TRIBUNALE DI BRINDISI 
                           Sezione Penale 
 
    Il Tribunale di Brindisi, in funzione di giudice  dell'esecuzione
penale, composto dai magistrati: 
          dott. Francesco Cacucci - Presidente rel.; 
          dott. Maurizio Rubino - giudice; 
          dott. Ambrogio Colombo - giudice; 
    Letti  gli  atti  del  procedimento  di  esecuzione  in  epigrafe
indicato nei confronti di M. C., nato  a......  il.......  difeso  di
fiducia dagli avv.ti D. Vitale e S.G. Dellomonaco; 
    Sentite le parti all'udienza del 17 aprile 2019; 
 
                               Osserva 
 
Premesso in fatto. 
    Con sentenza del 25  marzo  2015  il  Tribunale  di  Brindisi  ha
condannato il M. alla pena di due anni e quattro mesi  di  reclusione
in relazione ai delitti di cui agli  articoli  110,  314,  comma  1°,
codice penale commesso il 3 agosto 2011 (Capo B), nonche' al  delitto
di cui agli articoli 110, 81, 56  e  314,  comma  1°,  codice  penale
commesso il 22 luglio 2011 ed il 13 agosto 2011 (Capo D). 
    La sentenza e' divenuta irrevocabile il 13 marzo 2019. 
    In data 5 aprile 2019 il pubblico ministero in sede ha emesso nei
confronti del M. - ex art. 656 comma 1° codice di procedura penale  -
l'ordine di esecuzione per la carcerazione  in  relazione  alla  pena
detentiva su indicata, facendo applicazione dell'art.  1,  comma  6°,
lettera b) della legge n. 3/2019; in esecuzione di tale ordine il  M.
risulta attualmente detenuto presso un istituto penitenziario. 
    Ha  proposto  incidente  di  esecuzione  il  difensore   del   M.
richiedendo: 
        in via  principale  dichiararsi  «la  temporanea  inefficacia
dell'ordine di carcerazione emesso nei confronti del M.»; 
        in via subordinata, «sollevare la questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 656 comma 9° codice di procedura penale come
integrato dall'art. 4-bis, comma 1°, dell'ordinamento  penitenziario,
recentemente modificato dall'art. 1, comma 6°, della legge n. 3/2019,
per contrasto con i parametri di cui agli articoli 3, 25, 27,  111  e
117, comma 2°, della Costituzione». 
    Il difensore istante ha dedotto, al riguardo: 
        che l'art. 1 comma 6°, lettera b) legge n. 3/2019, in  vigore
dal 21 gennaio 2019, ha novellato l'art. 4-bis della legge n.  354/75
previa   inclusione   trai   reati    ostativi    alla    sospensione
dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione anche il delitto  di  cui
all'art. 314, comma 1°, codice penale; 
        che, di conseguenza, il M., pur essendo stato  condannato  ad
una pena inferiore a quattro anni, atteso il rinvio operato dall'art.
656 comma 9 lettera A) codice  di  procedura  penale  all'art.  4-bis
dell'Ordinamento penitenziario, come modificato  dall'art.  1,  comma
6°, lettera b) della  legge  n.  3/2019,  non  ha  visto  sospendersi
l'ordine di esecuzione della pena nei suoi confronti; 
        che l'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge  n.  3/2019  -
che ha inserito nell'elenco  dell'art.  4-bis  ordinanza  pen.  anche
l'art. 314, comma 1°, codice penale - non  prevede  alcuna  norma  di
diritto intertemporale; 
        che  nonostante  le  norme   dell'Ordinamento   penitenziario
abbiano  natura  processuale,  trattasi  in  realta'  di  una   norma
«sostanziale», con la conseguenza che la sua applicazione retroattiva
- cioe' anche in relazione a delitti commessi prima della sua entrata
in vigore - comporterebbe una  «evidente  lesione  del  principio  di
affidamento e calcolabilita' delle conseguenze penali che e' posto  a
base del principio  di  irretroattivita'  in  materia  penale»,  come
stabilito dall'art. 25, comma 2° della  Cost.,  nonche'  dall'art.  7
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali; 
        che «il richiamo esplicito alle forme collaborative  previste
nel secondo comma dell'art. 323-bis  codice  penale  implica  che  la
norma debba  essere  interpretata  necessariamente  come  rivolta  al
futuro, giacche' una diversa lettura determinerebbe le lesione di  un
fondamentale diritto di difesa  nei  confronti  di  un  soggetto  che
avendo commesso un reato prima della entrata in  vigore  della  nuova
norma, non conosceva  ne'  poteva  conoscere  gli  effetti  ulteriori
riconosciuti  in  fase  esecutiva  di  una  sua  eventuale   condotta
collaborativa nella fase di merito»; 
        che, infine, «la retroattivita' della  disciplina  appare  in
contrasto anche con le regole del giusto  processo  (art.  111  della
Cost. e 6 CEDU) ; infatti la modifica retroattiva viola l'affidamento
dell'imputato che magari ha optato per il rito  ordinario  prevedendo
che la pena sarebbe rimasta entro  i  limiti  di  operativita'  delle
misure alternative». 
    A scioglimento della riserva di cui  all'udienza  del  17  aprile
2019,  ritiene  il   Tribunale   doversi   sollevare   questione   di
legittimita' costituzionale in relazione agli articoli 24, 25,  comma
2°,  117,  1°  comma,  della  Cost.,  7  della  Convenzione  per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in
avanti «CEDU»), come interpretato dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, con riferimento all'art. 1, comma  6°,  lettera  b)  della
legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in  cui,  modificando  l'art.
4-bis comma 1° della legge 26 luglio 1975, n. 354,  norma  richiamata
dall'art. 656, comma 9°, lettera a) codice di  procedura  penale,  si
applica anche al delitto di cui all'art. 314, comma 1°, codice penale
commesso anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge. 
    In punto di rilevanza della questione, sussistono  i  presupposti
per l'applicazione dell'art. 1, comma 6°, lettera b) della  legge  n.
3/2019; infatti: 
        M. C. e' stato  condannato  con  sentenza  del  Tribunale  di
Brindisi del 25 marzo 2015, irrevocabile il 13 marzo 2019, alle  pena
di due anni e quattro mesi di reclusione in relazione a piu'  delitti
di cui all'art. 314, comma 1°, codice penale commessi in Brindisi nel
luglio e nell'agosto del 2011; 
        in data 5 aprile 2019 il pubblico ministero in sede ha emesso
a carico del M. l'ordine di esecuzione per  la  carcerazione  per  la
ridetta pena detentiva; cio' ha fatto in virtu' dell'art. 4-bis della
legge 26 luglio 1975, n. 354 che, come modificato dall'art. 6,  comma
1°, lettera b) della legge 9  gennaio  2019,  n.  3,  ha  incluso  il
delitto di cui all'art. 314, comma 1° del codice penale tra  i  reati
ostativi di «prima fascia» che impediscono la sospensione dell'ordine
di esecuzione della pena; 
        senza la modifica operata dall'art. 1, comma 6°,  lettera  b)
della  legge  n.  3/2019  -  intervenuta,  si  ribadisce,  in   epoca
successiva alla commissione dei delitti per vi e' stata condanna - il
M.  avrebbe  potuto  richiedere  la   concessione   di   una   misura
extramuraria senza un periodo di osservazione in carcere. 
    Osservato,  in  punto  di  non   manifesta   infondatezza   della
questione. 
1 - L'art. 1, comma 6°, lettera b) della legge 9 gennaio 2019,  n.  3
ha modificato l'art. 4-bis, comma 1°, della legge 26 luglio 1975,  n.
354,  ricomprendendo  tra   i   reati   ostativi   alla   sospensione
dell'esecuzione di cui all'art. 656, comma 5°,  codice  di  procedura
penale, taluni delitti contro la pubblica amministrazione tra i quali
quello di peculato, nell'ipotesi di cui al  comma  1°  dell'art.  314
c.p. 
    La condanna  per  una  delle  fattispecie  elencate  non  potra',
pertanto, piu' essere «sospesa» e, per l'effetto,  potra'  consentire
l'accesso alle misure alternative solo a fronte  dell'accoglimento  -
da parte del magistrato di sorveglianza - dell'istanza  proposta  dal
condannato durante l'esecuzione della  pena  detentiva,  accoglimento
subordinato  alla  collaborazione  del  condannato  ai  sensi   degli
articoli  58-ter  dell'Ordinamento  penitenziario  (ossia   dopo   la
condanna definitiva), o dell'art. 323-bis, comma  2°,  codice  penale
(norma, quest'ultima, che prevede  come  circostanza  attenuante  «la
collaborazione» in relazione alle fattispecie previste dagli articoli
318, 319, 319-ter,  319-quater,  320,  322,  322-bis  codice  penale;
dunque non per il peculato). 
    In assenza di una disciplina  transitoria,  l'applicazione  della
disposizione in commento e' regolata dal principio del «tempus  regit
actum»; infatti, per consolidato orientamento della giurisprudenza di
legittimita', le disposizioni  concernenti  l'esecuzione  delle  pene
detentive e le misure  alternative  alla  detenzione  non  riguardano
l'accertamento del  reato  e  l'irrogazione  della  pena,  bensi'  le
«modalita' esecutive della stessa»  e,  pertanto,  nel  caso  in  cui
manchi una disciplina intertemporale, sono suscettibili di  immediata
applicabilita' anche ai fatti commessi in epoca precedente, in quanto
sottratte alle regole dettate in  materia  di  successione  di  norme
penali nel tempo dall'art. 2 del codice penale e dall'art.  25  della
Costituzione. 
    Questo principio e' stato espressamente affermato  da  Cassazione
SS.UU. n. 24561 del 30 maggio 2006: 
        «Le  disposizioni   concernenti   l'esecuzione   delle   pene
detentive e le misure alternative alla  detenzione,  non  riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma  soltanto  le
modalita' esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali
sostanziali e  pertanto  (in  assenza  di  una  specifica  disciplina
transitoria), soggiacciono al principio «tempus regit actum»,  e  non
alle regole dettate in materia di successione  di  norme  penali  nel
tempo  dall'art.  2  del  codice  penale,  e   dall'art.   25   della
Costituzione. (In applicazione  di  tale  principio,  le  S.U.  hanno
ritenuto che, in un caso in cui vi era stata condanna per il  delitto
di violenza sessuale, la sopravvenuta inclusione di tale delitto, per
effetto dell'art. 15 della legge 6 febbraio 2006, n. 38,  tra  quelli
previsti dall'art. 4-bis  dell'ordinamento  penitenziario  in  quanto
tali, e non piu' soltanto  come  reati-fine  di  un'associazione  per
delinquere,  comportasse  l'operativita',  altrimenti  esclusa,   del
divieto della sospensione dell'esecuzione, ai  sensi  dell'art.  656,
comma nono lettera a), codice di procedura penale, non essendo ancora
esaurito il relativo procedimento esecutivo al  momento  dell'entrata
in vigore della  novella  legislativa)»;  nello  stesso  senso  cfr.:
Cassazione n. 37578 del 3 febbraio 2016; Cassazione n. 52578  dell'11
novembre 2014; Cassazione n. 6910 del 14 ottobre 2011; Cassazione  n.
11580 del 5 febbraio 2013; Cassazione n. 46924 del 9  dicembre  2009;
Cassazione n. 29155 del 10 giugno 2008; Cassazione n.  34040  del  22
settembre 2006; Cassazione n. 33062 del 19 settembre 2006; Cassazione
n. 25113 dell'11 luglio 2006; Cassazione n. 24767 del 5 luglio  2006;
Cassazione n. 31430 del 22 luglio 2006; Cassazione  n.  30792  del  6
giugno 2006. 
    Per opportuna completezza si segnala che la  Corte  d'appello  di
Milano  (ordinanza  del  27  marzo  2019),  proprio  in  adesione  al
richiamato  consolidato  orientamento  della   S.C.,   dovendo   fare
applicazione della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 3/2019,
ha ritenuto «priva di rilevanza ogni questione  di  legittimita'  che
muova dal presupposto che non puo' trovare  applicazione  retroattiva
una legge che modifichi in senso sfavorevole al reo la disciplina  di
istituti che in vario modo incidano sul trattamento penale». 
2 -  Secondo  il  «diritto  interno»,  quindi,  le  disposizioni  che
disciplinano l'esecuzione della pena e  le  misure  alternative  alla
detenzione  non  attengono  ne'  alla  cognizione   del   reato   ne'
all'irrogazione  delta  pena,  bensi'  alle  modalita'  esecutive  di
questa, tanto da non essere soggette, in caso di successione di norme
diverse, alle regole stabilite  dall'art.  2  codice  penale  ne'  al
principio di irretroattivita' delle  modifiche  in  peius,  bensi'  a
quelle vigenti al momento della loro applicazione. 
    Il  Tribunale  ritiene,  tuttavia,  che  le  eccezioni  stabilite
dall'art. 656, comma 9°, lettera a)  codice  di  procedura  penale  -
attraverso il richiamo all'art. 4-bis legge n. 354/75 come modificato
dall'art. 1, comma 6°, lettera b)  legge  n.  3/2019  -  alla  regola
generale della  sospensione  dell'ordine  di  esecuzione  della  pena
detentiva prevista dal comma 5°  della  stessa  norma,  non  incidano
esclusivamente sulle «modalita' esecutive della pena» ma anche  sulla
sua effettiva portata e natura, poiche' impongono al  condannato  che
si trovi nelle condizioni per accedere ad una misura alternativa alla
detenzione  carceraria  una  temporanea  anticipazione   del   regime
detentivo («un assaggio di pena»,  e'  stato  detto  con  espressione
icastica), in attesa delle decisioni del magistrato  di  sorveglianza
sul possibile accesso ad una di tali misure; il tutto, peraltro,  con
possibili frizioni con la finalita' rieducativa della  pena  prevista
dall'art. 27 della Costituzione. 
    Vale osservare,  su  quest'ultimo  punto,  che  come  di  recente
ribadito  da  Corte  costituzionale  n.   41/2018,   la   sospensione
automatica dell'ordine di esecuzione e' conseguente alla sentenza  n.
569/1989 con cui il Giudice delle leggi estese a chi  si  trovava  in
stato di liberta' la  possibilita'  di  accedere  all'affidamento  in
prova, riservato in precedenza alla sola popolazione carceraria;  «il
legislatore allora si avvide che sarebbe stato in linea di  principio
incongruo disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe poi
potuto godere di una misura specificamente pensata  per  favorire  la
risocializzazione fuori dalle mura del carcere e giunse a  perseguire
al massimo grado l'obiettivo di risparmiare il carcere al condannato,
sostituendo, con la legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche  all'art.
656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio  1975,  n.
354, e successive modificazioni),  l'art.  656  codice  di  procedura
penale e introducendo l'automatica sospensione dell'esecuzione  della
pena detentiva, entro un limite pari a  quello  previsto  per  godere
della misura alternativa». 
    D'altra parte, nemmeno pare ultroneo ricordare che il legislatore
aveva   limitato   l'applicabilita'   «ai   soli    reati    commessi
successivamente  all'entrata  in  vigore  della  legge»  in  sede  di
emanazione del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella
legge 12 luglio 1991, n. 203, che circoscrisse l'applicabilita' della
norma limitativa della  concessione  dei  benefici  penitenziari  per
taluni delitti (di cui all'art. 58-quater, 4° comma, della  legge  n.
354/1975); la previsione, in quel caso, di una  specifica  disciplina
intertemporale equivale all'implicito riconoscimento del principio di
irretroattivita' di una norma meno favorevole, anche se  «concernente
l'esecuzione delle  pene  detentive  e  le  misure  alternative  alla
detenzione». 
    Ed  allora  l'art.  4-bis  della  legge  n.  354/75,   richiamato
dall'art. 656, comma  9,  lettera  a)  codice  di  procedura  penale,
benche' «nominalmente» processuale, nella «sostanza» ha un  contenuto
«afflittivo» per le ricadute sulla liberta' personale del condannato,
nei termini evidenziati. 
3 - Se, dunque, nella sostanza ci si trova al cospetto di una  «norma
penale»  a  tutti  gli  effetti,  l'applicazione  della  deroga  alla
sospensione dell'ordine di carcerazione anche per  chi  abbia  subito
condanna per il delitto di peculato commesso  prima  dell'entrata  in
vigore della legge n. 3/2019, implica una violazione  degli  articoli
25, comma 2° e 117, comma 1°,  della  Cost.,  integrato  dall'art.  7
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali cosi' come interpretato dalla Corte europea dei
diritti dell'uomo; diversamente si consentirebbe agli Stati membri di
applicare misure che ridefiniscono retroattivamente la portata  e  la
natura della pena inflitta a detrimento della persona condannata. 
    Come gia' rilevato nelle ordinanze che  hanno  sollevato  analoga
questione di legittimita' costituzionale (Tribunale  di  sorveglianza
di Venezia, ordinanza dell'8 aprile 2019; Corte di appello di  Lecce,
ordinanza del 4 aprile 2019; giudice per le indagini  preliminari  di
Napoli, ordinanza del 2 aprile  2019),  ai  fini  del  riconoscimento
delle  garanzie  convenzionali  la   Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
attribuisce    alla    nozione    di    «pena»    una    connotazione
«sostanzialistica»,   privilegiando   alla   qualificazione   formale
assegnata dall'ordinamento una valutazione in ordine  al  tipo,  alla
durata, agli effetti  nonche'  alle  modalita'  di  esecuzione  della
sanzione o della misura applicata. 
    In  particolare,   l'esigenza   della   verifica   dell'effettivo
carattere «sostanziale» della norma  oggetto  di  scrutinio  e,  come
tale, suscettibile di rientrare «nella protezione offerta dall'art. 7
CEDU», e' stata affermata dalla Corte europea dei  diritti  dell'uomo
nella sentenza 21 ottobre 2013, «Del Rio Prada c/ Spagna». 
    Nell'occasione, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilita'  con
l'art. 7 della Convenzione europea per la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali della c.d.  «doctrina  Parot»
(si trattava di un diverso e successivo orientamento  espresso  dalla
giurisprudenza  di  legittimita'  spagnola  circa  l'applicazione  di
alcuni benefici penitenziari), la Corte europea dei diritti dell'uomo
ha evidenziato che: «per  rendere  effettiva  la  protezione  offerta
dall'art. 7, la  Corte  deve  rimanere  libera  di  andare  oltre  le
apparenze e valutare da sola se una particolare  misura  equivale  in
sostanza  a  una   «pena»   ai   sensi   di   questa   disposizione»;
conseguentemente,  la  Corte  ha  riconosciuto  rilevanza  anche   al
mutamento giurisprudenziale  riguardante  un  istituto  qualificabile
come «liberazione anticipata» in quanto  suscettibile  di  comportare
effetti peggiorativi, giungendo a sostenere che «ai fini del rispetto
del principio dell'affidamento del consociato circa la prevedibilita'
della sanzione penale, occorre avere  riguardo  non  solo  alla  pena
irrogata ma anche alla sua esecuzione». 
4 - La stessa Corte costituzionale ha, in piu' occasioni,  esteso  la
garanzia del regime di «retroattivita'», sancito dall'art. 25,  comma
2°,  Cost.  a  varie  disposizioni   a   carattere   «intrinsecamente
punitivo», cio' in linea con la giurisprudenza  della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo  che  da  tempo  sottolinea  la  necessita'  di
«andare al di la' delle qualificazioni giuridiche» per  valutare  «se
una determinata misura costituisce  pena»  (CEDU,  9  febbraio  1995,
Welch c.  Regno  Unito);  ne  costituiscono  esempi  le  sentenze  n.
196/2010 e n. 223/2018. 
    Con la prima pronuncia  la  Corte  costituzionale  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale, «per violazione dell'art. 117, primo
comma, della Cost., dell'art. 186, comma 2, lettera c), cod.  strada,
come modificato dall'art. 4, comma 1, lettera b), del d.l. 23  maggio
2008, n. 92, convertito, con modificazioni,  dall'art.  1,  comma  1,
della legge 24 luglio 2008, n. 125,  limitatamente  alle  parole  «ai
sensi dell'art. 240, secondo comma, del codice penale»; infatti,  «la
confisca in esame, al di la' della  sua  qualificazione  formale,  ha
natura essenzialmente sanzionatoria, e non di misura di sicurezza  in
senso proprio, e riveste una  funzione  meramente  repressiva  e  non
preventiva»; conseguentemente, «il riferimento all'art. 240,  secondo
comma, codice penale - contenuto nella  censurata  disposizione,  che
prevede, in caso di condanna o di  patteggiamento  per  il  reato  di
guida sotto  l'influenza  dell'alcool,  l'obbligatoria  confisca  del
veicolo con il quale stato commesso il reato, salvo  che  il  veicolo
stesso  appartenga  a  persona  estranea   al   reato   -   determina
l'applicazione retroattiva della  confisca  anche  a  fatti  commessi
prima dell'entrata in  vigore  del  decreto-legge  n.  92  del  2008,
secondo il regime proprio delle misure di  sicurezza  che,  ai  sensi
dell'art. 200 codice penale, sono regolate dalla legge in  vigore  al
tempo della loro applicazione». Tuttavia, «l'applicazione retroattiva
di una  misura  propriamente  sanzionatoria  viola  il  principio  di
irretroattivita' della pena sancito  dall'art.  7  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali ed esteso dalla Corte europea dei  diritti  dell'uomo  a
tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo». 
    Con la sentenza n. 223/2018, il giudice delle leggi ha dichiarato
«l'illegittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 6, della legge 18
aprile 2005,  n.  62  (Disposizioni  per  l'adempimento  di  obblighi
derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee. Legge
comunitaria 2004), nella parte in cui stabilisce che la confisca  per
equivalente prevista dall'art. 187-sexies del decreto legislativo  24
febbraio 1998, n. 58 (testo unico delle disposizioni  in  materia  di
intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli  8  e  21  della
legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorche' il  procedimento
penale  non  sia  stato  definito,  anche  alle  violazioni  commesse
anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62
del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente
all'intervento  di  depenalizzazione   risulti   in   concreto   piu'
sfavorevole  di  quello   applicabile   in   base   alla   disciplina
previgente». 
    Questa conclusione si fonda sulla premessa secondo cui: 
        «E'  generalmente  riconosciuto  che  dall'art.  25,  secondo
comma, Cost. («Nessuno puo' essere punito se  non  in  forza  di  una
legge che sia entrata in vigore prima del fatto  commesso»)  discende
un duplice divieto: un divieto di  applicazione  retroattiva  di  una
legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante;  e
un divieto di applicazione retroattiva di una legge che punisca  piu'
severamente un fatto gia' precedentemente incriminato.  Tale  secondo
divieto e', del resto, esplicitato nelle parallele disposizioni delle
carte internazionali  dei  diritti  umani  e,  piu'  in  particolare,
nell'art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, della Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali («Parimenti, non puo'  essere  inflitta  una  pena  piu'
grave di quella applicabile al momento  in  cui  il  reato  e'  stato
commesso»);  nell'art.  15,  paragrafo  1,  secondo  periodo,   della
Convenzione internazionale sui diritti civili e politici,  firmata  a
New York il 16 dicembre 1966, ratificata e resa esecutiva  in  Italia
con la legge 25  ottobre  1977,  n.  881  (Patto  internazionale  sui
diritti civili e politici), («Cosi' pure, non  puo'  essere  inflitta
una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato e'
stato  commesso»);  nonche'  nell'art.  49,  paragrafo   1,   seconda
proposizione,  della  Carta  dei  diritti  fondamentali   dell'Unione
europea,  proclamata  a  Nizza  il  7  dicembre  2000  e  adattata  a
Strasburgo il  12  dicembre  2007  (CDFUE),  che  riproduce  in  modo
identico la formulazione contenuta nella Convenzione europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali.
Entrambi i divieti in parola trovano applicazione  anche  al  diritto
sanzionatorio amministrativo, al quale pure si estende,  come  questa
Corte ha gia' in piu' occasioni riconosciuto  (sentenze  n.  276  del
2016 e n. 104 del 2014), la fondamentale garanzia di irretroattivita'
sancita dall'art. 25, secondo comma, Cost., interpretata  anche  alla
luce delle  indicazioni  derivanti  dal  diritto  internazionale  dei
diritti umani, e in  particolare  dalla  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo relativa all'art. 7  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali. Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere
punitivo  si  impone   infatti   la   medesima   esigenza,   di   cui
tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto,  di
non sorprendere la  persona  con  una  sanzione  non  prevedibile  al
momento della commissione del fatto». 
5 - La modifica in senso sfavorevole  della  disposizione  della  cui
legittimita' costituzionale si dubita, inoltre, vanifica il legittimo
«affidamento» del condannato per  il  delitto  di  peculato  commesso
sotto la vigenza  dell'originario  art.  4-bis  legge  n.  354/75,  a
vedersi sospeso l'ordine di esecuzione della pena detentiva nel  caso
- come quello in scrutinio - di condanna inferiore a quattro anni  di
reclusione. 
    L'incidenza della modifica normativa in oggetto  sull'affidamento
da  parte  dell'imputato/condannato  ad  una   regola   di   giudizio
accessibile e prevedibile - da apprezzarsi in termini  di  violazione
degli articoli  117  della Cost.  e  7  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e'
stata evidenziata dalla Corte  di  cassazione;  in  un  obiter  della
sentenza n. 12541 del 14 marzo 2019, i giudici di legittimita'  hanno
affermato che: 
        «non  parrebbe  manifestamente  infondata  la  prospettazione
difensiva secondo la quale, l'avere il legislatore cambiatoin itinere
le  «carte  in  tavola»  senza  prevedere  alcuna  norma  transitoria
presenti tratti  di  dubbia  conformita'  con  l'art.  7  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali e, quindi, con l'art.  117  della  Cost.,  la'  dove  si
traduce... nel passaggio «a sorpresa» - e, dunque, non prevedibile  -
da una sentenza patteggiata senza «assaggio di pena» ad una  sanzione
con necessaria incarcerazione, giusta il gia'  rilevato  operare  del
combinato disposto degli articoli 656, comma 9, lettera a), codice di
procedura penale e 4-bis ordinanza pen. D'altronde in  precedenza  il
legislatore aveva adottato  disposizioni  transitorie  finalizzate  a
temperare il principio  di  immediata  applicazione  delle  modifiche
all'art. 4-bis, comma  1°,  legge  23  dicembre  2002,  n.  279  (che
inseriva i reati di cui agli articoli 600, 601 e  602  codice  penale
nell'art. 4-bis cit.)  limitandone  l'applicabilita'  ai  soli  reati
commessi  successivamente  all'entrata   in   vigore   della   legge»
«(nell'occasione la  questione  e'  stata  dichiarata  non  rilevante
poiche' non afferente l'impugnazione della sentenza  di  applicazione
della pena oggetto di quel giudizio). 
6 - Da queste premesse discende che  il  procedimento  di  esecuzione
riguardante l'ordine di carcerazione adottato ai sensi dell'art.  656
comma 1° del codice di procedura penale in relazione ad una  condanna
per uno dei reati ostativi introdotti dall'art. 1, comma 6°,  lettera
b) legge n. 3/2019 - tra cui, come detto, il delitto di peculato - ha
titolo per rientrare nel raggio di  azione  dell'art.  6  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali in materia di «processo equo»;  cio'  in  considerazione
dello stretto legame tra la nozione di «pena» di cui all'art. 7 della
Convenzione e quella di «accusa in materia penale» ex art. 6 citato. 
    Ad esempio, nella sentenza Gurguchiani c/ Spagna del 15  dicembre
2009, la Corte europea dei  diritti  dell'uomo  ha  qualificato  come
«pena» - ex art. 7 della Convenzione -  la  sostituzione  della  pena
detentiva con quella dell'espulsione con divieto  di  reingresso  per
dieci anni nel territorio dello Stato  applicata,  in  forza  di  una
legge sopravvenuta rispetto alla condanna definitiva, ad un  imputato
che stava espiando una pena detentiva; conseguentemente, la Corte  ha
riscontrato una violazione dell'art. 6  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali: 
        «e' dunque  possibile  concludere  che  al  pari  della  pena
comminata in occasione della condanna dell'interessato, si  configuri
come pena anche la sostituzione  della  pena  detentiva  di  diciotto
mesi, inflitta al ricorrente, con la  misura  dell'espulsione  e  del
divieto di ingresso nel territorio per la durata di dieci anni, senza
che il medesimo fosse  stato  interrogato  e  senza  tener  conto  di
circostanze diverse dall'applicazione quasi  automatica  della  nuova
versione dell'art. 89 del codice penale in vigore dal 2003». 
    La Corte europea dei diritti dell'uomo  ha  gia'  avuto  modo  di
ritenere  in  contrasto  con  la  garanzia  convenzionale   stabilita
dall'art. 6 citato taluni procedimenti giurisdizionali previsti dalla
legislazione italiana (le censure riguardavano la mancata  previsione
della pubblicita' delle udienze); cio' e' avvenuto  con  riguardo  al
procedimento applicativo delle misure  di  prevenzione  (sentenza  13
novembre 2007, Bocellari e Rizza c/ Italia; sentenza 17 maggio  2011,
Capitani e Campanella c/ Italia; sentenza 2 febbraio 2010,  Leone  c/
Italia; sentenza 5 gennaio 2010,  Bongiorno  e/  Italia;  sentenza  8
luglio 2008, Perre c/ Italia) ed al procedimento per  la  riparazione
dell'ingiusta detenzione (sentenza  10  aprile  2012,  Lorenzetti  c/
Italia). 
    Quanto  alla  possibilita'  di  attribuire  al  procedimento   di
esecuzione penale la natura di giudizio che verte sul  fondamento  di
un'«accusa penale», gli organi della Convenzione europea dei  diritti
dell'uomo avevano distinto tra la procedura relativa  all'«esecuzione
della sentenza» (che esulerebbe dall'ambito applicativo dell'art.  6;
cfr. decisione del 7 maggio 1990 Aldrian c/Austria)  e  la  procedura
riguardante la «fissazione della misura della condanna gia' inflitta»
(che, viceversa, vi rientrerebbe; cfr. sentenza  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali 5 luglio 2001 Phillips c/ Regno Unito). 
    Sull'argomento, con la gia' citata  sentenza  nel  caso  Del  Rio
Prada c/ Spagna, la Grande Camera della Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
seppure  in  relazione  all'applicabilita'  dell'art.  7  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali   con   riferimento   a   mutamenti    giurisprudenziali
suscettibili   di   incidere    sull'esecuzione    della    pena    e
sull'ottenimento  di  benefici  penitenziari  -   ha   operato   «una
distinzione tra la misura che costituisce in sostanza una «pena» e la
misura relativa all'«esecuzione» o all'«applicazione» della pena.  Di
conseguenza, quando la natura e lo scopo di una misura riguardano  la
riduzione di una pena o un cambiamento  nel  sistema  di  liberazione
condizionale, tale misura non fa parte  integrante  della  «pena»  ai
sensi dell'art. 7 (si vedano, tra le altre, Hosein  c.  Regno  Unito,
nn. 26293/95, decisione della Commissione del 28 febbraio 1996, Grava
c. Italia, n. 43522/98, § 51, 10 luglio 2003, Kafkaris, sopra citata,
§ 142, Scoppola c.  Italia  (n.  2)  [GC],  n.  10249/03,  §  98,  17
settembre 2009, e M c. Germania, n.  19359/04,  §  121,  17  dicembre
2009)». 
    La Corte, tuttavia, non ha mancato di rilevare che «nella pratica
la distinzione tra le  due  non  e'  sempre  netta  (Kafkaris,  sopra
citata, § 142, e Gurguchiani»). 
    Ed  invero,  come  e'  stato  condivisibilmente  evidenziato   in
dottrina,  non  vi  sarebbero  ostacoli  ad  estendere  le   garanzie
dell'art. 6 Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali anche ad istituti  rientranti
nel  «procedimento  di  esecuzione»  che  concorrono  a   determinare
l'effettiva durata della privazione della liberta' da  scontare;  tra
questi ultimi possono  annoverarsi,  oltre  al  procedimento  di  cui
all'art. 671 del codice di procedura penale relativo all'applicazione
della continuazione in sede esecutiva, anche quelli in cui si discuta
della  validita'  e/o   dell'efficacia   del   titolo   esecutivo   o
dell'ordirle di carcerazione, apparendo, diversamente,  irragionevole
offrire all'imputato tutta una serie  di  garanzie  nel  processo  di
cognizione, per poi sottrargliele proprio nella fase  in  cui  devono
essere determinati  gli  effetti  sulla  sua  persona  dell'eventuale
condanna. 
7 - La Corte costituzionale ha offerto utili  indicazioni  in  ordine
alla qualificazione  di  una  misura  come  «pena»  o  come  relativa
all'«esecuzione»  o  all'«applicazione»  della  pena,   in   funzione
dell'estensione delle garanzie sul «processo equo»; ci  si  riferisce
alle   questioni   di   legittimita'    costituzionale    riguardanti
procedimenti  camerali  in  cui  sia  «in  gioco»  un  bene  primario
dell'individuo quale la liberta' personale. 
    In ben  tre  circostanze  la  Consulta  ha,  infatti,  esteso  le
garanzie previste dall'art. 6 Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali a procedimenti di
«esecuzione penale», ossia disciplinati dagli articoli 666  e  ss.gg.
codice di procedura penale; con le sentenze nn. 93/2010  e  135/2014,
la Corte ha, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittime - per
contrasto con l'art. 117, 1° comma, Cost. - le disposizioni  relative
al procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione  (art.
4 legge n. 1423/56)  ed  al  procedimento  per  l'applicazione  delle
misure di sicurezza (articoli 666, comma  3°,  678,  comma  1°,  679,
comma 1° c.p.p.) nella parte in cui non consentono, su istanza  degli
interessati, che le procedure si svolgano  nelle  forme  dell'udienza
pubblica; sulla stessa linea si colloca la sentenza n.  97/2015,  che
ha dichiarato l'illegittimita'  costituzionale  degli  articoli  666,
comma 3°, 678, comma 1°, codice di procedura penale, nella  parte  in
cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento
davanti  al  Tribunale  di  sorveglianza,  nelle   materie   di   sua
competenza, si svolga nelle forme dell'udienza pubblica. 
    L'avere ricondotto i richiamati procedimenti camerali  nel  solco
della  norma  convenzionale  sul  «processo   equo»   sottintende   e
presuppone, necessariamente, l'affermazione che tali procedure  hanno
natura di giudizi che vertono sul fondamento di  un'«accusa  penale»;
non a caso la Corte ha evidenziato: 
        che «si tratta di un  procedimento  all'esito  del  quale  il
giudice e' chiamato ad esprimere un giudizio  di  merito,  idoneo  ad
incidere in  modo  diretto,  definitivo  e  sostanziale  su  un  bene
primario  dell'individuo,  costituzionalmente  tutelato,   quale   la
liberta' personale» (sentenza n. 135/2014); 
        che «si tratta di provvedimenti in tema di  esecuzione  della
pena distinti ed ulteriori rispetto a  quelli  adottati  in  sede  di
cognizione -  anche  se  ad  essi  ovviamente  collegati  -  i  quali
incidono, spesso in modo particolarmente  rilevante,  sulla  liberta'
personale dell'interessato» (sentenza n. 95/2017). 
    Atteso il gia' evidenziato  stretto  legame  tra  la  nozione  di
«accusa in materia penale» ex  art.  6  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  e
quella di «pena» ex art. 7 Convenzione europea  per  la  salvaguardia
dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,   ove   al
procedimento di esecuzione penale azionato  ex  art.  666  codice  di
procedura penale avverso l'ordine di carcerazione emesso dal pubblico
ministero ai sensi  dell'art.  656  codice  di  procedura  penale  si
riconoscesse la natura di un giudizio che  verte  sul  fondamento  di
un'«accusa penale», natura «penale» non potrebbe conseguentemente che
assegnarsi alla disposizione di cui all'art. 656, comma 9 lettera a),
cosi' come integrato dall'art. 1,  comma  6°,  lettera  b)  legge  n.
3/2019 che ha modificato l'art.  4-bis  della  legge  n.  354/75  nei
termini suindicati. 
    Non e' revocabile in dubbio, invero, che anche in relazione  agli
effetti derivanti dalla disposizione in scrutinio la «posta in gioco»
- per usare l'efficace espressione  contenuta  nelle  sentenze  della
Corte costituzionale nn. 134/2015 e  97/2015  -  sia  particolarmente
elevata; come premesso, infatti, le conseguenze dell'applicazione  di
tale norma si traducono in una anticipazione della pena detentiva che
comporta  la  privazione  della  liberta'  personale  attraverso   la
carcerazione, anche se il condannato  risultera'  meritevole  di  una
misura alternativa. 
8  -  Da  ultimo,  e'   stato   condivisibilmente   evidenziato   che
l'applicazione retroattiva della disposizione  peggiorativa  potrebbe
comportare una violazione del diritto di difesa (art. 24 della Cost.)
in ordine alla effettuazione di strategie processuali che  non  siano
vanificate o alterate  da  successive  modifiche  delle  «regole  del
gioco»; si pensi al caso di chi,  imputato  per  il  delitto  di  cui
all'art. 314, comma 1,  codice  penale,  abbia  optato  per  un  rito
alternativo confidando su di una condanna  a  pena  rientrante  nella
soglia della  sospensione  dell'ordine  di  carcerazione  e  che  per
effetto della novella potrebbe  inoltrare  una  richiesta  di  misura
alternativa solo in corso di esecuzione della detenzione carceraria. 
9 - E' noto che le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo
non  sono  equiparabili  a  quelle  della  Corte  di  Giustizia   del
Lussemburgo,  adita  in  via  pregiudiziale  o  nell'ambito  di   una
procedura di infrazione. 
    Il giudice ordinario, quindi, non puo' risolvere il contrasto tra
legge interna e norma convenzionale evidenziato dalla  Corte  europea
dei diritti dell'uomo, provvedendo  egli  stesso  a  disapplicare  la
prima, presupponendo cio' il riconoscimento di un primato delle norme
contenute nella Convenzione e/o delle sentenze  della  Corte  europea
dei  diritti  dell'uomo,  analogo  a  quello  conferito  al   diritto
dell'Unione europea ed alle sentenze della Corte  di  giustizia,  che
incidono   direttamente   nell'ordinamento   nazionale   e    possono
determinare  addirittura  la  disapplicazione  delle  norme   interne
eventualmente contrastanti. 
    La giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sentenze 348  e
349  del  2007,  e'  costante  nell'affermare  che  «le  norme  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali - nel significato loro attribuito  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per  dare  ad
esse interpretazione e applicazione (art. 32, 1, della Convenzione) -
integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro   costituzionale
espresso dall' art. 117, comma 1°, della Cost., nella  parte  in  cui
impone  la  conformazione  della  legislazione  interna  ai   vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n.  1  e  113  del
2011; nn. 138, 187 e 196 del 2010; nn. 311 e 317 del 2009; n. 39  del
2008). 
    La Consulta ha anche chiarito che «l'art. 117 della Cost.,  comma
1°, ed in particolare l'espressione «obblighi internazionali» in esso
contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche
diverse da quelle comprese nella previsione degli articoli 10  ed  11
Cost. Cosi' interpretato, l' art. 117, comma  Cost.,  ha  colmato  la
lacuna  prima  esistente  rispetto   alle   norme   che   a   livello
costituzionale    garantiscono    l'osservanza     degli     obblighi
internazionali pattizi. La conseguenza e' che  il  contrasto  di  una
norma nazionale con una norma  convenzionale,  in  particolare  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, si traduce in  una  violazione  dell'art.  117
comma 1° Cost.» (sentenza n. 311/2009, richiamata nella  sentenza  n.
236/2011). 
    In presenza di un contrasto tra una norma  interna  e  una  norma
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali, pero', «il giudice nazionale comune deve
preventivamente verificare la praticabilita' di  una  interpretazione
della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a  tutti  i
normali strumenti di ermeneutica giuridica» (sentenze n. 113/2011, n.
93/2010, nn. 239 e 311 del 2009). 
    L'esito negativo di tale verifica e il contrasto non  componibile
in via interpretativa impongono al giudice ordinario - che  non  puo'
disapplicare la norma interna ne' farne applicazione, per il ritenuto
contrasto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali e quindi con la  Costituzione
-  di  sottoporre  alla  Consulta  la   questione   di   legittimita'
costituzionale in riferimento all'art. 117, comma 1°, Cost. (sentenza
n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311  del  2009),  attraverso  un
rinvio pregiudiziale, con la conseguenza che l'eventuale operativita'
della norma convenzionale, cosi come interpretata dalla Corte europea
dei diritti  dell'uomo,  deve  passare  attraverso  una  declaratoria
d'incostituzionalita' della normativa interna di  riferimento  o,  se
del caso, l'adozione di una sentenza interpretativa o additiva. 
    Competera', inoltre, al  giudice  delle  leggi,  ove  accerti  il
denunciato contrasto tra norma  interna  e  norma  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali, non risolvibile in via interpretativa, verificare se la
seconda, che si colloca pur sempre ad un livello  sub-costituzionale,
si ponga eventualmente in  conflitto  con  altre  norme  della  Carta
fondamentale, ipotesi questa che portera'  ad  escludere  l'idoneita'
della norma convenzionale ad integrare  il  parametro  costituzionale
considerato (sentenze nn. 113 e 303 del 2011; n. 93 del 2010; n.  311
del 2009; nn. 348 e 349 del 2007). 
10 - Delineati i rapporti tra Convenzione europea per la salvaguardia
dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  e  diritto
interno, tornando al tema oggetto di scrutinio, ritiene il  Tribunale
che non sia superabile in via interpretativa il riscontrato contrasto
tra l'art. 7 Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali e l'art. 1, comma 6°, lettera
b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui,  modificando
l'art. 4-bis comma 1° della legge 26 luglio  1975,  n.  354  -  norma
richiamata dall'art. 656, comma 9°, lettera a)  codice  di  procedura
penale - si applica anche al delitto di cui all'art. 314,  comma  I°,
codice penale commesso  anteriormente  all'entrata  in  vigore  della
medesima legge. 
    A questa conclusione si perviene sulla base della  considerazione
che,  come  evidenziato  in  premessa,  per  il   «diritto   vivente»
consolidato in numerose e costanti pronunce della Suprema  Corte,  le
disposizioni concernenti  l'esecuzione  delle  pene  detentive  e  le
misure alternative alla detenzione non riguardano l'accertamento  del
reato e l'irrogazione  della  pena,  sicche'  sfuggono  «alle  regole
dettate in materia  di  successione  di  norme  penali  nel  tempo...
...dall'art. 25 della Costituzione». 
    Tale principio  e'  stato  affermato  dalla  S.C.  nel  suo  piu'
autorevole consesso, la cui funzione  nomofilattica  -  e'  opportuno
evidenziare -  e'  stata  notevolmente  accentuata  a  seguito  della
recente riforma  operata  con  la  legge  23  giugno  2017,  n.  103,
attraverso le  modifiche  introdotte  con  i  commi  1-bis  ed  1-ter
dell'art. 618 c.p.p. 
    Pertanto, la rigorosa applicazione del principio del tempus regit
actum, che secondo il «diritto interno» dovrebbe regolare la  materia
in un contesto di affermata compatibilita' con l'art. 25 della Cost.,
risulta  superabile  solo  attraverso  una  pronuncia   della   Corte
costituzionale  che,  intervenendo  sulla  norma  censurata,   limiti
l'applicazione della novella ai soli fatti  commessi  successivamente
alla sua entrata in vigore. 
    Da ultimo, non puo' accedersi alla richiesta -  proposta  in  via
subordinata - di dichiarare la temporanea inefficacia dell'ordine  di
carcerazione, poiche' l'art. 23 della legge  11  marzo  1953,  n.  87
dispone unicamente  la  «sospensione  del  giudizio»,  non  anche  la
sospensione dell'efficacia del provvedimento adottato in forza di una
disposizioni  di  legge  della  cui  legittimita'  costituzionale  si
dubita.