IL TRIBUNALE Ordinanza rimessione alla Corte costituzionale, ai sensi degli articoli 134 e 137 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. PROC: 1574/2008 R.G., tra Mannucci Luigi, rappresentato e difeso da se' medesimo e dall'avv. Alessandra Gallini, parte attrice, e Banca Popolare del Lazio Soc. coop. a r.l., rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Giovannoni, parte convenuta. Il Giudice unico dott. Maurizio Colangelo ha emesso la seguente ordinanza nella causa iscritta al n. 1574/2008 R.G., avente ad oggetto: azione di ripetizione di somme indebitamente percepite in rapporto di conto corrente bancario, declaratoria della capitalizzazione degli interessi trimestrali, restituzione somme in relazione alla clausola massimo scoperto ed altro. Svolgimento del processo. Con atto di citazione, l'attore conveniva in giudizio l'odierno convenuto, per ivi sentir accogliere le seguenti conclusioni:«voglia il Giudice adito, in via principale, previo accertamento e declaratoria della nullita' delle clausole contrattuali impugnate, condannare la banca convenuta alla rifusione delle seguenti somme: a) euro 17.909,73, a titolo di capitalizzazione trimestrale; b) euro 1.671,69, a titolo di massimo scoperto, e cosi' complessivamente euro 19.581,42, o quella maggiore o minore di giustizia, oltre interessi legali a partire dalle singole scadenze e rivalutazione monetaria. Deduceva parte attrice l'illegittimita' delle capitalizzazioni trimestrali su interessi passivi, poiche' in violazione sia con l'art. 1283 del codice civile sia per la nullita', ravvisata anche per il periodo anteriore, rispetto al mutamento di giurisprudenza, perche' in contrasto con una norma imperativa, tenendosi conto che l'art. 25, comma 3, decreto legislativo n. 342/1999 (che conservava in via transitoria la validita' ed efficacia dei patti anteriori alla riforma) e' stato dichiarato illegittimo dalla Consulta con sentenza n. 425 del 17 ottobre 2000; la declaratoria della nullita' travolge l'intera pattuizione, comportando la integrale restituzione delle somme indebitamente percepite. Parte attrice deduceva, inoltre, l'illegittimita' dello «ius variandi» poiche' la relativa pattuizione violava il disposto dell'art. 1284 del codice civile che prevedeva la necessita' della forma scritta per la determinazione del tasso di interesse ultralegale e per la violazione dell'art. 1346 del codice civile per la indeterminabilita' dell'oggetto del contratto. Deduceva parte attrice l'illegittimita' della clausola relativa alle commissioni massimo scoperto operate sul conto corrente n. 1403 acceso in data 23 giugno 1988 e successivamente estinto in data 10 giugno 2002. Deduceva, inoltre, l'illegittimita' del computo dei diversi giorni valuta, perche' pratica che consente alla banca di lucrare maggiori competenze nei conti creditori. Parte convenuta depositava comparsa di costituzione e risposta e relativo fascicolo, ove sollevava una serie di eccezioni. Instaurato regolarmente il contraddittorio, la banca eccepiva in via preliminare: a) la nullita' dell'atto di citazione per genericita' ed indeterminatezza dei fatti costitutivi posti a base della domanda e nel merito tempestivamente eccepiva; b) la prescrizione decennale dell'azione di ripetizione dell'indebito in quanto decorrente il periodo prescrizionale dalla data di annotazione di ogni singola posta contestata, per «ius superveniens», in relazione alla legge 26 febbraio 2011, n. 10, Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 2011 supplemento ordinario n. 53, che ha convertito il decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 255 (c.d. Milleproroghe) ed in particolare con l'art. 2, comma 61, ove si sanciva che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge; c) deduceva, peraltro, l'avvenuta decadenza dalla contestazione degli estratti conto, atteso che il correntista, pur avendoli ricevuti periodicamente, non li aveva mai impugnati entro il termine di sessanta giorni di cui all'art. 119 del testo unico n. 385/1993; d) affermava, inoltre, la legittimita' delle pattuizioni - e delle consequenziali annotazioni in conto corrente - relative alla capitalizzazione periodica degli interessi passivi e alla commissione di massimo scoperto, per cui concludeva per il rigetto della domanda attorea, con vittoria di spese, diritti ed onorari di giudizio. Veniva celebrata la prima udienza del 25 giugno 2008, rinviata al 10 dicembre 2008, ove la parte attrice si riportava ai propri scritti difensivi e la convenuta si costituiva in giudizio con deposito rituale di fascicolo di parte. Veniva rinviata la causa, riservato ogni provvedimento in ordine alla richiesta di parte e, a scioglimento della medesima, il Giudice unico concedeva i termini di cui all'art. 183, comma 6 codice di procedura civile e differiva l'udienza alla data del 15 giugno 2009, ove si riservava sulle eccezioni di parte convenuta e, a scioglimento della riserva, rimetteva la parte attrice nei termini per deposito note ex art. 183 e differiva l'udienza al 10 marzo 2010 per l'ammissione dei mezzi di prova. Alla summenzionata udienza le parti aderivano all'astensione e si differiva al 28 settembre 2010 e al 15 dicembre 2010, ove le parti rassegnavano le proprie conclusioni e si differiva al 23 maggio 2011 per i medesimi incombenti. A tale udienza l'odierno Giudice unico, che ha preso in carico il procedimento, tratteneva la causa in decisione, concedendo i termini di cui all'art. 190 del codice di procedura civile e le parti depositavano ritualmente memorie conclusionali e repliche. La parte attrice, nella sostanza, ha rilevato che alla norma dell'art. 2, comma 61 riferita alla legge 26 febbraio 2011, n. 10 - Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 2011 supplemento ordinario n. 53, che ha convertito il decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 255 (c.d. Milleproroghe), richiamando, peraltro, una serie di pronunce della giurisprudenza di merito, oltre alla nota sentenza del Supremo collegio a sezioni unite (n. 24418-2010) non sarebbe attribuibile un qualsivoglia effetto retroattivo della norma in parola, rilevando che «in subiecta materia» l'articolo avrebbe solo una funzione dispositiva e non interpretativa, per cui la stessa, secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico (ex art. 12 disp. prel. leggi del codice civile) sarebbe applicabile solo per il futuro e non per le situazioni preesistenti. Inoltre sarebbe stato violato anche il principio di certezza del diritto con la suindicata disposizione, delimitando la precipua funzione nomofilattica o di nomofilachia volta a «garantire l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unita' del diritto oggettivo nazionale» che l'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario (regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12), attribuisce alla Corte suprema di cassazione, e sovvertendo i principi sanciti dalla massima a sezioni unite del Supremo collegio (n. 24418/2010) la quale indicherebbe, esclusivamente, che il pagamento avverrebbe solamente dalla chiusura del conto e non con l'annotazione. Da cio' ne conseguirebbe, sulla scorta dell'art. 2033 del codice civile che solo al momento della chiusura del conto corrente sorgerebbe il diritto di ripetere cio' che si e' pagato e solo da quel momento decorrera' il termine di prescrizione per azionare la pretesa. Diversamente opinando la parte convenuta ha sollevato la piena applicabilita' della disposizione surrichiamata, sostenendo che essa debba essere, sulla scorta della lettura della norma, applicata alle situazioni giuridiche preesistenti ed in particolare rilevando che il pagamento dell'attore comunque sarebbe gia' stato effettuato ed il giudizio avrebbe natura di mero giudizio di accertamento di un eventuale credito di natura restitutoria e come tale seguirebbe le indicazioni normative formulate dalla surrichiamata disciplina, a titolo di «ius superveniens», sotto il profilo della prescrizione e decadenza. Deduceva, inoltre, parte convenuta che l'art. 2, comma 61 aveva tutti i presupposti della chiarezza della norma e determinava, nel suo contenuto precettivo, la immediata applicabilita' retroattiva. Questo Giudicante, nella sua precipua funzione di «Giudice a quo» ritiene che, prima di analizzare tutti gli elementi di merito indicati dalle parti, si debba pregiudizialmente e preliminarmente, risolvere il nodo della legittimita' della norma in oggetto, quale l'art. 2, comma 61 riferita alla legge 26 febbraio 2011, n. 10 - Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 2011, supplemento ordinario n. 53, che ha convertito il decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 255 (c.d. Milleproroghe) e se essa ha una funzione dispositiva o, alla stregua dei principi delle norme esistenti nel nostro ordinamento, sia di natura autentica e interpretativa e come tale abbia efficacia retroattiva. L'esegesi di tale disposizione normativa impone all'odierno Giudicante di dirimere, pertanto, previa sospensione dell'odierno procedimento, la questione solo rimettendola alla curia regolatrice delle leggi, sulla scorta dei parametri offerti dalla nostra Carta costituzionale e dai principi offerti dalle norme pattizie che offrono degli strumenti mediati per l'applicazione e la verifica del parametro costituzionale violato. Il Tribunale, nella persona dell'odierno Giudicante, ritiene sussistenti i presupposti per sollevare d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, limitatamente al comma 61 riferita alla legge 26 febbraio 2011, n. 10 - Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 2011, supplemento ordinario n. 53, che ha convertito il decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 255 (c.d. Milleproroghe), in quanto unica disposizione applicabile alla fattispecie in esame. Rimessione della questione pregiudiziale alla Corte costituzionale. Sulla non manifesta infondatezza della questione - questioni di diritto: nel presente giudizio civile la questione preliminare di legittimita' costituzionale dell'impugnata norma e' rilevante e non manifestamente infondata in quanto dalla decisione della stessa dipende il contenuto della pronuncia che questo Giudicante si e' riservato di prendere sulle richieste della difesa delle parti e piu' in generale sull'istruzione della causa. Questo Giudicante ritiene che, allo stato, si debba, previa sospensione dell'odierno procedimento, rimettere la questione preliminare e pregiudiziale in ordine alla legittimita' o meno della norma dell'art. 2, comma 61, legge 26 febbraio 2011, n. 10 - Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 2011, supplemento ordinario n. 53, che ha convertito il decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 255 (c.d. Milleproroghe), anche alla stregua del recente orientamento giurisprudenziale della Suprema corte di cassazione a sezioni unite con la sentenza n. 24418/2010 ed in relazione ai principi di ordine sistematico che informano il nostro ordinamento giuridico, in materia di fonti del diritto. Il testo della norma surrichiamata, per il quale si chiede l'intervento della curia regolatrice delle leggi, cosi' recita: «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge» (per facilita' di comprensione e reperimento vedansi art. 2, comma 61 del testo del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, coordinato con le modifiche apportate con la legge di conversione 26 febbraio 2011, n. 10, secondo il testo redatto dal Ministero della giustizia ai sensi degli articoli 10, comma 2 e 3 e 11, comma 1 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092, testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana). Pertanto, punto di partenza del diritto di ripetizione dell'indebito e' l'individuazione del momento in cui, nelle operazioni regolate in conto corrente bancario, si verifica il pagamento, ovvero vengono pagati indebiti interessi anatocistici ed ultralegali, indebite commissioni di massimo scoperto trimestrale, indebite valute fittizie e spese forfettarie. A questa domanda hanno risposto le sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 2 dicembre 2010, n. 24418, la quale ha sancito: «Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullita' della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione e' soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui e' stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati». Pertanto le S.U. hanno ineccepibilmente individuato nell'estinzione del saldo di chiusura il momento in cui si verifica il pagamento dell'indebito e dal quale nasce il diritto di ripetizione e, dunque, il momento dal quale decorre il termine prescrizionale, cosi' come previsto dall'art. 2935 del codice civile, anche con l'interpretazione imposta dall'art. 2, comma 61, della legge 26 febbraio 2011, n. 10, per la ripetizione dell'indebito. Le conclusioni rassegnate da parte attrice sono in questa direzione, quindi proprio con riferimento ai recenti orientamenti giurisprudenziali, che ricollegano il «dies a quo» dalla chiusura del conto. Presupposto, per la decorrenza del termine prescrizionale, secondo le sezioni unite, quindi e' il pagamento e non l'annotazione, ricollegandosi ad essa una attivita' meramente materiale precipua della funzione degli istituti bancari. L'annotazione in conto di una siffatta posta comporta solo un incremento del debito del correntista, o una riduzione dei crediti di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nei termini sopra indicati: perche' non vi corrisponde alcuna attivita' solutoria del correntista medesimo in favore della banca. Per il resto, e' noto che l'estratto conto e' considerato mero documento contabile, da cui discende che le operazioni bancarie in esso riassunte e menzionate (prelevamenti e versamenti), a differenza del conto corrente ordinario, non danno luogo alla costituzione di autonomi rapporti di credito o debito reciproci tra il cliente e la banca, ma rappresentano l'esecuzione di un unico negozio, da cui deriva il credito o il debito del cliente verso la banca. Pertanto, la mancata tempestiva contestazione dell'estratto conto trasmesso da una banca al cliente rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti solo sotto il profilo meramente contabile, ma non sotto quello della validita' ed efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nel conto derivano. Infatti, le contestazioni non possono coinvolgere il titolo contrattuale dell'operazione, che e' regolata dalle norme generali sui contratti, ma solo la conformita' delle singole concrete operazioni ai patti ed alla realta' del loro andamento. Una contestazione dell'estratto del conto non e' specifica ove riguardi la vincolativita' o meno del patto contrattuale che obbliga a corrispondere una certa misura degli interessi, dal momento che per tale contestazione e' da ritenersi necessaria l'impugnativa del contratto stesso. Dunque, la prescrizione dei diritti derivanti dalla validita' ed efficacia dei rapporti obbligatori, dai quali le partite inserite nel conto derivano, ha come punto di riferimento non la mera appostazione contabile, ma il rapporto negoziale. L'azione di ripetizione ha un necessario presupposto: la chiusura del conto. Solo con la chiusura del conto si ha un pagamento: prima non si puo' parlare di azione di ripetizione e non si puo' parlare di decorso di un diritto che viene a concretizzarsi, magari dopo trent'anni all'appostazione sul conto. Vi e' piu' la circostanza, sostenuta, tra l'altro da ampia giurisprudenza di legittimita' e di merito (Vd. Cass. Civ. 2301/2004 e 1929/2010 - Giurisprudenza di merito: Tribunale di Brescia 29 marzo 2011; Corte di appello Ancona 3 marzo 2011; Tribunale di Taranto emessa dalla dott.ssa Enrica Di Tursi, sentenza n. 445 del 3 marzo 2011, n. 445, e quella del Tribunale di Palmi del 4 marzo 2011) ha sancito che il termine per la ripetizione dell'indebito decorre dalla chiusura del conto corrente ed essa si prescrive in dieci anni. Parte attrice, inoltre, richiama l'irrilevanza della norma contenuta sul Milleproroghe, sotto il profilo della irretroattivita' di una norma sostanziale e, comunque, non processuale e non applicabile, conseguentemente a fatti e/o situazioni sorti precedentemente come nel caso di specie nella controversia che ci interessa. La norma dell'art. 2, comma 61 (decreto Milleproroghe) ha effetto solo per l'avvenire, trattandosi di norma di natura dispositiva e non interpretativa. Il disposto invocato, per altro verso, ha indubbia portata innovativa ma dispositiva, al di la' della presunta natura meramente interpretativa non retroattiva, ditalche', anche a voler disattendere quanto appena detto, non potrebbe trovare applicazione la medesima norma in relazione alla presente controversia, trattandosi si' di norma sostanziale, ma che non puo' di certo introdurre, retroattivamente effetto estintivo del diritto azionato dall'attore. L'attore ha azionato la pretesa nei termini di legge, essendo il conto corrente n. 1403 acceso il 23 giugno 1988 ed estinto in data 10 giugno 2002 ed aver ritualmente notificato l'atto introduttivo del giudizio, interruttivo, tra l'altro della prescrizione, il 7 marzo 2008. Infatti, non si potrebbe validamente sostenere che si sia prescritto il diritto di ripetere un versamento effettuato con un'annotazione in conto risalente agli anni '88 e chiuso nell'ipotesi nel 2002, quando solo in quell'anno si e' tecnicamente concretizzato il pagamento. Alla data dell'annotazione si prescrivono solo ed esclusivamente i diritti derivanti dalla mera appostazione contabile, ma non certo quelli derivanti dalle nullita' negoziali originarie. Consolidata giurisprudenza della S.C. ha chiarito come non vada confuso il contratto costitutivo del relativo rapporto obbligatorio, regolato dagli articoli 1284 e 1283 codice civile, con la singola annotazione in conto che, in se e per se', influisce solo a livello quantitativo sul rapporto: infatti, l'approvazione dell'estratto conto rende incontestabili, solo ed esclusivamente, le registrazioni a debito e credito nella loro realta' contabile, ma non anche l'efficacia e la validita' dei rapporti sostanziali. Sulla scorta delle suindicate premesse in diritto l'odierno «Giudice a quo» indica le norme costituzionali violate, tali da considerare la questione non manifestamente infondata e tale da consentire un sindacato di legittimita' della Suprema curia regolatrice delle leggi. Violazione delle norme costituzionali. Le norme violate da tale disposizione sono gli articoli 3 (principi di uguaglianza e di ragionevolezza), 24 e 102 (diritto di tutela dei propri diritti davanti agli organi giurisdizionali ordinari), 41 e 47 (principi di liberta' dell'iniziativa economica privata e di tutela del risparmio) della Costituzione ancora, il principio del giusto processo, cosi' come l'art. 117 Cost., in materia di rispetto degli obblighi assunti sul piano internazionale, con la sottoscrizione della CEDU. Violazione dell'art. 3 Cost. - Violazione del principio di certezza del diritto e ragionevolezza della norma. La banca convenuta, infatti, in comparsa di costituzione ha tempestivamente eccepito la prescrizione dell'azione di restituzione dell'indebito proposta dall'attore ai sensi dell'art. 2033 codice civile, per cui se la nuova norma dovesse interpretarsi nel senso che la prescrizione decennale decorre non dalla data di estinzione del rapporto di conto corrente (come di recente confermato da Cass. Civ. S.U. n. 24418/10) ma dal giorno di ogni singola annotazione in conto (art. 2-quinquies, comma 9 prima parte della impugnata legge), la conseguenza sarebbe l'estinzione per prescrizione del diritto dell'attore alla restituzione degli importi versati a titolo solutorio e annotati in data anteriore al 10 marzo 1998, vale a dire annotati oltre dieci anni prima della data di notificazione della richiesta giudiziale di restituzione dell'indebito, che rappresenta il primo degli atti interruttivi della prescrizione risultante in atti. Inoltre, se la seconda parte della norma impugnata (... In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge») dovesse interpretarsi nel senso che nelle operazioni bancarie regolate in conto corrente ciascuna delle parti (... nel caso la banca) puo' non restituire gli importi gia' versati alla data del 27 febbraio 2011, anche se non dovuti, la conseguenza sarebbe il rigetto totale della domanda di restituzione dell'attore, in quanto, il rapporto bancario in conto corrente e' stato chiuso consensualmente dalle parti in data 10 giugno 2002, per cui i versamenti sono tutti antecedenti alla data di entrata in vigore della legge 26 febbraio 2011, n. 10. Infatti, se non fosse intervenuta la disposizione dell'art. 2, comma 61, legge 26 febbraio 2011, n. 10, contenuta nel decreto Milleproroghe, per cui oggi si chiede un intervento non solo sulla questione di legittimita' della medesima norma censurata, ma anche interpretativo della curia regolatrice delle leggi, condividendo, peraltro, questo Giudicante i principi di diritto sanciti dalla Corte di cassazione con la recente sentenza a sezioni unite n. 24418/2010, antecedente alla disposizione surrichiamata, non si sarebbe violato il principio supremo della certezza del diritto che, nella sua funzione nomofilattica, viene demandato, per legge, alla Suprema corte di cassazione e volta a «garantire l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unita' del diritto oggettivo nazionale» secondo la previsione dell'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario (regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12). Come e' noto, il legislatore puo' adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche «quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con cio' vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore» (sentenza n. 525 del 2000; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 374 del 2002, n. 26 del 2003, n. 274 del 2006, n. 234 del 2007, n. 170 del 2008, n. 24 del 2009). Esaminando le norme interpretative, che il legislatore puo' validamente adottare, esse non possono violare i limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, che sono il presidio e la difesa dei diritti, oltre che dei principi costituzionali, e di altri fondamentali valori di civilta' giuridica posti proprio a rispetto dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento giuridico, tenuto conto anche dei principi di derivazione sovranazionale. Tra codesti principi emerge il rispetto del principio generale di ragionevolezza, il principio del divieto di introdurre ingiustificate disparita' di trattamento, il principio della tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti per l'effetto nomofilattico delle pronunce della Corte di cassazione, la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico, il rispetto e la non invasione delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario. Pertanto il legislatore per adottare, secondo gli insegnamenti della medesima curia regolatrice delle leggi, o prevedere una norma autentica e quindi con valore interpretativo deve esistere nel nostro ordinamento giuridico una incertezza di diritto o comunque un forte contrasto giurisprudenziale, che nel caso di specie non esiste. Inoltre, proprio, passando al merito della questione di legittimita' costituzionale, l'art. 3 della Costituzione e' violato in quanto l'impugnato provvedimento contraddittoriamente ed irragionevolmente riserva un ingiustificato trattamento di favore per le banche e gli altri enti creditizi, sulla scorta di un orientamento, peraltro minoritario, giurisprudenziale, che aveva varato una interpretazione favorevole alla norma dell'art. 2935 del codice civile, ma comunque disattesa dalla recente sentenza del Supremo collegio con la sentenza n. 24418/2010 a sezioni unite, che ha sancito un vero e proprio principio di diritto, ove il «dies a quo» della prescrizione era stato indicato nella chiusura del conto e non dalla annotazione, considerato tale solo un elemento giustificativo contabile. Verrebbe, di fatto, cioe', cancellato, per atto dell'esecutivo, un granitico principio di diritto consolidato in una massima del Supremo collegio che chiarisce in maniera inequivoca il «dies a quo» per la decorrenza del termine della prescrizione, sanando, peraltro, irragionevolmente e retroattivamente il progresso, senza distinzione alcuna in base al tempo di stipula del contratto, al contenuto del contratto, tra vizi genetici e vizi funzionali del rapporto di conto corrente, tra rapporti esauriti, rapporti in corso di esecuzione e rapporti per i quali pende giudizio, tra interessi corrispettivi e interessi moratori. Nello specifico, l'impugnata norma, operando sui principi sanciti dalla norma dell'art. 2935 del codice civile, introduce anche una sanatoria di ben definiti ed individuabili rapporti di conto corrente, preesistenti rispetto all'introduzione della norma dell'art. 2, comma 61, che, di fatto, deroga al principio generale, sebbene non di rango costituzionale, della irretroattivita' delle norma di diritto sostanziale, cosi' violando il principio costituzionale di uguaglianza. L'impugnata disposizione, peraltro, restringe irragionevolmente, andando ben oltre le finalita' del provvedimento, anche il campo d'applicazione della norma dell'art. 2935 codice civile, derogando, eccezionalmente, a quest'ultima norma in termini di decorrenza del termine e costituendo, in tal guisa, anche una ingiustificata disparita' di trattamento rispetto agli altri titolari di crediti pecuniari derivanti dalle ripetizioni di somme indebitamente corrisposte. Ne' la sostanziale retroattivita' si spiega per la particolare natura della norma, sicuramente innovativa e solo apparentemente «di interpretazione autentica». Invero, un'interpretazione proveniente dal legislatore si rende necessaria solo quando si determinano tra gli operatori del diritto contrasti in ordine al significato di una legge o alle sue conseguenze giuridiche, cosa non verificatasi per l'art. 2935 del codice civile. Anzi, la soluzione legislativa contrasta apertamente con l'interpretazione unanimemente data dai Tribunali e dalle Corti della Repubblica, oltre alla recente sentenza a sezioni unite del Supremo collegio n. 24418/2010. La norma censurata, pertanto, anche in riferimento a quella che deve essere una funzione del Giudice remittente di interpretazione costituzionalmente orientata delle questioni da sottoporre al vaglio della curia regolatrice delle leggi (cf. Corte costituzionale ordinanze n. 191 del 2009, nn. 441, 440, 205 del 2008), deve essere considerata, sotto ogni profilo, di natura dispositiva e quindi qualificarla come una norma che disciplina le situazioni giuridiche successive all'entrata in vigore della legge medesima, e non autentica e di natura interpretativa, con una efficacia retroattiva. Violazione dell'art. 24 Cost. Le norme sulla prescrizione, come la norma in esame di cui all'art. 2935 del codice civile, pur avendo una natura sostanziale, producono i loro effetti sul piano processuale, atteso che invocando l'effetto estintivo delle stesse e' possibile impedire ai titolari di diritti di ottenerne la realizzazione in via giudiziaria. Ne consegue che, ove l'impugnata norma si applicasse anche per il passato e ai giudizi in corso, si avrebbe non solo una violazione del principio di uguaglianza e un'ingiustificata disparita' di trattamento, ma anche una limitazione dell'art. 24 della Costituzione, sotto il profilo della violazione dei diritti di tutela primari, oltre che un'invasione ingiustificata delle prerogative proprie della magistratura ordinaria con violazione dell'art. 102 della Costituzione. Violazione degli articoli 41 e 47 Cost. L'impugnata norma realizza una patente violazione dei principi di tutela del risparmio delle famiglie e delle imprese, sancito dalla nostra Carta costituzionale, violandone, in tal guisa, gli articoli 41 e 47. La norma di cui si chiede l'intervento della curia regolatrice delle leggi, riportata in una piu' ampia ed articolata legge denominata «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie», nella realta' eluderebbe lo spirito stesso della norma e la portata precettiva dell'intero «corpus normativo», poiche' piu' che supportare ed aiutare le famiglie e le imprese in grave stato di solvibilita' ed economico, tenuto conto anche della crisi contingentata economica attuale, porterebbe a colpire non solo i diritti ma le legittime aspettative di essi, destinatari della legge, di percepire somme indebitamente contabilizzate dalla controparte durante lo svolgimento di rapporti in conto correnti e percepite in violazione di norme di ordine pubblico quale il divieto dell'anatocismo (art. 1283 del codice civile) e del decorso della prescrizione (art. 2935 del codice civile) dal giorno in cui il diritto puo' essere fatto valere, prestando il fianco a comportamenti potenzialmente destinati ad essere illegittimi e fraudolenti. La norma, di iniziativa governativa ed inserita con un maxi emendamento nel testo di un ennesimo decreto-legge c.d. Milleproroghe a pochi giorni dalla scadenza dello stesso, rischia di pregiudicare irrimediabilmente anche il diritto (n.d.r. potenziale) delle banche ad ottenere in restituzione somme date a mutuo ai correntisti in regime di apertura di credito in conto corrente, se annotate prima di dieci anni dalla formale richiesta di rientro o di pagamento del saldo finale di chiusura del conto. Le considerazioni sopra sviluppate valgono a maggior ragione riguardo alla seconda parte dell'impugnata norma, vale a dire a quella sorta di norma transitoria la quale dispone che «... In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge». La suindicata norma risulta violativa di ogni diritto costituzionalmente garantito (articoli 24, 41, 47), la quale, senza null'altro aggiungere e precisare, determina che chi (anche una banca) per sua sventura si trovi ad aver versato alla data del 27 febbraio 2011 (data di entrata in vigore della legge di conversione n. 10/2011) degli importi a credito in un rapporto regolato in conto corrente non puo' ottenerli «in ogni caso» in restituzione dal suo debitore. Violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. La suindicata norma internazionale, che sancisce il diritto ad un giusto processo dinanzi ad un Tribunale indipendente ed imparziale, impone al legislatore di uno Stato contraente, nell'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, di non interferire nell'amministrazione della giustizia allo scopo d'influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie, attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per una parte del procedimento, salvo il caso di «ragioni imperative d'interesse generale». Il legislatore ha adottato una norma interpretativa, in presenza di differenti contenziosi sul nostro territorio, ma soprattutto successivamente alla pronuncia della Corte di cassazione a sezioni unite (n. 24418/2010), nettamente sfavorevole alle banche, ma che ha cristallizzato un principio chiaro e supremo affermando, attraverso simil massima,conseguentemente sia quella certezza di diritto sia del principio del giusto procedimento. Dalla lettura di tale disposizione normativa, oggi censurata, non e', invece, nella sua «ratio legis», dato rinvenire alcun tipo di evidente logica che fosse sussumibile nelle «ragioni imperative d'interesse generale» che permettano di escludere la violazione del divieto d'ingerenza. L'art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l'espressione «obblighi internazionali» in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle contemplate dagli articoli 10 e 11 Cost. Siffata problematica e' stata oggetto di espresse pronunce della Corte costituzionale (sentenza nn. 348 e 349 del 2007). L'art. 117, primo comma, Cost., e' stato nuovamente riletto ed ha consentito di rinvenire un fondamento costituzionale anche all'osservanza degli obblighi internazionali. Ne e' derivato che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, e' idoneo a dar luogo ad una violazione (mediata) dell'art. 117, primo comma, Cost. D'altra parte anche la Suprema corte di cassazione (cfr ... sentenza Cass. Civ. Sez. U. n. 28507-28508/2005), sotto questo profilo, riconoscerebbe l'immediata precettivita', ai fini della decisione e soluzione della controversia, delle disposizioni convenzionali stabilite dalla CEDU, conferendo, in sintesi, una piu' rilevante effettivita' e riconoscimento ai diritti fondamentali sviluppati nell'ambito dello spazio giuridico Europeo. La nuova norma, allora, dell'art. 117 Cost. prevede, nella sua riformulazione, che la legislazione statale e regionale sono tenute ad osservare oltre alla normativa comunitaria, nella formazione degli atti legislativi di propria competenza, anche i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Ne consegue che il Giudice comune ordinario deve interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale ed entro i limiti nei quali sia permesso dai testi delle norme, ma non e' allo stesso consentito disapplicare una norma interna con prevalenza del diritto convenzionale, come invece e' previsto in caso di contrasto con una norma comunitaria. In casi similari al Giudice ordinario e' solo consentito, proprio in virtu' della riformulazione del testo dell'art. 117 Cost., sollevare la questione di contrasto della norma interna rispetto a quest'ultima, dinanzi alla Corte costituzionale, ai fini della valutazione della sua legittimita'. Pertanto attraverso una procedura standardizzata di rinvio del diritto interno alle norme di rango superiore ossia alle norme internazionale giuridicamente pertinenti e rilevanti, attraverso la norma surrichiamata dell'art. 117 Cost., e' consentito al Giudice «a quo» interno di un paese della Comunita' europea nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale. Ovviamente, la norma della CEDU non prevarra' nella sola ipotesi in cui la stessa, nell'interpretazione data dalla Corte europea, si ponga in conflitto con altre norme della nostra Costituzione. Quando ricorra tale ipotesi, pure eccezionale, si deve escludere l'operativita' del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneita' ad integrare il parametro dell'art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimita', comporta - allo stato - l'illegittimita', per quanto di ragione, della legge di adattamento (principio sancito dalle pronunce delle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007). Soltanto quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, come nel caso di specie, il Giudice comune - il quale non puo' procedere all'applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione - deve sollevare la questione di costituzionalita' (anche sentenza Corte costituzionale n. 239 del 2009), con riferimento al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell'art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. In questo specifico caso, anche in virtu' del carattere univoco della disposizione censurata, non si ritiene sia possibile un'interpretazione della stessa conforme a quella convenzionale internazionale (art. 6 CEDU). Il principio dello Stato di diritto e la nozione di processo equo sancito dati' art. 6 della CEDU vietano l'interferenza del legislatore nell'amministrazione della giustizia destinata a influenzare l'esito della controversia, fatta eccezione che per motivi imperativi di interesse generale («imperieux motifs d'interet general» si cita SCM Scanner de l'Ouest ed autres c. France, sentenza del 21 giugno 2007, ric. n. 12106/03) . Infatti secondo gli insegnamenti della statuizione giudiziale surrichiamata per esservi contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. e, per suo tramite, con l'art. 6, par. 1, CEDU, si ritiene che la norma censurata violi il divieto di ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia «non essendo necessario, alla luce della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo che la disposizione retroattiva sia "esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie in corso", ne' che tale scopo sia stato comunque enunciato, essendo, invece, sufficiente a ritenere fondato il conflitto con l'art. 6 della Convenzione europea che nel procedimento sia applicata la disposizione denunciata e lo stesso Stato sia parte nel giudizio e consegua, dall'applicazione della norma come interpretata autentica». In tal senso si e' pronunciata anche la Suprema corte di cassazione con ordinanza interlocutoria n. 22260 del 4 settembre 2008. Orbene la curia regolatrice delle leggi (cf. sentenza n. 234 del 2007) ha sancito che «ad una norma puo' essere demandata funzione di natura interpretativa e quindi autentica, non potendosi considerare essa disposizione lesiva dei principi costituzionali di ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche, giacche' essa si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, in assenza, peraltro, di un diritto vivente». Nel caso di specie il diritto vivente e' stato sancito con la sentenza delle sezioni unite del Supremo collegio (sentenza n. 2448/2010), in funzione nomofilattica ed ai sensi dell'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario (regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12) che demanda alla medesima curia giudiziaria «l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unita' del diritto oggettivo nazionale», eliminando qualsiasi equivoco interpretativo anche rispetto alle posizioni della giurisprudenza minoritaria antecedente. Oltretutto con la disposizione censurata, riconoscendole un valore autentico interpretativo e retroattivo rispetto alla sua funzione dispositiva, comporterebbe anche una «reformatio in malam partem» sotto il profilo della disparita' patrimoniale ed economica rispetto ad altri titolari di crediti pecuniari. Ed ancora ... in virtu' del suddetto orientamento (che trova i suoi precedenti nei casi Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis c. Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28 ottobre 1999) deve considerarsi violativa dell'art. 6 CEDU, la prassi di interventi legislativi sopravvenuti, che modifichino retroattivamente, in senso sfavorevole per gli interessati, le disposizioni di legge attributive di diritti, la cui lesione abbia dato luogo ad azioni giudiziarie ancora pendenti all'epoca della modifica. Infine si richiama, ad ulteriore conferma della violazione della disposizione censurata rispetto ai parametri costituzionali, con riferimento all'art. 6, par. 1 CEDU, la recentissima sentenza della seconda sezione della Corte di Strasburgo sul caso «Agrati + altri c. Italia», del 7 giugno del 2011. La massima soprarichiamata ha sancito un principio secondo il quale l'intervento legislativo dello Stato italiano (in un caso di diritto del lavoro) non fosse giustificato da ragioni imperative di interesse pubblico, cosi' da violare l'art. 6 della Convenzione, in ogni caso, con tale statuizione si e' sancito che l'intervento normativo disposto dal legislatore nel regolamentare in maniera definitiva le controversie, si sostanziasse in una ingerenza nell'esercizio del diritto di proprieta', cosi' da violare l'art. 1 del protocollo n. 1, per aver imposto un «onere eccessivo e anormale» ai ricorrenti, in tal modo rendendo sproporzionato il pregiudizio alla loro proprieta' e rompendo il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse pubblico e la tutela dei diritti fondamentali individuali. La seconda sezione della Corte di Strasburgo, nell'assumere siffatta decisione, ha invero ribadito le linee fondamentali della propria giurisprudenza - cui, del resto, entrambe le Corti nazionali di ultima istanza avevano fatto necessario riferimento - ricordando, in primo luogo, che: «se, in linea di principio, il legislatore puo' regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi gia' vigenti, il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo sancito dall'art. 6 ostano, salvo che per ragioni imperative di interesse generale, all'ingerenza del legislatore nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia (sentenza Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis, cit., § 49, serie A n. 301-B; Zielinski e Pradal & Gonzales e altri cit., § 57). (...) L'esigenza della parita' delle armi comporta l'obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilita' di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte (vedi, in particolare, causa Dombo Beheer BV c. Paesi Bassi, dal 27 ottobre, 1993, 33, Serie A, No. 274, e Raffinerie greche Strati e Stratis Andreadis, 46). La Corte EDU ha, inoltre, precisato che, secondo la propria giurisprudenza, «un ricorrente puo' addurre la violazione dell'art. 1 del protocollo n. 1 solo nella misura in cui le decisioni che contesta sono relative alla sua "proprieta'" ai sensi della presente disposizione. La nozione di "proprieta'" puo' concernere sia i "beni esistenti" che i valori patrimoniali, ivi compresi, in determinati casi ben definiti, i crediti. Affinche' un credito possa considerarsi un "valore patrimoniale", ricadente nell'ambito di applicazione dell'art. 1 del protocollo n. 1, e' necessario che il titolare del credito lo dimostri in relazione al diritto interno, per esempio, sulla base di una consolidata giurisprudenza dei tribunali nazionali. Una volta dimostrato, puo' entrare in gioco il concetto di "legittimo affidamento"» (Maurice c. Francia [GC], n. 11810/03, § 63, CEDU 2005-IX). Ed, infine, puntualizzato che, grazie ad una conoscenza diretta della societa' e dei suoi bisogni, «le autorita' nazionali sono in via di principio in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale per determinare cio' che rientra nel concetto di "pubblica utilita'"». Nel sistema di tutela istituito dalla Convenzione, le autorita' nazionali devono quindi decidere per prime se esiste un interesse generale che giustifica la privazione della proprieta'. Di conseguenza, esse dispongono di un certo margine di apprezzamento. La decisione di adottare una legislazione restrittiva della proprieta' di solito comporta valutazioni di ordine politico, economico e sociale. Considerando normale che il legislatore disponga di un'ampia liberta' di condurre una politica economica e sociale, la Corte deve rispettare il modo in cui egli concepisce gli imperativi di «pubblica utilita'» a meno che la sua decisione sia manifestamente priva di ragionevole fondamento (Presse Compania Naviera SA e altri c. Belgio, 20 novembre 1995, § 37, Serie A, n. 332, e Broniowski c. Polonia [GC], n. 31443/96, § 149, CEDU 2004-V). In linea generale, il solo interesse economico non giustifica l'intervento di una legge retroattiva di convalida di misure restrittive della proprieta' e quindi di valori patrimoniali quali i diritti di credito, come nel caso di specie riferito al procedimento sospeso. Questa prassi, pertanto, puo' essere suscettibile di comportare una violazione patente, sulla scorta del paradigma costituzionale offerto dall'art. 117, dell'art. 6 della CEDU, risolvendosi in un'indebita ingerenza del potere legislativo sull'amministrazione della giustizia, anche per il mero fatto che non vi e' alcuna giustificazione di rinvio a «motivi imperativi di interesse generale», tra l'altro nemmeno elencati nelle norme oggetto di richiesta di pronuncia di costituzionalita'. La medesima curia regolatrice delle leggi (cfr ... Corte costituzionale sentenza nn. 392 e 393 del 2007) ha ribadito che un evidente contrasto tra i precetti sanciti da una norma interna e una norma convenzionale e quindi degli obblighi internazionali, menzionati dall'art. 117 Cost., configura una grave violazione dei parametri costituzionali, operando, in tal guisa, una automatica remissione della questione dinanzi al Giudice delle leggi. Nell'ipotesi di devoluzione della questione alla Corte, quest'ultima dovra' verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione della Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali equivalente a quella riferita ai principi incardinati nella nostra Carta costituzionale, rispettando quel giusto equilibrio e bilanciamento degli interessi, ancorche' disciplinati da convenzioni internazionali.