IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 824 del 2011, proposto da Maria  Agnello,  Leonardo
Agueci, Caterina Ajello, Vittorio  Alcamo,  Maria  Teresa  Ambrosini,
Vittorio Anania, Claudio Antonelli, Fernando Asaro,  Anna  Battaglia,
Alberto Bellet, Franco Belvisi, Enrico Bologna,  Monica  Boni,  Maria
Daniela  Patrizia  Borsellino,  Lucia  Brescia,  Caterina   Brignone,
Eleonora Bruno, Santina Bruno, Michele Calvisi,  Alessandra  Camassa,
Rocco Camerata Scovazzo, Rosalia  Tanina  Camma',  Francesco  Antonio
Cancilla, Antonio Caputo, Attilio Caputo, Lunella  Caradonna,  Walter
Carlisi, Paola Carotenuto, Carmelo Carrara, Giuliano Castiglia, Luisa
Anna Gattina', Pietro Cavarretta, Antonio  Maria  Cavasino,  Vincenzo
Cefalo, Emanuele Cersosimo, Sebastiana Ciardo, Anna Rita Coltellacci,
Santi  Roberto  Condorelli,  Mario  Conte,  Roberto  Giovanni  Conti,
Ettorina Contino, Massimo Corleo,  Samuele  Corso,  Fabio  Cosentino,
Ettore Costanzo, Florestano Cristodaro, Luigi Croce, Luca  D'Addario,
Alberto  Davico,  Giuseppe  De  Gregorio,  Gianluca  De  Leo,  Sergio
Demontis, Giuseppina  Di  Maida,  Gabriella  Di  Marco,  Antonino  Di
Matteo, Renato Di Natale,  Paolo  Di  Sciuva,  Salvatore  Di  Vitale,
Marcella Ferrara, Maria  Stefania  Ferrieri  Caputi,  Lucia  Fontana,
Ignazio Giovanni Fonzo, Santo Fornasier, Giovanni Francolini,  Silvia
Franzoso, Matteo Frasca, Fulvia Fratantonio, Rita Fulantelli,  Chiara
Gagliano, Daniela  Galazzi,  Maria  Elena  Gamberini,  Andrea  Genna,
Mariarosaria Gerbino, Benedetto Giaimo, Gabriella  Giammona,  Daniela
Giglio, Paolo Giudici, Francesco Grassi, Piero  Euro  Nicola  Grillo,
Caterina  Grimaldi  Di  Terresena,  Paolo   Guido,   Tania   Hmeljak,
Gianfranca Claudia Infantino, Biagio  Insacco,  Fabrizio  La  Cascia,
Anna  Maria  Leone,  Luisa  Leone,  Fabio  Licata,  Vincenzo  Liotta,
Ferdinando Lo Cascio, Raimondo Loforti, Cristiana  Macchiusi,  Giulia
Maisano, Raffaele Malizia, Clelia Maltese, Virginia Marletta, Daniele
Marraffa, Vincenzina Massa, Wilma Angela Mazzara, Salvatore  Messina,
Francesco Micela, Giuseppe Maria Miceli,  Rachele  Monfredi,  Roberto
Murgia, Gabriella Natale, Cintia Emanuela  Nicoletti,  Giacomo  Maria
Nonno,  Andrea  Norzi,  Giovanna  Nozzetti,  Calogero  Gaetano  Paci,
Pierangelo Padova,  Massimo  Palmeri,  Antonella  Pandolfi,  Vincenzo
Pantaleo, Antonia Pappalardo, Antonina Pardo, Ignazio  Pardo,  Pietro
Pellegrino, Daniela Pellingra, Angelo Pellino, Rossana  Penna,  Laura
Petitti, Bernardo Petralia, Ennio  Petrigni,  Filippo  Picone,  Fabio
Pilato,  Adriana  Piras,  Francescamaria  Piruzza,  Emanuela   Podda,
Antonio  Prestipino,  Donatella  Puleo,  Flora   Randazzo,   Emanuele
Ravaglioli, Luciana Razete, Giuseppe Rini, Michele  Ruvolo,  Antonina
Sabatino, Vincenza Sabatino, Marzia Eugenia  Sabella,  Simona  Sansa,
Rosa  Alba  Scaduto,  Maurizio  Scalia,  Luca  Sciarretta,   Giuseppe
Sgadari, Giovanni Sirchia, Cinzia Carla Enrica  Soffientini,  Gaetano
Sole, Giulia Spadaro, Valerla Spatafora, Maria Patrizia Spina, Andrea
Tarondo, Vittorio Teresi, Rita  Paola  Terramagra,  Mauro  Terranova,
Annalisa Tesoriere, Giovanni Carlo Tomaselli, Raimonda Tomasino, Anna
Trinchillo, Giancarlo Trizzino, Daniela Troja, Claudia  Turco,  Luisa
Turco,  Raffaella  Vacca,  Laura  Vaccaro,  Chiara  Vicini,   Stefano
Salvatore Zammuto, Renato Zichittella, rappresentati e  difesi  dagli
Avv. Vittorio Angiolini, Marco  Cuniberti  ed  Agatino  Cariola,  con
domicilio eletto presso lo studio dell'Avv. Rosanna  Paruta  sito  in
Palermo, via Onorato n. 10; 
    Contro  Ministero  della  giustizia,  Ministero  dell'economia  e
finanze, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona dei legali
rappresentanti   p.t.,   rappresentati   e   difesi   dall'Avvocatura
Distrettuale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano  per  legge
in Palermo, via A. De Gasperi n. 81; 
    Per il riconoscimento, previa idonea cautela, e  con  riserva  di
motivi aggiunti, del diritto  al  trattamento  retributivo  spettante
senza tener conto delle decurtazioni di cui al comma 22  dell'art.  9
del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modifiche
nella legge 30 luglio 2010, n. 122; nonche'  per  la  condanna  delle
amministrazioni resistenti al pagamento delle  somme  corrispondenti,
con ogni accessorio di legge. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio  del  Ministero  della
giustizia, del Ministero dell'economia e finanze e  della  Presidenza
del Consiglio dei Ministri; 
    Relatore nell'udienza pubblica del  giorno  6  dicembre  2011  il
dott. Pier Luigi Tomaiuoli e uditi per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
    1. Premessa. 
    1.1. I ricorrenti - nella dedotta e comune qualita' di magistrati
ordinari in servizio  presso  i  vari  Uffici  giudiziari  ricompresi
nell'ambito  di  competenza  territoriale  dell'adito  giudicante  ed
assoggettati,  in  quanto  tali,  alle  decurtazioni  del  rispettivo
trattamento    retributivo    derivanti    dall'applicazione    delle
disposizioni finanziarie contenute  nel  comma  22  dell'art.  9  del
decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni
dalla 1egge 30 luglio 2010, n. 122 («Misure  urgenti  in  materia  di
stabilizzazione  finanziaria  e  competitivita'  economica») -  hanno
agito in giudizio  per  la  declaratoria  d'illegittimita'  di  dette
misure, con consequenziale riconoscimento del diritto al  trattamento
retributivo  asseritamente  spettante   senza   tener   conto   delle
contestate riduzioni, e la condanna delle Amministrazioni  resistenti
alle conseguenti restituzioni, all'uopo  prospettando  violazione  di
legge   ed   altresi'   lamentando   la    sospetta    illegittimita'
costituzionale della sopra richiamata normativa primaria. 
    Le Amministrazioni convenute si sono costituite in  giudizio  con
il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, chiedendo il  rigetto  del
ricorso. 
    Il Tribunale con ordinanza presidenziale n.  231  del  25  maggio
2011 ha disposto incombenti istruttori a carico delle Amministrazioni
resistenti ed all'udienza di merito del 6 dicembre 2012 il ricorso e'
stato trattenuto in decisione. 
    I ricorrenti, in  particolare,  hanno  agito  per  l'accertamento
della illegittimita' della mancata rivalutazione dei propri  stipendi
e delle trattenute operate sugli stessi in forza del  predetto  comma
22 dell'art. 9 del decreto-legge n. 78/2010 (quale  risultante  dalle
modifiche introdotte con la legge di conversione 30 luglio  2010,  n.
122), ed in base alle disposizione in esso  contenute  che  prevedono
per il personale di cui alla legge n. 27 del 1981: 
        a) che «non sono erogati, senza possibilita' di recupero, gli
acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il  conguaglio  del  triennio
2010-2012»; 
        b) che «per il triennio  2013-2015  l'acconto  spettante  per
l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista per l'anno  2010  e  il
conguaglio per l'anno 2015 viene  determinato  con  riferimento  agli
anni 2009, 2010 e 2014»; 
        c) che «l'indennita' speciale di cui all'  articolo  3  della
legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante  negli  anni  2011,  2012  e
2013, e' ridotta del 15 per cento per l'anno 2011, del 25  per  cento
per l'anno 2012 e del 32 per cento per l'anno  2013»,  con  riduzione
non operante ai fini previdenziali. 
    Non e' oggetto, invece, di specifica domanda nel giudizio  a  quo
l'accertamento  dell'illegittimita'  della   trattenuta   stipendiale
operata su tutti i pubblici dipendenti, ivi compresi i magistrati, in
base al comma 2 dell'art. 9 del medesimo decreto-legge 31 marzo 2010,
n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio  2010,
n. 122 (il  comma  in  questione  recita:  «in  considerazione  della
eccezionalita' della situazione  economica  internazionale  e  tenuto
conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica concordati in  sede  europea,  a  decorrere  dal  1°
gennaio 2011 e sino al  31  dicembre  2013  i  trattamenti  economici
complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica  dirigenziale,
previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche,
inserite   nel   conto   economico   consolidato    della    pubblica
amministrazione,  come   individuate   dall'Istituto   nazionale   di
Statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell'art. 1, della legge 31
dicembre 2009, n. 196, superiori  a  90.000  euro  lordi  annui  sono
ridotti del 5 per cento per la parte eccedente  il  predetto  importo
fino a 150.000 euro, nonche' del 10 per cento per la parte  eccedente
150.000 euro; a  seguito  della  predetta  riduzione  il  trattamento
economico complessivo non puo' essere  comunque  inferiore  a  90.000
euro lordi annui...»). 
    1.2. Sussistono,  ad  avviso  del  Collegio,  i  presupposti  per
sollevare,  nei  termini  che  verranno  dappresso  esposti,  diverse
questioni di legittimita' costituzionale della  richiamata  normativa
sui trattamenti stipendiali dei  ricorrenti,  ed  in  particolare  in
punto di blocco dell'adeguamento automatico, di apposizione di  tetti
agli acconti ed ai conguagli del predetto adeguamento e di  riduzione
dell'indennita' di cui all'articolo 3 della legge 19  febbraio  1981,
n. 27 (la c.d. «indennita' giudiziaria)». 
    Non  avendo  i  ricorrenti  spiegato  domanda   di   accertamento
dell'illegittimita'  della  trattenuta  operata  a  titolo  di   c.d.
«contributo  di  solidarieta'»,  questo  Tribunale   non   puo',   in
applicazione  del  principio  di   corresponsione   tra   chiesto   e
pronunciato,  sollevare  eventuali  questioni  di   costituzionalita'
relative a tale ultima disposizione, stante la loro  irrilevanza  nel
giudizio a quo. 
    Essa, tuttavia, verra' fatta  oggetto  di  esame  nella  presente
ordinanza quale tassello imprescindibile del tessuto normativo in cui
si   calano   le   altre   ricordate   disposizioni   sospettate   di
incostituzionalita' e rilevanti nel giudizio a quo. 
    1.3. Proprio in punto  di  rilevanza  osserva  il  Collegio  come
l'applicazione delle norme in questione ha comportato, a partire  dal
1°  gennaio  2011,  le  lamentate  trattenute  sugli   stipendi   dei
ricorrenti, stipendi non rivalutati rispetto agli anni passati. 
    L'eventuale  pronunzia   di   incostituzionalita'   delle   dette
disposizioni,  per  contro,  condurrebbe  de  plano  all'accertamento
dell'illegittimita' del mancato adeguamento degli  stipendi  e  delle
trattenute  in  parola  e  consequenzialmente  all'accoglimento   del
ricorso: di qui la rilevanza delle questioni di costituzionalita' che
dappresso si illustreranno. 
    Osservasi, infine, con riferimento alle  sole  parti  dispositive
del comma 22 dell'art. 9 riguardanti  l'adeguamento  triennale  degli
stipendi, che non puo' essere esclusa la  rilevanza  della  questione
nel giudizio a quo,  avallando  l'interpretazione  costituzionalmente
orientata ed adeguatrice patrocinata in prima battuta dai ricorrenti,
dal momento che essa e' all'evidenza errata. 
    Assumono i ricorrenti che il predetto comma 22 dell'art.  9,  non
contenendo specificazioni in ordine a quali siano  gli  acconti  e  i
conguagli  oggetto  di   mancata   erogazione,   sarebbe   di   fatto
inapplicabile. 
    E' noto, tuttavia - e comunque chiaramente indicato  dall'art.  2
della legge n. 27/1981 - che il meccanismo  di  dinamica  retributiva
del personale di magistratura prevede un adeguamento triennale  sulla
base degli incrementi conseguiti nel precedente triennio dalle  altre
categorie del pubblico impiego che si realizza mediante  due  acconti
di pari importo nel secondo e nel  terzo  anno  del  triennio  ed  un
successivo conguaglio, con la conseguenza che sono  palesi  tanto  la
voluntas legis sottesa al comma 22 quanto il suo ambito operativo. 
    2.  Della  non  manifesta   infondatezza   della   questione   di
costituzionalita' dell'art. 9, comma 22 del  decreto-legge  31  marzo
2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla 1egge 30  luglio
2010, n. 122, per violazione degli artt. 101, comma 2, 104, comma  1,
111, commi 1 e 2 e 117,  comma  1  della  Costituzione  in  relazione
all'art. 6 della  C.E.D.U.;  e  del  bilanciamento  dei  principi  di
autonomia  ed  indipendenza  della  Magistratura  con   le   esigenze
finanziarie e di bilancio dello Stato. 
    2.1. Il dubbio di costituzionalita' per  violazione  delle  norme
indicate in rubrica sussiste sia con  riferimento  alle  disposizioni
contenute nel comma  22  dell'art.  9  riguardanti  il  blocco  degli
automatismi stipendiali (per il triennio 2011-2013)  e  l'apposizione
di tetti ai medesimi (per gli anni 2014/2015), sia con riferimento  a
quella che introduce il  taglio  della  indennita'  speciale  di  cui
all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27  secondo  aliquote
differenti negli anni 2011, 2012  e  2013  (trattasi  rispettivamente
degli incisi secondo cui: a) «non sono erogati, senza possibilita' di
recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed  il  conguaglio
del triennio 2010-2012»; b)  «per  il  triennio  2013-2015  l'acconto
spettante per l'anno 2014 e'  pari  alla  misura  gia'  prevista  per
l'anno 2010 e il conguaglio per l'anno  2015  viene  determinato  con
riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014»; c)  «l'indennita'  speciale
di cui all' articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante
negli anni 2011, 2012 e 2013, e' ridotta del 15 per cento per  l'anno
2011, del 25 per cento per l'anno 2012 e del 32 per cento per  l'anno
2013», con riduzione non operante ai fini previdenziali). 
    I valori dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura da
ogni altro potere dello Stato sono  sanciti  in  via  generale  dagli
artt. 101, comma 2 («I giudici sono soggetti soltanto alla legge»)  e
104, comma 1 Cost. («La Magistratura costituisce un ordine autonomo e
indipendente da ogni altro potere»). 
    L'indipendenza della Magistratura non e' per certo un  privilegio
dei giudici, ma  e'  funzionale,  nel  disegno  costituzionale,  alla
celebrazione di un giusto processo, come si evince dai commi  1  e  2
dell'art. 111 della Costituzione, secondo cui  «la  giurisdizione  si
attua mediante il giusto processo  regolato  dalla  legge»  ed  «ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di
parita', davanti ad un giudice terzo ed imparziale». 
    La stessa  funzionalizzazione  dell'indipendenza  dei  magistrati
alla celebrazione del giusto processo si rinviene nell'art.  6  della
Convenzione  Europea  dei  Diritti  dell'Uomo  che,  per  il  tramite
dell'art. 117, 1 comma della Costituzione (come sostituito  dall'art.
3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), e' entrata a far
parte diretta  del  nostro  tessuto  costituzionale  (sulla  predetta
funzionalizzazione cfr. Corte Europea Dir.  Umani,  19  giugno  2003,
Hulki Gunes c. Turchia). 
    Ai sensi del I alinea del I comma  del  predetto  art.  6,  «ogni
persona ha diritto ad un'equa e pubblica  udienza  entro  un  termine
ragionevole, davanti  ad  un  tribunale  indipendente  ed  imparziale
costituito per legge, al  fine  della  determinazione  sia  dei  suoi
diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia  della  fondatezza
di ogni accusa penale che gli viene rivolta». 
    E'  insegnamento  costante  della  Corte  costituzionale  che  la
necessita'    di    «attuazione    del    precetto     costituzionale
dell'indipendenza dei magistrati...va salvaguardato  anche  sotto  il
profilo economico», onde evitare «tra l'altro che essi siano soggetti
a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri»  (sentenze
nn. 1/1978, 42/1993, 238/1990). 
    Con particolare riferimento al meccanismo  del  c.d.  adeguamento
automatico degli stipendi (essenzialmente fondato sulla  garanzia  di
un  aumento  delle  retribuzioni,   che,   sulla   base   di   indici
appositamente ed obiettivamente elaborati dall'Istituto  centrale  di
statistica, viene  assicurato  «di  diritto»,  ogni  triennio,  nella
misura percentuale pari alla media degli  incrementi  realizzati  nel
triennio precedente  dalle  altre  categorie  del  pubblico  impiego)
inciso dalla normativa in esame con riferimento al triennio 2011-2013
ed al biennio 2014/2015, la Corte ha  piu'  volte  sottolineato  come
esso  costituisca  un  elemento  intrinseco  della  struttura   delle
retribuzioni  in  discorso,  inteso  alla  «attuazione  del  precetto
costituzionale   dell'indipendenza   dei    magistrati -    che    va
salvaguardato  anche  sotto  il  profilo  economico»,  «evitando  tra
l'altro che essi  siano  soggetti  a  periodiche  rivendicazioni  nei
confronti di altri poteri» (Corte cost. 10 febbraio 1993, n. 42) -  e
concretizzante «una guarentigia idonea a  tale  scopo»  (Corte  cost.
ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137; Corte 1998 n.
346; Corte cost. 8 maggio 1990, n. 238). 
    La  tutela   costituzionale   del   trattamento   economico   dei
magistrati, dunque, si  estende  al  suo  meccanismo  di  adeguamento
automatico   ma   anche    alla    c.d.    indennita'    giudiziaria,
«intrinsecamente  connessa  allo   status   di   magistrati»   (Corte
costituzionale n. 238/1990), ed alla sua rivalutazione monetaria. 
    L'indennita' di cui alla legge 19 febbraio 1981, n. 27,  infatti,
costituisce parte essenziale, costante e  «normale»  del  trattamento
economico complessivo del magistrato (sul punto Corte cost., ordd. 23
ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137;  nonche',  ex  multis;
Consiglio Stato, Sez. IV, 6 maggio 2010, n. 2646; Cons.  Stato,  Sez.
IV, 7 aprile 1993, n. 401); sicche' la sua natura di componente fissa
della retribuzione comporta le medesime  esigenze  di  tutela  teste'
evidenziate. 
    E' la stessa Corte costituzionale, del resto, nelle sopra  citate
pronunzie  n.  346/1998,  43/92  e  238/1990,  ad  avere   ricondotto
l'istituto   della   rivalutazione   automatica   della    indennita'
giudiziaria   alla   ratio   di   tutela   dell'indipendenza    della
Magistratura: identica ratio, a fortiori, non puo' che essere sottesa
al   trattamento   principale   dell'indennita'   stessa,   di    cui
l'adeguamento automatico e' solo aspetto accessorio. 
    Ha osservato la Corte che «l'indennita' in esame e' espressamente
correlata ai particolari oneri  che  i  magistrati  incontrano  nello
svolgimento della loro attivita', la quale tra  l'altro  comporta  un
impegno senza precisi limiti temporali, dal che discende un  rigoroso
collegamento con il servizio effettivamente prestato. Peraltro  -  ed
in collegamento con la pari ordinazione  delle  funzioni  (art.  107,
terzo comma, Cost.) - essa e' attribuita in misura uguale a  tutti  i
magistrati  investiti  di  funzioni  giurisdizionali,  a  prescindere
dall'anzianita' e dalla qualifica rivestita. Specificamente  connessa
allo  status  dei  magistrati  e',   poi,   l'ulteriore,   essenziale
caratteristica dell'indennita' in questione,  costituita  dall'essere
essa assoggettata al medesimo meccanismo di rivalutazione  automatica
previsto per gli stipendi dei magistrati dal precedente art. 2  della
medesima   legge.   In   attuazione   del   precetto   costituzionale
dell'indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata anche sotto il
profilo economico (sentenza n. I del 1978) evitando tra  l'altro  che
essi siano soggetti a  periodiche  rivendicazioni  nei  confronti  di
altri poteri, il legislatore ha col  citato  art.  2  predisposto  un
meccanismo  di  adeguamento   automatico   delle   retribuzioni   dei
magistrati che, in  quanto  configurato  con  l'attuale  ampiezza  di
termini di riferimento, concretizza una  guarentigia  idonea  a  tale
scopo.  La  sua  estensione  anche  all'indennita'  in   discorso   -
corrisposta con la stessa cadenza mensile degli stipendi ne evidenzia
non solo la natura retributiva, di componente del normale trattamento
economico dei magistrati, ma  anche  la  specificita'  rispetto  alle
indennita',   variamente   denominate,   attribuite   al    personale
amministrativo statale» (Corte costituzionale, 8 maggio 1990, n. 238;
cfr. anche Corte costituzionale, 19 gennaio 1995, n. 15). 
    La riconducibilita' dell'indennita' giudiziaria allo  spettro  di
tutela dei valori costituzionali dell'autonomia ed indipendenza della
Magistratura di cui agli artt. 101 e 104 della Costituzione,  dunque,
si ricava per certo sia dalla sua natura di  componente  normale  del
trattamento  economico,  sia  dall'espresso  riconoscimento  del  suo
accessorio meccanismo di rivalutazione come funzionale alla tutela di
tali valori. 
    La  tradizione  costituzionale  italiana  risulta  confermata   e
rafforzata dalla  «Raccomandazione  CM/Rec  (2010)  12  sui  giudici:
indipendenza, efficacia e responsabilita'», atto di soft-law adottato
a Strasburgo dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010 al fine di
originare linee attuative il  piu'  possibile  omogenee  dell'art.  6
della C.E.D.U. (l'incipit  e'  il  seguente  «Visto  l'art.  6  della
Convenzione  per  la  Salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali...che stabilisce che ''ogni persona ha  diritto
a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un
termine ragionevole  da  un  tribunale  indipendente  ed  imparziale,
costituito per legge'' e la  pertinente  giurisprudenza  della  Corte
Europea dei diritti dell'uomo»). 
    La predetta raccomandazione, dopo avere  sottolineato  «il  fatto
che l'indipendenza della magistratura garantisce ad ogni  persona  il
diritto ad un equo processo e quindi non e' privilegio dei magistrati
ma una garanzia  per  il  rispetto  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, che permette ad ogni persona di avere  fiducia
nel sistema giudiziario», specifica, al punto 45,  che  «deve  essere
vietata ogni forma di discriminazione verso i giudici o  i  candidati
all'ufficio di giudice»; al  punto  54,  poi,  prevede  che  la  loro
retribuzione debba essere «commisurata al loro ruolo professionale ed
alle loro responsabilita'», ed in ogni caso tale da «renderli  immuni
da qualsiasi pressione volta ad influenzare le loro decisioni». 
    Lo stesso punto 54 si chiude con l'invito agli  Stati  membri  ad
adottare «specifiche disposizioni di  legge  per  garantire  che  non
possa  essere  disposta  una  riduzione  delle  retribuzioni  rivolta
specificamente ai giudici». 
    Nello stesso ordine di idee la c.d. Magna Carta dei Giudici,  del
pari approvata  a  Strasburgo  il  17  novembre  2010  dal  Consiglio
d'Europa - Comitato consultivo dei Giudici europei (CCJE),  la  quale
Magna Carta, seppur beninteso priva ex se di valore cogente sotto  il
profilo giuridico, costituisce una decisione  fondamentale  alla  cui
luce devono essere interpretate le disposizioni interne, per  la  sua
autorevole fonte di provenienza, esprimendo il  CCJE  le  «tradizioni
costituzionali» dei quarantasette Stati europei che ne sono membri. 
    Secondo l'espresso disposto degli artt. 2,  3  e  4  della  Carta
l'indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto ai poteri legislativo
ed esecutivo va  garantita  anche  sotto  il  profilo  della  «tutela
finanziaria» della retribuzione  dei  magistrati;  l'art.  7  prevede
espressamente che «il giudice deve beneficiare di una remunerazione e
di un sistema previdenziale adeguati e garantiti dalla legge, che  lo
mettano al riparo da ogni indebita influenza». 
    2.2 Va poi considerato, sotto diverso e concorrente profilo,  che
il legislatore, mediante uno strumento che apparentemente incide solo
sulla retribuzione del magistrato, viene in  realta'  ad  operare  un
indebito    condizionamento     sull'esercizio     della     funzione
giurisdizionale, poiche' costringe l'Ordine di  appartenenza,  quando
non addirittura il magistrato come singolo, ad un  confronto  con  il
pubblico potere al fine  di  ripristinare  le  condizioni  economiche
originarie, o  quantomeno  di  elidere  o  attenuare  le  conseguenze
negative della misura disposta. 
    Tale stato  di  cose,  generando  un  sotterraneo  conflitto  tra
Istituzioni che mina alla radice la  serenita'  del  giudice,  appare
particolarmente grave per la specifica funzione del magistrato. 
    Un magistrato «condizionato», quand'anche solo  apparentemente  e
non nella realta', da una misura legislativa fortemente  penalizzante
per i suoi interessi economici  rischia  di  vedersi  sottratto  quel
credito e quel prestigio di cui  il  singolo  magistrato  e  l'Ordine
giudiziario nel suo insieme devono sempre ed indefettibilmente godere
presso la comunita' dei cittadini. 
    La Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  100  del  1981  ha
chiarito che «i magistrati, per dettato  costituzionale  (artt.  101,
comma secondo e 104, comma primo, Cost.), debbono essere imparziali e
indipendenti e tali valori vanno  tutelati  non  solo  con  specifico
riferimento al concreto esercizio delle funzioni  giurisdizionali  ma
anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al
fine  di  evitare  che  possa  fondatamente  dubitarsi   della   loro
indipendenza ed imparzialita': nell'adempimento del loro  compito.  I
principi  anzidetti  sono  quindi   volti   a   tutelare   anche   la
considerazione di cui il magistrato deve godere  presso  la  pubblica
opinione ed assicurano, nel  contempo,  quella  dignita'  dell'intero
ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che
si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria
e nella credibilita' di essa... Alla luce di tali  considerazioni  va
interpretata la sentenza di questa Corte n. 145 del  1976,  la  quale
riconosce l'esigenza di una rigorosa tutela del prestigio dell'ordine
giudiziario, che rientra senza  dubbio  tra  i  piu'  rilevanti  beni
costituzionalmente protetti». 
    Alle stesse conseguenze di «appannamento» della neutralita' della
funzione  giurisdizionale  si  perverrebbe  associando  la  riduzione
stipendiale alla rottura dei  delicati  equilibri  tra  poteri  dello
Stato. 
    In tale ottica, la misura legislativa in parola potrebbe apparire
come una sorta di punizione o di monito per  il  potere  giudiziario,
rendendo manifesta ai cittadini una condizione di evidente supremazia
gerarchica di un potere sull'altro, in contrasto - anche  sotto  tale
profilo - con i dettami costituzionali che improntano i rapporti  tra
poteri alla separazione, all'equilibrio ed al bilanciamento. 
    L'idea  di  un  magistrato  punito,   ammonito   o   anche   solo
«influenzabile»  dalla  consapevolezza  che  il  taglio   stipendiale
disposto oggi puo' ben essere ripetuto o addirittura inasprito (oltre
il 2013), ripugna al nostro sistema costituzionale ed  ordinamentale,
godendo della piu' elevata tutela, in esso, anche la  mera  apparenza
della indipendenza della funzione giurisdizionale, in  quanto  valore
fondante per l'affidabilita' e la  credibilita'  istituzionale  della
figura del magistrato (sull'importanza  anche  della  mera  apparenza
dell'indipendenza dei magistrati si veda Corte  Europea  dei  diritti
dell'Uomo, Grand Chamber, case of Incal v  Turkey,  41/1997/825/1031;
March 04, 1982, case of Sramek v  Austria;  May  06,  1978,  case  of
Campbell v Fell v The United Kingdom). 
    2.3. Ebbene il comma 22 dell'art. 9 del decrteo-legge n.  78  del
2010 ha come fine, o quantomeno come effetto, quello  di  ledere  non
solo il dato testuale, ma altresi' i principi e valori  sottesi  alle
richiamate disposizioni costituzionali  (artt.  101,  comma  2,  104,
comma 1 e 117, comma 1, in  relazione  all'art.  6  della  C.E.D.U.),
valori a loro volta funzionali all'esercizio imparziale ed  obiettivo
della   funzione   giudicante,   come   esigono   molteplici    norme
costituzionali anche in  vista  della  celebrazione  di  un  «giusto»
processo  (cfr.  artt.  24,  103  e  111  della  Cost.;  Corte  cost.
381/1999). 
    E' chiaro che  anche  i  ricordati  principi  costituzionali  che
tutelano l'autonomia e la  indipendenza  della  Magistratura  possono
essere bilanciati dal legislatore con altri valori costituzionali  in
ipotesi confliggenti; fra questi puo' di  certo  esservi,  specie  in
momenti congiunturali di crisi economica, quello del  rispetto  delle
esigenze di bilancio e  di  contenimento  della  spesa  pubblica  nei
limiti delle risorse finanziarie attingibili. 
    Ritiene, tuttavia, il Collegio che, laddove il legislatore decida
di intervenire sui meccanismi retributivi del  magistrati,  debba  in
primo luogo farlo in  uno  scenario  di  coinvolgimento  di  tutti  i
contribuenti secondo i principi  di  pari  capacita'  contributiva  e
progressivita' di cui all'art. 53 della Costituzione. 
    In ogni caso, siffatto bilanciamento, pure essendo  rimesso  alla
discrezionalita' del legislatore,  non  puo'  non  essere  rispettoso
anche  dei  principi  «di  proporzionalita',  ragionevolezza»  (Corte
costituzionale 11 novembre 2010, n. 316; sentenze n. 372 del  1998  e
n. 349 del 1985) e di eguaglianza. 
    Questi ultimi, nel caso di specie, avrebbero  imposto  l'adozione
di una riforma organica e  razionale  della  materia  regolata  dalla
legge 1981 n. 27 e dettata in attuazione diretta degli  artt.  101  e
104 della Costituzione, atteso che la politica dei tagli lineari (che
gia' di per se' produce storture sul terreno dell'equita'  e  vere  e
proprie nefandezze sul piano  della  eguaglianza  dei  cittadini)  e'
quella che meno si attaglia ad un settore dai delicatissimi equilibri
qual e' quello della definizione dei rapporti tra poteri  e  funzioni
dello Stato. 
    Le  norme  censurate,  invece,  in  nome  di  asserite   esigenze
finanziarie e di bilancio, hanno operato una compressione dei  valori
costituzionalmente garantiti  dell'indipendenza  ed  autonomia  della
Magistratura in una maniera del tutto irrazionale,  sproporzionata  e
discriminatoria (come sara' reso palese dalla lettura dei  successivi
paragrafi relativi agli altri dubbi di costituzionalita'; si rimanda,
in particolare, alla lettura del paragrafo 4, ove si illustreranno  i
seguenti profili: a) disparita'  di  trattamento  nei  confronti  dei
contribuenti aventi pari capacita'  contributiva;  b)  disparita'  di
trattamento nei confronti dei contribuenti aventi pari  capacita'  di
reddito da lavoro (autonomo e privato); c) disparita' di  trattamento
nei confronti  dei  pubblici  dipendenti  aventi  pari  capacita'  di
reddito da lavoro; d) irrazionalita' «quantitativa» del  taglio  che,
pur disposto per esigenze di tutta la collettivita', pesa in  maniera
consistente solo sugli stipendi dei pubblici dipendenti (ed ancora di
piu' sui magistrati) e finisce con l'apportare  esigue  risorse  alle
casse dello Stato, in luogo di una minima ed indolore imposizione  su
tutti  i  contribuenti  sicuramente  piu'  idonea   allo   scopo   di
risanamento del bilancio; e) irrazionalita' per «abuso della funzione
legislativa»;  i)  irrazionalita'  «interna»   alle   misure   aventi
caratteri di regressivita' da un  lato,  finendo  con  l'incidere  in
maniera piu' che proporzionale sugli stipendi piu' bassi, e  di  mera
casualita',   imprevedibilita'   ed   illogicita'   dall'altro;    g)
alterazione  del  rapporto  di  proporzionalita'  tra  prestazione  e
retribuzione, incidente  in  misura  proporzionalmente  maggiore  sui
magistrati  percettori  di  reddito   inferiore;   g)   irragionevole
incisione sui diritti quesiti). 
    3.  Della  non  manifesta  infondate   a   della   questione   di
costituzionalita' dell'art. 9, comma 22 del  decreto-legge  31  marzo
2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla 1egge 30  luglio
2010, n. 12, per violazione degli artt. 3, 53, I  e  II  comma  della
Costituzione. 
    3.1. E' bene premettere che le gia' dette disposizioni  normative
della cui legittimita' costituzionale si dubita  sono  state  dettate
nel corpo decreto-legge 31 marzo 2010, n.  78,  come  convertito  con
modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,  rubricato  «Misure
urgenti in materia di stabilizzazione  finanziaria  e  competitivita'
economica». 
    Il preambolo del decreto-legge riconduce le sue disposizioni alla
matrice comune della «straordinaria necessita' ed urgenza di  emanare
disposizioni per il  contenimento  della  spesa  pubblica  e  per  il
contrasto all'evasione fiscale,  alle  finalita'  di  stabilizzazione
finanziaria e del rilancio della competitivita' economica». 
    Il gia' citato art. 9 (rubricato  «contenimento  delle  spese  in
materia di pubblico impiego») al comma 2, prima di introdurre il c.d.
contributo di solidarieta', fa riferimento alla «eccezionalita' della
situazione economica internazionale» ed alle «esigenze prioritarie di
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea». 
    Con riferimento alla disciplina dettata dai commi 1, 2, 21  e  22
dell'art. 9 del decreto-legge n. 78/2010 e rilevante per la decisione
della controversia, osserva il Collegio che: 
        per tutti i dipendenti pubblici, ivi compresi  i  magistrati,
per gli anni 2011, 2012 e 2013 e' prevista  una  decurtazione,  nella
percentuale del 5% e del 10% delle  quote  di  trattamento  economico
superiori, rispettivamente, a 90.000 e' 150.000 euro annui lordi; 
        per i magistrati, cosi' come per tutte le altre categorie del
personale non  contrattualizzato,  viene  introdotto  il  blocco  dei
«meccanismi di  adeguamento  retributivo»,  la  cui  operativita'  e'
estesa sia a livello di acconto che a livello di conguaglio (e dunque
con  effetto  retroattivo);  per i  soli  magistrati  (di  tutte   le
magistrature), a differenza delle altre categorie del  personale  non
contrattualizzato, sono salvaguardati i meccanismi  di  «progressione
automatica dello stipendio», ossia gli scatti  di  carriera;  e  cio'
perche' ad essi non si applicano i periodo secondo e terzo del  comma
21; 
        vengono introdotti dei «tetti» all'acconto  per  l'anno  2014
(che non puo' superare quello del 2010) e del conguaglio  per  l'anno
2015 (determinato con  riferimento  agli  anni  2009,  2010  e  2014,
escludendo quindi il triennio 2011-2013); 
        nei confronti dei soli magistrati viene operata una riduzione
crescente nel tempo dell'indennita' giudiziaria (ex art.  3 legge  n.
27/1981), come previsto dal secondo periodo del comma 22; 
    Il decrteo-legge n. 98/11, convertito  nella legge  n.  111/2011,
rubricato «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione  finanziaria»,
all'art. 16,  rubricato  «Contenimento  delle  spese  in  materia  di
pubblico impiego», prevede per il Governo la facolta'  di  estensione
delle predette misure dettate per il pubblico impiego anche  all'anno
2014. 
    Le disposizioni sopra  dette  introducono,  nel  loro  complesso,
misure finalizzate ad incidere in maniera consistente sul trattamento
economico dei magistrati per gli  anni  2011,  2012  e  2013,  ed  in
ipotesi anche per l'anno 2014. 
    3.2. E' opinione del Collegio che tutte le predette disposizioni,
anche se  presentate  come  mere  misure  di  riduzione  della  spesa
pubblica, abbiano natura tributaria ed in quanto tale debbano  essere
necessariamente assoggettate ai principi di universalita',  capacita'
contributiva e progressivita' di cui all'art. 53 della Costituzione. 
    Per valutare se, in concreto, le  misure  qui  in  esame  (blocco
dell'adeguamento automatico per il triennio  2011-2013,  introduzione
di tetti per il biennio 2014/2015 e taglio  dell'indennita'  speciale
di cui all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27) abbiano  o
meno la natura  di  tributo,  «occorre  interpretarne  la  disciplina
sostanziale alla luce  dei  criteri  elaborati  dalla  giurisprudenza
costituzionale  per  qualificare  come  tributarie  alcune   entrate:
criteri  che  consistono  nella  doverosita'  della  prestazione,  in
mancanza  di  un  rapporto  sinallagmatico  tra  le   parti   e   nel
collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad
un  presupposto  economicamente  rilevante»   (ex   plurimis,   Corte
costituzionale, sentt. nn.  141/2009,  335/2008,  64/2008,  334/2006,
73/2005). 
    Non e' dubbio che le trattenute  in  questione  siano  effettuate
dallo Stato a prescindere da  qualsivoglia  rapporto  sinallagmatico,
nel senso che esse non trovano ragione in  una  controprestazione  in
favore del dipendente ma sono imposte in via autorititativa. 
    Esse poi, in relazione al  presupposto  economicamente  rilevante
della percezione del reddito da lavoro, si collegano senz'altro  alla
spesa pubblica. 
    Come evidenziato sopra, infatti, l'incipit del comma 2  dell'art.
9 recita: «In considerazione della  eccezionalita'  della  situazione
economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea». 
    Tale formulazione, che fornisce la vera «motivazione» e la  ratio
della disposizione, collega in modo esplicito la  peculiarita'  degli
strumenti utilizzati dal legislatore d'urgenza del 2010 ad  obiettivi
di carattere finanziario, ossia alla messa  disposizione  di  risorse
economiche per le esigenze dell'Erario. 
    Cio' e' del resto confermato dal (pure sopra ricordato) preambolo
al decreto-legge n. 78/2010 che riconduce la rilevata  «straordinaria
necessita' ed urgenza di emanare  disposizioni  per  il  contenimento
della spesa pubblica e per il contrasto  all'evasione  fiscale»  alle
finalita'  della  «stabilizzazione  finanziaria»   (espressione   che
peraltro compare identica anche nell'intitolazione del  decreto-legge
n. 78) e del «rilancio della competitivita' economica». 
    Deve concludersi che  le  norme  in  esame  hanno  istituito  dei
tributi, di cui presentano le caratteristiche essenziali, «e cioe' la
doverosita' della prestazione e il  collegamento  di  questa  ad  una
pubblica spesa, con  riferimento  ad  un  presupposto  economicamente
rilevante» (Corte costituzionale 19 ottobre  2006,  n.  334;  nonche'
sentenze n. 26 del 1982, 63 del 1990, 2 ed 11 del 1995, 37 del 1997). 
    Tali  considerazioni   valgono   integralmente   anche   per   il
«contributo di solidarieta'» di  cui  al  comma  2  dell'art.  9  non
oggetto di scrutinio diretto in questa sede, contributo la cui natura
tributaria e' ulteriormente palesata  dall'utilizzo  della  ben  nota
tecnica di fissazione di aliquote crescenti per scaglioni di reddito. 
    Osserva il Collegio che quello che puo' trarre in  inganno  nella
fattispecie  in  esame  circa  la  vera   natura   tributaria   delle
disposizioni  scrutinate  e'  che  esse   vengono   qualificate   dal
legislatore come mere misure di riduzione della spesa pubblica. 
    La riduzione della spesa  pubblica,  tuttavia,  e'  semplicemente
l'effetto di quelle che ontologicamente  rimangono,  per  le  ragioni
sopra dette, entrate tributarie. 
    Qualsivoglia   imposizione   tributaria   (tassa,    tributo    o
contributo),  che  incida  sugli  stipendi  dei  pubblici  dipendenti
decurtandoli, si risolve sul piano effettuale in una riduzione  della
spesa pubblica, ma per cio' solo non muta la propria natura. 
    Se il legislatore avesse  optato  per  l'aumento  delle  aliquote
I.r.p.e.f., invece che per l'adozione delle misure  sopra  descritte,
si sarebbe egualmente verificata  in  concreto  una  riduzione  della
spesa pubblica, ma non si sarebbe potuto in alcun modo dubitare della
natura tributaria di una disposizione di tal sorta. 
    Se, per altro verso, il  legislatore  avesse  imposto  le  stesse
misure anche ai dipendenti privati, non ci sarebbe stato un risparmio
della spesa pubblica e nessuno comunque avrebbe potuto dubitare della
natura tributaria delle predette disposizioni. 
    Cio' che qui rileva, dunque, non e'  l'effetto  di  bilancio  che
tali disposizioni producono ne' l'ambito soggettivo  di  applicazione
ma la loro natura intrinseca,  da  ricavarsi  secondo  le  coordinate
ermeneutiche sopra tracciate e che conducono ad affermarne la  natura
tributaria. 
    Si aggiunga che tali conclusioni  risultano  viepiu'  corroborate
dalla giurisprudenza costituzionale in punto di qualificazione  delle
«leggi  tributarie»  ai  fini  del  giudizio  di  ammissibilita'  del
referendum (art. 75 della Costituzione). 
    In molteplici occasioni, il Giudice delle Leggi  ha  univocamente
affermato che tale nozione e' caratterizzata dalla ricorrenza di  due
elementi  essenziali  (vedi  sentt.  nn.  26/1982,  63/1990,  2/1995,
11/1995): 1) l'imposizione di  un  sacrificio  economico  individuale
realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio; 2)
la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al  fine  di
integrare la finanza pubblica, e cioe' allo  scopo  di  apprestare  i
mezzi per  il  fabbisogno  finanziario  necessario  a  coprire  spese
pubbliche. 
    Entrambi  tali  presupposti   sono,   come   evidenziato   sopra,
ravvisabili nelle disposizioni di cui al comma  22  dell'art.  9  del
decreto-legge n.  78/2008  che  pertanto  si  atteggiano  a  prelievo
fiscale  coattivo  ed  occulto  realizzato   nelle   forme   di   una
decurtazione stipendiale. 
    Avendo  natura  tributaria,  le  norme  in  esame  devono  essere
assoggettate ai principi  costituzionali  dettati  dall'art.  53,  il
quale articolo al primo comma statuisce  che  «tutti  sono  tenuti  a
concorrere alle spese  pubbliche  in  ragione  della  loro  capacita'
contributiva», ed al secondo che «il sistema tributario e'  informato
a criteri di progressivita'». 
    La disposizione costituzionale in  parola  e',  in  primo  luogo,
chiara  nell'individuare  in  modo  inequivoco   ed   onnicomprensivo
(«tutti») la platea dei soggetti del prelievo fiscale, ribadendo  con
forza la  necessaria  applicazione  del  generalissimo  principio  di
eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. anche al sistema tributario. 
    La stessa norma, per vero, specifica il concetto  di  uguaglianza
in materia fiscale ancorandolo alla pari  capacita'  retributiva,  di
guisa che  «la  universalita'  della  imposizione,  desumibile  dalla
espressione testuale «tutti» (cittadini o non cittadini,  in  qualche
modo con rapporti di collegamento con la Repubblica  italiana),  deve
essere intesa nel senso di obbligo generale, improntato al  principio
di eguaglianza (senza alcuna delle discriminazioni vietate:  art.  3,
primo comma, della Costituzione), di concorrere alle spese  pubbliche
in ragione della loro capacita'  contributiva»  (con  riferimento  al
singolo tributo ed al  complesso  della  imposizione  fiscale),  come
«dovere inserito nei rapporti politici in relazione  all'appartenenza
del soggetto alla collettivita' organizzata» (Corte  cost.,  ord.  n.
341/2000). 
    In altri termini, «il primo comma dell'art. 53, nel  sancire  non
gia' solo il dovere delle  prestazioni  tributarie,  ma  altresi'  il
principio della correlazione di queste con la capacita'  contributiva
di ciascuno, impone al legislatore, oltre all'obbligo di non disporre
prestazioni che  siano  in  contrasto  con  i  principi  fondamentali
sanciti dalla Costituzione a tutela della persona, altresi' l'obbligo
di commisurare il carico tributario in modo  uniforme  nei  confronti
dei vari soggetti,  allorche'  sia  dato  riscontrare  per  essi  una
perfetta identita' della situazione di fatto presa in  considerazione
dalla legge  al  fine  dell'imposizione  del  tributo»  (Corte  cost.
92/1963);  e  cio'  in  piena  conformita'  anche  ai   dettami   del
generalissimo principio di  eguaglianza  sancito  dall'art.  3  della
Costituzione. 
    Date  le  superiori  coordinate  e'   evidente   l'illegittimita'
costituzionale delle  censurate  disposizioni  di  cui  al  comma  22
dell'art. 9 che incidono sul reddito  di  una  sola  micro  categoria
sociale  (che  conta  poca  migliaia  di  contribuenti),  quella  dei
magistrati, ma anche della disposizione non fatta oggetto di censura,
riguardante tutti i pubblici impiegati ed  istituente  il  cosiddetto
«contributo di solidarieta'» di cui al comma 2 dell'art. 9. 
    Il legislatore del 2010 ha scelto, a parita' contributiva  ed  in
spregio  all'art.  53  della   Costituzione,   per   contribuire   al
risanamento delle casse dello Stato, di colpire solo una  determinata
classe sociale, i dipendenti pubblici (quanto al  comma  2  dell'art.
9), ed in particolare e  per  quanto  qui  direttamente  rileva,  con
misure ancora piu' incisive rispetto agli stessi dipendenti pubblici,
una ancora piu' particolare e ristretta  classe  di  contribuenti,  i
magistrati (quanto al comma 22 dell'art. 9), cosi'  realizzando  come
si dira'  appresso  un  tributo  odioso  e  specialeratione  subiecti
(T.A.R.  Campania,  ordinanza  di  rimessione  n.   1162/2011),   con
l'aggravante  di  avere  individuato,  tra  tutte  le  categorie   di
contribuenti  possibili,  l'unica  la  cui  tutela  del   trattamento
stipendiale risponde a principi di natura  costituzionale  specifici,
ulteriori (l'autonomia e l'indipendenza  della  Magistratura  di  cui
agli artt. 101, comma 2 e 104 comma 1) e piu'  pregnanti  rispetto  a
quelli generali di cui all'art. 36 della Carta fondamentale. 
    In conclusione deve dirsi che, invece di prendere come  parametro
per  l'imposizione  fiscale   un   medesimo   indice   di   capacita'
contributiva e conseguentemente incidere su  «tutti»  i  contribuenti
versanti nella medesima  condizione,  le  norme  in  questione -  con
misure continuative, prolungate nel triennio 2011-2013 (con possibile
estensione al  2014)  ed  in  parte  al  biennio  2014/2015,  nonche'
irrazionali sotto molteplici profili come si evidenziera' dappresso -
sono state rivolte ad una ben limitata «classe di persone»,  colpendo
esclusivamente il loro reddito e con cio' violando l'art. 53, I comma
della Costituzione. 
    3.3. La norma di cui al  comma  22  dell'art.  9  riguardante  il
taglio dell'indennita' di cui all'articolo 3 della legge 19  febbraio
1981, n. 27 si pone, in secondo luogo,  in  contrasto  anche  con  il
precetto di progressivita' contenuto nel comma 2 dell'art.  53  della
Costituzione, dal momento che essa colpisce nella stessa misura fissa
(del 15 % per l'anno 2011, del 25% per l'anno 2012 e  del  32  %  per
l'anno 2013) tutti gli appartenenti alla categoria. 
    E'  noto  che  la  predetta  indennita'  costituisce   componente
«normale», certa e costante del trattamento economico retributivo dei
magistrati (cfr. sul punto  Corte  costituzionale  ordd.  23  ottobre
2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137; C.d.S.,  Sez.  IV,  6  ottobre
2003, n. 5841), ancorche' introdottavi a titolo «speciale» (in quanto
preordinata, come espressamente affermato dall'art. 3 della legge  n.
27/1981, a compensare  i  magistrati  degli  «oneri  che  gli  stessi
incontrano nello svolgimento della loro attivita'»). 
    Il taglio di tale indennita' in misura  identica  per  tutti  gli
appartenenti alla categoria produce un  risultato  evidente:  i  piu'
giovani che  sono  agli  inizi  della  carriera  e  che  percepiscono
stipendi nettamente inferiori si trovano a pagare le stesse somme  di
coloro che si trovano in uno stadio avanzato o finale della  carriera
e percepiscono stipendi anche di molto superiori. 
    Siffatto risultato «regressivo» viola apertamente il principio di
progressivita'  dei  tributi  di  cui  all'art.  53,  comma  2  della
Costituzione  letto  unitamente  al   principio   di   ragionevolezza
intrinseca di cui all'art. 3. 
    Non ignora il Collegio che,  secondo  il  constante  insegnamento
della Corte costituzionale,  «i  criteri  di  progressivita'  debbono
informare il ''sistema tributario'' nel suo complesso e non i singoli
tributi»  (Corte  costituzionale  15  aprile  2008,  n.  102;   Corte
costituzionale, 6 aprile 1995, n. 197). 
    Avendo tuttavia il legislatore deciso di incidere sul presupposto
economico  del  reddito  da  lavoro,  per  coerenza  del  sistema   e
ragionevolezza intrinseca della norma avrebbe dovuto  configurare  il
tributo siccome progressivo, atteso che tale natura ha  l'I.r.p.e.f.,
ossia la principale imposta sul  reddito  delle  persone  fisiche,  e
quindi anche sul reddito da lavoro dipendente (Corte  costituzionale,
13 gennaio 2006, n. 2). 
    La norma, peraltro, presenta ulteriori  ed  autonomi  profili  di
incostituzionalita' per irragionevolezza intrinseca che dappresso  si
passa ad esaminare. 
    4.  Della  non  manifesta   infondatezza   della   questione   di
costituzionalita' del comma 22 dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo
2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30  luglio
2010, n. 122, per violazione, sotto diversi profili, degli artt. 2, 3
e 36 della Costituzione. 
    4.1. Anche laddove non si dovesse  ravvisare  nelle  disposizioni
del comma 22 dell'art. 9 del decrteo-legge n. 78/2010  censurate  dai
ricorrenti (relative al blocco degli adeguamenti  automatici  per  il
triennio 2011-2013, all'introduzione di  tetti  agli  stessi  per  il
biennio 2014/2015 ed al taglio dell'indennita' di cui all'articolo  3
della legge 19 febbraio 1981, n. 27) norme di natura  tributaria  con
conseguente  violazione  dei  commi  1  e  2   dell'art.   53   della
Costituzione, esse - specie se lette unitamente a quella del comma  2
dell'art. 9 del medesimo decreto-legge n. 78/2010 quivi non censurata
ed introducente il contributo di solidarieta'  su  tutti  i  pubblici
dipendenti - ingenerano comunque ulteriori ed autonomi seri dubbi  di
incostituzionalita'  per  violazione  dei  principi  di  eguaglianza,
ragionevolezza legislativa e di  solidarieta'  sociale,  politica  ed
economica di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. 
    4.2. Si rammenta nuovamente che le citate disposizioni  normative
sono state dettate nel corpo  del  predetto  decreto-legge  31  marzo
2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30  luglio
2010, n. 122, rubricato «Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria  e  competitivita'  economica»;  che  il  preambolo   del
decreto-legge riconduce le sue disposizioni alla matrice comune della
«straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni  per  il
contenimento della spesa pubblica e  per  il  contrasto  all'evasione
fiscale, alle finalita' di stabilizzazione finanziaria e del rilancio
della  competitivita'  economica»;  che  il  comma  2   dell'art.   9
(rubricato «contenimento delle spese in materia di pubblico impiego),
prima di introdurre il c.d. contributo di solidarieta' (le trattenute
del 5% e del 10% rispettivamente oltre i 90.000 e 150.000 euro  annui
lordi),  fa  riferimento  alla   «eccezionalita'   della   situazione
economica  internazionale»   ed   alle   «esigenze   prioritarie   di
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea». 
    L'esigenza  che  ha   mosso   il   legislatore,   dunque,   nella
predisposizione  delle  misure  oggetto  di  esame   e'   quella   di
fronteggiare la ben nota crisi economica nazionale ed internazionale,
ed in particolare dei paesi della zona euro; e' altrettanto noto  che
siffatta esigenza ha ispirato e continua ad ispirare tutte le  ultime
manovre finanziarie e correttive. 
    Questi essendo  i  presupposti  dell'agire  legislativo,  l'avere
ristretto la contribuzione diretta al risanamento delle  casse  dello
Stato agendo sulle retribuzioni  dei  soli  pubblici  dipendenti,  ed
ancora piu' afflittivamente dei magistrati, assurge in primo luogo  a
contemporanea violazione del principio di uguaglianza tra i cittadini
e del dovere di solidarieta' politica, sociale ed  economica  di  cui
rispettivamente agli artt. 3 e 2 della Costituzione. 
    In altri termini, l'avere deciso, per le finalita' finanziarie di
cui sopra, di incidere solo sui redditi da lavoro dipendente pubblico
ed in misura maggiore sui  redditi  da  lavoro  dipendente  dei  soli
magistrati, con esclusione delle  identiche  condizioni  di  tutti  i
percettori di reddito aventi la  stessa  capacita'  contributiva,  si
pone in contrasto, oltre che con il gia' citato disposto di cui al  l
comma dell'art. 53 Cost., piu' a monte con i basilari precetti di cui
agli artt. 2 e 3 della Costituzione. 
    Se la ben nota crisi economica (cui la legge si riferisce con  il
richiamo   alla   «eccezionalita'    della    situazione    economica
internazionale») ha dettato l'esigenza inderogabile  della  riduzione
di spesa, non v'e' dubbio che tale evento riguarda  la  collettivita'
nel suo insieme. 
    E' pertanto ingiusto - e percio' illegittimo, secondo i  principi
ordinamentali - che lo Stato intenda accollare le misure di riduzione
della spesa - che andranno a vantaggio di tutti - solo ad  una  parte
dei  cittadini  (i  pubblici  dipendenti,  i   quali   peraltro   non
rappresentano certamente la categoria piu' facoltosa del  Paese),  ed
in misura ancora maggiore ad una cerchia ristrettissima dei  predetti
pubblici dipendenti, ossia ai magistrati. 
    L'approccio del legislatore d'urgenza, da  tale  angolo  visuale,
collide anche con l'art. 2 della Costituzione e  con  i  principi  di
solidarieta'  sociale,  politica  ed  economica  ivi  scolpiti,   cui
corrispondono   ben   precisi   «doveri   inderogabili»   (la   forza
dell'espressione impiegata dal Costituente non lascia adito a  dubbi:
se i doveri sono «inderogabili» nessuno puo' esserne esentato). 
    Questi, che pure fanno  capo  all'intera  comunita',  sono  stati
disinvoltamente frustrati da un legislatore che, collocando i  disagi
in capo a «pochi»,  ha  invece  distribuito  i  benefici  in  capo  a
«tutti». 
    Cio' che appare in netta contraddizione con l'insegnamento  della
Corte costituzionale secondo  cui  gli  inderogabili  doveri  imposti
nell'art.  2  Cost.  esigono  che  «l'ordinato  vivere   comune   sia
salvaguardato» e che «i pesi conseguenti  siano  equamente  ripartiti
tra tutti, senza privilegi». 
    4.2.1. La violazione del principio di eguaglianza per  disparita'
di trattamento e la violazione del principio di solidarieta'  sociale
ed economica diventano, se possibile, ancora piu' evidenti laddove si
compari la situazione  dei  ricorrenti  con  gli  altri  titolari  di
reddito da lavoro (autonomo o dipendente privato): lapalissiano e' il
contrasto con i basilari precetti di cui  agli  artt.  2  e  3  della
Costituzione. 
    Ancora una volta, tenendo conto della finalita' «di cassa» che e'
a fondamento di un prelievo disposto addirittura  per  decreto-legge,
non si ravvisa alcuna ratio  giustificativa  per  la  quale  anche  i
lavoratori del settore privato (dipendenti o  autonomi)  non  debbano
essere  assoggettati  a  riduzioni  stipendiali,  con  corrispondente
introito a vantaggio dell'Erario, e cio' tenuto anche  conto  che  le
retribuzioni   del   settore   privato,   specialmente   ai   livelli
dirigenziali  e  manageriali  delle  imprese,  per  non  parlare  dei
professionisti piu' facoltosi (ad esempio i notai e i  farmacisti  ma
anche i piu' affermati tra gli avvocati, i  medici  specialisti,  gli
ingegneri, gli architetti), sono enormemente piu' elevate  di  quelle
del settore pubblico, apparendo  quindi  in  grado  di  garantire  un
maggiore gettito alle finanze pubbliche; gettito che - in  definitiva
- ricade tra gli obiettivi di stabilizzazione  finanziaria  avuti  di
mira dalla nomina censurata (realizzare proventi e risparmiare  spesa
pubblica, infatti, si equivalgono in termini  di  risultanze  finali,
ossia guardando alla capienza delle casse pubbliche). 
    4.2.2. Le  disposizioni  in  parola,  poi,  violano  le  predette
coordinate costituzionali (artt. 2 e 3)  anche  perche'  trattano  in
maniera ingiustificatamente diversa categorie di pubblici  dipendenti
pur a fronte di una identica situazione reddituale. 
    Come si e' osservato sopra, infatti, il  decreto-legge  31  marzo
2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30  luglio
2010, n. 122, prevede al comma 1 dell'art. 9  per  tutti  i  pubblici
dipendenti il blocco dell'aumento degli stipendi («Per gli anni 2011,
2012  e  2013  il  trattamento  economico  complessivo  dei   singoli
dipendenti,  anche  di  qualifica  dirigenziale,  ivi   compreso   il
trattamento accessorio, previsto  dai  rispettivi  ordinamenti  delle
amministrazioni pubbliche inserite nel  conto  economico  consolidato
della  pubblica  amministrazione,  come   individuate   dall'Istituto
nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo  1
della legge 31 dicembre 2009, n. 196,  non  puo'  superare,  in  ogni
caso, il trattamento ordinariamente spettante  per  l'anno  2010,  al
netto degli effetti derivanti da eventi straordinari  della  dinamica
retributiva,  ivi  incluse  le  variazioni  dipendenti  da  eventuali
arretrati, conseguimento di funzioni diverse in corso  d'anno,  fermo
in ogni caso quanto previsto dai comma 21, terzo  e  quarto  periodo,
per le progressioni  di  carriera  comunque  denominate,  maternita',
malattia, missioni svolte all'estero, effettiva presenza in servizio,
e dall'articolo 8, comma 14, fatto salvo quanto  previsto  dal  comma
17, secondo periodo). 
    Alla  stregua  della  citata  previsione,  dunque,  nel  triennio
2011-2013 i trattamenti  retributivi  dei  pubblici  dipendenti,  ivi
compreso quello dei dirigenti, sino alla soglia di 90.000 euro  lordi
annui non possono aumentare, ma nemmeno possono decrescere. 
    Per contro, in forza del combinato  disposto  delle  disposizioni
censurate di cui al comma 22  dell'art.  9  (blocco  dell'adeguamento
automatico e  taglio  dell'indennita'  giudiziaria),  il  trattamento
economico dei magistrati che non maturino scatti  o  progressioni  di
carriera negli anni in parola (ed in ogni caso  per  tutto  il  tempo
precedente tali momenti) e' sicuramente soggetto a riduzione. 
    Il risultato aberrante e' che l'unica categoria  -  tra  tutti  i
contribuenti dello Stato che percepiscono fino a  90.000  curo  annui
lordi per lavoro dipendente  -  che  a  causa  della  generale  crisi
economica vede ridursi il proprio trattamento economico e' quella dei
magistrati, ossia l'unica categoria la  cui  tutela  del  trattamento
stipendiale risponde a principi di natura  costituzionale  specifici,
ulteriori (l'autonomia e l'indipendenza  della  Magistratura  di  cui
agli artt. 101 comma 2 e 104 comma 1) e  piu'  pregnanti  rispetto  a
quelli generali di cui all'art. 36 della Carta fondamentale. 
    La disparita' sussiste anche  con  riferimento  a  quei  pubblici
dipendenti (il pensiero va, in via non esaustiva, ai  dirigenti)  che
percepiscono piu' di 90.000 o 150,000 euro annui lordi e che sono, al
pari dei magistrati, tenuti a versare il contributo  di  solidarieta'
di cui al comma 2 dell'art. 9. 
    I  magistrati,  infatti,  a  differenza  degli   altri   pubblici
dipendenti e pur in presenza della medesima situazione  reddituale  e
contributiva, vedono sommarsi al contributo  di  solidarieta'  ed  al
blocco' dell'adeguamento retributivo  anche  i  tagli  all'indennita'
giudiziaria di cui al comma 22 dell'art. 9, con  la  conseguenza  che
per essi la riduzione dello stipendio e' sensibilmente maggiore. 
    4.3. Le misure oggetto di disposizioni del comma 22  dell'art.  9
censurate  dai  ricorrenti  (relative  al  blocco  degli  adeguamenti
automatici per il triennio 2011-2013, all'introduzione di tetti  agli
stessi per il biennio 2014/2015 ed al taglio dell'indennita'  di  cui
all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981,  n.  27)  si  presentano
poi, sotto svariati profili, in contrasto con il basilare  canone  di
ragionevolezza legislativa di cui all'art. 3 della Costituzione. 
    4.3.1. In particolare, sotto un primo profilo,  occorre  ribadire
che l'esigenza che ha  mosso  il  legislatore  nella  predisposizione
delle misure oggetto di esame e' quella di fronteggiare la  ben  nota
crisi economica nazionale ed internazionale, in particolare dei paesi
della zona  curo;  e'  altrettanto  noto  che  siffatta  esigenza  ha
ispirato e continua ad ispirare tutte le ultime manovre finanziarie e
correttive. 
    Questi essendo  i  presupposti  dell'agire  legislativo,  l'avere
ristretto la contribuzione diretta al risanamento delle  casse  dello
Stato agendo sulle retribuzione dei soli pubblici dipendenti,  ed  in
particolare dei magistrati, oltre ad essere violativo degli artt. 2 e
3 della Costituzione, appare intrinsecamente irragionevole. 
    Le esigenze «prioritarie di  raggiungimento  degli  obiettivi  di
finanza pubblica concordati in sede europea», in  quanto  proprie  di
tutto lo Stato comunita', avrebbero logicamente  richiesto  una  equa
contribuzione di tutti i cittadini percettori di  reddito,  o  quanto
meno di tutti i cittadini percettori di reddito da  lavoro  (a  voler
ritenere legittima una simile scelta di campo  del  legislatore),  il
che per  altro  avrebbe  consentito  di  raggiungere  anche  maggiori
introiti  con  un  accettabile  e  minimo  sacrificio  per  tutti   i
contribuenti. 
    E' ovvio, infatti, che allargando la platea  dei  contribuenti  a
tutti i soggetti  percettori  di  reddito  o  di  reddito  da  lavoro
(milioni  di  persone),  il  notevole  peso  specifico  delle  misure
gravanti sui magistrati (poche migliaia)  e  di  quelle  gravanti  su
tutti i pubblici impiegati avrebbe potuto essere ripartito in maniera
completamente equa, solidale e quasi «indolore». 
    Non puo' che ritenersi profondamente  irrazionale  una  normativa
che, per fare fronte ad una crisi che grava su tutta la  popolazione,
impone un sacrificio rilevantissimo (fino al  taglio  del  15%  della
retribuzione netta come si dimostrera' al punto seguente) solo ad una
categoria cosi'  ridotta  di  cittadini  (poche  migliaia)  e  lascia
totalmente indenni i  redditi  e  le  retribuzioni  tutti  gli  altri
contribuenti, anche di quelli aventi medesima capacita' contributiva. 
    E' del pari profondamente irrazionale perche' le medesime entrate
avrebbero potuto essere reperite ripartendo il peso  dell'imposizione
su  tutta  la  platea  dei  contribuenti  mediante,  a  mero   titolo
esemplificativo,  un  innalzamento   davvero   minimo   dell'aliquota
I.r.p.e.f. o di altre misure simili che si  presentano  piu'  logiche
perche' ripartiscono in maniera equa su tutti i contribuenti il  peso
della crisi economica; senza considerare che  in  un  paese  come  il
nostro, notoriamente ad elevatissima evasione  fiscale,  al  fine  di
«fare cassa» tra le possibili opzioni del  legislatore  vi  e'  anche
quella di  affinare  gli  strumenti  di  recupero  dei  redditi,  dei
proventi e  dei  patrimoni  illecitamente  sottratti  all'imposizione
fiscale. 
    E' ancora piu' irrazionale, laddove si consideri che il  predetto
consistente taglio viene  operato  sull'unica  sparuta  categoria  di
contribuenti, la cui tutela del trattamento  stipendiale  risponde  a
principi di natura costituzionale specifici, ulteriori (l'autonomia e
l'indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101,  comma  2  e
104 comma 1) e piu' pregnanti  rispetto  a  quelli  generali  di  cui
all'art. 36 della Carta fondamentale. 
    4.3.2.  Le  disposizioni  in  esame,  poi,  appaiono  violare  il
basilare canone della ragionevolezza legislativa di  cui  all'art.  3
della Costituzione sotto altro e concorrente profilo. 
    E' noto ed e' stato rammentato sopra che la predeterminazione per
legge della misura dello stipendio  dei  magistrati  ed  il  relativo
meccanismo  di  adeguamento  automatico  rispondono  all'esigenza  di
sottrarre  la  magistratura,  in  una  ottica  di  preservazione  dei
delicati equilibrio  tra  poteri  dello  Stato,  alla  contrattazione
collettiva. 
    In altri termini, «premesso che la determinazione degli  stipendi
spettanti ai magistrati e' sottratta alla contrattazione sindacale ed
e' rimessa ad un sistema automatico regolato direttamente dalla legge
al fine di assicurare  la  completa  autonomia  ed  indipendenza  dei
giudici dal potere esecutivo, gli art. 11 e 12 legge 2  aprile  1979,
n. 97, nel testo innovato dall'art. 2 1egge 19 febbraio 1981, n.  27,
prevedono che gli stipendi dei magistrati sono  adeguati  di  diritto
ogni  triennio  nella  misura  percentuale  pari  alla  media   degli
incrementi delle voci retributive, esclusa  l'indennita'  integrativa
speciale, ottenuti dagli altri dipendenti pubblici» (C.d.S., Sez. IV,
7 luglio 2000, n. 3834). 
    La predeterminazione per legge ed il  meccanismo  di  adeguamento
automatico  degli  stipendi,  dunque,  hanno  finalita'  di  garanzia
dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura e rappresentano
uno strumento volto a preservare  quest'ultima  dalle  insidie  della
contrattazione collettiva. 
    All'insegna di una completa eterogenesi dei fini  il  legislatore
del 2010 ha invece «approfittato»  dello  strumento  legislativo  per
ridurre  il  trattamento  economico  dei  magistrati  senza  il  loro
consenso, consenso che paradossalmente sarebbe  stato  necessario  in
sede di contrattazione collettiva. 
    Cosi' facendo lo strumento voluto dal legislatore per offrire una
guarentigia a monte  ai  valori  costituzionali  dell'indipendenza  e
dell'autonomia  della  Magistratura,  ed  a  valle   al   trattamento
economico dei magistrati  e'  stato  irrazionalmente  utilizzato  per
ledere propri tali principi ed incidere sul detto trattamento. 
    4.3.3. Vi e' ancora un altro profilo di violazione del  principio
costituzionale di ragionevolezza intrinseca delle leggi, secondo  una
logica  per  cosi'  dire  «interna»  alla  categoria  colpita   dalle
disposizioni in esame. 
    Come si e' avuto modo di appurare, le norme oggetto di dubbio  di
costituzionalita', nella misura in cui incidono in misura  uguale  su
tutti  i  magistrati,  impongono  un  peso   economico   in   termini
proporzionali di gran lunga superiore a coloro che  percepiscono  uno
stipendio minore perche' agli inizi della carriera,  con  buona  pace
(prima  che  del  principio  di  progressivita'   dei   tributi)   di
qualsivoglia logica, ragionevolezza ed equita'. 
    Si prenda, a titolo meramente esemplificativo, la busta  paga  di
febbraio 2011  del  primo  ricorrente,  la  dott.ssa  Maria  Agnello,
magistrato  ordinario  alla  prima  valutazione  di  professionalita'
(qualifica HH04), la quale percepisce uno stipendio lordo mensile  di
€ 6.598,92,  che  al  netto  delle  ordinarie  ritenute   fiscali   e
previdenziali ammonta ad € 3.918,00. 
    Su tale ultima somma in forza del taglio del 15%  dell'indennita'
giudiziaria  la  ricorrente  nell'anno  2011  subisce  una  riduzione
mensile di € 168,00, ovverosia una riduzione del 4.2% dello stipendio
netto; nel  2012  la  medesima  ricorrente,  in  forza  della  stessa
disposizione,  subira'  una  riduzione   del   25%   della   predetta
indennita', pari ad € 279,50 mensili,  ovverosia  una  riduzione  del
7,1% dello stipendio netto che non sara' cresciuto per via del blocco
degli adeguamenti automatici; nell'anno 2013  subira'  una  riduzione
del  32%  della  predetta  indennita',  pari  ad  €  358,00  mensili,
ovverosia una riduzione del 9,1% del proprio stipendio netto, rimasto
immutato in forza del blocco degli adeguamenti automatici. 
    La situazione si  «aggrava»  nei  confronti  dei  magistrati  con
minore anzianita' di carriera, come nel caso degli ex  c.d.  «uditori
con funzioni»: per essi, il cui stipendio mensile  netto  ammonta  ad
€ 2.551 33, stante la medesimezza quantitativa  del  previsto  taglio
dell'indennita', la riduzione netta dello stipendio non piu' adeguato
automaticamente parte dal 6,5% del 2011 e passando per 1'11% del 2012
arriva al 14% nell'anno 2014. 
    Paradossalmente la situazione si «aggrava» anche per  coloro  che
rientrano nella fascia di reddito immediatamente superiore  a  quella
della dott.ssa Agnello, per poi tornare a  farsi  relativamente  piu'
«leggera» per quelle superiori. 
    Lo stipendio  lordo  annuo  della  dott.ssa  Agnello  ammonta  ad
€ 85.600 circa e quindi  la  stessa  non  e'  colpita  dall'ulteriore
misura del contributo di solidarieta' di cui al comma 2 dell'art.  9,
ma e' facile comprendere come per i magistrati che hanno maturato uno
«scatto» in piu' della  dott.ssa  Agnello,  al  peso  delle  predette
misure si somma quello percentuale del 5% oltre la parte  di  reddito
che oltrepassa i 90.000 euro  annui  lordi  (l'imposizione  reale  e'
quivi pari all'8% circa dello stipendio netto),  con  la  conseguenza
che per gli stessi negli anni 2012/2013 e' ben possibile arrivare  ad
una riduzione del proprio stipendio netto che si attesta tra il 10 ed
il 16%. 
    Per i magistrati percettori di reddito superiore, invece, il peso
proporzionale dell'imposizione fiscale si riduce  (anziche'  crescere
come dovrebbe in forza dell'art. 53 della Costituzione e di  basilari
considerazioni  di  logica  ed  equita'),  poiche'  l'aumento   dello
stipendio compensa il  taglio  fisso  dell'indennita'  giudiziaria  e
anche l'effetto delle due aliquote  del  5%  e  del  10%  di  cui  al
contributo di solidarieta'. Cosi' ad esempio,  la  dott.ssa  Caterina
Ajello,   magistrato    ordinario    alla    VII    valutazione    di
professionalita',  percepisce  uno   stipendio   mensile   lordo   di
€ 14.030,06,  che  al  netto  delle  ordinarie  ritenute  fiscali   e
previdenziali ammonta ad € 7.500,00. 
    Calcolando  il  peso  percentuale  del   taglio   dell'indennita'
giudiziaria sullo stipendio  non  piu'  adeguato  si  evince  che  la
dott.ssa Ajello, per tali voci, va incontro  nell'anno  2011  ad  una
riduzione dello stipendio netto del 2,24%, del 3,7% nel  2012  e  del
4,7% nel 2013. 
    Se  si  considera,  pero',  anche  l'effetto  del  contributo  di
solidarieta' di cui al comma  2  dell'art.  9  e  quindi  si  procede
all'ulteriore taglio del 5% sull'importo lordo superiore a  90.000,00
euro annui e del 10% sull'importo superiore ai 150.000,  risulta  che
il magistrato in questione subira' una riduzione  mensile  media  per
gli anni 2011, 2012 e 2013 rispettivamente dell'8%, 9,4% e 10,4%. 
    Va  ulteriormente  considerato  che  l'imposizione   fiscale   si
atteggia in maniera ancora sensibilmente  diversa  all'interno  della
categoria, a seconda che i  magistrati  interessati  nell'ambito  del
triennio maturino o meno scatti  o  progressioni  di  carriera  ed  a
seconda di quando li  maturano,  poiche'  in  virtu'  del  metodo  di
imposizione scelto (taglio fisso dell'indennita' giudiziaria,  blocco
dell'adeguamento ed aliquote fisse del 5% e del 10%), l'ammontare dei
prelievo  finisce  con  assumere  caratteri  di  imprevedibilita'  ed
illogicita', pur nel permanere dell'evidenziato trend di sfavore e di
maggiore imposizione, in termini proporzionali, sugli  stipendi  piu'
bassi. 
    Non mette conto di spiegare oltre perche' gli illustrati  aspetti
di illogicita', imprevedibilita' e regressivita' rendano la descritta
normativa del tutto irrazionale e quindi in contrasto con il precetto
di cui all'art. 3 della Costituzione. 
    4.3.4. La  disposizione  che  riduce  la  misura  dell'indennita'
«giudiziaria» nel triennio  2011-2013,  poi,  appare  intrinsecamente
irragionevole anche sotto altro profilo, in violazione degli artt.  3
e 36 della Costituzione. 
    E' noto (e lo si  e'  gia'  detto)  che  la  predetta  indennita'
costituisce parte essenziale, costante e  «normale»  del  trattamento
economico complessivo del magistrato (sul punto Corte costituzionale,
ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137;  nonche',  ex
multis, Cons. Stato, Sez. IV,  7  aprile  1993,  n.  401),  ancorche'
introdottavi  a  titolo  «speciale»  (in  quanto  preordinata,   come
espressamente  affermato  dall'art.  3  della  legge  n.  27/1981,  a
compensare i' magistrati degli «oneri che gli stessi incontrano nello
svolgimento della loro attivita'»).  Il  comma  22  dell'art.  9  non
sopprime ne' sospende per intero l'indennita' in questione  (ma  anzi
ne  prevede  l'integrale  ripristino  dopo   il   2013),   con   cio'
riconoscendone e confermandone la funzione  di  ristoro  degli  oneri
connessi    con    l'espletamento    del    servizio.    Decurtandola
temporaneamente il legislatore la rende  tuttavia  inequivocabilmente
inidonea allo scopo per il quale era stata istituita se e' vero, come
e'  vero,  che  essa  e'  attribuita  in  misura  uguale  a  tutti  i
magistrati, a  prescindere  dalla  qualifica  e  dall'anzianita',  in
stretta correlazione con (e per consentire)  l'effettivo  svolgimento
dei compiti istituzionali del magistrato. 
    Orbene, e' di tutta evidenza come la decurtazione dell'indennita'
speciale impedisca il raggiungimento dello scopo  che  la  legge  (n.
27/1981) aveva imposto di assolvere all'indennita' stessa (compensare
i magistrati degli oneri che essi incontrano nello svolgimento  della
loro attivita') ed appaia, per cio' stesso, violare il  principio  di
ragionevolezza sancito dall'art. 3 della Costituzione,  giacche'  non
risulta che gli oneri che  i  magistrati  incontrano  nel  corso  del
triennio in questione siano corrispondentemente ridotti. 
    C'e', poi, un ulteriore aspetto di tale decurtazione  su  cui  si
deve riflettere: come si  e'  accennato,  l'art.  3  della  legge  n.
27/1981 ha previsto che l'indennita' speciale sia identica per  tutti
i  magistrati,  in  quanto  destinata  a  ristorarli  degli   oneri -
identici -  che  essi  incontrano  nello   svolgimento   della   loro
attivita'. 
    Con il  taglio  dell'indennita'  speciale  tocchera'  ai  singoli
magistrati far fronte, per la parte ora non coperta  dall'indennita',
agli oneri connessi con l'attivita' istituzionale, con la conseguenza
che i magistrati piu' giovani che  godono  di  un  minor  trattamento
economico complessivo avranno maggiori difficolta' a  fronteggiare  i
relativi costi: il che sembra violare ulteriormente  l'art.  3  della
Costituzione, questa  volta  sotto  il  profilo  dell'aver  riservato
uguale trattamento a  situazioni  tra  loro  oggettivamente  diverse,
atteso che la decurtazione (di un'indennita' preordinata a coprire  i
medesimi, identici oneri) pesa diversamente  in  misura  inversamente
proporzionale all'anzianita' del magistrato. 
    Tale decurtazione - atteso che l'indennita' speciale  ex  art.  3
della legge n.  27/1981  e'  stata  istituita  per  «equilibrare»  il
trattamento economico complessivo del magistrato,  che,  come  si  e'
detto, sopporta oneri atipici (diversamente  dagli  altri  funzionari
dello Stato) - sembra poi violare anche  l'art.  36  Cost.  sotto  il
profilo  della  lesione  della  «proporzione»  tra  retribuzione   ed
attivita' svolta: giacche' il comma 22 dell'art. 9, del decreto-legge
n. 78/2010, riducendo la  predetta  indennita'  speciale  e,  dunque,
ponendo ora parzialmente a carico dei magistrati il costo degli oneri
organizzativi   dell'attivita'   giudiziaria   che   prima   facevano
interamente carico allo proporzione, anteriormente lavoro  espletato;
e la altera discriminatorio (stante che perche' compensa  gli  stessi
Stato,  altera  inequivocabilmente  la  esistente,  tra  retribuzione
complessiva e  maggiormente,  con  effetto  palesemente  l'indennita'
speciale e' eguale per tutti oneri),  nei  confronti  dei  magistrati
piu' giovani che godono di  un  trattamento  retributivo  complessivo
minore, rispetto ai quali, dunque,  la  violazione  dell'art.  36  e'
amplificata. 
    La predetta misura, dunque,  incide  sulla  proporzionalita'  tra
prestazione e retribuzione, poiche' (in nome peraltro di esigenze  di
cassa  quantitativamente  irrisorie   nell'ottica   complessiva   del
bilancio dello Stato) incide  solo  sull'aspetto  quantitativo  della
retribuzione,  ma  lascia  immutata  la  richiesta  di  qualita'  del
servizio e dello svolgimento  della  funzione,  facendo  gravare  sul
magistrato  i  relativi  oneri  economici  ed  organizzativi,   cosi'
intaccando anche la dignita' della persona-lavoratore  nell'esercizio
di una delle funzioni piu' delicate dello Stato. 
    In questo  solco  si  colloca  il  constante  insegnamento  della
Suprema Corte di Cassazione, secondo cui, in forza dell'art. 36 della
Costituzione, «in caso di emolumento compensativo  di  particolari  e
gravose modalita' di svolgimento della  prestazione,  trova  comunque
applicazione il principio di irriducibilita' della retribuzione,  con
la conseguenza che detto emolumento puo' venir  meno  solo  a  fronte
della cessazione di quelle particolari modalita'  di  lavoro»  (Cass.
Civ., Sez. Lav., 23 luglio 2009, n. 20310; Cass. Civ., Sez. Lav.,  1°
marzo  2007,  n.  4281).  E'  facile  osservare   come   l'indennita'
giudiziaria costituisca per i magistrati un «emolumento  compensativo
di particolari e gravose modalita' di svolgimento della prestazione»,
in quanto rivolto a compensare «i particolari oneri che questi ultimi
incontrano  nello  svolgimento  concreto  della  loro   attivita'   e
dell'impegno,  senza   prestabiliti   limiti   temporali,   ad   essi
ordinariamente richiesto per lo svolgimento della  propria  funzione»
(C.d.S., Sez. IV, 6 maggio  2010,  n.  2646),  sicche'  la  riduzione
dell'indennita' giudiziaria a fronte di oneri immutati integra  anche
sotto tale profilo violazione dell'art. 36 della Costituzione. 
    4.3.5. Le disposizione censurate, poi, sembrano violare sotto  un
ulteriore profilo gli artt. 3 e 36 della Costituzione. 
    Esse, infatti,  incidono,  in  senso  ablativo,  sul  trattamento
economico, gia' acquisito alla  sfera  del  pubblico  dipendente  sub
specie di diritto  soggettivo;  incidono,  in  altri  termini,  sullo
status economico dei magistrati, alterando quel sinallagma che e'  il
proprium dei  rapporti  di  durata  ed  in  particolare  proprio  dei
rapporti di lavoro; basti  considerare  che  sulla  stabilita'  anche
economica  si  fondano  le  aspettative,  le  progettualita'  e   gli
investimenti - di lungo periodo, se non addirittura  di  vita  -  del
dipendente. 
    E' vero che la Corte costituzionale ha piu' volte  affermato  che
«non e' interdetto al legislatore di emanare  disposizioni  le  quali
vengano a modificare  in  senso  sfavorevole  per  i  beneficiari  la
disciplina dei rapporti, anche se l'oggetto di questi sia  costituito
da diritti soggettivi  perfetti»,  a  condizione,  pero',  che  «tali
disposizioni  non   trasmodino   in   un   regolamento   irrazionale,
frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi
precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da
intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» (Corte
costituzionale 27 gennaio 2001, n. 31; 7  luglio  2005,  n.  264;  28
luglio 2000, n. 393; 20 luglio 1999, n. 330; 26 luglio 1995, n. 390). 
    Principi questi ribaditi dalla  Consulta  anche  con  riferimento
all'intervento  del  legislatore  sui  trattamenti  retributivi   dei
pubblici impiegati:  «Il  divieto  di  ''reformatio  in  peius''  del
trattamento economico dei pubblici dipendenti rappresenta un criterio
etineneutico   inidoneo,   in   assenza   di   specifica    copertura
costituzionale, a vincolare il  legislatore,  il  quale  pertanto  e'
abilitato  a  modificare,  senza  lesioni  all'art.  36   Cost.,   la
disciplina dei rapporti di durata e  perfino  situazioni  di  diritto
soggettivo perfetto, ivi inclusa la variazione dell'entita'  e  della
distribuzione in voci  differenziate  del  trattamento  economico  di
categorie prima egualmente retribuite,  purche'  tali  modifiche  non
trasmodino in regole irrazionali o arbitrarie» (Corte cost. 20 luglio
1999, n. 330). 
    Ai punti  2  e  3  del  presente  paragrafo,  tuttavia,  si  sono
illustrati i diversi, consistenti e concorrenti profili arbitrarieta'
ed irrazionalita' che connotano  le  norme  oggetto  di  censura:  a)
disparita', di trattamento nei confronti dei contribuenti aventi pari
capacita' contributiva; b) disparita' di  trattamento  nei  confronti
dei contribuenti aventi pari capacita' di reddito da lavoro (autonomo
e privato); c) disparita' di trattamento nei confronti  dei  pubblici
dipendenti  aventi  pari  capacita'  di   reddito   da   lavoro;   d)
irrazionalita'  «quantitativa»  del  taglio  che,  pur  disposto  per
esigenze di tutta la collettivita', pesa in maniera consistente  solo
sugli stipendi  dei  pubblici  dipendenti  (ed  ancora  di  piu'  sui
magistrati) e finisce con l'apportare esigue risorse alle casse dello
Stato, in luogo di una minima ed  indolore  imposizione  su  tutti  i
contribuenti sicuramente piu' idonea allo scopo  di  risanamento  del
bilancio; e) irrazionalita' per «abuso della  funzione  legislativa»;
f)  irrazionalita'  «interna»  alle  misure   aventi   caratteri   di
regressivita' da un lato, finendo con l'incidere in maniera piu'  che
proporzionale sugli  stipendi  piu'  bassi,  e  di  mera  casualita',
imprevedibilita',    illogicita'    e    particolare    afflittivita'
quantitativa   dall'altro;   g)   alterazione   del    rapporto    di
proporzionalita' tra prestazione e retribuzione, incidente in  misura
proporzionalmente  maggiore  sui  magistrati  percettori  di  reddito
inferiore. 
    Conclusivamente deve riconoscersi che il  legislatore  ha  inciso
sui  diritti  soggettivi  perfetti  dei  magistrati  e   sulla   loro
aspettativa legittima alla conservazione della retribuzione per tutto
il tempo di durata del rapporto in maniera del tutto  irrazionale  ed
arbitraria, sicche' deve ritenersi che le norme di cui  al  comma  22
dell'art. 9 del decreto-legge n. 78/2010 violino,  anche  sotto  tale
ultimo  profilo,  i  precetti  di  cui  agli  artt.  3  e  36   della
Costituzione. 
    5. Alla luce di tutto quanto sopra ritenuto e considerato,  vanno
sollevate le sopra dette  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 9, comma  22  del  decreto-legge  n.  78/2010  cit.,  quale
risultante dalle modifiche introdotte con la  legge  di  conversione,
nella parte in cui dispone: 
        a) che «non sono erogati, senza possibilita' di recupero, gli
acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il  conguaglio  del  triennio
2010-2012»; 
        b) che «per il triennio  2013-2015  l'acconto  spettante  per
l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista per l'anno  2010  e  il
conguaglio per l'anno 2015 viene  determinato  con  riferimento  agli
anni 2009, 2010 e 2014»; 
        c) che «l'indennita' speciale di cui all'  articolo  3  della
legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante  negli  anni  2011,  2012  e
2013, e' ridotta del 15 per cento per l'anno 2011, del 25  per  cento
per l'anno 2012 e del 32 per cento per l'anno  2013»,  con  riduzione
non operante ai fini previdenziali. 
    La rilevanza delle questioni sussiste atteso che lo scrutinio  di
costituzionalita' delle norme di cui al  comma  22  dell'art.  9  del
decreto-legge n. 78/2010 costituisce  unico  ed  immediato  paradigma
normativo di riferimento per l'eventuale riconoscimento dell'azionato
diritto dei ricorrenti al mantenimento  della  precedente  disciplina
del trattamento economico. 
    In altri termini, la rilevanza delle questioni, come  gia'  detto
al  punto  1.3   dell'ordinanza,   deriva   dalla   circostanza   che
l'applicazione delle norme in questione ha comportato, a partire  dal
1°  gennaio  2011,  le  lamentate  trattenute  sugli   stipendi   dei
ricorrenti, stipendi non rivalutati rispetto agli anni passati; e dal
rilievo che l'eventuale pronunzia di incostituzionalita' delle  dette
disposizioni,    per     contro,     condurrebbe     all'accertamento
dell'illegittimita' del mancato adeguamento degli  stipendi  e  delle
trattenute  in  parola  e  consequenzialmente  all'accoglimento   del
ricorso. 
    La non manifesta infondatezza delle  questioni  si  ricava  dalle
sopra esposte considerazioni. 
    Visto l'art. 23 della legge costituzionale n. 87/1953; 
    Riservata ogni altra decisione  all'esito  del  giudizio  innanzi
alla  Corte  costituzionale,  alla  quale  va  rimessa  la  soluzione
dell'incidente di costituzionalita';