IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 824 del 2011, proposto da Maria Agnello, Leonardo Agueci, Caterina Ajello, Vittorio Alcamo, Maria Teresa Ambrosini, Vittorio Anania, Claudio Antonelli, Fernando Asaro, Anna Battaglia, Alberto Bellet, Franco Belvisi, Enrico Bologna, Monica Boni, Maria Daniela Patrizia Borsellino, Lucia Brescia, Caterina Brignone, Eleonora Bruno, Santina Bruno, Michele Calvisi, Alessandra Camassa, Rocco Camerata Scovazzo, Rosalia Tanina Camma', Francesco Antonio Cancilla, Antonio Caputo, Attilio Caputo, Lunella Caradonna, Walter Carlisi, Paola Carotenuto, Carmelo Carrara, Giuliano Castiglia, Luisa Anna Gattina', Pietro Cavarretta, Antonio Maria Cavasino, Vincenzo Cefalo, Emanuele Cersosimo, Sebastiana Ciardo, Anna Rita Coltellacci, Santi Roberto Condorelli, Mario Conte, Roberto Giovanni Conti, Ettorina Contino, Massimo Corleo, Samuele Corso, Fabio Cosentino, Ettore Costanzo, Florestano Cristodaro, Luigi Croce, Luca D'Addario, Alberto Davico, Giuseppe De Gregorio, Gianluca De Leo, Sergio Demontis, Giuseppina Di Maida, Gabriella Di Marco, Antonino Di Matteo, Renato Di Natale, Paolo Di Sciuva, Salvatore Di Vitale, Marcella Ferrara, Maria Stefania Ferrieri Caputi, Lucia Fontana, Ignazio Giovanni Fonzo, Santo Fornasier, Giovanni Francolini, Silvia Franzoso, Matteo Frasca, Fulvia Fratantonio, Rita Fulantelli, Chiara Gagliano, Daniela Galazzi, Maria Elena Gamberini, Andrea Genna, Mariarosaria Gerbino, Benedetto Giaimo, Gabriella Giammona, Daniela Giglio, Paolo Giudici, Francesco Grassi, Piero Euro Nicola Grillo, Caterina Grimaldi Di Terresena, Paolo Guido, Tania Hmeljak, Gianfranca Claudia Infantino, Biagio Insacco, Fabrizio La Cascia, Anna Maria Leone, Luisa Leone, Fabio Licata, Vincenzo Liotta, Ferdinando Lo Cascio, Raimondo Loforti, Cristiana Macchiusi, Giulia Maisano, Raffaele Malizia, Clelia Maltese, Virginia Marletta, Daniele Marraffa, Vincenzina Massa, Wilma Angela Mazzara, Salvatore Messina, Francesco Micela, Giuseppe Maria Miceli, Rachele Monfredi, Roberto Murgia, Gabriella Natale, Cintia Emanuela Nicoletti, Giacomo Maria Nonno, Andrea Norzi, Giovanna Nozzetti, Calogero Gaetano Paci, Pierangelo Padova, Massimo Palmeri, Antonella Pandolfi, Vincenzo Pantaleo, Antonia Pappalardo, Antonina Pardo, Ignazio Pardo, Pietro Pellegrino, Daniela Pellingra, Angelo Pellino, Rossana Penna, Laura Petitti, Bernardo Petralia, Ennio Petrigni, Filippo Picone, Fabio Pilato, Adriana Piras, Francescamaria Piruzza, Emanuela Podda, Antonio Prestipino, Donatella Puleo, Flora Randazzo, Emanuele Ravaglioli, Luciana Razete, Giuseppe Rini, Michele Ruvolo, Antonina Sabatino, Vincenza Sabatino, Marzia Eugenia Sabella, Simona Sansa, Rosa Alba Scaduto, Maurizio Scalia, Luca Sciarretta, Giuseppe Sgadari, Giovanni Sirchia, Cinzia Carla Enrica Soffientini, Gaetano Sole, Giulia Spadaro, Valerla Spatafora, Maria Patrizia Spina, Andrea Tarondo, Vittorio Teresi, Rita Paola Terramagra, Mauro Terranova, Annalisa Tesoriere, Giovanni Carlo Tomaselli, Raimonda Tomasino, Anna Trinchillo, Giancarlo Trizzino, Daniela Troja, Claudia Turco, Luisa Turco, Raffaella Vacca, Laura Vaccaro, Chiara Vicini, Stefano Salvatore Zammuto, Renato Zichittella, rappresentati e difesi dagli Avv. Vittorio Angiolini, Marco Cuniberti ed Agatino Cariola, con domicilio eletto presso lo studio dell'Avv. Rosanna Paruta sito in Palermo, via Onorato n. 10; Contro Ministero della giustizia, Ministero dell'economia e finanze, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona dei legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano per legge in Palermo, via A. De Gasperi n. 81; Per il riconoscimento, previa idonea cautela, e con riserva di motivi aggiunti, del diritto al trattamento retributivo spettante senza tener conto delle decurtazioni di cui al comma 22 dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modifiche nella legge 30 luglio 2010, n. 122; nonche' per la condanna delle amministrazioni resistenti al pagamento delle somme corrispondenti, con ogni accessorio di legge. Visti il ricorso e i relativi allegati; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della giustizia, del Ministero dell'economia e finanze e della Presidenza del Consiglio dei Ministri; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 dicembre 2011 il dott. Pier Luigi Tomaiuoli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; 1. Premessa. 1.1. I ricorrenti - nella dedotta e comune qualita' di magistrati ordinari in servizio presso i vari Uffici giudiziari ricompresi nell'ambito di competenza territoriale dell'adito giudicante ed assoggettati, in quanto tali, alle decurtazioni del rispettivo trattamento retributivo derivanti dall'applicazione delle disposizioni finanziarie contenute nel comma 22 dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla 1egge 30 luglio 2010, n. 122 («Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e competitivita' economica») - hanno agito in giudizio per la declaratoria d'illegittimita' di dette misure, con consequenziale riconoscimento del diritto al trattamento retributivo asseritamente spettante senza tener conto delle contestate riduzioni, e la condanna delle Amministrazioni resistenti alle conseguenti restituzioni, all'uopo prospettando violazione di legge ed altresi' lamentando la sospetta illegittimita' costituzionale della sopra richiamata normativa primaria. Le Amministrazioni convenute si sono costituite in giudizio con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso. Il Tribunale con ordinanza presidenziale n. 231 del 25 maggio 2011 ha disposto incombenti istruttori a carico delle Amministrazioni resistenti ed all'udienza di merito del 6 dicembre 2012 il ricorso e' stato trattenuto in decisione. I ricorrenti, in particolare, hanno agito per l'accertamento della illegittimita' della mancata rivalutazione dei propri stipendi e delle trattenute operate sugli stessi in forza del predetto comma 22 dell'art. 9 del decreto-legge n. 78/2010 (quale risultante dalle modifiche introdotte con la legge di conversione 30 luglio 2010, n. 122), ed in base alle disposizione in esso contenute che prevedono per il personale di cui alla legge n. 27 del 1981: a) che «non sono erogati, senza possibilita' di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012»; b) che «per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista per l'anno 2010 e il conguaglio per l'anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014»; c) che «l'indennita' speciale di cui all' articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, e' ridotta del 15 per cento per l'anno 2011, del 25 per cento per l'anno 2012 e del 32 per cento per l'anno 2013», con riduzione non operante ai fini previdenziali. Non e' oggetto, invece, di specifica domanda nel giudizio a quo l'accertamento dell'illegittimita' della trattenuta stipendiale operata su tutti i pubblici dipendenti, ivi compresi i magistrati, in base al comma 2 dell'art. 9 del medesimo decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 (il comma in questione recita: «in considerazione della eccezionalita' della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di Statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell'art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonche' del 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro; a seguito della predetta riduzione il trattamento economico complessivo non puo' essere comunque inferiore a 90.000 euro lordi annui...»). 1.2. Sussistono, ad avviso del Collegio, i presupposti per sollevare, nei termini che verranno dappresso esposti, diverse questioni di legittimita' costituzionale della richiamata normativa sui trattamenti stipendiali dei ricorrenti, ed in particolare in punto di blocco dell'adeguamento automatico, di apposizione di tetti agli acconti ed ai conguagli del predetto adeguamento e di riduzione dell'indennita' di cui all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (la c.d. «indennita' giudiziaria)». Non avendo i ricorrenti spiegato domanda di accertamento dell'illegittimita' della trattenuta operata a titolo di c.d. «contributo di solidarieta'», questo Tribunale non puo', in applicazione del principio di corresponsione tra chiesto e pronunciato, sollevare eventuali questioni di costituzionalita' relative a tale ultima disposizione, stante la loro irrilevanza nel giudizio a quo. Essa, tuttavia, verra' fatta oggetto di esame nella presente ordinanza quale tassello imprescindibile del tessuto normativo in cui si calano le altre ricordate disposizioni sospettate di incostituzionalita' e rilevanti nel giudizio a quo. 1.3. Proprio in punto di rilevanza osserva il Collegio come l'applicazione delle norme in questione ha comportato, a partire dal 1° gennaio 2011, le lamentate trattenute sugli stipendi dei ricorrenti, stipendi non rivalutati rispetto agli anni passati. L'eventuale pronunzia di incostituzionalita' delle dette disposizioni, per contro, condurrebbe de plano all'accertamento dell'illegittimita' del mancato adeguamento degli stipendi e delle trattenute in parola e consequenzialmente all'accoglimento del ricorso: di qui la rilevanza delle questioni di costituzionalita' che dappresso si illustreranno. Osservasi, infine, con riferimento alle sole parti dispositive del comma 22 dell'art. 9 riguardanti l'adeguamento triennale degli stipendi, che non puo' essere esclusa la rilevanza della questione nel giudizio a quo, avallando l'interpretazione costituzionalmente orientata ed adeguatrice patrocinata in prima battuta dai ricorrenti, dal momento che essa e' all'evidenza errata. Assumono i ricorrenti che il predetto comma 22 dell'art. 9, non contenendo specificazioni in ordine a quali siano gli acconti e i conguagli oggetto di mancata erogazione, sarebbe di fatto inapplicabile. E' noto, tuttavia - e comunque chiaramente indicato dall'art. 2 della legge n. 27/1981 - che il meccanismo di dinamica retributiva del personale di magistratura prevede un adeguamento triennale sulla base degli incrementi conseguiti nel precedente triennio dalle altre categorie del pubblico impiego che si realizza mediante due acconti di pari importo nel secondo e nel terzo anno del triennio ed un successivo conguaglio, con la conseguenza che sono palesi tanto la voluntas legis sottesa al comma 22 quanto il suo ambito operativo. 2. Della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' dell'art. 9, comma 22 del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla 1egge 30 luglio 2010, n. 122, per violazione degli artt. 101, comma 2, 104, comma 1, 111, commi 1 e 2 e 117, comma 1 della Costituzione in relazione all'art. 6 della C.E.D.U.; e del bilanciamento dei principi di autonomia ed indipendenza della Magistratura con le esigenze finanziarie e di bilancio dello Stato. 2.1. Il dubbio di costituzionalita' per violazione delle norme indicate in rubrica sussiste sia con riferimento alle disposizioni contenute nel comma 22 dell'art. 9 riguardanti il blocco degli automatismi stipendiali (per il triennio 2011-2013) e l'apposizione di tetti ai medesimi (per gli anni 2014/2015), sia con riferimento a quella che introduce il taglio della indennita' speciale di cui all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 secondo aliquote differenti negli anni 2011, 2012 e 2013 (trattasi rispettivamente degli incisi secondo cui: a) «non sono erogati, senza possibilita' di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012»; b) «per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista per l'anno 2010 e il conguaglio per l'anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014»; c) «l'indennita' speciale di cui all' articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, e' ridotta del 15 per cento per l'anno 2011, del 25 per cento per l'anno 2012 e del 32 per cento per l'anno 2013», con riduzione non operante ai fini previdenziali). I valori dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura da ogni altro potere dello Stato sono sanciti in via generale dagli artt. 101, comma 2 («I giudici sono soggetti soltanto alla legge») e 104, comma 1 Cost. («La Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). L'indipendenza della Magistratura non e' per certo un privilegio dei giudici, ma e' funzionale, nel disegno costituzionale, alla celebrazione di un giusto processo, come si evince dai commi 1 e 2 dell'art. 111 della Costituzione, secondo cui «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» ed «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parita', davanti ad un giudice terzo ed imparziale». La stessa funzionalizzazione dell'indipendenza dei magistrati alla celebrazione del giusto processo si rinviene nell'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo che, per il tramite dell'art. 117, 1 comma della Costituzione (come sostituito dall'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), e' entrata a far parte diretta del nostro tessuto costituzionale (sulla predetta funzionalizzazione cfr. Corte Europea Dir. Umani, 19 giugno 2003, Hulki Gunes c. Turchia). Ai sensi del I alinea del I comma del predetto art. 6, «ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli viene rivolta». E' insegnamento costante della Corte costituzionale che la necessita' di «attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati...va salvaguardato anche sotto il profilo economico», onde evitare «tra l'altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri» (sentenze nn. 1/1978, 42/1993, 238/1990). Con particolare riferimento al meccanismo del c.d. adeguamento automatico degli stipendi (essenzialmente fondato sulla garanzia di un aumento delle retribuzioni, che, sulla base di indici appositamente ed obiettivamente elaborati dall'Istituto centrale di statistica, viene assicurato «di diritto», ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie del pubblico impiego) inciso dalla normativa in esame con riferimento al triennio 2011-2013 ed al biennio 2014/2015, la Corte ha piu' volte sottolineato come esso costituisca un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni in discorso, inteso alla «attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati - che va salvaguardato anche sotto il profilo economico», «evitando tra l'altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri» (Corte cost. 10 febbraio 1993, n. 42) - e concretizzante «una guarentigia idonea a tale scopo» (Corte cost. ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137; Corte 1998 n. 346; Corte cost. 8 maggio 1990, n. 238). La tutela costituzionale del trattamento economico dei magistrati, dunque, si estende al suo meccanismo di adeguamento automatico ma anche alla c.d. indennita' giudiziaria, «intrinsecamente connessa allo status di magistrati» (Corte costituzionale n. 238/1990), ed alla sua rivalutazione monetaria. L'indennita' di cui alla legge 19 febbraio 1981, n. 27, infatti, costituisce parte essenziale, costante e «normale» del trattamento economico complessivo del magistrato (sul punto Corte cost., ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137; nonche', ex multis; Consiglio Stato, Sez. IV, 6 maggio 2010, n. 2646; Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 1993, n. 401); sicche' la sua natura di componente fissa della retribuzione comporta le medesime esigenze di tutela teste' evidenziate. E' la stessa Corte costituzionale, del resto, nelle sopra citate pronunzie n. 346/1998, 43/92 e 238/1990, ad avere ricondotto l'istituto della rivalutazione automatica della indennita' giudiziaria alla ratio di tutela dell'indipendenza della Magistratura: identica ratio, a fortiori, non puo' che essere sottesa al trattamento principale dell'indennita' stessa, di cui l'adeguamento automatico e' solo aspetto accessorio. Ha osservato la Corte che «l'indennita' in esame e' espressamente correlata ai particolari oneri che i magistrati incontrano nello svolgimento della loro attivita', la quale tra l'altro comporta un impegno senza precisi limiti temporali, dal che discende un rigoroso collegamento con il servizio effettivamente prestato. Peraltro - ed in collegamento con la pari ordinazione delle funzioni (art. 107, terzo comma, Cost.) - essa e' attribuita in misura uguale a tutti i magistrati investiti di funzioni giurisdizionali, a prescindere dall'anzianita' e dalla qualifica rivestita. Specificamente connessa allo status dei magistrati e', poi, l'ulteriore, essenziale caratteristica dell'indennita' in questione, costituita dall'essere essa assoggettata al medesimo meccanismo di rivalutazione automatica previsto per gli stipendi dei magistrati dal precedente art. 2 della medesima legge. In attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati, che va salvaguardata anche sotto il profilo economico (sentenza n. I del 1978) evitando tra l'altro che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, il legislatore ha col citato art. 2 predisposto un meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni dei magistrati che, in quanto configurato con l'attuale ampiezza di termini di riferimento, concretizza una guarentigia idonea a tale scopo. La sua estensione anche all'indennita' in discorso - corrisposta con la stessa cadenza mensile degli stipendi ne evidenzia non solo la natura retributiva, di componente del normale trattamento economico dei magistrati, ma anche la specificita' rispetto alle indennita', variamente denominate, attribuite al personale amministrativo statale» (Corte costituzionale, 8 maggio 1990, n. 238; cfr. anche Corte costituzionale, 19 gennaio 1995, n. 15). La riconducibilita' dell'indennita' giudiziaria allo spettro di tutela dei valori costituzionali dell'autonomia ed indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101 e 104 della Costituzione, dunque, si ricava per certo sia dalla sua natura di componente normale del trattamento economico, sia dall'espresso riconoscimento del suo accessorio meccanismo di rivalutazione come funzionale alla tutela di tali valori. La tradizione costituzionale italiana risulta confermata e rafforzata dalla «Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilita'», atto di soft-law adottato a Strasburgo dal Comitato dei Ministri il 17 novembre 2010 al fine di originare linee attuative il piu' possibile omogenee dell'art. 6 della C.E.D.U. (l'incipit e' il seguente «Visto l'art. 6 della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali...che stabilisce che ''ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge'' e la pertinente giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo»). La predetta raccomandazione, dopo avere sottolineato «il fatto che l'indipendenza della magistratura garantisce ad ogni persona il diritto ad un equo processo e quindi non e' privilegio dei magistrati ma una garanzia per il rispetto dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, che permette ad ogni persona di avere fiducia nel sistema giudiziario», specifica, al punto 45, che «deve essere vietata ogni forma di discriminazione verso i giudici o i candidati all'ufficio di giudice»; al punto 54, poi, prevede che la loro retribuzione debba essere «commisurata al loro ruolo professionale ed alle loro responsabilita'», ed in ogni caso tale da «renderli immuni da qualsiasi pressione volta ad influenzare le loro decisioni». Lo stesso punto 54 si chiude con l'invito agli Stati membri ad adottare «specifiche disposizioni di legge per garantire che non possa essere disposta una riduzione delle retribuzioni rivolta specificamente ai giudici». Nello stesso ordine di idee la c.d. Magna Carta dei Giudici, del pari approvata a Strasburgo il 17 novembre 2010 dal Consiglio d'Europa - Comitato consultivo dei Giudici europei (CCJE), la quale Magna Carta, seppur beninteso priva ex se di valore cogente sotto il profilo giuridico, costituisce una decisione fondamentale alla cui luce devono essere interpretate le disposizioni interne, per la sua autorevole fonte di provenienza, esprimendo il CCJE le «tradizioni costituzionali» dei quarantasette Stati europei che ne sono membri. Secondo l'espresso disposto degli artt. 2, 3 e 4 della Carta l'indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto ai poteri legislativo ed esecutivo va garantita anche sotto il profilo della «tutela finanziaria» della retribuzione dei magistrati; l'art. 7 prevede espressamente che «il giudice deve beneficiare di una remunerazione e di un sistema previdenziale adeguati e garantiti dalla legge, che lo mettano al riparo da ogni indebita influenza». 2.2 Va poi considerato, sotto diverso e concorrente profilo, che il legislatore, mediante uno strumento che apparentemente incide solo sulla retribuzione del magistrato, viene in realta' ad operare un indebito condizionamento sull'esercizio della funzione giurisdizionale, poiche' costringe l'Ordine di appartenenza, quando non addirittura il magistrato come singolo, ad un confronto con il pubblico potere al fine di ripristinare le condizioni economiche originarie, o quantomeno di elidere o attenuare le conseguenze negative della misura disposta. Tale stato di cose, generando un sotterraneo conflitto tra Istituzioni che mina alla radice la serenita' del giudice, appare particolarmente grave per la specifica funzione del magistrato. Un magistrato «condizionato», quand'anche solo apparentemente e non nella realta', da una misura legislativa fortemente penalizzante per i suoi interessi economici rischia di vedersi sottratto quel credito e quel prestigio di cui il singolo magistrato e l'Ordine giudiziario nel suo insieme devono sempre ed indefettibilmente godere presso la comunita' dei cittadini. La Corte costituzionale nella sentenza n. 100 del 1981 ha chiarito che «i magistrati, per dettato costituzionale (artt. 101, comma secondo e 104, comma primo, Cost.), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialita': nell'adempimento del loro compito. I principi anzidetti sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione ed assicurano, nel contempo, quella dignita' dell'intero ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilita' di essa... Alla luce di tali considerazioni va interpretata la sentenza di questa Corte n. 145 del 1976, la quale riconosce l'esigenza di una rigorosa tutela del prestigio dell'ordine giudiziario, che rientra senza dubbio tra i piu' rilevanti beni costituzionalmente protetti». Alle stesse conseguenze di «appannamento» della neutralita' della funzione giurisdizionale si perverrebbe associando la riduzione stipendiale alla rottura dei delicati equilibri tra poteri dello Stato. In tale ottica, la misura legislativa in parola potrebbe apparire come una sorta di punizione o di monito per il potere giudiziario, rendendo manifesta ai cittadini una condizione di evidente supremazia gerarchica di un potere sull'altro, in contrasto - anche sotto tale profilo - con i dettami costituzionali che improntano i rapporti tra poteri alla separazione, all'equilibrio ed al bilanciamento. L'idea di un magistrato punito, ammonito o anche solo «influenzabile» dalla consapevolezza che il taglio stipendiale disposto oggi puo' ben essere ripetuto o addirittura inasprito (oltre il 2013), ripugna al nostro sistema costituzionale ed ordinamentale, godendo della piu' elevata tutela, in esso, anche la mera apparenza della indipendenza della funzione giurisdizionale, in quanto valore fondante per l'affidabilita' e la credibilita' istituzionale della figura del magistrato (sull'importanza anche della mera apparenza dell'indipendenza dei magistrati si veda Corte Europea dei diritti dell'Uomo, Grand Chamber, case of Incal v Turkey, 41/1997/825/1031; March 04, 1982, case of Sramek v Austria; May 06, 1978, case of Campbell v Fell v The United Kingdom). 2.3. Ebbene il comma 22 dell'art. 9 del decrteo-legge n. 78 del 2010 ha come fine, o quantomeno come effetto, quello di ledere non solo il dato testuale, ma altresi' i principi e valori sottesi alle richiamate disposizioni costituzionali (artt. 101, comma 2, 104, comma 1 e 117, comma 1, in relazione all'art. 6 della C.E.D.U.), valori a loro volta funzionali all'esercizio imparziale ed obiettivo della funzione giudicante, come esigono molteplici norme costituzionali anche in vista della celebrazione di un «giusto» processo (cfr. artt. 24, 103 e 111 della Cost.; Corte cost. 381/1999). E' chiaro che anche i ricordati principi costituzionali che tutelano l'autonomia e la indipendenza della Magistratura possono essere bilanciati dal legislatore con altri valori costituzionali in ipotesi confliggenti; fra questi puo' di certo esservi, specie in momenti congiunturali di crisi economica, quello del rispetto delle esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica nei limiti delle risorse finanziarie attingibili. Ritiene, tuttavia, il Collegio che, laddove il legislatore decida di intervenire sui meccanismi retributivi del magistrati, debba in primo luogo farlo in uno scenario di coinvolgimento di tutti i contribuenti secondo i principi di pari capacita' contributiva e progressivita' di cui all'art. 53 della Costituzione. In ogni caso, siffatto bilanciamento, pure essendo rimesso alla discrezionalita' del legislatore, non puo' non essere rispettoso anche dei principi «di proporzionalita', ragionevolezza» (Corte costituzionale 11 novembre 2010, n. 316; sentenze n. 372 del 1998 e n. 349 del 1985) e di eguaglianza. Questi ultimi, nel caso di specie, avrebbero imposto l'adozione di una riforma organica e razionale della materia regolata dalla legge 1981 n. 27 e dettata in attuazione diretta degli artt. 101 e 104 della Costituzione, atteso che la politica dei tagli lineari (che gia' di per se' produce storture sul terreno dell'equita' e vere e proprie nefandezze sul piano della eguaglianza dei cittadini) e' quella che meno si attaglia ad un settore dai delicatissimi equilibri qual e' quello della definizione dei rapporti tra poteri e funzioni dello Stato. Le norme censurate, invece, in nome di asserite esigenze finanziarie e di bilancio, hanno operato una compressione dei valori costituzionalmente garantiti dell'indipendenza ed autonomia della Magistratura in una maniera del tutto irrazionale, sproporzionata e discriminatoria (come sara' reso palese dalla lettura dei successivi paragrafi relativi agli altri dubbi di costituzionalita'; si rimanda, in particolare, alla lettura del paragrafo 4, ove si illustreranno i seguenti profili: a) disparita' di trattamento nei confronti dei contribuenti aventi pari capacita' contributiva; b) disparita' di trattamento nei confronti dei contribuenti aventi pari capacita' di reddito da lavoro (autonomo e privato); c) disparita' di trattamento nei confronti dei pubblici dipendenti aventi pari capacita' di reddito da lavoro; d) irrazionalita' «quantitativa» del taglio che, pur disposto per esigenze di tutta la collettivita', pesa in maniera consistente solo sugli stipendi dei pubblici dipendenti (ed ancora di piu' sui magistrati) e finisce con l'apportare esigue risorse alle casse dello Stato, in luogo di una minima ed indolore imposizione su tutti i contribuenti sicuramente piu' idonea allo scopo di risanamento del bilancio; e) irrazionalita' per «abuso della funzione legislativa»; i) irrazionalita' «interna» alle misure aventi caratteri di regressivita' da un lato, finendo con l'incidere in maniera piu' che proporzionale sugli stipendi piu' bassi, e di mera casualita', imprevedibilita' ed illogicita' dall'altro; g) alterazione del rapporto di proporzionalita' tra prestazione e retribuzione, incidente in misura proporzionalmente maggiore sui magistrati percettori di reddito inferiore; g) irragionevole incisione sui diritti quesiti). 3. Della non manifesta infondate a della questione di costituzionalita' dell'art. 9, comma 22 del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla 1egge 30 luglio 2010, n. 12, per violazione degli artt. 3, 53, I e II comma della Costituzione. 3.1. E' bene premettere che le gia' dette disposizioni normative della cui legittimita' costituzionale si dubita sono state dettate nel corpo decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, rubricato «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e competitivita' economica». Il preambolo del decreto-legge riconduce le sue disposizioni alla matrice comune della «straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni per il contenimento della spesa pubblica e per il contrasto all'evasione fiscale, alle finalita' di stabilizzazione finanziaria e del rilancio della competitivita' economica». Il gia' citato art. 9 (rubricato «contenimento delle spese in materia di pubblico impiego») al comma 2, prima di introdurre il c.d. contributo di solidarieta', fa riferimento alla «eccezionalita' della situazione economica internazionale» ed alle «esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea». Con riferimento alla disciplina dettata dai commi 1, 2, 21 e 22 dell'art. 9 del decreto-legge n. 78/2010 e rilevante per la decisione della controversia, osserva il Collegio che: per tutti i dipendenti pubblici, ivi compresi i magistrati, per gli anni 2011, 2012 e 2013 e' prevista una decurtazione, nella percentuale del 5% e del 10% delle quote di trattamento economico superiori, rispettivamente, a 90.000 e' 150.000 euro annui lordi; per i magistrati, cosi' come per tutte le altre categorie del personale non contrattualizzato, viene introdotto il blocco dei «meccanismi di adeguamento retributivo», la cui operativita' e' estesa sia a livello di acconto che a livello di conguaglio (e dunque con effetto retroattivo); per i soli magistrati (di tutte le magistrature), a differenza delle altre categorie del personale non contrattualizzato, sono salvaguardati i meccanismi di «progressione automatica dello stipendio», ossia gli scatti di carriera; e cio' perche' ad essi non si applicano i periodo secondo e terzo del comma 21; vengono introdotti dei «tetti» all'acconto per l'anno 2014 (che non puo' superare quello del 2010) e del conguaglio per l'anno 2015 (determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014, escludendo quindi il triennio 2011-2013); nei confronti dei soli magistrati viene operata una riduzione crescente nel tempo dell'indennita' giudiziaria (ex art. 3 legge n. 27/1981), come previsto dal secondo periodo del comma 22; Il decrteo-legge n. 98/11, convertito nella legge n. 111/2011, rubricato «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», all'art. 16, rubricato «Contenimento delle spese in materia di pubblico impiego», prevede per il Governo la facolta' di estensione delle predette misure dettate per il pubblico impiego anche all'anno 2014. Le disposizioni sopra dette introducono, nel loro complesso, misure finalizzate ad incidere in maniera consistente sul trattamento economico dei magistrati per gli anni 2011, 2012 e 2013, ed in ipotesi anche per l'anno 2014. 3.2. E' opinione del Collegio che tutte le predette disposizioni, anche se presentate come mere misure di riduzione della spesa pubblica, abbiano natura tributaria ed in quanto tale debbano essere necessariamente assoggettate ai principi di universalita', capacita' contributiva e progressivita' di cui all'art. 53 della Costituzione. Per valutare se, in concreto, le misure qui in esame (blocco dell'adeguamento automatico per il triennio 2011-2013, introduzione di tetti per il biennio 2014/2015 e taglio dell'indennita' speciale di cui all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27) abbiano o meno la natura di tributo, «occorre interpretarne la disciplina sostanziale alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per qualificare come tributarie alcune entrate: criteri che consistono nella doverosita' della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante» (ex plurimis, Corte costituzionale, sentt. nn. 141/2009, 335/2008, 64/2008, 334/2006, 73/2005). Non e' dubbio che le trattenute in questione siano effettuate dallo Stato a prescindere da qualsivoglia rapporto sinallagmatico, nel senso che esse non trovano ragione in una controprestazione in favore del dipendente ma sono imposte in via autorititativa. Esse poi, in relazione al presupposto economicamente rilevante della percezione del reddito da lavoro, si collegano senz'altro alla spesa pubblica. Come evidenziato sopra, infatti, l'incipit del comma 2 dell'art. 9 recita: «In considerazione della eccezionalita' della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea». Tale formulazione, che fornisce la vera «motivazione» e la ratio della disposizione, collega in modo esplicito la peculiarita' degli strumenti utilizzati dal legislatore d'urgenza del 2010 ad obiettivi di carattere finanziario, ossia alla messa disposizione di risorse economiche per le esigenze dell'Erario. Cio' e' del resto confermato dal (pure sopra ricordato) preambolo al decreto-legge n. 78/2010 che riconduce la rilevata «straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni per il contenimento della spesa pubblica e per il contrasto all'evasione fiscale» alle finalita' della «stabilizzazione finanziaria» (espressione che peraltro compare identica anche nell'intitolazione del decreto-legge n. 78) e del «rilancio della competitivita' economica». Deve concludersi che le norme in esame hanno istituito dei tributi, di cui presentano le caratteristiche essenziali, «e cioe' la doverosita' della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante» (Corte costituzionale 19 ottobre 2006, n. 334; nonche' sentenze n. 26 del 1982, 63 del 1990, 2 ed 11 del 1995, 37 del 1997). Tali considerazioni valgono integralmente anche per il «contributo di solidarieta'» di cui al comma 2 dell'art. 9 non oggetto di scrutinio diretto in questa sede, contributo la cui natura tributaria e' ulteriormente palesata dall'utilizzo della ben nota tecnica di fissazione di aliquote crescenti per scaglioni di reddito. Osserva il Collegio che quello che puo' trarre in inganno nella fattispecie in esame circa la vera natura tributaria delle disposizioni scrutinate e' che esse vengono qualificate dal legislatore come mere misure di riduzione della spesa pubblica. La riduzione della spesa pubblica, tuttavia, e' semplicemente l'effetto di quelle che ontologicamente rimangono, per le ragioni sopra dette, entrate tributarie. Qualsivoglia imposizione tributaria (tassa, tributo o contributo), che incida sugli stipendi dei pubblici dipendenti decurtandoli, si risolve sul piano effettuale in una riduzione della spesa pubblica, ma per cio' solo non muta la propria natura. Se il legislatore avesse optato per l'aumento delle aliquote I.r.p.e.f., invece che per l'adozione delle misure sopra descritte, si sarebbe egualmente verificata in concreto una riduzione della spesa pubblica, ma non si sarebbe potuto in alcun modo dubitare della natura tributaria di una disposizione di tal sorta. Se, per altro verso, il legislatore avesse imposto le stesse misure anche ai dipendenti privati, non ci sarebbe stato un risparmio della spesa pubblica e nessuno comunque avrebbe potuto dubitare della natura tributaria delle predette disposizioni. Cio' che qui rileva, dunque, non e' l'effetto di bilancio che tali disposizioni producono ne' l'ambito soggettivo di applicazione ma la loro natura intrinseca, da ricavarsi secondo le coordinate ermeneutiche sopra tracciate e che conducono ad affermarne la natura tributaria. Si aggiunga che tali conclusioni risultano viepiu' corroborate dalla giurisprudenza costituzionale in punto di qualificazione delle «leggi tributarie» ai fini del giudizio di ammissibilita' del referendum (art. 75 della Costituzione). In molteplici occasioni, il Giudice delle Leggi ha univocamente affermato che tale nozione e' caratterizzata dalla ricorrenza di due elementi essenziali (vedi sentt. nn. 26/1982, 63/1990, 2/1995, 11/1995): 1) l'imposizione di un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio; 2) la destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la finanza pubblica, e cioe' allo scopo di apprestare i mezzi per il fabbisogno finanziario necessario a coprire spese pubbliche. Entrambi tali presupposti sono, come evidenziato sopra, ravvisabili nelle disposizioni di cui al comma 22 dell'art. 9 del decreto-legge n. 78/2008 che pertanto si atteggiano a prelievo fiscale coattivo ed occulto realizzato nelle forme di una decurtazione stipendiale. Avendo natura tributaria, le norme in esame devono essere assoggettate ai principi costituzionali dettati dall'art. 53, il quale articolo al primo comma statuisce che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva», ed al secondo che «il sistema tributario e' informato a criteri di progressivita'». La disposizione costituzionale in parola e', in primo luogo, chiara nell'individuare in modo inequivoco ed onnicomprensivo («tutti») la platea dei soggetti del prelievo fiscale, ribadendo con forza la necessaria applicazione del generalissimo principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. anche al sistema tributario. La stessa norma, per vero, specifica il concetto di uguaglianza in materia fiscale ancorandolo alla pari capacita' retributiva, di guisa che «la universalita' della imposizione, desumibile dalla espressione testuale «tutti» (cittadini o non cittadini, in qualche modo con rapporti di collegamento con la Repubblica italiana), deve essere intesa nel senso di obbligo generale, improntato al principio di eguaglianza (senza alcuna delle discriminazioni vietate: art. 3, primo comma, della Costituzione), di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva» (con riferimento al singolo tributo ed al complesso della imposizione fiscale), come «dovere inserito nei rapporti politici in relazione all'appartenenza del soggetto alla collettivita' organizzata» (Corte cost., ord. n. 341/2000). In altri termini, «il primo comma dell'art. 53, nel sancire non gia' solo il dovere delle prestazioni tributarie, ma altresi' il principio della correlazione di queste con la capacita' contributiva di ciascuno, impone al legislatore, oltre all'obbligo di non disporre prestazioni che siano in contrasto con i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione a tutela della persona, altresi' l'obbligo di commisurare il carico tributario in modo uniforme nei confronti dei vari soggetti, allorche' sia dato riscontrare per essi una perfetta identita' della situazione di fatto presa in considerazione dalla legge al fine dell'imposizione del tributo» (Corte cost. 92/1963); e cio' in piena conformita' anche ai dettami del generalissimo principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Date le superiori coordinate e' evidente l'illegittimita' costituzionale delle censurate disposizioni di cui al comma 22 dell'art. 9 che incidono sul reddito di una sola micro categoria sociale (che conta poca migliaia di contribuenti), quella dei magistrati, ma anche della disposizione non fatta oggetto di censura, riguardante tutti i pubblici impiegati ed istituente il cosiddetto «contributo di solidarieta'» di cui al comma 2 dell'art. 9. Il legislatore del 2010 ha scelto, a parita' contributiva ed in spregio all'art. 53 della Costituzione, per contribuire al risanamento delle casse dello Stato, di colpire solo una determinata classe sociale, i dipendenti pubblici (quanto al comma 2 dell'art. 9), ed in particolare e per quanto qui direttamente rileva, con misure ancora piu' incisive rispetto agli stessi dipendenti pubblici, una ancora piu' particolare e ristretta classe di contribuenti, i magistrati (quanto al comma 22 dell'art. 9), cosi' realizzando come si dira' appresso un tributo odioso e specialeratione subiecti (T.A.R. Campania, ordinanza di rimessione n. 1162/2011), con l'aggravante di avere individuato, tra tutte le categorie di contribuenti possibili, l'unica la cui tutela del trattamento stipendiale risponde a principi di natura costituzionale specifici, ulteriori (l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101, comma 2 e 104 comma 1) e piu' pregnanti rispetto a quelli generali di cui all'art. 36 della Carta fondamentale. In conclusione deve dirsi che, invece di prendere come parametro per l'imposizione fiscale un medesimo indice di capacita' contributiva e conseguentemente incidere su «tutti» i contribuenti versanti nella medesima condizione, le norme in questione - con misure continuative, prolungate nel triennio 2011-2013 (con possibile estensione al 2014) ed in parte al biennio 2014/2015, nonche' irrazionali sotto molteplici profili come si evidenziera' dappresso - sono state rivolte ad una ben limitata «classe di persone», colpendo esclusivamente il loro reddito e con cio' violando l'art. 53, I comma della Costituzione. 3.3. La norma di cui al comma 22 dell'art. 9 riguardante il taglio dell'indennita' di cui all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 si pone, in secondo luogo, in contrasto anche con il precetto di progressivita' contenuto nel comma 2 dell'art. 53 della Costituzione, dal momento che essa colpisce nella stessa misura fissa (del 15 % per l'anno 2011, del 25% per l'anno 2012 e del 32 % per l'anno 2013) tutti gli appartenenti alla categoria. E' noto che la predetta indennita' costituisce componente «normale», certa e costante del trattamento economico retributivo dei magistrati (cfr. sul punto Corte costituzionale ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137; C.d.S., Sez. IV, 6 ottobre 2003, n. 5841), ancorche' introdottavi a titolo «speciale» (in quanto preordinata, come espressamente affermato dall'art. 3 della legge n. 27/1981, a compensare i magistrati degli «oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attivita'»). Il taglio di tale indennita' in misura identica per tutti gli appartenenti alla categoria produce un risultato evidente: i piu' giovani che sono agli inizi della carriera e che percepiscono stipendi nettamente inferiori si trovano a pagare le stesse somme di coloro che si trovano in uno stadio avanzato o finale della carriera e percepiscono stipendi anche di molto superiori. Siffatto risultato «regressivo» viola apertamente il principio di progressivita' dei tributi di cui all'art. 53, comma 2 della Costituzione letto unitamente al principio di ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3. Non ignora il Collegio che, secondo il constante insegnamento della Corte costituzionale, «i criteri di progressivita' debbono informare il ''sistema tributario'' nel suo complesso e non i singoli tributi» (Corte costituzionale 15 aprile 2008, n. 102; Corte costituzionale, 6 aprile 1995, n. 197). Avendo tuttavia il legislatore deciso di incidere sul presupposto economico del reddito da lavoro, per coerenza del sistema e ragionevolezza intrinseca della norma avrebbe dovuto configurare il tributo siccome progressivo, atteso che tale natura ha l'I.r.p.e.f., ossia la principale imposta sul reddito delle persone fisiche, e quindi anche sul reddito da lavoro dipendente (Corte costituzionale, 13 gennaio 2006, n. 2). La norma, peraltro, presenta ulteriori ed autonomi profili di incostituzionalita' per irragionevolezza intrinseca che dappresso si passa ad esaminare. 4. Della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' del comma 22 dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per violazione, sotto diversi profili, degli artt. 2, 3 e 36 della Costituzione. 4.1. Anche laddove non si dovesse ravvisare nelle disposizioni del comma 22 dell'art. 9 del decrteo-legge n. 78/2010 censurate dai ricorrenti (relative al blocco degli adeguamenti automatici per il triennio 2011-2013, all'introduzione di tetti agli stessi per il biennio 2014/2015 ed al taglio dell'indennita' di cui all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27) norme di natura tributaria con conseguente violazione dei commi 1 e 2 dell'art. 53 della Costituzione, esse - specie se lette unitamente a quella del comma 2 dell'art. 9 del medesimo decreto-legge n. 78/2010 quivi non censurata ed introducente il contributo di solidarieta' su tutti i pubblici dipendenti - ingenerano comunque ulteriori ed autonomi seri dubbi di incostituzionalita' per violazione dei principi di eguaglianza, ragionevolezza legislativa e di solidarieta' sociale, politica ed economica di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. 4.2. Si rammenta nuovamente che le citate disposizioni normative sono state dettate nel corpo del predetto decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, rubricato «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e competitivita' economica»; che il preambolo del decreto-legge riconduce le sue disposizioni alla matrice comune della «straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni per il contenimento della spesa pubblica e per il contrasto all'evasione fiscale, alle finalita' di stabilizzazione finanziaria e del rilancio della competitivita' economica»; che il comma 2 dell'art. 9 (rubricato «contenimento delle spese in materia di pubblico impiego), prima di introdurre il c.d. contributo di solidarieta' (le trattenute del 5% e del 10% rispettivamente oltre i 90.000 e 150.000 euro annui lordi), fa riferimento alla «eccezionalita' della situazione economica internazionale» ed alle «esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea». L'esigenza che ha mosso il legislatore, dunque, nella predisposizione delle misure oggetto di esame e' quella di fronteggiare la ben nota crisi economica nazionale ed internazionale, ed in particolare dei paesi della zona euro; e' altrettanto noto che siffatta esigenza ha ispirato e continua ad ispirare tutte le ultime manovre finanziarie e correttive. Questi essendo i presupposti dell'agire legislativo, l'avere ristretto la contribuzione diretta al risanamento delle casse dello Stato agendo sulle retribuzioni dei soli pubblici dipendenti, ed ancora piu' afflittivamente dei magistrati, assurge in primo luogo a contemporanea violazione del principio di uguaglianza tra i cittadini e del dovere di solidarieta' politica, sociale ed economica di cui rispettivamente agli artt. 3 e 2 della Costituzione. In altri termini, l'avere deciso, per le finalita' finanziarie di cui sopra, di incidere solo sui redditi da lavoro dipendente pubblico ed in misura maggiore sui redditi da lavoro dipendente dei soli magistrati, con esclusione delle identiche condizioni di tutti i percettori di reddito aventi la stessa capacita' contributiva, si pone in contrasto, oltre che con il gia' citato disposto di cui al l comma dell'art. 53 Cost., piu' a monte con i basilari precetti di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Se la ben nota crisi economica (cui la legge si riferisce con il richiamo alla «eccezionalita' della situazione economica internazionale») ha dettato l'esigenza inderogabile della riduzione di spesa, non v'e' dubbio che tale evento riguarda la collettivita' nel suo insieme. E' pertanto ingiusto - e percio' illegittimo, secondo i principi ordinamentali - che lo Stato intenda accollare le misure di riduzione della spesa - che andranno a vantaggio di tutti - solo ad una parte dei cittadini (i pubblici dipendenti, i quali peraltro non rappresentano certamente la categoria piu' facoltosa del Paese), ed in misura ancora maggiore ad una cerchia ristrettissima dei predetti pubblici dipendenti, ossia ai magistrati. L'approccio del legislatore d'urgenza, da tale angolo visuale, collide anche con l'art. 2 della Costituzione e con i principi di solidarieta' sociale, politica ed economica ivi scolpiti, cui corrispondono ben precisi «doveri inderogabili» (la forza dell'espressione impiegata dal Costituente non lascia adito a dubbi: se i doveri sono «inderogabili» nessuno puo' esserne esentato). Questi, che pure fanno capo all'intera comunita', sono stati disinvoltamente frustrati da un legislatore che, collocando i disagi in capo a «pochi», ha invece distribuito i benefici in capo a «tutti». Cio' che appare in netta contraddizione con l'insegnamento della Corte costituzionale secondo cui gli inderogabili doveri imposti nell'art. 2 Cost. esigono che «l'ordinato vivere comune sia salvaguardato» e che «i pesi conseguenti siano equamente ripartiti tra tutti, senza privilegi». 4.2.1. La violazione del principio di eguaglianza per disparita' di trattamento e la violazione del principio di solidarieta' sociale ed economica diventano, se possibile, ancora piu' evidenti laddove si compari la situazione dei ricorrenti con gli altri titolari di reddito da lavoro (autonomo o dipendente privato): lapalissiano e' il contrasto con i basilari precetti di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Ancora una volta, tenendo conto della finalita' «di cassa» che e' a fondamento di un prelievo disposto addirittura per decreto-legge, non si ravvisa alcuna ratio giustificativa per la quale anche i lavoratori del settore privato (dipendenti o autonomi) non debbano essere assoggettati a riduzioni stipendiali, con corrispondente introito a vantaggio dell'Erario, e cio' tenuto anche conto che le retribuzioni del settore privato, specialmente ai livelli dirigenziali e manageriali delle imprese, per non parlare dei professionisti piu' facoltosi (ad esempio i notai e i farmacisti ma anche i piu' affermati tra gli avvocati, i medici specialisti, gli ingegneri, gli architetti), sono enormemente piu' elevate di quelle del settore pubblico, apparendo quindi in grado di garantire un maggiore gettito alle finanze pubbliche; gettito che - in definitiva - ricade tra gli obiettivi di stabilizzazione finanziaria avuti di mira dalla nomina censurata (realizzare proventi e risparmiare spesa pubblica, infatti, si equivalgono in termini di risultanze finali, ossia guardando alla capienza delle casse pubbliche). 4.2.2. Le disposizioni in parola, poi, violano le predette coordinate costituzionali (artt. 2 e 3) anche perche' trattano in maniera ingiustificatamente diversa categorie di pubblici dipendenti pur a fronte di una identica situazione reddituale. Come si e' osservato sopra, infatti, il decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, prevede al comma 1 dell'art. 9 per tutti i pubblici dipendenti il blocco dell'aumento degli stipendi («Per gli anni 2011, 2012 e 2013 il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, ivi compreso il trattamento accessorio, previsto dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, non puo' superare, in ogni caso, il trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010, al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati, conseguimento di funzioni diverse in corso d'anno, fermo in ogni caso quanto previsto dai comma 21, terzo e quarto periodo, per le progressioni di carriera comunque denominate, maternita', malattia, missioni svolte all'estero, effettiva presenza in servizio, e dall'articolo 8, comma 14, fatto salvo quanto previsto dal comma 17, secondo periodo). Alla stregua della citata previsione, dunque, nel triennio 2011-2013 i trattamenti retributivi dei pubblici dipendenti, ivi compreso quello dei dirigenti, sino alla soglia di 90.000 euro lordi annui non possono aumentare, ma nemmeno possono decrescere. Per contro, in forza del combinato disposto delle disposizioni censurate di cui al comma 22 dell'art. 9 (blocco dell'adeguamento automatico e taglio dell'indennita' giudiziaria), il trattamento economico dei magistrati che non maturino scatti o progressioni di carriera negli anni in parola (ed in ogni caso per tutto il tempo precedente tali momenti) e' sicuramente soggetto a riduzione. Il risultato aberrante e' che l'unica categoria - tra tutti i contribuenti dello Stato che percepiscono fino a 90.000 curo annui lordi per lavoro dipendente - che a causa della generale crisi economica vede ridursi il proprio trattamento economico e' quella dei magistrati, ossia l'unica categoria la cui tutela del trattamento stipendiale risponde a principi di natura costituzionale specifici, ulteriori (l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101 comma 2 e 104 comma 1) e piu' pregnanti rispetto a quelli generali di cui all'art. 36 della Carta fondamentale. La disparita' sussiste anche con riferimento a quei pubblici dipendenti (il pensiero va, in via non esaustiva, ai dirigenti) che percepiscono piu' di 90.000 o 150,000 euro annui lordi e che sono, al pari dei magistrati, tenuti a versare il contributo di solidarieta' di cui al comma 2 dell'art. 9. I magistrati, infatti, a differenza degli altri pubblici dipendenti e pur in presenza della medesima situazione reddituale e contributiva, vedono sommarsi al contributo di solidarieta' ed al blocco' dell'adeguamento retributivo anche i tagli all'indennita' giudiziaria di cui al comma 22 dell'art. 9, con la conseguenza che per essi la riduzione dello stipendio e' sensibilmente maggiore. 4.3. Le misure oggetto di disposizioni del comma 22 dell'art. 9 censurate dai ricorrenti (relative al blocco degli adeguamenti automatici per il triennio 2011-2013, all'introduzione di tetti agli stessi per il biennio 2014/2015 ed al taglio dell'indennita' di cui all'articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27) si presentano poi, sotto svariati profili, in contrasto con il basilare canone di ragionevolezza legislativa di cui all'art. 3 della Costituzione. 4.3.1. In particolare, sotto un primo profilo, occorre ribadire che l'esigenza che ha mosso il legislatore nella predisposizione delle misure oggetto di esame e' quella di fronteggiare la ben nota crisi economica nazionale ed internazionale, in particolare dei paesi della zona curo; e' altrettanto noto che siffatta esigenza ha ispirato e continua ad ispirare tutte le ultime manovre finanziarie e correttive. Questi essendo i presupposti dell'agire legislativo, l'avere ristretto la contribuzione diretta al risanamento delle casse dello Stato agendo sulle retribuzione dei soli pubblici dipendenti, ed in particolare dei magistrati, oltre ad essere violativo degli artt. 2 e 3 della Costituzione, appare intrinsecamente irragionevole. Le esigenze «prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea», in quanto proprie di tutto lo Stato comunita', avrebbero logicamente richiesto una equa contribuzione di tutti i cittadini percettori di reddito, o quanto meno di tutti i cittadini percettori di reddito da lavoro (a voler ritenere legittima una simile scelta di campo del legislatore), il che per altro avrebbe consentito di raggiungere anche maggiori introiti con un accettabile e minimo sacrificio per tutti i contribuenti. E' ovvio, infatti, che allargando la platea dei contribuenti a tutti i soggetti percettori di reddito o di reddito da lavoro (milioni di persone), il notevole peso specifico delle misure gravanti sui magistrati (poche migliaia) e di quelle gravanti su tutti i pubblici impiegati avrebbe potuto essere ripartito in maniera completamente equa, solidale e quasi «indolore». Non puo' che ritenersi profondamente irrazionale una normativa che, per fare fronte ad una crisi che grava su tutta la popolazione, impone un sacrificio rilevantissimo (fino al taglio del 15% della retribuzione netta come si dimostrera' al punto seguente) solo ad una categoria cosi' ridotta di cittadini (poche migliaia) e lascia totalmente indenni i redditi e le retribuzioni tutti gli altri contribuenti, anche di quelli aventi medesima capacita' contributiva. E' del pari profondamente irrazionale perche' le medesime entrate avrebbero potuto essere reperite ripartendo il peso dell'imposizione su tutta la platea dei contribuenti mediante, a mero titolo esemplificativo, un innalzamento davvero minimo dell'aliquota I.r.p.e.f. o di altre misure simili che si presentano piu' logiche perche' ripartiscono in maniera equa su tutti i contribuenti il peso della crisi economica; senza considerare che in un paese come il nostro, notoriamente ad elevatissima evasione fiscale, al fine di «fare cassa» tra le possibili opzioni del legislatore vi e' anche quella di affinare gli strumenti di recupero dei redditi, dei proventi e dei patrimoni illecitamente sottratti all'imposizione fiscale. E' ancora piu' irrazionale, laddove si consideri che il predetto consistente taglio viene operato sull'unica sparuta categoria di contribuenti, la cui tutela del trattamento stipendiale risponde a principi di natura costituzionale specifici, ulteriori (l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura di cui agli artt. 101, comma 2 e 104 comma 1) e piu' pregnanti rispetto a quelli generali di cui all'art. 36 della Carta fondamentale. 4.3.2. Le disposizioni in esame, poi, appaiono violare il basilare canone della ragionevolezza legislativa di cui all'art. 3 della Costituzione sotto altro e concorrente profilo. E' noto ed e' stato rammentato sopra che la predeterminazione per legge della misura dello stipendio dei magistrati ed il relativo meccanismo di adeguamento automatico rispondono all'esigenza di sottrarre la magistratura, in una ottica di preservazione dei delicati equilibrio tra poteri dello Stato, alla contrattazione collettiva. In altri termini, «premesso che la determinazione degli stipendi spettanti ai magistrati e' sottratta alla contrattazione sindacale ed e' rimessa ad un sistema automatico regolato direttamente dalla legge al fine di assicurare la completa autonomia ed indipendenza dei giudici dal potere esecutivo, gli art. 11 e 12 legge 2 aprile 1979, n. 97, nel testo innovato dall'art. 2 1egge 19 febbraio 1981, n. 27, prevedono che gli stipendi dei magistrati sono adeguati di diritto ogni triennio nella misura percentuale pari alla media degli incrementi delle voci retributive, esclusa l'indennita' integrativa speciale, ottenuti dagli altri dipendenti pubblici» (C.d.S., Sez. IV, 7 luglio 2000, n. 3834). La predeterminazione per legge ed il meccanismo di adeguamento automatico degli stipendi, dunque, hanno finalita' di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura e rappresentano uno strumento volto a preservare quest'ultima dalle insidie della contrattazione collettiva. All'insegna di una completa eterogenesi dei fini il legislatore del 2010 ha invece «approfittato» dello strumento legislativo per ridurre il trattamento economico dei magistrati senza il loro consenso, consenso che paradossalmente sarebbe stato necessario in sede di contrattazione collettiva. Cosi' facendo lo strumento voluto dal legislatore per offrire una guarentigia a monte ai valori costituzionali dell'indipendenza e dell'autonomia della Magistratura, ed a valle al trattamento economico dei magistrati e' stato irrazionalmente utilizzato per ledere propri tali principi ed incidere sul detto trattamento. 4.3.3. Vi e' ancora un altro profilo di violazione del principio costituzionale di ragionevolezza intrinseca delle leggi, secondo una logica per cosi' dire «interna» alla categoria colpita dalle disposizioni in esame. Come si e' avuto modo di appurare, le norme oggetto di dubbio di costituzionalita', nella misura in cui incidono in misura uguale su tutti i magistrati, impongono un peso economico in termini proporzionali di gran lunga superiore a coloro che percepiscono uno stipendio minore perche' agli inizi della carriera, con buona pace (prima che del principio di progressivita' dei tributi) di qualsivoglia logica, ragionevolezza ed equita'. Si prenda, a titolo meramente esemplificativo, la busta paga di febbraio 2011 del primo ricorrente, la dott.ssa Maria Agnello, magistrato ordinario alla prima valutazione di professionalita' (qualifica HH04), la quale percepisce uno stipendio lordo mensile di € 6.598,92, che al netto delle ordinarie ritenute fiscali e previdenziali ammonta ad € 3.918,00. Su tale ultima somma in forza del taglio del 15% dell'indennita' giudiziaria la ricorrente nell'anno 2011 subisce una riduzione mensile di € 168,00, ovverosia una riduzione del 4.2% dello stipendio netto; nel 2012 la medesima ricorrente, in forza della stessa disposizione, subira' una riduzione del 25% della predetta indennita', pari ad € 279,50 mensili, ovverosia una riduzione del 7,1% dello stipendio netto che non sara' cresciuto per via del blocco degli adeguamenti automatici; nell'anno 2013 subira' una riduzione del 32% della predetta indennita', pari ad € 358,00 mensili, ovverosia una riduzione del 9,1% del proprio stipendio netto, rimasto immutato in forza del blocco degli adeguamenti automatici. La situazione si «aggrava» nei confronti dei magistrati con minore anzianita' di carriera, come nel caso degli ex c.d. «uditori con funzioni»: per essi, il cui stipendio mensile netto ammonta ad € 2.551 33, stante la medesimezza quantitativa del previsto taglio dell'indennita', la riduzione netta dello stipendio non piu' adeguato automaticamente parte dal 6,5% del 2011 e passando per 1'11% del 2012 arriva al 14% nell'anno 2014. Paradossalmente la situazione si «aggrava» anche per coloro che rientrano nella fascia di reddito immediatamente superiore a quella della dott.ssa Agnello, per poi tornare a farsi relativamente piu' «leggera» per quelle superiori. Lo stipendio lordo annuo della dott.ssa Agnello ammonta ad € 85.600 circa e quindi la stessa non e' colpita dall'ulteriore misura del contributo di solidarieta' di cui al comma 2 dell'art. 9, ma e' facile comprendere come per i magistrati che hanno maturato uno «scatto» in piu' della dott.ssa Agnello, al peso delle predette misure si somma quello percentuale del 5% oltre la parte di reddito che oltrepassa i 90.000 euro annui lordi (l'imposizione reale e' quivi pari all'8% circa dello stipendio netto), con la conseguenza che per gli stessi negli anni 2012/2013 e' ben possibile arrivare ad una riduzione del proprio stipendio netto che si attesta tra il 10 ed il 16%. Per i magistrati percettori di reddito superiore, invece, il peso proporzionale dell'imposizione fiscale si riduce (anziche' crescere come dovrebbe in forza dell'art. 53 della Costituzione e di basilari considerazioni di logica ed equita'), poiche' l'aumento dello stipendio compensa il taglio fisso dell'indennita' giudiziaria e anche l'effetto delle due aliquote del 5% e del 10% di cui al contributo di solidarieta'. Cosi' ad esempio, la dott.ssa Caterina Ajello, magistrato ordinario alla VII valutazione di professionalita', percepisce uno stipendio mensile lordo di € 14.030,06, che al netto delle ordinarie ritenute fiscali e previdenziali ammonta ad € 7.500,00. Calcolando il peso percentuale del taglio dell'indennita' giudiziaria sullo stipendio non piu' adeguato si evince che la dott.ssa Ajello, per tali voci, va incontro nell'anno 2011 ad una riduzione dello stipendio netto del 2,24%, del 3,7% nel 2012 e del 4,7% nel 2013. Se si considera, pero', anche l'effetto del contributo di solidarieta' di cui al comma 2 dell'art. 9 e quindi si procede all'ulteriore taglio del 5% sull'importo lordo superiore a 90.000,00 euro annui e del 10% sull'importo superiore ai 150.000, risulta che il magistrato in questione subira' una riduzione mensile media per gli anni 2011, 2012 e 2013 rispettivamente dell'8%, 9,4% e 10,4%. Va ulteriormente considerato che l'imposizione fiscale si atteggia in maniera ancora sensibilmente diversa all'interno della categoria, a seconda che i magistrati interessati nell'ambito del triennio maturino o meno scatti o progressioni di carriera ed a seconda di quando li maturano, poiche' in virtu' del metodo di imposizione scelto (taglio fisso dell'indennita' giudiziaria, blocco dell'adeguamento ed aliquote fisse del 5% e del 10%), l'ammontare dei prelievo finisce con assumere caratteri di imprevedibilita' ed illogicita', pur nel permanere dell'evidenziato trend di sfavore e di maggiore imposizione, in termini proporzionali, sugli stipendi piu' bassi. Non mette conto di spiegare oltre perche' gli illustrati aspetti di illogicita', imprevedibilita' e regressivita' rendano la descritta normativa del tutto irrazionale e quindi in contrasto con il precetto di cui all'art. 3 della Costituzione. 4.3.4. La disposizione che riduce la misura dell'indennita' «giudiziaria» nel triennio 2011-2013, poi, appare intrinsecamente irragionevole anche sotto altro profilo, in violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione. E' noto (e lo si e' gia' detto) che la predetta indennita' costituisce parte essenziale, costante e «normale» del trattamento economico complessivo del magistrato (sul punto Corte costituzionale, ordd. 23 ottobre 2008, n. 346 e 14 maggio 2008, n. 137; nonche', ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 7 aprile 1993, n. 401), ancorche' introdottavi a titolo «speciale» (in quanto preordinata, come espressamente affermato dall'art. 3 della legge n. 27/1981, a compensare i' magistrati degli «oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attivita'»). Il comma 22 dell'art. 9 non sopprime ne' sospende per intero l'indennita' in questione (ma anzi ne prevede l'integrale ripristino dopo il 2013), con cio' riconoscendone e confermandone la funzione di ristoro degli oneri connessi con l'espletamento del servizio. Decurtandola temporaneamente il legislatore la rende tuttavia inequivocabilmente inidonea allo scopo per il quale era stata istituita se e' vero, come e' vero, che essa e' attribuita in misura uguale a tutti i magistrati, a prescindere dalla qualifica e dall'anzianita', in stretta correlazione con (e per consentire) l'effettivo svolgimento dei compiti istituzionali del magistrato. Orbene, e' di tutta evidenza come la decurtazione dell'indennita' speciale impedisca il raggiungimento dello scopo che la legge (n. 27/1981) aveva imposto di assolvere all'indennita' stessa (compensare i magistrati degli oneri che essi incontrano nello svolgimento della loro attivita') ed appaia, per cio' stesso, violare il principio di ragionevolezza sancito dall'art. 3 della Costituzione, giacche' non risulta che gli oneri che i magistrati incontrano nel corso del triennio in questione siano corrispondentemente ridotti. C'e', poi, un ulteriore aspetto di tale decurtazione su cui si deve riflettere: come si e' accennato, l'art. 3 della legge n. 27/1981 ha previsto che l'indennita' speciale sia identica per tutti i magistrati, in quanto destinata a ristorarli degli oneri - identici - che essi incontrano nello svolgimento della loro attivita'. Con il taglio dell'indennita' speciale tocchera' ai singoli magistrati far fronte, per la parte ora non coperta dall'indennita', agli oneri connessi con l'attivita' istituzionale, con la conseguenza che i magistrati piu' giovani che godono di un minor trattamento economico complessivo avranno maggiori difficolta' a fronteggiare i relativi costi: il che sembra violare ulteriormente l'art. 3 della Costituzione, questa volta sotto il profilo dell'aver riservato uguale trattamento a situazioni tra loro oggettivamente diverse, atteso che la decurtazione (di un'indennita' preordinata a coprire i medesimi, identici oneri) pesa diversamente in misura inversamente proporzionale all'anzianita' del magistrato. Tale decurtazione - atteso che l'indennita' speciale ex art. 3 della legge n. 27/1981 e' stata istituita per «equilibrare» il trattamento economico complessivo del magistrato, che, come si e' detto, sopporta oneri atipici (diversamente dagli altri funzionari dello Stato) - sembra poi violare anche l'art. 36 Cost. sotto il profilo della lesione della «proporzione» tra retribuzione ed attivita' svolta: giacche' il comma 22 dell'art. 9, del decreto-legge n. 78/2010, riducendo la predetta indennita' speciale e, dunque, ponendo ora parzialmente a carico dei magistrati il costo degli oneri organizzativi dell'attivita' giudiziaria che prima facevano interamente carico allo proporzione, anteriormente lavoro espletato; e la altera discriminatorio (stante che perche' compensa gli stessi Stato, altera inequivocabilmente la esistente, tra retribuzione complessiva e maggiormente, con effetto palesemente l'indennita' speciale e' eguale per tutti oneri), nei confronti dei magistrati piu' giovani che godono di un trattamento retributivo complessivo minore, rispetto ai quali, dunque, la violazione dell'art. 36 e' amplificata. La predetta misura, dunque, incide sulla proporzionalita' tra prestazione e retribuzione, poiche' (in nome peraltro di esigenze di cassa quantitativamente irrisorie nell'ottica complessiva del bilancio dello Stato) incide solo sull'aspetto quantitativo della retribuzione, ma lascia immutata la richiesta di qualita' del servizio e dello svolgimento della funzione, facendo gravare sul magistrato i relativi oneri economici ed organizzativi, cosi' intaccando anche la dignita' della persona-lavoratore nell'esercizio di una delle funzioni piu' delicate dello Stato. In questo solco si colloca il constante insegnamento della Suprema Corte di Cassazione, secondo cui, in forza dell'art. 36 della Costituzione, «in caso di emolumento compensativo di particolari e gravose modalita' di svolgimento della prestazione, trova comunque applicazione il principio di irriducibilita' della retribuzione, con la conseguenza che detto emolumento puo' venir meno solo a fronte della cessazione di quelle particolari modalita' di lavoro» (Cass. Civ., Sez. Lav., 23 luglio 2009, n. 20310; Cass. Civ., Sez. Lav., 1° marzo 2007, n. 4281). E' facile osservare come l'indennita' giudiziaria costituisca per i magistrati un «emolumento compensativo di particolari e gravose modalita' di svolgimento della prestazione», in quanto rivolto a compensare «i particolari oneri che questi ultimi incontrano nello svolgimento concreto della loro attivita' e dell'impegno, senza prestabiliti limiti temporali, ad essi ordinariamente richiesto per lo svolgimento della propria funzione» (C.d.S., Sez. IV, 6 maggio 2010, n. 2646), sicche' la riduzione dell'indennita' giudiziaria a fronte di oneri immutati integra anche sotto tale profilo violazione dell'art. 36 della Costituzione. 4.3.5. Le disposizione censurate, poi, sembrano violare sotto un ulteriore profilo gli artt. 3 e 36 della Costituzione. Esse, infatti, incidono, in senso ablativo, sul trattamento economico, gia' acquisito alla sfera del pubblico dipendente sub specie di diritto soggettivo; incidono, in altri termini, sullo status economico dei magistrati, alterando quel sinallagma che e' il proprium dei rapporti di durata ed in particolare proprio dei rapporti di lavoro; basti considerare che sulla stabilita' anche economica si fondano le aspettative, le progettualita' e gli investimenti - di lungo periodo, se non addirittura di vita - del dipendente. E' vero che la Corte costituzionale ha piu' volte affermato che «non e' interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti, anche se l'oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti», a condizione, pero', che «tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» (Corte costituzionale 27 gennaio 2001, n. 31; 7 luglio 2005, n. 264; 28 luglio 2000, n. 393; 20 luglio 1999, n. 330; 26 luglio 1995, n. 390). Principi questi ribaditi dalla Consulta anche con riferimento all'intervento del legislatore sui trattamenti retributivi dei pubblici impiegati: «Il divieto di ''reformatio in peius'' del trattamento economico dei pubblici dipendenti rappresenta un criterio etineneutico inidoneo, in assenza di specifica copertura costituzionale, a vincolare il legislatore, il quale pertanto e' abilitato a modificare, senza lesioni all'art. 36 Cost., la disciplina dei rapporti di durata e perfino situazioni di diritto soggettivo perfetto, ivi inclusa la variazione dell'entita' e della distribuzione in voci differenziate del trattamento economico di categorie prima egualmente retribuite, purche' tali modifiche non trasmodino in regole irrazionali o arbitrarie» (Corte cost. 20 luglio 1999, n. 330). Ai punti 2 e 3 del presente paragrafo, tuttavia, si sono illustrati i diversi, consistenti e concorrenti profili arbitrarieta' ed irrazionalita' che connotano le norme oggetto di censura: a) disparita', di trattamento nei confronti dei contribuenti aventi pari capacita' contributiva; b) disparita' di trattamento nei confronti dei contribuenti aventi pari capacita' di reddito da lavoro (autonomo e privato); c) disparita' di trattamento nei confronti dei pubblici dipendenti aventi pari capacita' di reddito da lavoro; d) irrazionalita' «quantitativa» del taglio che, pur disposto per esigenze di tutta la collettivita', pesa in maniera consistente solo sugli stipendi dei pubblici dipendenti (ed ancora di piu' sui magistrati) e finisce con l'apportare esigue risorse alle casse dello Stato, in luogo di una minima ed indolore imposizione su tutti i contribuenti sicuramente piu' idonea allo scopo di risanamento del bilancio; e) irrazionalita' per «abuso della funzione legislativa»; f) irrazionalita' «interna» alle misure aventi caratteri di regressivita' da un lato, finendo con l'incidere in maniera piu' che proporzionale sugli stipendi piu' bassi, e di mera casualita', imprevedibilita', illogicita' e particolare afflittivita' quantitativa dall'altro; g) alterazione del rapporto di proporzionalita' tra prestazione e retribuzione, incidente in misura proporzionalmente maggiore sui magistrati percettori di reddito inferiore. Conclusivamente deve riconoscersi che il legislatore ha inciso sui diritti soggettivi perfetti dei magistrati e sulla loro aspettativa legittima alla conservazione della retribuzione per tutto il tempo di durata del rapporto in maniera del tutto irrazionale ed arbitraria, sicche' deve ritenersi che le norme di cui al comma 22 dell'art. 9 del decreto-legge n. 78/2010 violino, anche sotto tale ultimo profilo, i precetti di cui agli artt. 3 e 36 della Costituzione. 5. Alla luce di tutto quanto sopra ritenuto e considerato, vanno sollevate le sopra dette questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 22 del decreto-legge n. 78/2010 cit., quale risultante dalle modifiche introdotte con la legge di conversione, nella parte in cui dispone: a) che «non sono erogati, senza possibilita' di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012»; b) che «per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per l'anno 2014 e' pari alla misura gia' prevista per l'anno 2010 e il conguaglio per l'anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014»; c) che «l'indennita' speciale di cui all' articolo 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, spettante negli anni 2011, 2012 e 2013, e' ridotta del 15 per cento per l'anno 2011, del 25 per cento per l'anno 2012 e del 32 per cento per l'anno 2013», con riduzione non operante ai fini previdenziali. La rilevanza delle questioni sussiste atteso che lo scrutinio di costituzionalita' delle norme di cui al comma 22 dell'art. 9 del decreto-legge n. 78/2010 costituisce unico ed immediato paradigma normativo di riferimento per l'eventuale riconoscimento dell'azionato diritto dei ricorrenti al mantenimento della precedente disciplina del trattamento economico. In altri termini, la rilevanza delle questioni, come gia' detto al punto 1.3 dell'ordinanza, deriva dalla circostanza che l'applicazione delle norme in questione ha comportato, a partire dal 1° gennaio 2011, le lamentate trattenute sugli stipendi dei ricorrenti, stipendi non rivalutati rispetto agli anni passati; e dal rilievo che l'eventuale pronunzia di incostituzionalita' delle dette disposizioni, per contro, condurrebbe all'accertamento dell'illegittimita' del mancato adeguamento degli stipendi e delle trattenute in parola e consequenzialmente all'accoglimento del ricorso. La non manifesta infondatezza delle questioni si ricava dalle sopra esposte considerazioni. Visto l'art. 23 della legge costituzionale n. 87/1953; Riservata ogni altra decisione all'esito del giudizio innanzi alla Corte costituzionale, alla quale va rimessa la soluzione dell'incidente di costituzionalita';