Ricorso del Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato (c.f. 80224030587 - PEC roma@mailcert.avvocaturastato.it), presso i cui uffici ex lege e' domiciliato in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12, giusta decreto presidenziale in data 10 aprile 2017 (doc. 1), propone ricorso per conflitto di attribuzione, ai sensi dell'art. 134 Cost. e dell'art. 37 legge n. 87 del 1953, con contestuale richiesta di tutela cautelare, nei confronti della Corte dei conti, in persona del Presidente pro tempore in riferimento alla sentenza n. 1354/2016, depositata il 19 dicembre 2016 della Corte dei conti, della sez. II Giurisdizionale centrale d'appello (doc. 2), trasmessa dalla Procura Regionale per il Lazio della Corte dei conti con nota n. 0005627-22/03/2017-PR_LAZT61-P, del 22 marzo 2017 (doc. 3), riguardante l'esecuzione di tale decisione, recante condanna di alcuni dipendenti della Presidenza della Repubblica (Gianni Gaetano e Di Pietro Paolo) al risarcimento dei danni verificatisi per ammanchi di cassa presso la Tenuta di Castelporziano, nonche' alla sentenza n. 894/2012 del 25 settembre 2012, della sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio (doc. 4) e ad ogni altro atto presupposto e comunque connesso o collegato. Con la citata sentenza n. 1354/2016, la Corte dei conti, della sez. II giurisdizionale centrale d'appello, nel respingere l'appello proposto dal signor Paolo Di Pietro e nell'accogliere parzialmente l'appello proposto dal Procuratore generale, condannando i signori Gianni Gaetano e Paolo Di Pietro - gia' dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica - al pagamento di somme in favore della Presidenza della Repubblica, ha confermato la propria «giurisdizione» gia' ritenuta in primo grado. E chiede l'annullamento della sentenza in epigrafe indicata, nonche' di ogni altro atto preordinato, o comunque connesso. In fatto La vicenda da cui origina il presente ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato nasce da accertamenti effettuati dal Segretariato generale della Presidenza della Repubblica sulla gestione della contabilita' della Tenuta presidenziale di Castelporziano, facente parte della dotazione del Presidente della Repubblica (ex art. 84 Cost. e art. 1 della legge n. 1077 del 1948), all'esito dei quali erano risultati ammanchi (relativamente al periodo compreso tra il 2002 ed il 2008) per alcuni milioni di Euro (poi quantificati in sede giudiziaria in € 4.631.691,96). Il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica ha provveduto, a suo tempo, ad informare tempestivamente l'Autorita' giudiziaria trasmettendo, con nota del 27 marzo 2009, l'esposto dell'allora Capo del Servizio ragioneria e tesoreria del Segretariato generale. L'Autorita' giudiziaria, informata di quanto sopra, ha promosso procedimento penale per determinati reati nei confronti di alcuni dipendenti, conclusosi con la sentenza n. 8262/2013 del 23 aprile 2013 (doc. 5) di condanna in via definitiva di uno dei dipendenti coinvolti e, relativamente ad un altro dipendente imputato, con sentenza n. 921/2011 dell'11 aprile 2011 (doc. 6) di applicazione della pena su richiesta delle parti. La Presidenza della Repubblica ha agito tempestivamente in giudizio negli anni 2009-2010 dinanzi al giudice ordinario (Tribunale civile di Roma) ottenendo (previa riunione dei vari giudizi instaurati) la condanna di alcuni dipendenti, come si dira' appresso, con la favorevole sentenza n. 16997 del 4 agosto 2015 (doc. 7), avverso la quale pende, allo stato, appello proposto dall'Amministrazione in relazione al mancato accoglimento in primo grado della domanda proposta nei confronti di uno dei convenuti (la Corte d'appello ha fissato l'udienza di precisazione delle conclusioni per il giorno 20 novembre 2019). Con tale sentenza (n. 16997 del 2015) del Tribunale ordinario di Roma, seconda sezione civile, adito dalla Presidenza della Repubblica, sono stati condannati due dipendenti al pagamento, in solido fra loro, in favore della Presidenza della Repubblica, della somma di € 4.631.691,96, nonche' della ulteriore somma di € 100.000,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale (precisamente, di danno all'immagine, parimenti richiesto dalla Presidenza della Repubblica). Parallelamente, la Procura regionale del Lazio della Corte dei conti, ha avviato a suo tempo un'istruttoria sugli stessi illeciti correlati all'utilizzo di risorse della Tenuta presidenziale di Castelporziano. La Presidenza della Repubblica, venuta a conoscenza del procedimento per responsabilita' amministrativa instaurato dalla Procura regionale della Corte dei conti nei confronti di alcuni dipendenti per i medesimi fatti per i quali la Presidenza aveva gia' agito in sede civile e ritenendo che l'operato della Corte dei conti non fosse rispettoso delle prerogative connesse alla posizione di speciale autonomia del Presidente della Repubblica, ha proposto ricorso per regolamento di giurisdizione ex art. 41 codice di procedura civile comma 2 e art. 368 codice di procedura civile, di cui si dira' in seguito, chiedendo che la Corte di cassazione dichiarasse che la Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per il Lazio, con la sentenza n. 894/2012 (con la quale erano stati condannati un dipendente al pagamento della somma di € 954.222,00 ed un altro al pagamento della somma di € 477.000,00), aveva leso le prerogative presidenziali. Con ordinanza del 20 novembre 2013, n. 26035 (doc. 8), le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla Presidenza della Repubblica (ed inammissibile il ricorso incidentale proposto dal signor Di Pietro), rilevando, per quanto di maggiore interesse in questa sede, quanto segue: «(...) e' interessante ricordare la pronuncia n. 129 del 1981 emessa dalla Corte costituzionale che ha affermato che non spetta alla Corte dei conti il potere di sottoporre a giudizio contabile i tesorieri della Presidenza della Repubblica (e della Camera e del Senato); con riferimento ai limiti della giurisdizione contabile nel conflitto con organi costituzionali di vertice fra i quali la Presidenza della Repubblica. E cio' perche' il fondamento normativo della giurisdizione contabile della Corte dei conti posto nell'art. 103 Cost., comma 2, non risulta dotato di un'assoluta ed immediata operativita' in tutti i casi. La capacita' espansiva del T.U. n. 1214 del 1934 - e' stato nuovamente rilevato -, incontra, infatti, i limiti dell'idoneita' oggettiva delle materie e del rispetto delle norme e dei principi costituzionali (v. anche sentenza n. 110 del 1970, sentenza n. 102 del 1977). E' stato, quindi, mediante il conflitto sollevato davanti alla Corte costituzionale ad essere stato risolto quel caso; cio' dimostrando che quello e' lo strumento corretto per la denuncia di situazioni costituenti materia di conflitto fra poteri dello Stato. Il conflitto che sussiste, non solo nei casi in cui si controverte circa la spettanza di una stessa attribuzione, ma anche quando si discuta circa l'estensione della giurisdizione propria della Corte dei conti, nel rapporto con l'autonomia organizzativa e funzionale rivendicata dai tre organi costituzionali che hanno sollevato il conflitto» (v. Corte costituzionale n. 129 del 1981 in motiv.). Nelle more, la Presidenza della Repubblica provvedeva comunque, nei confronti dei singoli dipendenti interessati, ad adottare, in via amministrativa, ogni piu' opportuna iniziativa a tutela della garanzia patrimoniale delle proprie ragioni creditorie, mediante vari atti di fermo amministrativo, sequestro, pignoramento ed iscrizione di ipoteca. Con atto notificato il 20 novembre 2012 e depositato il 12 dicembre 2012, uno dei dipendenti condannato in primo grado ha proposto appello avverso la citata sentenza (n. 894/2012) della Sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti. Con la sentenza n. 1354/2016, depositata il 19 dicembre 2016, in epigrafe indicata, la Corte dei conti, sez. II Giurisdizionale centrale d'appello, nel respingere l'appello proposto da uno dei due soggetti condannati in primo grado e nell'accogliere parzialmente l'appello proposto dal Procuratore generale, confermando la propria «giurisdizione» gia' ritenuta in primo grado, ha condannato uno dei soggetti gia' ritenuti responsabili in primo grado al pagamento dell'importo di € 4.631.691,96 (allineandosi, cosi', al quantum gia' liquidato in sede civile) e ha condannato l'altro dipendente - che era stato assolto sia in sede penale che civile - in solido, limitatamente al pagamento della somma di € 550.000,00 (cifra anch'essa superiore a quella ritenuta in primo grado) ricompresa nella predetta somma di € 4.631.691,96, in favore della Presidenza della Repubblica. In rito Dalle premesse in fatto e dalla sentenza qui impugnata in una ad ogni atto ad essa presupposto e collegato, si evince che la Corte dei conti si e' ritenuta pienamente legittimata ad agire in giudizio nell'interesse del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica. Cio' sulla base di un'interpretazione radicalmente contrastante con la sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 129 del 1981, che, come noto, ha escluso la competenza del giudice contabile nei confronti degli organi costituzionali. La decisione assunta dalla Corte dei conti con la sentenza impugnata (nonche' ogni atto ad essa presupposto e comunque connesso), alla stregua della giurisprudenza costituzionale che verra' anche in seguito richiamata, si ritiene palesemente lesiva della sfera di autonomia, costituzionalmente garantita, della Presidenza della Repubblica. In sostanza, la Corte dei conti si e' ritenuta legittimata ad agire ed a proseguire nella iniziativa autonomamente avviata, senza essere stata in proposito compulsata dalla Presidenza della Repubblica - che aveva tempestivamente adito il Tribunale civile di Roma - pur nella consapevolezza delle rispettive attribuzioni costituzionali, come delineate, in particolare, nella nota sentenza n. 129 del 1981 di codesta ecc.ma Corte. Dal tenore, anche testuale della citata sentenza n. 1354 del 2016 della Corte dei conti, si evince chiaramente come la stessa intenda scardinare il perimetro di attribuzioni costituzionali delineato da codesta ecc.ma Corte, posto che muove proprio dal presupposto della mancata adesione, da parte della stessa, alle affermazioni contenute nella citata sentenza n. 129 del 1981. A questo punto, si pone l'esigenza di sottoporre nuovamente a codesta ecc.ma Corte la questione della delimitazione delle rispettive attribuzioni costituzionali, al fine di acclarare il corretto ambito di competenze della Corte dei conti. Del resto, con riferimento all'interesse a ricorrere, codesta ecc.ma Corte ha ripetutamente affermato che l'ente territoriale o il potere dello Stato ricorrente o resistente nel giudizio instaurato da un ricorso per conflitto di attribuzione non dispone dell'attribuzione costituzionale di cui si controverte (sentenze n. 44 del 1957, n. 77 del 1958, n. 58 del 1959, n. 3 del 1964, n. 171 del 1971, a cui si richiamano le piu' recenti sentenze n. 389 del 1995 e n. 95 del 2003), sul rilievo che oggetto del conflitto non e' tanto la legittimita' dell'atto che l'ha generato, quanto la lesione delle attribuzioni costituzionali (sentenza n. 95 del 2003). Dette attribuzioni, secondo codesta ecc.ma Corte, «non sono disponibili, perche' discendono direttamente da norme costituzionali, con la conseguenza che ad esse non puo' applicarsi l'istituto dell'acquiescenza» (sentenza n. 369 del 2010). Appare utile ricordare che l'affermazione da ultimo richiamata e' stata resa nell'ambito di giudizi instaurati per ricorso per conflitto di attribuzione tra enti, ma si ritiene che ben possa essere estesa ai conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato. Cio' tanto piu' in ragione della disciplina processuale dei conflitti tra poteri dello Stato, che, come noto, e' volta a favorire la risoluzione delle controversie mediante apposite intese extra-giudiziarie, come risulta, da un lato, dalla mancata fissazione, nella legge n. 87 del 1953, di termini di decadenza per la proposizione del ricorso, e, dall'altro, dalla previsione di una struttura «bifasica» del procedimento di risoluzione di tali conflitti, funzionale a delimitare il piu' possibile questo tipo di processo (ed i relativi soggetti e oggetto), cosi' da minimizzarne l'impatto sulle scelte proprie del «campo politico» (sentenze n. 116 del 2003 e n. 58 del 2004). Cio' che con il presente conflitto si chiede, quindi, e' che venga ritenuta l'interferenza, da parte della Corte dei conti, nella sfera delle competenze dell'Organo costituzionalmente garantite, con annullamento degli atti lesivi della attribuzione della Presidenza della Repubblica (della sentenza in epigrafe indicata, di quella di primo grado, nonche' di tutti gli atti preordinati o comunque collegati). Con riguardo alla legittimazione soggettiva del Presidente della Repubblica a sollevare il conflitto tra poteri, essa risulta pacifica alla stregua della giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 129 del 1981, n. 200 del 2006 e n. 1 del 2013, nonche' ordinanze n. 150 del 1980, n. 354 del 2005 e n. 218 del 2012). L'ammissibilita' del conflitto deve ritenersi confermata anche sotto il profilo oggettivo, atteso che il presente ricorso non e' volto a censurare un error in iudicando (sentenza n. 81 del 2012), cosi' trasformandosi in inammissibile strumento d'impugnazione di decisioni giudiziarie (sentenza n. 259 del 2009 e ordinanza n. 117 del 2006), ma prospetta un conflitto «per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali» (art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953), a seguito di menomazione della Presidenza della Repubblica determinata dall'impugnata sentenza della Corte dei conti. In un recente caso, sotto questo profilo non dissimile, codesta ecc.ma Corte ha infatti dichiarato ammissibile un ricorso per conflitto sollevato da altro organo costituzionale (il Governo della Repubblica), con il quale veniva censurata una sentenza della Corte di cassazione. In quel precedente, alla stessa stregua del presente ricorso, il ricorrente contestava, «l'esistenza stessa del potere giurisdizionale nei propri confronti (sentenze n. 88 del 2012, n. 195 del 2007 e n. 276 del 2003)» e, conseguentemente, «lamentava il superamento, per mezzo della sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, dei limiti che tale potere incontra nell'ordinamento, a garanzia delle attribuzioni costituzionali del Governo» (sentenza n. 52 del 2016, punto n. 3.2 del «Considerato in diritto»). Pacifica, peraltro, sempre con riguardo ai profili oggettivi del conflitto, e' da ritenersi l'ammissibilita' di un conflitto tra poteri avente ad oggetto atti giurisdizionali (tra le tante, sentenze n. 66 del 1964, n. 285 del 1990, n. 276 del 2003, n. 195 del 2007, n. 88 del 2012, nonche', da ultimo, n. 52 del 2016). Infine, sempre in rito, si ricorda altresi' che la legge n. 87 del 1953 non prevede alcun termine di decadenza per la proposizione del ricorso e che la giurisprudenza costituzionale, una volta ammesso il conflitto di attribuzione tra poteri su atto giurisdizionale, ha affermato l'ammissibilita' del conflitto anche avverso una sentenza definitiva (sentenze n. 66 del 1964; n. 285 del 1990; n. 52 del 2016). Si ricorda infine che, proprio avuto riguardo alla vicenda in argomento, le SS.UU. della Suprema Corte di cassazione, con la sopra citata ordinanza n. 26035 del 2013, hanno ribadito, in sede di regolamento di giurisdizione proposto dalla Presidenza della Repubblica, che «lo strumento corretto per la denuncia di situazioni costituenti materia di conflitto fra poteri dello Stato», e' appunto il conflitto di attribuzioni, evidenziando altresi' quanto segue: «(...)e' interessante ricordare la pronuncia n. 129 del 1981 emessa dalla Corte costituzionale che ha affermato che non spetta alla Corte dei conti il potere di sottoporre a giudizio contabile i tesorieri della Presidenza della Repubblica (e della Camera e del Senato); con riferimento ai limiti della giurisdizione contabile nel conflitto con organi costituzionali di vertice fra i quali la Presidenza della Repubblica. E cio' perche' il fondamento normativo della giurisdizione contabile della Corte dei conti posto nell'art. 103 Cost., secondo comma, non risulta dotato di un'assoluta ed immediata operativita' in tutti i casi. La capacita' espansiva del T.U., n. 1214 del 1934 - e' stato nuovamente rilevato -, incontra, infatti, i limiti dell'idoneita' oggettiva delle materie e del rispetto delle norme e dei principi costituzionali (v. anche sentenza n. 110 del 1970, sentenza n. 102 del 1977). E' stato, quindi, mediante il conflitto sollevato davanti alla Corte costituzionale ad essere stato risolto quel caso; cio' dimostrando che quello e' lo strumento corretto per la denuncia di situazioni costituenti materia di conflitto fra poteri dello Stato. Il conflitto che sussiste, non solo nei casi in cui si controverte circa la spettanza di una stessa attribuzione, ma anche quando si discuta circa l'estensione della giurisdizione propria della Corte dei conti, nel rapporto con l'autonomia organizzativa e funzionale rivendicata dai tre organi costituzionali che hanno sollevato il conflitto» (v. Corte cost. n. 129 del 1981 in motiv.). Pertanto, si chiede che codesta ecc.ma Corte affermi che il giudizio di responsabilita' conclusosi con la sentenza n. 1354/2016, depositata il 19 dicembre 2016 (a seguito delle camere di consiglio del 4 ottobre e del 14 dicembre 2016), della Sezione II Giurisdizionale centrale d'appello della Corte dei conti, trasmessa alla Presidenza della Repubblica, per la sua esecuzione, dalla Procura regionale per il Lazio della Corte dei conti, con la nota del 22 marzo 2017 richiamata in epigrafe, riguardante dipendenti della Presidenza della Repubblica per attivita' comunque riconducibili all'ambito organizzativo dotato di autonomia costituzionalmente tutelata, concreti interferenza della stessa nelle attribuzioni riservate all'organo costituzionale e che, per l'effetto, annulli ogni atto lesivo del principio dell'esenzione della Presidenza della Repubblica dalla giurisdizione contabile, nonche' ogni atto presupposto o comunque connesso. Nel merito. Con la sentenza summenzionata, trasmessa alla Presidenza della Repubblica, per la sua esecuzione, dalla Procura regionale per il Lazio della Corte dei conti, con la citata nota del 22 marzo 2017, nonche' con una pluralita' di atti, a partire dall'avvio dell'azione di responsabilita' per danno erariale da parte della Procura regionale per il Lazio, la Corte dei conti ha ritenuto la propria «giurisdizione» impropriamente assimilando, evidentemente, la Presidenza della Repubblica ad una pubblica amministrazione. In tal modo la Corte dei conti, come si evidenziera' nel prosieguo, da un lato ha esorbitato dai suoi poteri, alla luce di quanto previsto dall'art. 103, comma secondo, Cost., dall'altro ha invaso la competenza del Presidente della Repubblica costituzionalmente attribuita dall'art. 84, comma terzo, Cost., in evidente contrasto con una chiara consuetudine costituzionale. Ma nella specie non si tratta, come si dira' anche in seguito, e come gia' ritenuto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con ordinanza del 20 novembre 2013, n. 26035, di «giurisdizione» (in tale ordinanza e' stato invero ribadito che «lo strumento corretto per la denuncia di situazioni costituenti materia di conflitto fra poteri dello Stato», non poteva che essere quello del conflitto di attribuzioni). Si legge infatti nella decisione (cfr. pag. 10 e segg.) della Corte dei conti qui impugnata ed in epigrafe indicata, quanto segue (enfasi aggiunta): «Circa il difetto assoluto di giurisdizione (...) si rammenta in primo luogo che le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con ordinanza n. 26035 del 2013, hanno dichiarato "inammissibili" sia il ricorso per regolamento di giurisdizione proposto dal Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, in applicazione dell'art. 41, comma 2, codice di procedura civile, sia il controricorso proposto dal sig. Di Pietro (...). Ovviamente, la decisione di rito non ha dato luogo ad alcun giudicato sulla giurisdizione della Corte dei conti per la controversia qui all'esame; ravvisa, peraltro, il Collegio che debba essere confermata la sussistenza della giurisdizione del giudice contabile, gia' affermata dalla Sezione territoriale. Appare in primo luogo indubbio, non solo che deroghe alla giurisdizione in favore di una giurisdizione domestica (o autodichia) debbono essere espressamente previste o consentite da disposizioni costituzionali (cfr. Cassazione SS.UU. n. 6529/2010, n. 12614/1998), ma anche che deroghe di tal fatta sono sempre di stretta interpretazione (Corte cost. n. 129/1981). Nella fattispecie manca una disposizione costituzionale che escluda, direttamente o indirettamente, l'assoggettamento dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica ai giudizi di responsabilita' per danno erariale di cui conosce la Corte dei conti. In secondo luogo, non puo' dubitarsi che i giudizi di responsabilita' per danno erariale siano diversi e distinti dall'ordinario contenzioso sul rapporto di lavoro dei dipendenti del Segretariato generale, ricompreso nell'«autodichia» della Presidenza della Repubblica riconosciuta dai regolamenti presidenziali n. 81/1996 e n. 89/1996, peraltro oggetto del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato recentemente sollevato dalle Sezioni Unite della Cassazione con ordinanza n. 740/2015. Inoltre, i giudizi di responsabilita' dinanzi alla Corte dei conti per il risarcimento del danno erariale restano ben distinti anche dai giudizi di conto celebrati dinanzi alla stessa Corte; giudizi - questi ultimi - che sono caratterizzati, a differenza dei primi (come evidenziato dalla Procura generale), da «necessarieta', ufficiosita', automaticita', continuita', pervasivita', inquisitorieta'». Ne' risulta, per i giudizi di responsabilita', la «consuetudine costituzionale» sulla base della quale la Corte costituzionale, con la sentenza n. 129/1981, aveva (discutibilmente, ad avviso del Collegio) ritenuto di escludere il tesoriere della Presidenza della Repubblica dall'obbligo di presentare il conto giudiziale previsto dall'art. 74 del regio decreto n. 2240/1923. In definitiva, si ritiene che per il risarcimento del danno erariale causato dai dipendenti della Presidenza della Repubblica vigano i principi comuni, nel senso che le due azioni - l'azione di responsabilita' amministrativa davanti al giudice contabile e l'ordinaria azione civilistica di responsabilita' - coesistono senza difficolta' atteso che la giurisdizione civile e quella contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, sicche' il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternativita' anziche' di esclusivita', dando luogo a questioni non di giurisdizione, ma di proponibilita' della domanda (cfr. Cassazione SS.UU. n. 22114/2014, n. 64/2014, n. 63/2014, n. 11/2012, n. 27092/2009). E, quindi, il coesistere delle due diverse azioni, aventi presupposti e finalita' diversi, non determina un conflitto di giurisdizioni, ma soltanto un'eventuale preclusione all'esercizio di un'azione quando con l'altra si sia ottenuto il medesimo bene della vita (cosi': Cassazione SS.UU. n. 8927/2014); preclusione che nella specie e' certamente da escludere, tenuto conto che non risulta da alcun atto di causa che -a seguito del giudizio civile esitato con la sentenza del Tribunale di Roma n. 16997 del 2015 - la Presidenza della Repubblica sia stata reintegrata del danno quantificato in quella sentenza in euro 4.631.691,96. L'eccezione di difetto assoluto di giurisdizione (...) va in definitiva respinta». La summenzionata sentenza pone diversi problemi rispetto al principio di diritto che afferma l'esenzione della Presidenza della Repubblica dalla giurisdizione contabile, da cui segue, ed e' questo il motivo per cui si ricorre dinanzi a codesta ecc.ma Corte, la lesione dell'autonomia costituzionalmente garantita dell'organo stesso. La esclusiva competenza della Presidenza della Repubblica e' stata infatti palesemente violata. Giova peraltro ricordare che la Presidenza della Repubblica, come sopra accennato, aveva gia' promosso, a tutela delle proprie autonome ragioni riguardanti la medesima vicenda, azione giudiziaria dinanzi al Giudice ordinario (Tribunale civile di Roma) che, con sentenza n. 16697, depositata il 4 agosto 2015 (successivamente impugnata e relativamente alla quale pende tuttora appello dinanzi alla Corte d'appello civile di Roma), ha condannato i signori Gianni Gaetano, all'epoca dei fatti titolare dell'ufficio contabilita' della Tenuta di Castelporziano, e Alessandro Demichelis, al tempo Direttore della Tenuta di Castelporziano (quest'ultimo non condannato dalla Corte dei conti, che ha invece condannato il Di Pietro, allora cassiere-contabile, in solido con il Gaetano, limitatamente alla somma di euro 550.000,00 - compresa nell'importo di euro 4.631.691,96) -, ritenendoli condebitori solidali e liquidando, in favore della Presidenza attrice, la somma di € 4.631.691,96, oltre alla rivalutazione monetaria ed interessi dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello in cui si e' verificato l'ammanco, al saldo, nonche' la somma di € 100.000,00 (sempre in solido fra i medesimi) oltre agli interessi al tasso legale ex art. 1284 del codice civile, con decorrenza dalla data di pubblicazione della sentenza fino al pagamento, per «danno non patrimoniale» (all'immagine). Tale ulteriore voce di danno (non patrimoniale), e' stata liquidata dal Giudice civile in relazione ad apposita domanda in tal senso formulata da parte attrice, cioe' dalla Presidenza della Repubblica, mentre non risulta essere stata presa in alcuna considerazione dalla Procura regionale per il Lazio della Corte dei conti nell'avvio dell'azione di responsabilita', ne', quindi, dalla Sezione giurisdizionale. Conseguentemente, come si dira' in seguito, dall'«eventuale preclusione all'esercizio di un'azione quando con l'altra si sia ottenuto il medesimo bene della vita», sostenuta dalla Corte dei conti nella sentenza qui impugnata a sostegno della propria «giurisdizione», potrebbe derivare alla Presidenza della Repubblica un ulteriore danno anche in termini di mancato ristoro del pur evidente danno all'immagine subito, neppure richiesto dalla Corte dei conti. Si precisa, fra l'altro, che, mentre il Giudice ordinario, con la sentenza n. 16697 depositata il 4 agosto 2015, ha condannato in favore della Presidenza della Repubblica, in solido fra loro, per l'intero (oltre al detto danno non patrimoniale, non liquidato dalla Corte dei conti) i sigg.ri Gianni Gaetano e Alessandro Demichelis al pagamento della somma di € 4.631.691,96, oltre accessori, la Corte dei conti ha condannato il signor Gianni Gaetano al pagamento della somma di € 4.631.691,96 oltre accessori ed il signor Paolo Di Pietro, in solido con il signor Gianni Gaetano, solo limitatamente alla somma di € 550.000,00, oltre accessori (compresa nel detto importo di € 4.631.691,96). Giova peraltro ricordare, che, impregiudicato quanto sopra rilevato, che, come noto, la Corte dei conti puo' applicare il c.d. potere di «riduzione» dell'addebito previsto sin dal regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440 (art. 83), a norma del quale la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilita' puo' porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto». Tale disposizione non risulta essere stata abrogata (neppure dal Codice di giustizia contabile di cui al decreto legislativo n. 174 del 2016, in vigore, come noto, dal 7 ottobre 2016). E' quindi peraltro evidente come, anche in via generale, l'azione promossa dinanzi al Giudice ordinario possa garantire il recupero ed il ristoro di tutte le voci di danno richieste e soprattutto dell'intero danno subito e non solo di parte dello stesso (come peraltro e', nella specie, confermato ex actis, confrontando le rispettive decisioni, una delle quali, come si e' detto, non contiene alcun riferimento al danno non patrimoniale, e soprattutto risulta, nel suo complesso, assai meno garantista della possibilita' di recuperare le somme in questione, in considerazione del fatto che, come si e' detto, a differenza del Giudice ordinario, la Corte dei conti ha condannato esclusivamente il signor Gianni Gaetano al pagamento dell'intera somma di € 4.631.691,96 ed il signor Paolo Di Pietro, in solido con il signor Gianni Gaetano, solo limitatamente alla somma di € 550.000,00, (compresa nel detto importo di € 4.631.691,96). Quanto sostenuto nella sentenza qui impugnata relativamente al «coesistere delle due diverse azioni [dinanzi al Giudice ordinario e dinanzi alla Corte dei conti per danno erariale, ndr], aventi presupposti e finalita' diversi, non determina un conflitto di giurisdizioni, ma soltanto un'eventuale preclusione all'esercizio di un'azione quando con l'altra si sia ottenuto il medesimo bene della vita», sembra ancor piu' sottolineare l'interferenza nelle attribuzioni presidenziali, dal momento che, essendo gia' intervenuta la sentenza della Corte dei conti di secondo grado prima di quella del Giudice ordinario, dinanzi al quale pende tuttora l'appello, sarebbe ormai, ad avviso della Corte dei conti, sostanzialmente precluso l'ulteriore corso dell'azione intentata, per la medesima vicenda, dalla Presidenza della Repubblica, che, sua sponte, ha a suo tempo adito l'Autorita' giudiziaria ordinaria, ottenendo, in primo grado, la condanna al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. La pronuncia della Corte dei conti si sovrappone dunque a quella piu' favorevole, gia' resa dal Giudice ordinario, che crea, contrariamente, peraltro, a quanto ritenuto dalla Corte dei conti nella sentenza qui impugnata, un potenziale conflitto tra «giudicati». Oltre alla ulteriore voce di danno - non patrimoniale - riconosciuta dal Tribunale civile e non dalla sez. II Giurisdizionale centrale d'appello della Corte dei conti, e' invero sufficiente confrontare i dispositivi delle due sentenze (quella qui impugnata e quella del Tribunale ordinario di Roma, II sezione civile, n. 16997 del 4 agosto 2015, relativamente alla quale pende tuttora, come detto, il giudizio di appello dinanzi alla Corte d'appello civile di Roma) per riscontrare che la condanna dell'una e' riferita a soggetti diversi da quelli dell'altra, con cio' potendo concretare, peraltro in danno della Presidenza della Repubblica per la denegata ipotesi in cui dovesse accedersi alla tesi sostenuta dalla Corte dei conti, una sovrapposizione di decisioni. Ed invero, la Corte dei conti ha condannato «Gianni Gaetano al pagamento (...) dell'importo di euro 4.631.691,96 oltre rivalutazione monetaria dal 1° gennaio 2009 alla data di deposito della sentenza di primo grado e interessi legali sull'importo rivalutato dalla data di deposito della sentenza di primo grado al soddisfo» e «Paolo Di Pietro al pagamento (...) limitatamente alla somma di euro 550.000,00 (compresa nell'importo di euro 4.631.691,96) con rivalutazione monetaria e interessi da calcolarsi secondo le modalita' sopra indicate»; il Tribunale civile di Roma, invece, ha condannato i signori Gianni Gaetano e Alessandro Demichelis (quest'ultimo non condannato, come si e' visto, dalla Corte dei conti) al pagamento, in solido (per l'intero) fra loro, della somma di «€ 4.631.691,96 oltre alla rivalutazione monetaria ed interessi dal 1° gennaio dell'anno successivo a quello in cui si e' verificato l'ammanco al saldo», nonche' ad € 100.000,00 (sempre in solido fra i medesimi) oltre agli interessi come da dispositivo; nella stessa sede civile, e' stato ritenuto che, relativamente al Di Pietro, condannato, come si e' visto, dalla Corte dei conti, non fosse stata fornita la prova «che (...) avesse prelevato somme di denaro senza restituirle, ne' del suo coinvolgimento nella verificazione degli ammanchi, ne' la prova di tale coinvolgimento e' emersa dal processo penale» e che, «pur avendo il Di Pietro prelevato (e sempre restituito) denaro dalla cassa, non sono emersi in maniera adeguata ne' la compartecipazione consapevole alle condotte gravemente colpose e dolose del Gaetano e del Demichelis, le quali hanno determinato o non impedito gli ammanchi riscontrati, ne' l'attribuzione al Di Pietro di mansioni tali da consentire ed affermare che questi avesse posto in essere condotte commissive o omissive eziologicamente legate agli ammanchi della contabilita'». Il legislatore ha peraltro anche recentemente confermato di voler mantenere circoscritto il perimetro dei dipendenti ai quali la «notizia di danno erariale» e' riferita, con l'art. 51, comma 7, del decreto legislativo n. 174 del 2016, che cosi' recita: «La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonche' degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse, e' comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinche' promuova l'eventuale procedimento di responsabilita' per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'art. 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271». Quindi, ancora una volta, il legislatore ha riferito la notizia di danno erariale e con essa l'azione di responsabilita' ai (soli) «dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001», ed a quelli degli altri organismi ed enti ivi puntualmente indicati (con elencazione da ritenersi, anche alla luce della granitica giurisprudenza costituzionale in materia, certamente tassativa), ma non anche, per evidente ed immutato rispetto delle funzioni presidenziali, nei confronti di coloro che svolgono attivita' lavorativa ad esse funzionale. L'erroneita' del presupposto da cui parte la Corte dei conti negli atti qui impugnati risiede, evidentemente, nella confusione tra organo costituzionale e pubblica amministrazione. L'equivoco, in cui sono palesemente cadute dapprima la Procura e, successivamente, la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti poi, risulta palese: esse hanno confuso o voluto confondere, posto il chiaro tenore della sentenza, un organo costituzionale con una pubblica amministrazione e, cio' che risulta piu' grave, hanno avviato un'azione di responsabilita' nei riguardi di coloro che prestavano la propria attivita' lavorativa presso la Presidenza della Repubblica in chiara ed aperta violazione della Costituzione (con particolare riguardo agli articoli 84 e 87), per le ragioni che di seguito si illustrano. Si ritiene invero che la semplice lettura della Costituzione e della giurisprudenza costituzionale avrebbero dovuto scongiurare il presente ricorso per conflitto di attribuzione, che la Corte dei conti, nel confermare, sul punto, la sentenza di primo grado, disattendendo l'eccezione di difetto di giurisdizione, ma soprattutto nel manifestare espressamente una posizione di non condivisione della sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 129 del 1981 (cio' emerge palesemente dalle parole con cui la Corte dei conti si esprime in sentenza, ove si legge che «con la sentenza n. 129/1981, aveva (discutibilmente, ad avviso del Collegio) ritenuto di escludere il tesoriere della Presidenza della Repubblica dall'obbligo di presentare il conto giudiziale previsto dall'art. 74 del regio decreto n. 2240/1923»), sembra piuttosto aver inteso in qualche modo sollecitare. Non solo, ma nella sentenza de qua la Corte dei conti, pur ribadendo concetti non condivisibili di cui si dira' in seguito (perche' palesemente contrastanti con il principio di unitarieta' della materia contabile) precisando che i giudizi di responsabilita' non sono caratterizzati, a differenza dei giudizi di conto «da "necessarieta', ufficiosita', automaticita', continuita', pervasivita', inquisitorieta'"», ritenendoli dunque, si desume a contrario, non «necessari», mostra di voler pervicacemente insistere nella propria (fino a quel momento ancora rimediabile) invasione delle attribuzioni costituzionali della Presidenza della Repubblica, attribuzioni ulteriormente impropriamente invase dalla sopra citata nota del 22 marzo 2017, con la quale la Procura regionale per il Lazio della Corte dei conti, ha trasmesso, per l'esecuzione, la sentenza in questione. Come sopra evidenziato, il legislatore ha anche recentemente confermato di voler mantenere circoscritto il perimetro dei dipendenti ai quali la «notizia di danno erariale» e' riferita, con l'art. 51, comma 7, del decreto legislativo n. 174 del 2016, che cosi' recita: «La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonche' degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse, e' comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinche' promuova l'eventuale procedimento di responsabilita' per danno erariale nei confronti del condannato (...)». Nonostante quindi il legislatore si fosse anche medio tempore correttamente determinato a non contemplare, come in precedenza non ha mai contemplato, i dipendenti dell'Organo costituzionale nell'ambito dei dipendenti ai quali la notizia di danno erariale e' riferita, sono intervenute sia la sentenza de qua, sia la nota della Procura regionale per il Lazio, da ultimo citata, nella quale ultima viene tra l'altro menzionato l'art. 212 del Codice di giustizia contabile, ed allegata persino una circolare dell'Ufficio monitoraggio sentenze di condanna della Procura regionale per il Lazio che, la Corte dei conti, «invita» la Presidenza della Repubblica a «seguire». Risulta davvero aberrante anche solo ipotizzare che un ufficio della Corte dei conti possa monitorare l'attivita' dell'apparato funzionale all'esercizio delle attribuzioni del Presidente della Repubblica. Tali atti continuano a dimostrare l'ostinazione con cui la Corte dei conti ha deliberatamente cd anche testualmente, attesa la asserita, palesata messa in discussione di quanto affermato da codesta ecc.ma Corte nella sentenza n. 129 del 1981 - inteso colpire, impropriamente, le attribuzioni presidenziali, invadendole, tentando cosi' di incidere gravemente sull'autonomia e sull'indipendenza dell'Organo stesso. Inoltre, poiche', come sopra accennato, dai vari atti posti in essere dalla Corte dei conti, dalla sentenza n. 1354/2016 ed anche dalla lettera della Procura regionale per il Lazio del 22 marzo 2017, di trasmissione della stessa per la sua esecuzione, emerge peraltro una chiara confusione dell'organo costituzionale con una pubblica amministrazione, con conseguente, indebita ingerenza della Corte dei conti nell'autonomia costituzionale dell'organo, non risultera' irriverente effettuare, nell'odierna altissima sede, la ricostruzione che segue. Come noto, l'art. 84, terzo comma, della Costituzione, prevede che «L'assegno e la dotazione del Presidente sono determinati per legge». L'art. l della legge 9 agosto 1948, n. 1077, in attuazione dell'art. 84, terzo comma, Cost., ha previsto che «La dotazione del Presidente della Repubblica, prevista dal terzo comma dell'art. 84 della Costituzione, e' costituita dal Palazzo del Quirinale, dai fabbricati San Felice e Martinucci e collegata autorimessa siti in Roma, via, della Dataria, rispettivamente ai nn. 21, 14, nonche' dalla tenuta di Castelporziano esclusi tutti i terreni attualmente affittati, e da tutti i mobili e le pertinenze dei beni medesimi. E' altresi' assegnata alla dotazione del Presidente della Repubblica la somma annua (...) da stanziarsi nello stato di previsione della spesa del Ministero del tesoro e da corrispondersi in dodici mensilita'.». Ai sensi delle citate disposizioni, quindi: se la dotazione del Presidente e' (e non puo' che essere) determinata per legge, e se la legge ha previsto, nell'ambito della stessa, la «tenuta di Castelporziano (...) e (...) tutti i mobili e le pertinenze dei beni medesimi», e' evidente che ogni determinazione su tali beni non puo' che essere rimessa al Presidente della Repubblica; analogamente, la somma annua assegnata al Presidente della Repubblica, dell'art. 1, comma 2, della legge n. 1077/1948, ai sensi dell'art. 84, terzo comma, e' determinata dalla legge ed e' quindi obbligatoriamente stanziata, per legge, nella misura dalla stessa legge indicata. Cio' comporta che solo ed esclusivamente l'organo costituzionale puo' assumere determinazioni con riguardo a tutti i beni rientranti nella dotazione prevista dalla Costituzione ed individuata, esclusivamente nella sua concreta e complessiva consistenza, dalla legge. La Corte dei conti, nella sentenza qui impugnata, pone la questione in termini non corretti, verosimilmente per tentare di giustificare la sua indebita interferenza nelle attribuzioni presidenziali, traendo spunti da tematiche differenti, comunque non attinenti alla fattispecie: qui non si tratta, come affermato in sentenza, di riconoscere o meno «deroghe alla giurisdizione in favore di una giurisdizione domestica (o autodichia)» - come peraltro emerge chiaramente anche dalla citata ordinanza delle SS.UU. n. 26035 del 2013 con riguardo alla stessa vicenda - di negare o riconoscere la giurisdizione di un giudice in luogo di un altro, bensi' di escludere, in radice, interferenze nel libero, indipendente ed autonomo esercizio delle funzioni presidenziali, che, diversamente, verrebbe sensibilmente compromesso. La Corte dei conti, sostanzialmente, intende auto-attribuirsi quanto non previsto dalla Costituzione ed in contrasto con essa e con tutta la copiosa giurisprudenza costituzionale sopra richiamata (expressis verbis, come si e' visto, mettendo addirittura in discussione quanto ritenuto nella sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 129 del 1981), nonche' con le disposizioni normative che, nel tempo, mai hanno contemplato la Presidenza della Repubblica. La Costituzione disciplina infatti, come noto, nell'ambito della Parte II, rubricata «Ordinamento della Repubblica», nel Titolo II, tutto cio' che concerne il Presidente della Repubblica, dalle modalita' della sua elezione, alle sue funzioni; in un diverso Titolo, il III, dedicato a «Il Governo», alla Sezione II (dopo la I, dedicata al «Consiglio dei Ministri»), rubricata «La pubblica amministrazione», disciplina «Le pubbliche amministrazioni», cioe' le strutture amministrative serventi del Consiglio dei ministri e, dunque, dei singoli Ministri che ne fanno parte (ai sensi dell'art. 92, primo comma Cost., infatti, «Il Governo della Repubblica e' composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri»), prevedendo che le stesse, «in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilita' del debito pubblico» (art. 97, primo comma, Cost.). I commi successivi dell'art. 97 Cost., cosi' dispongono: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e la imparzialita' dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilita' proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.». Dalla Carta costituzionale discende quindi chiaramente la peraltro ben nota distinzione tra Presidente della Repubblica e apparato necessario per l'espletamento delle sue funzioni, qual e' il Segretariato generale, e pubblica amministrazione, ribadita dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 129 del 1981). Codesta ecc.ma Corte ha infatti affermato che «la Presidenza della Repubblica (...) abbisogna di apposito apparato per l'esercizio delle funzioni presidenziali, in piena indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato» (Corte costituzionale, 10 luglio 1981, n. 129). Non solo, ma, alla luce delle norme contenute nella Costituzione riguardanti la Corte dei conti, puo' osservarsi che, contrariamente a quanto si assume nella decisione qui impugnata, ivi si rinviene il preciso perimetro delle attribuzioni alla stessa assegnate, che non riguarda in alcun modo il Presidente della Repubblica ne', conseguentemente, la sua dotazione (intesa come «mezzi» e risorse, anche umane, necessarie per assicurare l'autonomia e l'indipendenza delle funzioni presidenziali, poiche' funzione della dotazione e' garantire una «base» all'autonomia contabile e finanziaria dell'organo costituzionale ai detti fini), ivi incluso, necessariamente, il Segretariato generale nella sua interezza, di cui il Presidente puo' e deve liberamente disporre, anche con riguardo al recupero di eventuali non trasparenti utilizzi di parte della stessa, ma di propria, indipendente ed autonoma iniziativa (come nella specie, risulta ex actis, e' peraltro avvenuto, con «risultati» maggiormente satisfattivi degli interessi della Presidenza della Repubblica, avendo la medesima chiesto ed ottenuto, nel giudizio dalla stessa attivato, anche il risarcimento del danno non patrimoniale, di cui non v'e' traccia nel giudizio dinanzi alla Corte dei conti). Ed invero, come pure e' ben noto, i commi secondo e terzo dell'art. 100 Cost. prevedono, rispettivamente, che «La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimita' sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito. La legge assicura l'indipendenza dei due istituti e dei loro componenti di fronte al Governo». Il perimetro delle attribuzioni e' dunque chiaramente definito, ed il potere/dovere di controllo altrettanto chiaramente delineato anche laddove si precisa che «La legge assicura l'indipendenza dei due istituti e dei loro componenti di fronte al Governo.». Nessun rapporto prevede la Costituzione tra la Corte dei conti ed il Presidente della Repubblica. Ove la Costituzione avesse ritenuto di estendere il controllo della Corte dei conti anche ad altri organi lo avrebbe fatto espressamente, come espressamente avrebbe, specularmente, previsto l'indipendenza dell'istituto e dei suoi componenti di fronte all'organo costituzionale; tale previsione, quindi, non sussistendo neppure in ipotesi una possibilita' di interferenza, non si e' evidentemente resa necessaria. L'art. 103 Cost. prevede poi che «La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilita' pubblica e nelle altre specificate dalla legge». E' di tutta evidenza che, essendo la dotazione del Presidente della Repubblica, prevista, nella sua doverosita' e specifica destinazione, dalla Costituzione, ed includendo la stessa tutto quanto necessario all'espletamento delle funzioni presidenziali, dunque il Segretariato generale, demandando la stessa norma costituzionale alla legge (solo) la determinazione della sua effettiva consistenza, nessun altro organo puo' ipotizzare determinazioni o usi diversi da quelli stabiliti dall'organo cui e' destinata, che non potrebbe assolvere le proprie delicatissime funzioni - connotate, peraltro, da un livello di massima sicurezza e segretezza quale quello puntualmente delineato nella sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 1 del 2013 che, diversamente opinando, verrebbe impropriamente compromesso - se non con una struttura del tutto peculiare qual e' il Segretariato generale, e men che meno sindacare ex ante o ex post cio' che la Costituzione, sic, gli attribuisce. Una ulteriore norma costituzionale di interesse (sia pur indirettamente) in questa sede e' poi contenuta nell'art. 113 Cost., ai sensi del quale «Contro gli atti della pubblica amministrazione e' sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non puo' essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa». Anche in questo caso, la Costituzione si riferisce, all'evidenza, alla sola pubblica amministrazione, non anche agli atti adottati nell'ambito della piena indipendenza e autonomia- anche organizzativa - del Presidente della Repubblica. Cio' che si intende qui rilevare e', in buona sostanza l'interferenza, che a termini di Costituzione risulta di palmare evidenza esclusa in radice, della Corte dei conti nei riguardi dell'Organo costituzionale e supremo. Poiche' la Costituzione distingue e disciplina puntualmente e diversamente il Presidente della Repubblica dalla pubblica amministrazione, struttura, quest'ultima, «servente» il Consiglio dei ministri ed i singoli Ministri che di esso fanno parte, contraddittorio e radicalmente asistematico risulterebbe ritenere la struttura «servente» dell'organo costituzionale, non disciplinata dalla Costituzione, perche' evidentemente demandata, sotto ogni profilo, al Presidente della Repubblica, rientrante nell'ambito del perimetro, piuttosto chiaramente individuato dalla Costituzione stessa, della pubblica amministrazione, diverse essendo le funzioni del Presidente della Repubblica e quelle del Governo inteso come comprensivo, a termini di Costituzione, del «Presidente del Consiglio» e della «pubblica amministrazione», disciplinati, entrambi, e non a caso, dal Titolo III Cost., diverso dal Titolo II, nel quale l'elezione e le funzioni presidenziali, come si e' visto, sono regolate. Ne' potrebbe sostenersi, a fronte della logica costituzionale come sopra richiamata, che possa affermarsi, come nella sentenza qui impugnata si sostiene, che nei confronti dei dipendenti della Presidenza della Repubblica «vigano i principi comuni», poiche' tali soggetti fanno parte della struttura senza la quale l'organo costituzionale non potrebbe esplicare le proprie funzioni, qual e', appunto, il Segretariato generale, perche', come si e' visto, la Costituzione, ove utilizza locuzioni quali, ad esempio «rapporto di servizio» o «rapporto di impiego», lo fa con esclusivo riguardo al personale appartenente alla «pubblica amministrazione», non includente il personale dedicato all'organo costituzionale, al quale l'organo attribuisce quindi regole, diritti, doveri e responsabilita', poiche' tale personale svolge compiti serventi rispetto a specifiche funzioni, quali sono, per Costituzione, quelle presidenziali, non assimilabili a quelle svolte presso le «pubbliche amministrazioni». Corollario di quanto sopra, e': che, essendo il Presidente della Repubblica organo costituzionale autonomamente previsto e distintamente regolato dalla Costituzione, le norme in tema di pubblica amministrazione, non riguardano, ne' possono riguardare, in assenza di copertura costituzionale, il Presidente della Repubblica, ne' il personale a tale organo costituzionale dedicato; che la dotazione del Presidente della Repubblica, prevista per l'assolvimento delle sue funzioni, appartiene esclusivamente, per diretta previsione costituzionale, di cui la legge puo' definire esclusivamente la consistenza complessiva, all'organo costituzionale, e non ad altri, comprensiva, quindi, di ogni determinazione su tutto cio' che essa, per Costituzione, «contiene» (in termini di risorse, anche ovviamente umane); che ogni iniziativa assunta da altro organo, diverso dal Presidente della Repubblica, comunque incidente su funzioni presidenziali, solo al medesimo spettanti, non puo' che risultare invasiva delle attribuzioni, dell'indipendenza e dell'autonomia del Presidente della Repubblica; come ritenuto da codesta ecc.ma Corte nella sentenza n. 129 del 1981, la «spiccata autonomia» di cui godono gli organi costituzionali, «si esprime anzitutto sul piano normativo, nel senso che agli organi in questione compete la produzione di apposite norme giuridiche, disciplinanti l'assetto ed il funzionamento dei loro apparati serventi; ma non si esaurisce nella formazione, bensi' comprende - coerentemente - il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l'osservanza. Rispetto alla materia del presente conflitto, cio' significa da un lato che spetta alle Camere del Parlamento ed alla Presidenza della Repubblica dettare autonomamente le disposizioni regolamentari che ognuno di tali organi ritenga piu' opportune per garantire una corretta gestione delle somme affidate ai rispettivi tesorieri; e comporta d'altro lato che rientri nell'esclusiva disponibilita' di detti organi, senza di che la loro autonomia verrebbe dimezzata, l'attivazione dei corrispondenti rimedi, amministrativi od anche giurisdizionali»; che pertanto, con gli atti qui impugnati, la Corte dei conti, confondendo l'organo costituzionale con le pubbliche amministrazioni, in palese contrasto con la Costituzione e con la giurisprudenza costituzionale, ha esorbitato dai propri poteri, interferendo con quelli dell'Organo costituzionale, tra i quali «l'attivazione dei corrispondenti rimedi, amministrativi od anche giurisdizionali» (Corte cost., sentenza n. 129 del 1981, cit.). Gli atti adottati dalla Corte dei conti, dall'avvio della azione di responsabilita', sino alla sentenza della sez. II Giurisdizionale centrale d'appello n. 1354 del 2016, nonche', da ultimo, la piu' volte citata nota della Procura regionale per il Lazio del 22 marzo 2017, risultano manifestamente invasivi della sfera di attribuzioni riservata dalla Costituzione all'organo costituzionale. Dall'illegittimo esercizio, da parte della Corte dei conti, di poteri spettanti al Presidente della Repubblica, consegue la peraltro grave - tenuto anche conto delle eccezioni in proposito anche dinanzi ad essa formulate nelle varie fasi del giudizio, volte a sollecitare una re melius perpensa da parte della stessa Corte dei conti, nonche' del regolamento di giurisdizione proposto dalla Presidenza della Repubblica, di cui si e' detto supra - menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnata al Presidente della Repubblica. Ed invero, le risorse assegnate all'organo costituzionale sono funzionali all'espletamento delle sue funzioni presidenziali, che, essendo uniche non possono essere sindacate ne' «condivise» con (e men che meno auto-attribuite da) terzi, se non per determinazione dell'organo stesso. Rientra nella esclusiva disponibilita' dell'organo costituzionale attivare i rimedi ritenuti piu' idonei a tutela dei beni assegnatigli. L'esenzione dalla giurisdizione contabile rappresenta anche un riflesso dell'autonomia normativa di cui l'organo stesso dispone, autonomia che non puo' non comprendere l'applicazione delle norme stesse. Il Segretariato generale e', come noto, la struttura di ausilio all'organo costituzionale nell'espletamento delle sue funzioni, indispensabile perche' le stesse possano essere svolte. La legge n. 1077/1948, in attuazione di quanto previsto dall'art. 84, terzo comma, Cost., prevede: all'art. 1, che «E' altresi' assegnata alla dotazione del Presidente della Repubblica la somma annua di (...)»; all'art. 3, comma l, che: «E' istituito il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, nel quale sono inquadrati tutti gli uffici e i servizi necessari per l'espletamento delle funzioni del Presidente della Repubblica e per l'amministrazione della dotazione prevista dall'art. 1», dotazione che, lo si ribadisce, ex art. 84, terzo comma, Cost. appartiene al Presidente della Repubblica); all'art. 4, che «Lo stato giuridico ed economico e gli organici del personale addetto alla Presidenza sono stabiliti con decreto del Presidente della Repubblica». Se cosi' e', la locuzione «stato giuridico ed economico» non puo' non riferirsi anche al regime delle responsabilita', poiche', ogni riflesso anche negativo dell'utilizzo del quantum assegnato al Presidente della Repubblica nell'ambito dello stanziamento riferito e specificamente destinato alla sua dotazione, non potrebbe che avere riflessi esclusivamente su di essa, quindi sull'espletamento delle sue funzioni; conseguenza di cio' e' che e' precipuo ma anche esclusivo interesse del Presidente della Repubblica recuperare, per l'ottimale funzionamento della struttura indispensabile per lo svolgimento delle sue funzioni, quanto eventualmente indebitamente alla stessa sottratto. Alla luce del contesto costituzionale, sopra richiamato, risulta di palmare evidenza che il Segretariato generale, presso cui «sono inquadrati gli uffici e i servizi necessari per l'espletamento delle funzioni del Presidente della Repubblica e per l'amministrazione della dotazione» del Presidente della Repubblica, entrambe costituzionalmente previste (funzioni e dotazione), costituiscono un unicum inscindibile per Costituzione, posto che, senza di esso il Capo dello Stato non potrebbe svolgere le funzioni presidenziali, che a loro volta non potrebbero essere svolte in assenza della pure prevista dotazione (dunque, di ogni risorsa facente parte della stessa). E ancora, l'art. 9 della medesima legge prevede che «Per le esigenze degli uffici del Segretariato generale puo' essere distaccato personale di amministrazioni pubbliche», con cio' evidentemente allineandosi, puntualmente, al tessuto costituzionale, che chiaramente distingue l'organo costituzionale ed il suo personale da quello delle pubbliche amministrazioni. Codesta ecc.ma Corte ha costantemente definito il Presidente della Repubblica «organo costituzionale, titolare di attribuzioni non riconducibili alla sfera di competenza dei tre tradizionali poteri dello Stato, in ordine alle quali il solo Presidente puo' promuovere conflitti risolvibili da questa Corte» (cfr., tra le molte, Corte costituzionale ordinanza, 12 novembre 1980, n. 150). Ed e' proprio la sua non riconducibilita' ad alcuno dei tre poteri dello Stato ad escludere radicalmente ogni interferenza da parte di uno di essi (nella specie quello giudiziario), e, conseguentemente, la sindacabilita' di quanto solo al medesimo organo spettante. Si ricorda, altresi', ad ogni buon conto, che codesta ecc.ma Corte ha, in piu' occasioni, ribadito che (cfr., tra le molte, Corte costituzionale, sentenza 4 marzo 2008, n. 46, riguardante peraltro la ben diversa materia penale e riguardante non il Presidente della Repubblica, bensi' un parlamentare) «la puntuale attribuzione della giurisdizione in relazione alle diverse fattispecie di responsabilita' amministrativa non opera automaticamente in base all'art. 103 della Costituzione, ma e' rimessa alla discrezionalita' del legislatore ordinario (fra le molte, si vedano le sentenze n. 24 del 1993, n. 773 del 1988, n. 641 e n. 230 del 1987, n. 241 e n. 189 del 1984), e che la Corte dei conti non e' "il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela dei danni pubblici" (sentenza n. 641 del 1987)». E nella specie, come noto, trattasi del Presidente della Repubblica la cui immunita' e le cui prerogative - e relative, specifiche eccezioni - sono previste dalla Costituzione (art. 90 Cost.). Con la pronuncia qui impugnata, la Corte dei conti ha invero affermato la propria «giurisdizione» su «dipendenti» del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, con cio' assimilando impropriamente il peculiare stato giuridico dei dipendenti dell'organo costituzionale a quello dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (nonche' confondendo, come si e' detto supra, evidentemente, l'organo costituzionale con una pubblica amministrazione), e, con la nota del 22 marzo 2017 della Procura regionale, addirittura invitato la Presidenza della Repubblica a «seguire» le indicazioni contenute in una circolare dell'Ufficio monitoraggio sentenze di condanna (!). Nel dettaglio, le affermazioni sopra riportate, contenute primariamente ma non solo nella sentenza n. 1354/2016, appaiono in frontale contrasto con la giurisprudenza costituzionale qui di seguito richiamata. Gia' nel 1968 codesta ecc.ma Corte (sent. n. 143 del 1968) ebbe ad enunciare il principio di «inviolabilita'» della gestione degli organi costituzionali: «Il controllo della Corte dei conti, com'e' noto, si esercita, allo scopo di assicurare il rispetto delle leggi, sull'azione del Governo e dei rami della pubblica amministrazione che dipendono da esso (art. 100 della Costituzione e T.U. 12 luglio 1934, n. 1214). Ne e' esente l'attivita' di quegli organi, come il Capo dello Stato, il Parlamento e questa Corte, la cui posizione, ai vertici dell'ordinamento costituzionale, e' di assoluta indipendenza: anche in materia di spese, poiche' esse sono necessarie al funzionamento dell'organo, un riscontro esterno comprometterebbe il libero esercizio delle funzioni politico-legislative o di garanzia costituzionale che gli sono attribuite. Percio' nell'art. 100 della Costituzione e nel T.U. delle leggi sulla Corte dei conti e' chiaro che il controllo investe gli atti non in quanto siano amministrativi in senso sostanziale, ma per la loro provenienza dal Governo o da altri organi della pubblica amministrazione; tanto e' vero che proprio per questa provenienza vi sono soggetti anche i decreti-legge e le leggi delegate e che gli altri decreti presidenziali vi sono sottoposti poiche' "emanano" dai "Ministeri" (art. 17 T.U.), cioe' dal Governo: insomma e' la natura dell'organo, e non la natura dell'atto indipendentemente da quella, a legittimare il c.d. riscontro. Cosicche', se e' discutibile la configurazione della Corte dei conti quale organo ausiliario "del Governo", non sembra dubbio che il suo controllo investa solo l'azione dell'esecutivo, della quale appunto e' diretto a garantire la legalita': difatti l'art. 100 della Costituzione e' posto entro il titolo III, dedicato al Governo, e il T.U. non conosce che i Ministri e le amministrazioni dipendenti (articoli 15, 16, 17, 21 e art. 1 legge 21 marzo 1953, n. 161). In particolare l'impiego di somme destinate ad uno dei tre organi costituzionali e' soggetto a sindacato fino a quando sia atto del Governo; ma, appena esse siano giunte a disposizione dell'organo, gli ulteriori atti di spesa, comunque si concretino, sono atti interni di quest'ultimo e percio' sottratti al riscontro». Risulta di palmare evidenza quindi, che nella specie sia stato impropriamente attivato proprio quel «riscontro esterno» che ha concretato una non consentita compromissione del «libero esercizio delle funzioni» presidenziali (Corte cost., sentenza n. 143 del 1968, cit.). Va peraltro ad ogni buon conto ricordato che, in un precedente non molto risalente, la Camera dei deputati ha deliberato di non ottemperare ad una richiesta istruttoria della Procura della Corte dei conti (Ufficio di Presidenza del 13 aprile 2010). Da quanto detto segue che tutti i profili sopra richiamati (incluse le ipotesi di responsabilita' per danno erariale) sono rimessi, in via esclusiva, all'autonomia costituzionale dell'organo. Occorre poi ricordare che la giurisprudenza costituzionale ha affermato la sussistenza di deroghe espresse alla giurisdizione, ammissibili «soltanto nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello Stato, e percio' situati ai vertici dell'ordinamento», con cio' includendo, con tutta evidenza, la Presidenza della Repubblica (sentenza n. 110 del 1970). L'orientamento da ultimo richiamato e' stato portato a ulteriore compimento dalla sentenza n. 129 del 1981, in cui codesta ecc.ma Corte ha espressamente affermato l'esenzione della Presidenza della Repubblica dalla giurisdizione contabile, atteso che «la disciplina dettata dalle norme costituzionali scritte, quanto al regime organizzativo e funzionale degli apparati serventi gli organi costituzionali, non e' affatto compiuta e dettagliata». Sicche', «ad integrazione di esse ed in corrispondenza alle peculiari posizioni degli organi medesimi, si sono dunque affermati principi non scritti, manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi (o comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe): vale a dire, nella forma di vere e proprie consuetudini costituzionali» (sentenza n. 129 del 1981). E' stato quindi affermato che il principio dell'art. 103 Cost., circa la giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilita' pubblica, pur conferendo una capacita' espansiva alla disciplina dettata dal regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214 (Approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti) per gli agenti contabili dello Stato, trova limiti specifici (sentenze Corte costituzionale n. 110 del 1970 e n. 102 del 1977), tra i quali il piu' evidente e' quello individuato da codesta ecc.ma Corte nella consuetudine costituzionale posta a presidio dell'autonomia organizzativa e contabile della Presidenza della Repubblica (sentenza n. 129 del 1981). Cio' in virtu' di una deroga - che poggia sulla richiamata consuetudine costituzionale - rispetto alla generale sottoposizione alla giurisdizione contabile, operante, per ragioni storiche e di salvaguardia della piena autonomia costituzionale degli organi supremi, nei confronti delle Camere parlamentari, della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale (Corte cost., sentenze n. 110 del 1970, n. 129 del 1981, n. 209 del 1994, n. 292 del 2001). Nonostante la citata giurisprudenza costituzionale, la Corte dei conti, nella sentenza de qua, in palese contrasto con quanto piu' volte ribadito da codesta ecc.ma Corte, ha affermato che «(...) come ampiamente argomentato dai primi giudici, va confermata, per ambedue i dipendenti, la qualita' di «agente contabile» ai sensi e per effetti di cui degli articoli 73-74 del regio decreto n. 2440 del 1923 e dell'art. 178 del regio decreto n. 827 del 1924. E' stato infatti ormai da tempo chiarito che elementi necessari e sufficienti perche' un soggetto rivesta la qualifica di agente contabile sono soltanto il carattere pubblico dell'ente per il quale tale soggetto agisca e del denaro o del bene oggetto della sua gestione; resta, invece, irrilevante il titolo in base al quale la gestione e' svolta, che puo' consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, in una concessione amministrativa, in un contratto o perfino mancare del tutto, potendo il relativo rapporto modellarsi indifferentemente secondo gli schemi generali, previsti o disciplinati dalla legge, ovvero discostarsene in tutto o in parte (cfr., ex multis, Cassazione SS.UU. n. 13310/2010)». Verosimilmente la Corte dei conti intendeva fare riferimento, nella decisione qui impugnata, all'ordinanza delle Sezioni Unite n. 13330 - e non 13310 - del 2010, ma il richiamo risulta oltremodo inconferente rispetto alla fattispecie, sol che si consideri che essa riguardava un ricorso ex art. 41 codice di procedura civile proposto da una Societa' privata (precisamente la «Lottomatica Videolot Rete s.p.a.») e le SS.UU, nel ribadire, conformemente a casi analoghi, il principio richiamato dalla Corte dei conti, non potevano che riferirsi, come infatti, come risulta per tabulas si sono riferite - ad una «concessionaria dell'Azienda Autonoma dei Monopoli dello Stato» e per tale motivo e' stato ritenuto che rivestisse «la qualifica di agente della riscossione tenuto al versamento di quanto riscosso e, dunque, al conto giudiziale degli introiti complessivamente derivanti dalla gestione telematica del gioco lecito, compreso il compenso del concessionario». Quindi la Corte dei conti risulta aver in buona sostanza «assimilato» l'organo costituzionale, ancorche' quoad effectum, ad una concessionaria di una pubblica amministrazione. Dai sopra richiamati principi, affermati dalla giurisprudenza costituzionale, discende invece che i dipendenti degli organi costituzionali, in caso di sussistenza del nesso funzionale tra i fatti dedotti in giudizio e l'esercizio delle loro funzioni, sono sottratti alla giurisdizione contabile della Corte dei conti anche con riferimento al giudizio di responsabilita' per danno erariale del giudice contabile. In tal senso, si richiamano, oltre alla gia' citata sentenza n. 129 del 1981, anche le sentenze di codesta ecc.ma Corte n. 68 del 1971 e - soprattutto - n. 209 del 1994. In quest'ultima pronuncia, e' stato infatti espressamente riconosciuto che «i dipendenti della Camera dei deputati e del Senato, oltreche' della Presidenza della Repubblica, sono sottratti alla giurisdizione contabile della Corte dei conti», diversamente dai dipendenti delle assemblee legislative regionali che invece «sono soggetti tanto al giudizio di conto quanto a quello di responsabilita'». Anche la dottrina, pur nelle differenti valutazioni, ritiene unanimemente che sia posto a fondamento del richiamato orientamento della giurisprudenza costituzionale il riconoscimento di una consuetudine, risalente alla sentenza n. 129 del 1981, la quale determinerebbe una generale esenzione dalla giurisdizione contabile per i supremi organi dello Stato, quantomeno pacificamente riconosciuta con riguardo al giudizio di conto (per tutti: Sandulli, 1977). Non potrebbe in ogni caso affermarsi che il principio di diritto teste' richiamato, ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, sia opponibile alla Corte dei conti soltanto in relazione al giudizio di conto, e non anche in sede di giudizio di responsabilita' per danno erariale. Cio' per diversi ordini di ragioni. Vale, anzitutto, richiamare il sopra richiamato principio dell'unitarieta' della materia contabile e delle conseguenti funzioni attribuite dalla Costituzione alla Corte dei conti, sicche', per gli organi costituzionali, all'esenzione dal giudizio di conto non puo' che corrispondere l'esenzione anche dal giudizio di responsabilita'. Infatti, con riguardo, da un lato, alla funzione di controllo e, dall'altro, alla funzione giurisdizionale (tanto in relazione al giudizio di conto, quanto in relazione al giudizio di responsabilita'), la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato la funzione unitaria esplicata dalla Corte dei conti nei sistema. In particolare, con riguardo a quest'ultimo profilo, codesta ecc.ma Corte ha cosi' ricostruito le funzioni in parola: «Il secondo comma dell'art. 103 Cost. e' stato piu' volte interpretato da questa Corte (sentt. nn. 17/85; 189/84; 241/84; 102/77), nel senso che alla Corte dei conti e' riservata la giurisdizione sulle materie di contabilita' pubblica, la quale va intesa nel senso tradizionalmente accolto dalla giurisprudenza e dalla legislazione, cioe' come comprensiva sia dei giudizi di conto che di responsabilita' a carico degli impiegati e degli agenti contabili dello Stato e degli enti pubblici non economici che hanno il maneggio del pubblico denaro; che la materia di contabilita' pubblica non e' definibile oggettivamente ma occorrono apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all'oggetto ma anche rispetto ai soggetti; che, comunque, essa appare sufficientemente individuata nell'elemento soggettivo che attiene alla natura pubblica dell'ente (Stato, regioni, altri enti locali e amministrazione pubblica in genere) e nell'elemento oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro e del bene oggetto della gestione» (sentenza n. 641 del 1987, punto n. 2 del «Considerato in diritto»). Sicche', nella giurisprudenza costituzionale, tanto le funzioni giurisdizionali quanto le funzioni di controllo attribuite alla Corte dei conti rispondono alle imprescindibili esigenze di garanzia funzionali a garantire una visione unitaria della finanza pubblica, ai fini della tutela dell'equilibrio finanziario e di osservanza del patto di stabilita' interno e degli obiettivi da conseguire (ex plurimis, sentenze n. 267 del 2006, n. 179 del 2007, n. 252 del 2013, n. 39 del 2014). Nello stesso senso, si e' espressa la stessa giurisprudenza della Corte dei conti, ribadendo, in piu' pronunce, la «funzione unitaria esplicata dalla Corte dei conti» (sentenza delle Sezioni riunite n. 30 del 2014), affermando, tra l'altro, che se l'esercizio della funzione di controllo e di quella di giurisdizione, «nettamente distinte per natura, per i procedimenti adottati, per i fini perseguiti e per gli effetti, fosse corrispondente ad una duplice attribuzione funzionale, quel rapporto dovrebbe essere risolto in termini di concorrenza e autonomia», mentre «l'esercizio dell'attivita' di controllo e dell'attivita' giurisdizionale da parte delle competenti sezioni della Corte costituisce in effetti svolgimento della unitaria funzione affidata alla Corte dei conti dalle norme costituzionali» (sentenza n. 1653 del 1987 della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione siciliana; nello stesso senso, tra le tante, la sentenza n. 89 del 1990 della stessa sezione giurisdizionale siciliana). In secondo luogo, guardando alla specifica disciplina e alle prassi che connotano l'attivita' degli organi costituzionali, occorre osservare che, contrariamente alle amministrazioni pubbliche, non e' prevista alcuna forma di controllo preventivo di legittimita' sugli atti. Da cio' segue l'impossibilita' di ottenere la tradizionale forma di esenzione dalla responsabilita' amministrativa legata al superamento del controllo preventivo di legittimita' (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994) che esclude colpe gravi per atti registrati. Sarebbe del tutto incongruo sottoporre un organo alla sola responsabilita' amministrativo-contabile quando esso non e' sottoposto al controllo. Le due funzioni, per ragioni di certezza del diritto e per la struttura del nostro diritto amministrativo, sono interconnesse e devono essere necessariamente compresenti. Simul stabunt simul cadent. Sicche' non potrebbe sostenersi la tesi della distinzione tra giudizio di conto, per il quale varrebbe l'esenzione della Presidenza della Repubblica dall'azione della Corte dei conti, e giudizio di responsabilita', a cui potrebbero, in tesi, essere viceversa assoggettati i dipendenti dell'organo costituzionale, atteso che la mancanza di forme di controllo preventivo sugli atti comporta necessariamente l'impossibilita' di configurare la responsabilita' amministrativo-contabile dei dipendenti degli organi costituzionali, con la conseguenza che principi e forme unitarie di controllo sull'impiego del denaro pubblico, stante la consuetudine che determina l'esenzione dalla giurisdizione contabile, non possono che essere rimesse all'autonomia dell'argano costituzionale stesso. In definitiva, alla stregua dei richiamati principi di diritto, l'esclusione dalla giurisdizione contabile riguarda tutti i pubblici dipendenti nella specie della Presidenza della Repubblica, che ad essa sarebbero soggetti, come individuati, in particolare dall'art. 44 del richiamato testo unico delle leggi sulla Corte dei conti n. 1214 del 1934, e quindi non soltanto tesorieri, ricevitori, cassieri e agenti incaricati di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare denaro pubblico o di tenere in custodia valori e materie di proprieta' dello Stato, ma anche di «coloro che si ingeriscono anche senza legale autorizzazione negli incarichi attribuiti ai detti agenti». In conclusione, la stessa giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente corroborato l'impostazione degli organi costituzionali qui richiamata, sul rilievo della distinzione tra la peculiare condizione di autonomia delle Camere (e della Presidenza della Repubblica), da un lato, e l'autonomia delle altre assemblee rappresentative dall'altro. Al riguardo, codesta ecc.ma Corte ha infatti affermato, ad esempio, che «l'analogia tra le attribuzioni delle assemblee regionali e quelle parlamentari non significa identita': le prime si svolgono a livello di autonomia, anche se costituzionalmente garantite, le seconde a livello di sovranita'; e, dunque, non sono autonomamente applicabili agli organismi assembleari delle regioni le prerogative riservate agli organi supremi dello Stato e le speciali norme derogatorie che vi si riconnettono» (cosi', la sentenza n. 245 del 1995; nonche' gia', nello stesso senso, le sentenze n. 66 del 1964; n. 110 del 1970; n. 35 del 1981; n. 209 del 1994). Con cio', la giurisprudenza costituzionale ha ribadito l'esenzione dai controlli e dalla giurisdizione contabile, in tutte le sue forme, per il Parlamento e la Presidenza della Repubblica, atteso che ai richiamati organi costituzionali «vengono garantite forme di indipendenza e prerogative ben piu' ampie di quelle concesse ai consigli regionali» (sentenza n. 66 del 1964; nonche' sentenze n. 129 del 1981 e n. 209 del 1994). Codesta ecc.ma Corte ha espressamente sviluppato gli assunti richiamati anche sul piano dei controlli e dei giudizi affidati alla Corte dei conti, affermando che «non e' possibile [...] considerare estesa ai consigli regionali la deroga, rispetto alla generale sottoposizione alla giurisdizione contabile, che si e' ritenuto operare, per ragioni storiche e di salvaguardia della piena autonomia costituzionale degli organi supremi, nei confronti delle Camere parlamentari, della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale» (sentenza n. 292 del 2001, con richiami anche alle sentenze n. 110 del 1970 e n. 129 del 1981; nonche' sentenza n. 39 del 2014). Per le stesse ragioni, si spiega perche' i supremi organi rappresentativi dello Stato (Parlamento e Presidente della Repubblica) siano stati esclusi dalle rinnovate forme di controllo volte a garantire il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a prevenire squilibri di bilancio, espressamente introdotti dall'art. 1 del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonche' ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 7 dicembre 2012, n. 213 (al riguardo, si veda la sentenza n. 39 del 2014 della Corte costituzionale). In senso favorevole al pieno riconoscimento dell'esenzione della Presidenza della Repubblica e dei dipendenti dell'organo costituzionale dalla giurisdizione contabile, puo' altresi' richiamarsi la giurisprudenza costituzionale che ha ripetutamente affermato, contrariamente a quanto nella sentenza impugnata si vorrebbe sostenere, che la giurisdizione della Corte dei conti, nelle materie di contabilita' pubblica, e' solo tendenzialmente generale (tanto che nell'ordinamento pre-costituzionale la si qualificava giurisdizione speciale) e che sono possibili deroghe con apposite disposizioni legislative, specie nella materia della responsabilita' amministrativa non di gestione (tra le tante, sentenze n. 129 del 1981, n. 641 del 1987, n. 24 del 1993 e n. 46 del 2008). In altre parole, codesta ecc.ma Corte ha piu' volte avuto occasione di affermare che la puntuale attribuzione della giurisdizione in relazione alle diverse fattispecie di responsabilita' amministrativa non opera automaticamente in base all'art. 103 della Costituzione, ma e' rimessa alla discrezionalita' del legislatore ordinario (ex plurimis, sentenze n. 189 e n. 241 del 1984, n. 230 e n. 641 del 1987, n. 24 del 1993, n. 46 del 2008) e che la Corte dei conti non e' «il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela dei danni pubblici» (sentenze n. 641 del 1987 e n. 46 del 2008, punto n. 5 del «Considerato in diritto»). In considerazione della sopra richiamata indisponibilita' delle attribuzioni costituzionali di cui si controverte (sentenze n. 44 del 1957, n. 77 del 1958, n. 58 del 1959, n. 3 del 1964, n. 171 del 1971, a cui si richiamano le piu' recenti sentenze n. 389 del 1995 e n. 95 del 2003), attribuzioni che, come ritenuto da codesta ecc.ma Corte «non sono disponibili, perche' discendono direttamente da norme costituzionali, con la conseguenza che ad esse non puo' applicarsi l'istituto dell'acquiescenza» (sentenza n. 369 del 2010), si chiede altresi' che venga assentita la tutela cautelare. Si formula pertanto istanza di sospensione cautelare degli atti impugnati mediante ricorso ai poteri attribuiti a codesta ecc.ma Corte dagli articoli 35 e 40 della legge n. 87 del 1953. E' ben vero che, come noto, le fattispecie normativamente previste teste' richiamate sono rispettivamente riservate ai giudizi in via di azione e ai conflitti di attribuzione tra Stato e regioni e tra regioni. Nondimeno, deve ritenersi possibile ricorrere all'interpretazione in via analogica dei poteri di sospensione in caso di atto non legislativo immediatamente lesivo delle attribuzioni dell'organo costituzionale che, in mancanza, risulterebbero menomate. Anche a prescindere da ogni considerazione in merito all'effettivita' del diritto alla tutela giurisdizionale, ripetutamente qualificato dalla giurisprudenza di codesta Corte come principio supremo dell'ordinamento (ex plurimis, sentenze n. 238 e n. 39 del 2014, punto n. 6.3.9.8 del Considerato in diritto; n. 26 del 1999, punto 3.1. del Considerato in diritto; nonche' n. 526 del 2000; n. 266 del 2009; n. 10 del 1993; n. 232 del 1989; n. 18 del 1982; n. 98 del 1965), che verrebbe menomato se venisse privato del suo coessenziale profilo della tutela in via cautelare, deve ritenersi, che, contrariamente al problematico ricorso ai poteri cautelari di sospensione della legge nei giudizi in via incidentale, nei conflitti tra poteri debba ritenersi implicitamente ammissibile la tutela cautelare (cfr. ordd. n. 171 del 1997 e n. 137 del 2000), ben potendosi applicare in via analogica le norme previste per i conflitti tra Stato regione e tra enti.