  imputato
nel procedimento a quo, gia' costituito nel giudizio incidentale. 
    La difesa dell'imputato richiama  i  termini  della  questione  e
quindi argomenta sui possibili profili di inammissibilita'. 
    7.1. - In primo luogo, si assume l'erronea  individuazione  della
norma oggetto, in  quanto  l'esclusione  della  sanzione  penale  non
sarebbe conseguenza diretta  della  disposizione  che  ha  introdotto
l'illecito amministrativo, ma discenderebbe  dall'applicazione  delle
regole  che  disciplinano  il  concorso  apparente  di  norme,  e  in
particolare  dall'art.  9  della  legge  n.  689  del  1981,  che  il
rimettente non ha censurato. 
    Sarebbe inoltre incompleta la motivazione in punto  di  rilevanza
della questione, in quanto lo stesso rimettente da' per scontato  che
qualora  non  vi  fosse  la   sanzione   amministrativa,   troverebbe
applicazione la disposizione che punisce il furto. 
    E' quindi richiamato l'art. 48 del  r.d.  n.  1775  del  1933,  a
sostegno  della   mancanza   di   antigiuridicita'   delle   condotte
contestate, con argomenti sostanzialmente coincidenti con quelli gia'
sintetizzati al paragrafo 4.1, cui si rinvia. 
    7.2. - Nel merito, le questioni risulterebbero infondate. 
    Con riferimento alla  lamentata  disparita'  di  trattamento  tra
condotte realizzate prima o dopo l'entrata in vigore della  norma  di
depenalizzazione,  la  difesa  osserva  come,  a  prescindere   dalla
circostanza che l'effetto  depenalizzante  opererebbe  anche  per  le
condotte antecedenti, la  censura  risulti  oltremodo  singolare,  in
quanto  tutte  le  disposizioni   che   intervengono   a   modificare
disposizioni precedenti introducono necessariamente  una  "disparita'
di trattamento" tra condotte identiche, ne' il legislatore ha l'onere
di far emergere ragioni a fondamento delle proprie scelte. 
    Quanto alla prospettata irragionevolezza della scelta legislativa
di tutelare le risorse idriche in modo  meno  pregnante  rispetto  ad
altri beni, di importanza sicuramente inferiore, la difesa sottolinea
la  differenza  esistente  tra  la  condotta  di  spossessamento  del
legittimo proprietario, al quale venga sottratta la cosa  mobile,  al
fine di trarne profitto, e la condotta di derivazione e utilizzazione
dell'acqua in assenza di provvedimento concessorio o  autorizzatorio:
in tale secondo caso non vi e'  alterazione  della  destinazione  del
bene, costituendo  al  contrario  l'uso  industriale  uno  degli  usi
consentiti dell'acqua. 
    Nella  specie,  verrebbe  in  rilievo  la  necessita'  che  l'uso
dell'acqua   sia   regolato   attraverso   specifici    provvedimenti
amministrativi,  come  confermato  anche   dalla   previsione   della
possibile continuazione  provvisoria  del  prelievo  in  presenza  di
particolari  ragioni  di   interesse   pubblico   generale,   purche'
l'utilizzazione non risulti in palese  contrasto  con  i  diritti  di
terzi e con il buon regime delle acque. 
    Con riguardo, infine, alla prospettata  ulteriore  disparita'  di
trattamento  che  il  rimettente  individua  nel  mantenimento  della
incriminazione di altre condotte, di aggressione al medesimo bene, la
difesa  rileva  che,  nell'ipotesi   esemplificativamente   riportata
nell'ordinanza di  rimessione,  quella  cioe'  del  soggetto  che  si
appropri di acqua di pregio per imbottigliarla e venderla, saremmo di
fronte ad un uso  non  consentito  della  risorsa,  e  dunque  ad  un
comportamento che non potrebbe essere autorizzato. 
    Peraltro,  e   conclusivamente,   ove   mai   esistessero   altri
comportamenti, di disvalore pari a quello delle  condotte  in  esame,
che  fossero  sanzionati   penalmente,   cio'   dovrebbe   comportare
l'illegittimita' costituzionale della perdurante incriminazione,  non
gia'  della  previsione  dell'illecito  amministrativo,  come  invece
pretenderebbe il rimettente. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Tribunale di Firenze, sezione distaccata di  Pontassieve,
ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 23,  comma  4,  del  decreto
legislativo 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla  tutela  delle
acque dall'inquinamento  e  recepimento  della  direttiva  91/271/CEE
concernente  il  trattamento  delle  acque  reflue  urbane  e   della
direttiva   91/676/CEE   relativa   alla   protezione   delle   acque
dall'inquinamento  provocato  dai  nitrati   provenienti   da   fonti
agricole), come modificato dall'art. 7  del  decreto  legislativo  18
agosto 2000,  n.  258  (Disposizioni  correttive  e  integrative  del
decreto legislativo 11 maggio 1999, n.  152,  in  materia  di  tutela
delle acque dall'inquinamento, a  norma  dell'articolo  1,  comma  4,
della legge 24 aprile 1998, n. 128), nella parte in cui,  sostituendo
l'art. 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n.  1775  (Testo  unico
delle disposizioni  di  legge  sulle  acque  e  impianti  elettrici),
sanziona come mero illecito amministrativo le condotte di derivazione
o utilizzazione di acqua pubblica  in  assenza  di  provvedimento  di
autorizzazione o concessione dell'autorita' competente. 
    La norma e' oggetto di censura in radice, per  l'irragionevolezza
che avrebbe contrassegnato la scelta legislativa  di  «depenalizzare»
condotte in precedenza perseguite a titolo di furto, a  fronte  della
finalita', dichiarata nell'art. 1 del d.lgs.  n.  152  del  1999,  di
rafforzare la tutela della risorsa idrica. 
    Ulteriori  censure  sono  prospettate  sotto  il  profilo   della
ingiustificata disparita' di trattamento, derivante sia dal raffronto
con la  tutela  apprestata  ad  altri  beni,  di  valore  sicuramente
inferiore all'acqua, la cui  indebita  appropriazione  e'  presidiata
dalla sanzione penale, sia dal raffronto tra le  stesse  condotte  di
impossessamento abusivo dell'acqua, a seconda che siano  state  poste
in essere prima o dopo l'entrata in  vigore  della  norma  in  esame,
ovvero che risultino sorrette o non dalla «finalita' industriale». 
    Con  riferimento   a   quest'ultimo   profilo,   l'illegittimita'
costituzionale e' costruita dal rimettente secondo  lo  schema  della
«norma di favore», sul presupposto  che  la  sanzione  amministrativa
trovi applicazione nei confronti di un'unica categoria  di  soggetti,
cioe' di  coloro  i  quali  si  impossessano  abusivamente  di  acqua
pubblica per fini industriali. 
    2. - Preliminarmente  deve  essere  disattesa  la  prospettazione
dell'Avvocatura dello Stato, che  sostiene  l'inammissibilita'  della
questione, per non avere il rimettente esplorato la  possibilita'  di
dare  della  norma  censurata  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata, fondata sulla coesistenza tra  sanzione  amministrativa  e
sanzione penale. In particolare non opererebbe, nel caso  di  specie,
il principio sancito all'art. 9 della legge 24 novembre 1981, n.  689
(Modifiche al sistema penale). 
    Detto principio e' infatti applicabile,  secondo  la  consolidata
giurisprudenza  di  legittimita',  all'ipotesi   dell'impossessamento
abusivo di acqua pubblica in forza del  necessario  riferimento  alla
struttura delle fattispecie, piuttosto  che  al  bene  protetto,  per
l'identificazione   del   rapporto   di   specialita'    tra    norma
amministrativa e norma penale, con la conseguenza che l'art.  23  del
d.lgs. n. 152 del 1999 deve prevalere sull'art.  624  cod.  pen.  (ex
plurimis, Corte di cassazione, sentenze n. 21008 del 2010;  n.  25548
del 2007; n. 186 del 2006; n. 39977 del 2005; n. 26877 del 2004). 
    D'altra parte, la coesistenza della sanzione penale e  di  quella
amministrativa  non  sarebbe  necessariamente  il   frutto   di   una
interpretazione   costituzionalmente    orientata.    L'effetto    di
depenalizzazione,  scaturente  dall'applicazione  del  principio   di
specialita', e' stato voluto dal legislatore, che  ben  conosceva  il
sistema  normativo  nel  quale  la  nuova  disposizione   andava   ad
inserirsi. La valutazione  sulle  questioni  si  riduce,  dunque,  in
questa   prospettiva,   alla    verifica    della    non    manifesta
irragionevolezza  della   scelta   compiuta   dal   legislatore   con
l'introduzione della norma censurata. 
    3. - Le questioni sono  inammissibili  per  ragioni  diverse,  di
seguito specificate. 
    3.1. - Il rimettente censura come  irragionevole  la  scelta  del
legislatore  di  depenalizzare  l'impossessamento  abusivo  di  acqua
pubblica, perche' in  contraddizione  con  il  complessivo  indirizzo
legislativo degli ultimi decenni, volto a rafforzare  la  tutela  del
bene acqua, preservando la sua fruizione da parte  della  generalita'
dei cittadini. Tale orientamento di maggior  tutela  dell'ambiente  e
degli  interessi  della  collettivita'  sarebbe  in   contrasto   con
l'attenuazione del rigore punitivo nei  confronti  dei  soggetti  che
sottraggono  quantitativi  piu'  o  meno  ingenti  di  acqua  all'uso
pubblico, per realizzare profitti  diretti,  derivanti  da  eventuali
commercializzazioni dell'acqua  abusivamente  captata,  o  indiretti,
derivanti  da   utilizzazione   dell'acqua   stessa   per   finalita'
industriali o comunque produttive, ottenendo  la  disponibilita'  del
bene senza sostenere alcun costo. 
    3.2. - Occorre ricordare, con riferimento a  tale  censura,  come
questa  Corte  abbia  costantemente  affermato  che  «il  potere   di
configurare le ipotesi criminose, determinando la pena  per  ciascuna
di esse, e di depenalizzare fatti dianzi configurati come reati [...]
rientra nella discrezionalita' legislativa censurabile,  in  sede  di
sindacato di costituzionalita', solo nel caso in cui  sia  esercitata
in modo manifestamente irragionevole» (sentenza n. 364 del  2004,  ed
in precedenza, ex plurimis, sentenza n. 313 del  1995,  ordinanze  n.
110 del 2003, n. 144 del 2001, n. 58 del 1999). 
    A proposito dell'efficacia delle  sanzioni  penali  e  di  quelle
amministrative, questa Corte ha pure osservato: «La  sanzione  penale
non e' l'unico strumento attraverso  il  quale  il  legislatore  puo'
cercare di perseguire la effettivita' dell'imposizione di obblighi  o
di doveri [...]. Vi puo' essere uno spazio nel quale tali obblighi  e
doveri sono operanti, ma non assistiti  da  sanzione  penale,  bensi'
accompagnati da controlli e da responsabilita' solo amministrative  o
politico-amministrative. Ed e' anzi rimesso alla scelta discrezionale
del legislatore, purche' non manifestamente  irragionevole,  valutare
quando e in quali limiti debba trovare  impiego  lo  strumento  della
sanzione penale, che per sua natura  costituisce  extrema  ratio,  da
riservare ai casi in cui non appaiano efficaci altri strumenti per la
tutela di beni ritenuti essenziali» (ordinanza n. 317 del 1996). 
    4. - In conformita' ai principi  sopra  ricordati,  nel  caso  di
specie non si puo' ritenere che la scelta di depenalizzazione operata
dal  legislatore  con   la   norma   censurata   sia   manifestamente
irragionevole. 
    Deve essere innanzitutto considerato il contesto normativo in cui
si inserisce la disposizione censurata,  che  attua  il  disegno  del
legislatore  di  regolare   in   modo   sistematico   e   programmato
l'utilizzazione collettiva di un bene indispensabile e  scarso,  come
l'acqua, che comporta la prevalenza delle  regole  amministrative  di
fruizione sul mero aspetto dominicale.  L'integrale  pubblicizzazione
delle acque superficiali e sotterranee e' stata  strettamente  legata
dall'art. 1 della legge  5  gennaio  1994,  n.  36  (Disposizioni  in
materia di risorse idriche) alla salvaguardia di tale risorsa ed alla
sua utilizzazione secondo criteri di solidarieta'. Da  questo  doppio
principio  discende  la  conseguenza  che  deve  essere  la  pubblica
amministrazione a disciplinare e programmare l'uso delle acque,  allo
scopo di consentire un equilibrato consumo per finalita'  diverse  da
quelle  domestiche,  nel  quadro   della   fondamentale   distinzione
contenuta negli artt. 17, comma 1, e 95, primo  comma,  del  r.d.  n.
1775 del 1933. Non viene in rilievo la contrapposizione tra lo Stato,
proprietario del bene, ed i privati, ma l'integrazione tra pubblico e
privato, nel  quadro  della  regolazione  programmata  e  controllata
dell'uso dell'acqua, che costituisce bene di tutti e, in quanto tale,
deve essere  distribuita  secondo  criteri  razionali  ed  imparziali
stabiliti da apposite regole amministrative. 
    La legge non distingue tra i soggetti privati che si impossessano
di acque sotterranee, ma, a norma del citato art.  95,  primo  comma,
del r.d. n. 1775 del 1933, regola  diversamente  gli  usi  domestici,
definiti e delimitati dall'art. 93  del  medesimo  t.u.,  e  gli  usi
diversi, per i quali sono necessarie l'autorizzazione alla ricerca ed
allo scavo e la concessione  per  l'utilizzo,  secondo  il  piano  di
massima allegato alla domanda di autorizzazione. 
    In questo quadro, spetta alla pubblica amministrazione competente
programmare, regolare e controllare il  corretto  utilizzo  del  bene
acqua in un dato territorio, non gia'  in  una  prospettiva  di  mera
tutela della proprieta' demaniale, ma in quella  del  contemperamento
tra la natura pubblicistica della risorsa e  la  sua  destinazione  a
soddisfare i bisogni domestici e produttivi  dei  consociati.  Questi
ultimi hanno titolo ad utilizzare le acque sotterranee, nel  rispetto
delle norme amministrative poste a salvaguardia dell'integrita' della
risorsa, che  non  puo'  essere  indiscriminatamente  depauperata  da
prelievi  che  sfuggono   ai   poteri   regolativi   della   pubblica
amministrazione. 
    Da quanto appena detto si deduce che  la  scelta  legislativa  di
sanzionare  solo  in  via  amministrativa   eventuali   comportamenti
trasgressivi  delle  regole  di   utilizzo   delle   acque   non   e'
manifestamente  irragionevole,  giacche'  deve  aversi  primariamente
riguardo  al  rapporto  tra  cittadini  e  pubblica   amministrazione
nell'accesso  ad  un  bene   che   appartiene   in   principio   alla
collettivita'. Tale rapporto viene alterato dalla violazione di norme
che non sono poste soltanto a presidio della proprieta' pubblica  del
bene,  collocato  in  una  sfera  separata  rispetto  a  quella   dei
cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione compatibile con
l'entita' delle risorse idriche disponibili in un dato  territorio  e
con la loro equilibrata distribuzione tra coloro che aspirano a farne
uso.  Se  tutti  hanno  diritto  di  accedere  all'acqua,   l'aspetto
dominicale della tutela si colloca in secondo  piano,  rispetto  alla
primaria esigenza di programmare e  vigilare  sulle  ricerche  e  sui
prelievi, allo scopo di  evitare  che  impossessamenti  incontrollati
possano avvantaggiare indebitamente determinati soggetti a  danno  di
altri o dell'intera collettivita'. 
    La  sanzione  amministrativa  prevista  dalla  norma   censurata,
d'altra parte, non e' irrisoria  e  priva  di  efficacia  dissuasiva,
giacche' i trasgressori, previa cessazione delle utenze abusive, sono
tenuti al pagamento di una somma da 3.000 a 30.000  euro,  oltre  che
dell'intero importo dei canoni non corrisposti. L'intento  principale
del legislatore e' quello di ricondurre nell'alveo della  regolarita'
un uso dell'acqua non in linea con la disciplina amministrativa, come
dimostra peraltro la possibilita' della continuazione provvisoria del
prelievo - prevista dalla stessa norma censurata -  «in  presenza  di
particolari  ragioni  di   interesse   pubblico   generale,   purche'
l'utilizzazione non risulti in palese contrasto  con  i  diritti  dei
terzi e con il buon regime delle acque».  L'intreccio  tra  interessi
pubblici e privati, emergente da tale ultima previsione, dimostra che
tutto il sistema e' finalizzato a mantenere l'equilibrio  ambientale,
l'equa utilizzazione delle risorse idriche da parte dei  cittadini  e
l'effettivita' dei piani di salvaguardia  delle  stesse,  predisposti
dalle autorita' competenti. 
    Altre scelte legislative sarebbero  astrattamente  possibili,  ma
non spetta a questa Corte  dare  valutazioni  di  merito,  una  volta
rilevata la non manifesta irragionevolezza di  quella  che  sta  alla
base della norma censurata. 
    5. - La non manifesta irragionevolezza della  scelta  legislativa
di depenalizzazione dell'impossessamento abusivo di acqua pubblica  a
fini non domestici, rende manifesta l'inconferenza del  richiamo  del
rimettente alla sentenza n. 394 del 2006 di questa Corte, in tema  di
"norme penali di favore". Tale  pronuncia  si  basa  sul  presupposto
della compresenza nell'ordinamento di una norma penale  che  contiene
una fattispecie piu' ampia  e  di  una  norma  che  irragionevolmente
prevede un  trattamento  piu'  favorevole  per  specifiche  condotte,
altrimenti rientranti nella previsione generale. 
    Il caso oggetto del presente giudizio riguarda una norma  che  ha
escluso  dalla  rilevanza  penale  comportamenti  che   astrattamente
avrebbero potuto essere ricondotti alla previsione  generale  di  cui
all'art. 624 del codice penale, secondo una  scelta  legislativa  non
riconducibile al fenomeno delle cosiddette norme  penali  di  favore.
Infatti, come si e' visto al par. 3,  non  si  riscontra  una  palese
irragionevolezza  nell'orientamento  del  legislatore  a  considerare
recessivo il profilo proprietario della tutela delle acque  pubbliche
rispetto a quello programmatorio e gestionale, maggiormente  consono,
nella  valutazione  dello  stesso  legislatore,  alla  finalita'   di
regolare un corretto uso,  da  parte  dei  cittadini,  delle  risorse
idriche, alle quali comunque hanno titolo ad accedere. 
    Il  riferimento,   operato   dal   rimettente,   all'ipotesi   di
un'appropriazione   dell'acqua   pubblica    a    mero    scopo    di
commercializzazione - indipendentemente quindi da un uso industriale,
agricolo o comunque produttivo  -  esula  dall'oggetto  del  giudizio
principale e pertanto non assume rilevanza nell'attuale incidente  di
legittimita' costituzionale. 
    Essendo mirata in definitiva ad indurre un sindacato sulle scelte
discrezionali sanzionatorie del legislatore, in  una  situazione  non
caratterizzata  dalla  manifesta  irragionevolezza   delle   relative
opzioni, la questione sollevata dal rimettente risulta inammissibile. 
    6.  -  Parimenti  inammissibile  e'  la  questione  basata  sulla
presunta irragionevolezza della depenalizzazione dell'impossessamento
abusivo di acqua pubblica, in quanto si doterebbe  un  bene  prezioso
per la collettivita' di una tutela meno  intensa  rispetto  ad  altri
beni di minore rilevanza nella scala dei  valori  costituzionali.  Il
rimettente tuttavia non precisa  quali  sarebbero  tali  beni  e  non
indica neppure  quali  dovrebbero  essere  i  criteri  oggettivi  per
istituire una simile gerarchia  di  valori,  assunta  come  punto  di
riferimento astratto per motivare l'asserita violazione, sotto questo
profilo, dell'art. 3 Cost. La questione e' pertanto inammissibile per
carente motivazione sulla non manifesta infondatezza. 
    7. - Non ha maggior pregio la questione costruita sulla  presunta
arbitrarieta' della depenalizzazione sotto il profilo intertemporale,
giacche',  ad  avviso  del  rimettente,  i  comportamenti   anteriori
all'entrata  in  vigore  della   norma   depenalizzatrice   sarebbero
sottoposti al rigore della norma  penale,  mentre  quelli  successivi
sarebbero assoggettati soltanto alla sanzione amministrativa. 
    L'affermazione  del  rimettente  prova  troppo.  Difatti,  se  il
ragionamento potesse avere ingresso nella considerazione del  giudice
costituzionale,  tutte  le  norme   di   depenalizzazione   sarebbero
illegittime, giacche' vi e' pur sempre  un  termine  temporale  della
loro entrata in vigore. A  cio'  si  deve  aggiungere  che  l'effetto
discriminatorio  prospettato  dal  giudice   a   quo   non   potrebbe
verificarsi, in ragione dell'art. 2 cod. pen., del quale non si tiene
alcun conto  nell'ordinanza  di  rimessione.  La  questione  pertanto
difetta palesemente di rilevanza sotto il suddetto profilo ed  e'  di
conseguenza inammissibile. 
    8. - Infine, come gia' rilevato al par. 4, la legge non distingue
tra utilizzazioni industriali, agricole o di altro tipo, ma  soltanto
tra usi domestici e altri  usi.  Non  e'  ipotizzabile  pertanto,  al
contrario di quanto asserito dal rimettente, una discriminazione  tra
gli usi industriali e gli altri usi possibili, che possono essere  di
vario genere e sono tutti assoggettabili, in  caso  di  trasgressione
delle norme amministrative,  al  medesimo  regime  sanzionatorio.  La
questione e'  quindi  inammissibile  per  erronea  ricostruzione  del
quadro normativo.