CORTE D'APPELLO DI TRIESTE 
 
    La Corte d'appello di Trieste, Prima sezione penale,  riunita  in
Camera di consiglio in persona dei magistrati: 
    dott. Igor Maria Rifiorati - Presidente 
    dott.ssa Donatella Solinas - Consigliere 
    dott.ssa Gloria Carlesso - Consigliere 
  ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento promosso  con
appello di C.  M.  J.  F.,  nato  a  .......  (Colombia)  il  ......,
attualmente detenuto per questa causa presso la Casa circondariale di
Udine - assistito dall'avv.  Guido  Galletti  del  Foro  di  Treviso,
difensore di  fiducia  avverso  la  sentenza  del  G.U.P.  presso  il
Tribunale di Udine del 3 giugno 2016 che, visti gli artt. 438 e  ss.,
533 e 535 c.p.p., ha dichiarato l'imputato colpevole del reato a  lui
ascritto  e,  riconosciute  le  attenuanti  generiche,  applicata  la
diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni quattro di
reclusione ed € 14.000 di  multa,  oltre  al  pagamento  delle  spese
processuali e di mantenimento in carcere;  ha  dichiarato  l'imputato
interdetto dai pubblici uffici per  la  durata  di  anni  cinque,  ha
disposto l'espulsione dell'imputato dal territorio dello Stato a pena
espiata; ha disposto  la  confisca  del  denaro  in  sequestro  e  la
confisca  e  distruzione  dei  rimanenti  reperti  in  sequestro,  ad
eccezione della documentazione di cui ha ordinato  l'acquisizione  al
fascicolo,  e  dei  telefoni  cellulari,  di  cui  ha   disposto   la
restituzione agli aventi diritto, se non gia' eseguita. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Con sentenza del 3 giugno 2016 il G.U.P. presso  il  Tribunale
di Udine ha dichiarato la penale responsabilita' dell'imputato per il
reato di cui all'art. 73 decreto del Presidente della  Repubblica  n.
309/90 - commesso in Udine il 12 agosto 2015 -  per  aver  acquistato
circa 100 grammi di cocaina (esattamente 104,10 grammi  lordi  e  non
150 come indicato nell'imputazione) quantita' da  cui  era  possibile
ricavare  375  dosi  medie  singole,  occultata  all'interno  di  tre
condensatori  per  computer,  contenuti  all'interno  di   un   pacco
proveniente dall'Argentina e indirizzato  a  tale  C.  R.  in  Udine,
sostanza che, per quantita', appariva destinata alla cessione a terzi
e lo ha condannato, in esito a giudizio abbreviato, alla pena di anni
quattro di reclusione ed € 14.000 multa, previo riconoscimento  delle
attenuanti generiche e applicazione della diminuente per il rito;  ha
disposto la confisca del denaro e dello stupefacente in  sequestro  e
la restituzione dei telefoni cellulari. 
    Il Giudice ha ritenuto che, pur risultando  l'imputato  assuntore
di stupefacenti, la sostanza doveva essere stata in misura prevalente
destinata alla cessione a terzi, in relazione sia al contesto in  cui
era   stata   recuperata   (un   pacco   proveniente   dall'Argentina
intercettato a 
    Francoforte e nascosto dentro tre condensatori di computer), alla
quantita' dello stupefacente (97,407 grammi  netti  di  sostanza  con
percentuale  media  di  principio  attivo  pari  al   57,6%)   e   al
rinvenimento,  nell'abitazione  che  l'imputato  condivideva  con  la
compagna, di € 3.700 in contanti, verosimilmente non riconducibili ai
guadagni e risparmi della coppia. 
    Il Giudice ha escluso la  possibilita'  di  inquadrare  il  fatto
nell'ipotesi di lieve entita' di cui all'art. 73,  comma  5,  decreto
del Presidente della Repubblica n. 309/1990,  valutati  la  quantita'
della sostanza, il notevole grado di purezza, il frazionamento  della
stessa,  le  particolari  modalita'  di   spedizione,   l'inserimento
dell'imputato in traffici di stupefacenti di carattere sovranazionale
e la commissione del reato mentre lo  stesso  si  trovava  sottoposto
alla misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ad altro
procedimento per analogo reato. 
    Affermata la penale responsabilita', riconosciute  le  attenuanti
generiche in considerazione del contegno processuale  sostanzialmente
ammissivo di responsabilita', applicata la diminuente per il rito, ha
ritenuto congrua alla pena di anni quattro di reclusione ed €  14.000
di multa cosi' determinata: pena base anni otto di  reclusione  ed  €
25.822 di multa, diminuita ad anni sei e  21.000  per  le  attenuanti
generiche  e  ridotta  infine  per  il  rito;  ha  disposto  la  pena
accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per anni cinque e la
espulsione dell'imputato dal territorio  nazionale  a  pena  espiata,
desumendo la sua pericolosita' sociale dalle modalita' di commissione
del reato, dalla gravita'  dello  stesso,  dalla  pendenza  di  altro
procedimento penale, dall'esistenza  di  contatti  all'estero,  dalla
precarieta' delle condizioni economiche, elementi idonei a  integrare
il pericolo di reiterazione nel reato. 
    2. Avverso la  sentenza  ha  proposto  appello  il  difensore  di
fiducia dell'imputato  e,  pur  non  contestando  la  responsabilita'
penale per il fatto descritto  nell'imputazione,  ne  ha  chiesto  la
riqualificazione  ai  sensi  dell'art.  73,  comma  5,  decreto   del
Presidente della Repubblica n. 309/1990; a tal fine il  difensore  ha
evidenziato che parte della sostanza era destinata a un uso personale
del C. che, lungi  dall'essere  inserito  in  un  contesto  criminale
internazionale, lo  stesso  si  faceva  recapitare  la  sostanza  per
soddisfare in parte i bisogni di altri  secondo  modalita'  stabilite
dallo   stesso   fornitore,   rivelando   l'assenza   di    modalita'
professionali; ha ribadito che  la  somma  rinvenuta  nell'abitazione
proveniva dall'attivita' lavorativa svolta dall'imputato e dalla  sua
fidanzata la cui posizione era  stata  percio'  archiviata  all'esito
dell'interrogatorio; nessun contatto era poi emerso dall'analisi  dei
supporti telefonici degli indagati; ha escluso  che  il  rifornimento
dall'estero  di  stupefacenti   potesse   denotare   un   inserimento
dell'imputato  in   un   ambito   criminale   internazionale,   anche
considerando il fatto che egli aveva sempre avuto come referenti  per
gli  acquisti  di  cocaina  solo  connazionali  non   dimoranti   nel
territorio di Udine, uno dei quali aveva sollecitato la spedizione da
un fornitore estero. 
    In via subordinata, permanendo la  qualificazione  giuridica  del
fatto di cui all'imputazione, il Difensore ha proposto una  questione
di legittimita' costituzionale  dell'art.  73  comma  1  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990, osservando che, all'esito di
una tortuosa evoluzione normativa, l'art.  73  comma  1  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 (dapprima modificato  con  la
legge  n.  49/2006,  c.d.   Fini-Giovanardi,   di   conversione   del
decreto-legge n. 272/2005, dichiarata incostituzionale  con  sentenza
n. 32/2014 della Corte costituzionale  per  violazione  dell'art.  77
comma  2  Cost.,  che  ha  fatto  rivivere  i  commi  1,  2,  3  e  4
dell'originario  art.   73,   introducendo   una   grave   incoerenza
sistematica  con  i  commi  5  e  5-bis)   prevede   un   trattamento
sanzionatorio con limite edittale minimo di otto anni di  reclusione,
pari al doppio del  massimo  previsto  per  il  reato  minore;  detto
trattamento edittale e' «rivissuto per effetto dell'intervento  della
Corte costituzionale  in  un  contesto  normativo  affatto  diverso»;
pertanto il difensore ha proposto, sulla scorta di analoghi argomenti
gia' posti a sostegno della questione di legittimita'  costituzionale
sollevata dal Tribunale di Rovereto il 21 gennaio 2016, la  questione
di legittimita' costituzionale, chiedendo la sospensione del giudizio
in attesa della decisione della Corte cui comunque ha sollecitato  la
trasmissione degli atti. 
    In  ogni  caso  ha  lamentata,  quanto  alla  pena,  la   mancata
concessione delle attenuanti generiche nella loro estensione  massima
e, quanto alle statuizioni sanzionatorie, la necessita'  di  disporre
la restituzione della somma confiscata e la  revoca  dell'espulsione,
dovendo escludersi che si sia consolidato  in  capo  all'imputato  un
quadro soggettivo compatibile  con  le  esigenze  di  espulsione  dal
territorio dello Stato. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Ritiene la Corte che sussistano i presupposti  per  sollevare  la
questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt.
25, 3 e 27 Cost., dell'art. 73 comma 1 decreto del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990 nella parte in cui detta  norma  prevede  -  a
seguito della sentenza  n.  32  dell'11  febbraio  2014  della  Corte
costituzionale - la pena minima edittale di otto anni  di  reclusione
in luogo di quella di anni sei di reclusione  introdotta  con  l'art.
4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con mod.
in legge 21 febbraio 2006, n. 49. 
    La questione e' rilevante  in  quanto  questa  Corte  ritiene  di
condividere la qualificazione giuridica del fatto data dal giudice di
primo grado, corrispondente al reato di cui all'imputazione (art.  73
comma 1 decreto del Presidente della  Repubblica  n.  309/1990),  non
potendo inquadrarsi  la  condotta  dell'imputato  nel  reato  di  cui
all'art. 73 comma  5  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.
309/1990 come richiesto dal Difensore. 
    Ed invero, dalle indagini e' emerso con certezza che C. M. J.  F.
mentre si trovava agli arresti domiciliari per reati  concernenti  il
traffico di stupefacenti (a tal riguardo  si  ricorda  che  egli  era
stato arrestato in relazione all'acquisto  di  oltre  100  grammi  di
cocaina - fatto  accertato  in  Venezia  il  9  luglio  2015),  stava
attendendo dall'Argentina un pacco contenente 104,10 grammi lordi  di
cocaina suddivisa in tre involucri di plastica occultati  all'interno
di tre condensatori per computer; il pacco venne intercettato  il  17
luglio 2015 da personale dell'Agenzia  delle  Dogane  tedesca  presso
l'Aeroporto  di  Francoforte  e,  in  cooperazione  con   l'Autorita'
italiana, ne venne disposta la  consegna  «controllata»  al  fine  di
identificare il destinatario, che si rivelo' essere proprio l'odierno
imputato. 
    Il fatto non puo' essere considerato di «lieve entita'»  per  una
serie di elementi: 
      la quantita' di sostanza stupefacente (quasi cento grammi netti
di cocaina), rivelatasi, ad analisi tossicologica, dotata di  elevata
percentuale di purezza (57%) e idonea al confezionamento di  ben  375
dosi; 
      le  circostanze  del  traffico,  involgente  fornitori  d'oltre
oceano (il pacco proveniva dall'Argentina, paese diverso da quello di
provenienza dell'imputato), con modalita' di  trasferimento  studiate
per evitare il rinvenimento dello stupefacente; 
      la condotta del C., che dopo essersi procurato, appena un  mese
prima, oltre cento  grammi  di  cocaina  (benche'  di  qualita'  piu'
scadente - principio attivo pari al 20%, circostanza che aveva pesato
sul riconoscimento del comma 5 dell'art. 73, decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 309/1990 con determinazione della pena base  pari
al massimo edittale di quattro anni di reclusione - vds. sentenza  G.
I. P. Tribunale di Venezia del 16 giugno  2016,  prodotta  in  questa
sede dal Difensore), accettava  di  ricevere  una  nuova  consistente
fornitura,  a  suo  dire  comunque  promessa   in   precedenza,   ben
consapevole di esserne il destinatario,  sebbene,  al  momento  della
consegna, avesse voluto precisare che il  pacco  era  diretto  a  sua
cugina, indicando peraltro il nome di una persona inesistente; 
      il rinvenimento di 3.700 euro in contanti nella sua abitazione,
somma incompatibile con i risparmi di una coppia che vede la compagna
dell'imputato lavorare come estetista per circa 1.000 euro  al  mese,
pagare un affitto di 500 euro  al  mese,  mentre  l'imputato  risulta
disoccupato da quasi due mesi,  percependo  prima  uno  stipendio  di
circa 1.100 euro al mese; ne'  puo'  sfuggire  che  la  coppia  pochi
giorni prima della perquisizione, ossia in data 4 agosto 2015,  aveva
inviato con separate distinte quasi tremila  euro  (928,10+970+979,41
euro,  oltre   alle   commissioni   pari   rispettivamente   a   euro
18,55+19,40+19,59) a vari familiari in Colombia, come  risulta  dalle
ricevute dei versamenti in sequestro, segno anche questo  che  il  C.
disponeva di  entrate  non  riconducibili  a  redditi  da  lavoro  ma
verosimilmente al commercio di sostanze stupefacenti (valutazione che
ha giustificato la confisca anche della somma in sequestro); 
  per  tutti  gli  elementi  ora  evidenziati,  e'   ravvisabile   la
sussistenza del  reato  di  cui  all'art.  73  comma  1  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990  e,  si  palesa  evidente  la
rilevanza  nel  caso  di  specie  della  questione  di   legittimita'
costituzionale in relazione al trattamento sanzionatorio previsto per
tale delitto, a seguito della pronuncia d'incostituzionalita' di  cui
alla sentenza Corte cost. n.  32  dell'11  febbraio  2014,  dell'art.
4-bis decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con legge 21
febbraio 2006, n. 49, pronuncia a  seguito  della  quale  ha  ripreso
applicazione l'art. 73 decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.
309/1990  nel  testo  anteriore  alle  modifiche,  con  la   distinta
previsione di un trattamento sanzionatorio piu' mite per gli illeciti
concernenti le «droghe leggere» (l'art. 73 comma 4  prevede  la  pena
detentiva da due a sei anni di  reclusione)  e  piu'  severo  per  le
cosiddette «droghe pesanti» (da otto a venti anni di  reclusione),  a
differenza della pena (da sei a venti anni di  reclusione)  prevista,
senza alcuna distinzione tra  droghe  «leggere»  o  «pesanti»,  dalle
norme  dichiarate  costituzionalmente  illegittime  dalla   pronuncia
citata: nella dosimetria della pena, infatti, questa Corte  d'appello
dovrebbe considerare il  limite  edittale  minimo  di  anni  otto  di
reclusione (oltre alla pena pecuniaria, ridottasi pero' da  26.000  a
25.822 euro di multa) pena  che,  per  i  profili  che  ora  verranno
descritti, si ritiene incostituzionale. 
    La  questione  si  palesa  non  manifestamente  infondata   sotto
distinti parametri costituzionali: 
      1. il primo riguarda il contrasto con il principio  di  riserva
di legge in materia penale, profilo che la  Corte  di  cassazione  ha
articolato in modo puntuale nell'ordinanza 1418/17  del  13  dicembre
2016, dep. il 12 gennaio 2017, con cui ha sollevato la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  73  comma  1   decreto   del
Presidente  della  Repubblica  309/1990:  la  Corte  di   cassazione,
infatti, ha osservato che la Corte  costituzionale  aveva  dichiarato
l'illegittimita' delle norme di cui agli artt. 4-bis decreto-legge n.
272/2005 con riferimento all'art. 77, comma secondo, Cost. sulla base
di «un vizio procedurale» nella formazione  della  legge,  attesa  la
rilevata  eterogeneita'  delle  disposizioni  aggiunte  in  sede   di
conversione in legge del citato decreto-legge rispetto al contenuto e
alla finalita' del provvedimento d'urgenza, dunque in ragione del non
corretto uso del potere legislativo di conversione  facente  capo  al
Parlamento; tuttavia l'esercizio della funzione legislativa ad  opera
della giustizia costituzionale (insito  nelle  sentenze  manipolative
del giudice delle leggi) incontra il limite della riserva di legge in
materia penale sancita dall'art. 25, comma secondo, Cost.  contenente
il principio generale secondo il  quale  gli  interventi  in  materia
penale  tesi  ad  ampliare  l'area  di  un'incriminazione,  ovvero  a
inasprirne  le  sanzioni,  possono  essere  legittimamente   compiuti
soltanto ad opera del legislatore. L'argomento speso dalla  Corte  di
cassazione   viene   qui   condiviso,   osservando   che   la   Corte
costituzionale con la sentenza n. 32/2014 ha  rimesso  alla  prudente
valutazione del giudice di merito la scelta  dell'applicazione  della
norma secondo il principio del favor rei, che informa le norme  sulla
successione delle leggi penali nel tempo, per i reati commessi  prima
dell'intervento del giudice delle leggi; ma per i fatti commessi dopo
il giudice non puo' che applicare la norma attualmente vigente,  vale
a dire l'art. 73 comma 1 decreto del Presidente della  Repubblica  n.
309/1990 nella formulazione adottata prima della modifica legislativa
dichiarata   costituzionalmente   illegittima,   e   nonostante    il
legislatore avesse riconsiderato i reati in materia di  stupefacenti,
in ragione di una evoluzione normativa che l'intervento  della  Corte
costituzionale ha rimosso. 
      2. Il secondo motivo di incostituzionalita' deriva dal  difetto
di  ragionevolezza  del  trattamento  sanzionatorio   emergente   dal
(ri)pristinato  art.  73  comma  1  decreto  del   Presidente   della
Repubblica n. 309/1990, soprattutto laddove lo si  raffronti,  da  un
lato, con la pena prevista per il fatto di lieve entita' (da sei mesi
a quattro anni di reclusione) di cui all'art. 73 comma 5 decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 e, dall'altro,  con  la  pena
prevista  per  le  c.d  «droghe  leggere»  (da  due  a  sei  anni  di
reclusione) di cui al (ri)pristinato art.  73  comma  4  decreto  del
Presidente della Repubblica n.  309/1990,  che  ha  reintrodotto  una
differenziazione per le ipotesi ordinarie, superando quel trattamento
sanzionatorio  unitario  per  due  categorie  di  sostanze,  che   il
legislatore del 2005 aveva introdotto, e che il legislatore del  2014
ha mantenuto solo per le ipotesi «lievi» del comma 5 dell'art. 73. 
      Come gia' evidenziato nell'ordinanza n. 1418/17 della Corte  di
cassazione citata, mentre la linea  di  demarcazione  «naturalistica»
fra le fattispecie «ordinaria» e «lieve» e' talvolta  non  netta  (si
pensi alle  condotte  concernenti  quantitativi  non  particolarmente
cospicui, ma non minimi,  ovvero  connotate  da  modalita'  esecutive
caratterizzate da una certa, ma non rilevante pericolosita' quanto al
rischio di  diffusione  della  sostanza,  suscettibili  di  escludere
comunque la sussumibilita' della fattispecie concreta  nell'art.  73,
comma  5),  il  «confine   sanzionatorio»   dell'una   e   dell'altra
incriminazione  e'  invece  estremamente  -  ed  irragionevolmente  -
distante (intercorrendo ben quattro anni di  pena  detentiva  fra  il
massimo dell'una e il  minimo  dell'altra).  Il  che,  nella  prassi,
spesso induce i giudici a forzature interpretative, tese a  rimediare
- mediante l'ampliamento dell'ambito applicativo dell'ipotesi «lieve»
-  l'ingiustificato  dislivello  edittale  tra  le  due   fattispecie
incriminatrici. 
      L'argomento  viene  condiviso   da   questa   Corte   d'appello
osservando che le fattispecie concrete presentano talora  un  confine
sfumato tra il fatto di lieve entita' che  meriti  il  massimo  della
sanzione  edittale  prevista  dall'art.  73  comma  5   decreto   del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 (quattro anni di  reclusione)
e il fatto «non lieve» che meriti pero' il minimo della pena prevista
dall'art. 73 comma 1 (otto anni); il peso che il giudice di merito e'
chiamato a dare a  ogni  elemento  per  una  corretta  qualificazione
giuridica del caso concreto  non  giustifica  pero',  il  trattamento
sanzionatorio sensibilmente  diverso  tra  le  c.d.  «fattispecie  di
confine» che non si pone in ragionevole  rapporto  con  il  disvalore
della condotta. 
      3.  Il  terzo  motivo  di   incostituzionalita',   strettamente
connesso  al   precedente,   riguarda   il   contrasto   dell'attuale
trattamento sanzionatorio con il principio di proporzionalita'  e  il
principio di colpevolezza e di necessaria finalizzazione  rieducativa
della pena, riconducibile al disposto degli artt. 3 e 27 Cost. 
    Il  contrasto,  in  particolare,  si  rivela   evidente   proprio
considerando  la  successione  di  condanne  subite  in  primo  grado
dall'imputato C. M. J. F. per fatti che i giudici  di  prima  istanza
hanno collocato al confine, rispettivamente  superiore  e  inferiore,
delle fattispecie previste dal quinto e dal primo comma dell'art.  73
decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990: 
      ed invero, il fatto, commesso dal C.  a  Venezia  il  9  luglio
2015, di aver acquistato, a fini di spaccio, oltre centro  grammi  di
cocaina (20% di principio attivo, corrispondenti a 140 dosi  singole)
e' stato giudicato sub art 73 comma 5, decreto del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990 e ha comportato la condanna, senza  attenuanti
generiche, alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed €  6.000
di multa con sentenza del G.U.P. Tribunale di Venezia del  16  giugno
2016 (pena base corrispondente al massimo della pena  edittale,  anni
quattro di reclusione, ridotta di un terzo per il rito abbreviato); 
      il fatto sub iudice, commesso dal C. a Udine il 12 agosto 2015,
di aver ricevuto 104 grammi lordi di cocaina (57%  principio  attivo,
375 dosi singole) e' stato giudicato sub art. 73 comma 1 decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 e ha comportato  la  condanna
alla pena di anni quattro di reclusione ed € 14.000 di multa (con  la
concessione di attenuanti generiche, partendo dalla pena base di anni
otto di reclusione, corrispondente al minimo di quella edittale)  con
sentenza del 3 giugno 2016 del G.U.P.  del  Tribunale  di  Udine  (la
sentenza oggetto dell'odierna impugnazione). 
    La  differenza  fattuale  tra  le  due  condotte  non  giustifica
l'inquadramento in fattispecie penali cui corrispondono cosi' diversi
trattamenti sanzionatori, per adattare i quali il giudice  di  merito
si e' trovato «costretto» a forzature, relative ora alla  valutazione
del fatto, ora alla concessione delle attenuanti generiche. 
    La Corte costituzionale si e' mostrata costantemente sensibile al
valore della  proporzionalita'  della  pena,  ribadendo  anche  nella
recente sentenza n. 236 del 10 novembre  2016,  che  l'art.  3  Cost.
esige che la pena sia proporzionata al disvalore del  fatto  illecito
commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia  nel  contempo
alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni
individuali (...). E ricordando, in questa prospettiva, anche  l'art.
49, numero 3),  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea - proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000,  e  che  ha  ora  lo
stesso valore giuridico dei trattati, in forza dell'art. 6, comma  1,
del Trattato sull'Unione europea (TUE), come modificato dal  Trattato
di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso  esecutivo
con legge 2 agosto 2008 n. 130, ed entrato in vigore il  1°  dicembre
2009 - a tenore  del  quale  «le  pene  inflitte  non  devono  essere
sproporzionate rispetto al reato». 
    La  pena  per   dirsi   giusta   va   adeguata   alla   effettiva
responsabilita' penale, cosi'  potendo  svolgere  anche  la  funzione
rieducativa di cui all'art. 27 Cost. che richiede a propria volta, un
costante principio di proporzione  tra  qualita'  e  quantita'  della
sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (Corte cost. n. 251  del
2012 e Corte cost. n. 341 del 1994): se  invece  la  proporzione  tra
sanzione  e  offesa  difetti  manifestamente,  perche'  alla   carica
offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa
il legislatore abbia  fatto  corrispondere  conseguenze  punitive  di
entita' spropositata, non ne potra' che discendere una compromissione
ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tendera'
a non prestare adesione, gia' solo per la percezione  di  subire  una
condanna profondamente ingiusta (sentenze n. 251 e n. 68  del  2012),
del tutto svincolata dalla gravita'  della  propria  condotta  e  dal
disvalore da essa espressa (in tal senso Corte  cost.  n.  236/2016),
vieppiu' quando, in materia di stupefacenti, il fatto si collochi  al
confine  con  la  fattispecie  di  lieve  entita'  punita   in   modo
sensibilmente inferiore: si ritiene dunque,  mutuando  nuovamente  le
parole del Giudice delle leggi (Corte cost.  n.  236/2016)  che,  una
particolare asprezza della risposta sanzionatoria  determini  percio'
una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost. essendo lesi sia il
principio di proporzionalita' della pena rispetto alla  gravita'  del
fatto commesso, sia quello della  finalita'  rieducativa  della  pena
(sentenza n. 68 del 2012, che richiama le sentenze n. 341  de/1994  e
n. 343 de/1993). 
    La pronuncia citata consente di delineare e  ben  chiarire  anche
l'intervento che  questo  giudice  di  appello  richiede  alla  Corte
costituzionale: non di  sovrapporre  la  propria  discrezionalita'  a
quella del Parlamento in  materia  sanzionatoria  penale,  bensi'  di
emendare le scelte del legislatore in riferimento  a  grandezze  gia'
rinvenibili nell'ordinamento» (sentenze n. 148 del 2016 e n.  22  del
2007)  riconducendo  a  coerenza  le  scelte  gia'  delineate   nella
repressione dei  reati  concernenti  gli  stupefacenti  e  procedendo
all'eliminazione di ingiustificabili incongruenze: in tal  senso,  il
controllo  sulla  sproporzione   manifestamente   irragionevole   tra
quantita' di sanzioni, da  una  parte,  e  gravita'  delle  condotte,
dall'altra,  viene  proposto  proprio   attraverso   la   valutazione
relazionale tra fattispecie simili da farsi  per  intero  all'interno
della disciplina del medesimo art. 73 decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990. 
    Si  ritiene  allora  che  la  soluzione  conforme  ai   parametri
costituzionali   sia   quella   di   ripristinare   il    trattamento
sanzionatorio gia' introdotto nel 2006, riducendo il minimo  edittale
da otto a sei anni di reclusione. 
    Questa Corte ritiene, infine, che dando  seguito  alla  eccezione
sollevata dalla Difesa, senza limitarsi a un mero rinvio del giudizio
in attesa della  definizione  di  analoghe  questioni  gia'  pendenti
davanti alla Corte costituzionale, si siano rispettati i  diritti  di
difesa e il principio del  contraddittorio,  anche  considerando  che
l'imputato e'  attualmente  sottoposto  alla  misura  della  custodia
cautelare in carcere per questa causa, la durata  della  quale  viene
sospesa;