TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI SALERNO Il Tribunale, l'anno 2019 il giorno 5 del mese di giugno, riunito in Camera di consiglio nelle persone dei componenti: dott.ssa Monica Amirante - Presidente; dott.ssa Maria Siniscalco - magistrato di sorveglianza; dott. Salvatore Caldarazzo - esperto; dott.ssa Grazia Cinnadaio - esperto, nel procedimento in epigrafe indicato iscritto nei confronti di M.D., nato a..... il..... , agli arresti domiciliari, ex art. 656, comma 10 del codice di procedura penale, in Battipaglia alla via Bernini n. 7, ha pronunciato la seguente ordinanza. Con provvedimento del 27 luglio 2018 il P.G. presso la Corte di appello di Milano emetteva ordine di esecuzione sospeso ex art. 656, comma 10, codice di procedura penale nei confronti di M.D., come sopra generalizzato, condannato alla pena di anni sei di reclusione (la cui scadenza e' attualmente fissata al 21 dicembre 2020) dalla Corte di appello di Milano con sentenza del 14 novembre 2017 per i reati di cui agli articoli 319-quater, comma 1 del codice penale (cosi' riqualificata in appello l'originaria imputazione di cui all'art. 317 c.p.) e 648 del codice penale atteso che il predetto si trovava agli arresti domiciliari per questi fatti presso la sua residenza di B., disponendo la prosecuzione, ai sensi dell'art. 656, comma 10 del codice di procedura penale, della pena residua, in regime di arresti domiciliari, fino alla decisione del Tribunale di sorveglianza di Salerno a cui trasmetteva gli atti per quanto di competenza. In data 29 settembre 2018 venivano presentate, nell'interesse del M., istanze volte ad ottenere la concessione, in via principale, dell'affidamento in prova al servizio sociale ai sensi dell'art. 47 O.P. e, in via subordinata, della detenzione domiciliare o della semiliberta', evidenziando il corretto comportamento dallo stesso tenuto durante il lungo periodo trascorso agli arresti domiciliari e documentando la possibilita' di svolgere un'attivita' lavorativa. All'odierna udienza, tenutasi dopo l'entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3, la difesa del condannato ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli articoli 3, 24, 25, 117 e 111 della Costituzione, dell'art. 1, comma 6, lettera b) della predetta legge nella parte in cui ha modificato l'art. 4-bis, primo comma O.P., introducendo nel novero dei reati ivi indicati anche quello previsto dall'art. 319-quater, comma 1, codice penale, per il quale il M. e' stato condannato, senza contemplare una disciplina transitoria che ne circoscriva pro futuro l'ambito operativo. Nell'esaminare la rilevanza della questione ai fini della decisione, deve innanzi tutto precisarsi che il M. non ha ancora espiato la pena inflitta per i due reati, oggetto della predetta sentenza, di cui all'art. 319-quater, comma 1, codice penale, fattispecie che la legge n. 3/2019 ha inserito nel novero dei reati indicati nel primo comma dell'art. 4-bis O.P.. Tale articolo, cosi' come modificato dalla legge n. 3/2019, prevede che i detenuti per i delitti indicati nel primo comma possono essere ammessi a fruire dei benefici i vi richiamati (in cui rientrano quelli richiesti nell'interesse del M.) soltanto all'esito del positivo riscontro dell'avvenuta prestazione di una condotta collaborativa con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter O.P., ovvero a norma dell'art. 323-bis, secondo comma, codice penale, salvo che la collaborazione offerta sia «irrilevante» e ricorrano i requisiti legali che la stessa norma presuppone ovvero che la predetta condotta sia «impossibile» (per la limitata partecipazione al fatto criminoso accertata nella sentenza o per l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilita' operato con sentenza irrevocabile) e quindi «inesigibile» e purche', in ogni caso, siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata. Nel caso di specie nulla e' stato dedotto ne' in ordine alla positiva prestazione di una condotta collaborativa con la giustizia ne' in ordine alla inesigibilita' di tale condotta, avendo, per contro, la difesa sollevato questione di legittimita' costituzionale della novella legislativa che ha esteso la normativa restrittiva, che tale collaborazione (effettiva o c.d. impossibile e quindi inesigibile) presuppone qualecondicio sine qua non per l'accesso ai benefici indicati nell'art. 4-bis, primo comma O.P., anche ai reati per i quali il M. e' stato condannato, senza prevedere una disciplina transitoria che ne escluda l'operativita' per i fatti commessi precedentemente la sua entrata in vigore. Orbene, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimita', affermatosi a partire dalla pronuncia delle Sezioni unite n. 24561/2006, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalita' esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto, «in assenza di una specifica disciplina transitoria, soggiacciono al principio tempus regit actum e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 2 del codice penale e dall'art. 25 della Costituzione, con la conseguenza che una eventuale modifica normativa che introduca una piu' severa disciplina e' immediatamente applicabile a tutti i rapporti esecutivi non ancora esauriti» (Cass. Sez. 1, n. 46649/2009 e n. 11580/2013). Peraltro una recente pronuncia di legittimita' (Cass. Sez. 6, 14 marzo 2019 n. 12541) ha preso le distanze da tale consolidato indirizzo ermeneutico per allinearsi all'approccio sostanzialistico adottato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sulla materia penale; facendo applicazione di tale criterio sostanzialistico la Cassazione, con la predetta sentenza, e' giunta a ritenere, con riferimento alle modificazioni in pejus introdotte dalla legge n. 3/2019, «non manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l'avere il legislatore cambiato in itinere le 'carte in tavola' senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformita' con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art. 117 della Costituzione, la' dove si traduce, per il [ricorrente], nel passaggio - 'a sorpresa' e dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata 'senza assaggio di pena' ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il gia' rilevato operare del combinato disposto degli articoli 656, comma 9, lettera a) del codice di procedura penale e 4-bis ordinanza penit.», non sollevando la relativa questione perche' non rilevante ai fini della decisione in quanto afferente non alla sentenza di patteggiamento oggetto del ricorso, ma all'esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza e quindi ad «uno snodo processuale diverso nonche' logicamente e temporalmente successivo». Trattasi, tuttavia, di una pronuncia, allo stato, isolata rispetto al consolidato indirizzo innanzi richiamato della giurisprudenza di legittimita' contrario alla possibilita' di poter applicare il principio della non retroattivita' della legge penale sfavorevole qualora si verta in materia di misure alternative alla detenzione. La questione di legittimita' costituzionale, in riferimento alla quale la difesa sollecita la rimessione degli atti alla Corte, e' quindi rilevante ai fini della decisione in quanto, avuto riguardo al «diritto vivente», quale si connota alla luce del diritto positivo e della lettura giurisprudenziale fino ad ora consolidata a seguito della decisione delle Sezioni unite del 2006, devono ritenersi operanti, nel caso in esame, le preclusioni estese dalla novella legislativa anche al delitto di cui all'art. 319-quater, comma 1 del codice penale per il quale il M. e' stato condannato, sicche' deve escludersi la possibilita' di superare il profilo di inammissibilita' delle istanze. Per converso, le gia' acquisite risultanze istruttorie offrono elementi che consentirebbero, nel merito, di addivenire alla concessione di una delle misure alternative richieste, considerando l'assenza di altri precedenti penali, la costante condotta regolare serbata dal M. durante gli arresti domiciliari e la possibilita' di svolgere un'attivita' lavorativa idonea a favorire il suo reinserimento sociale. La questione e' anche non manifestamente infondata in relazione agli articoli 3, 25, comma secondo, 27, comma terzo, 117 della Costituzione e 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, come gia' rilevato, in una fattispecie analoga, dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con ordinanza del 2 aprile 2019. L'art. 1, comma 6, lettera b) legge n. 3/2019 presenta, innanzitutto, profili di illegittimita' costituzionale per contrasto con il principio di irretroattivita' della legge penale, sancito dagli articoli 25, comma 2, della Costituzione e 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (quest'ultimo ovviamente evocato nella veste di parametro interposto rispetto all'art. 117, comma 1, della Costituzione). L'art. 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, richiamando quanto stabiliscono nell'ordinamento interno l'art. 25 della Costituzione e l'art. 2 del codice penale, prevede, al secondo periodo della disposizione, che «non puo' essere inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso». Seguendo un approccio «sostanzialistico» la Corte europea dei diritti dell'uomo (Grande Chambre, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna) ha riconosciuto che istituti, pur formalmente non classificati come «penali» ed inseriti nel contesto della normativa di matrice penitenziaria, non possono essere considerati alla stregua di «mere modalita' di esecuzione della pena» (e dunque sottratti al principio di irretroattivita') qualora incidano su quest'ultima in termini di sostanziale modificazione quantitativa ovvero qualitativa della pena stessa. E' questo il caso delle misure alternative alla detenzione che, attuando il disposto dell'art. 27, comma 3 della Costituzione laddove prefigura un sistema che deve tendere alla rieducazione del condannato, ammette la possibile diversificazione tipologica del trattamento sanzionatorio, realizzabile anche in sede esecutiva post iudicatum. Tali modifiche della pena inflitta con la sentenza, anche se attuate in forza di norme processuali o relative all'esecuzione della pena, hanno effetti che incidono sulla qualita' essenziale della pena, determinando una vera e propria sostituzione della specie della pena stessa. La giurisprudenza costituzionale ha, del resto, da tempo riconosciuto che le misure alternative alla detenzione «nell'estinguere lo status di detenuto, costituiscono altro status diverso e specifico rispetto a quello di semplice condannato» (Corte costituzionale sentenza n. 188/1990) tale da sospendere o interrompere il rapporto giuridico di esecuzione della pena detentiva, sostituendo al rapporto esecutivo della pena carceraria altro diverso rapporto esecutivo attinente, appunto, alla particolare misura alternativa applicata. In altri termini «le misure alternative partecipano della natura della pena, proprio per il loro coefficiente di afflittivita': esse pertanto, sono alternative non alla pena in generale ma alla pena detentiva, trattandosi di diverse forme di penalita'» (Corte costituzionale sentenza n. 349/1993). Pertanto, la modifica dell'art. 4-bis O.P. introdotta dall'art. 1, comma 6, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, proprio perche' modificando in senso restrittivo la disciplina dei presupposti e condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione viene a modificare la natura stessa della sanzione applicata, si pone in contrasto con gli articoli 25, comma 2, 117 della Costituzione e 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, laddove non prevede una disposizione di natura transitoria che faccia decorrere, in aderenza ai principi iscritti in tali disposizioni, l'efficacia della normativa piu' restrittiva dalla data di vigenza della legge che l'ha introdotta. D'altronde, a conferma che la mancata previsione di una disciplina transitoria costituisca una lacuna costituzionalmente rilevante, va evidenziato che il legislatore aveva introdotto norme di natura transitoria con l'art. 4 decreto-legge n. 152/91, convertito nella legge n. 203/91 (con riferimento ai delitti di cui all'art. 58-quater, comma 4, O.P.) e con l'art. 4, comma 1, legge n. 279/2002 (che inseriva i reati di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice penale nell'art. 4-bis cit.), limitando l'applicabilita' della disciplina restrittiva ai condannati per delitti commessi dopo l'entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che tale disciplina avevano introdotto. La modifica in peius del quadro normativo sostanziale di riferimento presenta anche profili di illegittimita' costituzionale in quanto lede «il principio di affidamento» tutelato dal principio di irretroattivita' in materia penale, sancito dagli articoli 25, comma 2, e 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. A tale riguardo va evidenziato che la Corte europea ha interpretato il principio iscritto nell'art. 7 della Convezione Edu nel senso che quest'ultimo codifichi il divieto degli Stati di imporre una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso, secondo un criterio che identifica la «legge» nei contorni di «regola di giudizio accessibile e prevedibile» nei cui confronti il consociato nutre un legittimo affidamento, censurando le disposizioni degli ordinamenti interni che introducevano ipotesi di applicazione retroattiva di pene (intese in senso sostanziale) piu' severe. In particolare va richiamata la gia' citata sentenza Del Rio Prada c. Spagna, a cui fa riferimento anche la Cassazione nella suindicata sentenza del marzo 2019, che ha ritenuto parte integrante del «diritto penale materiale» un istituto affine alla liberazione anticipata prevista nel nostro ordinamento, giungendo ad affermare che, ai fini del rispetto del «principio dell'affidamento» del consociato circa la «prevedibilita' della sanzione penale», occorre aver riguardo non soltanto alla pena irrogata, ma anche alla sua esecuzione e che, a tali fini, non e' determinante il settore ordinamentale nazionale - se di diritto sostanziale o di diritto processuale - sul cui versante si colloca l'espiazione. Alla luce del quadro costituzionale e convenzionale sopra delineato, le disposizioni della legge n. 3/2019 (c.d. spazzacorrotti) che rendono piu' severo il trattamento sanzionatorio delle condotte illecite in materia di taluni reati contro la pubblica amministrazione si configurano come un mutamento imprevedibile ed indipendente dalla sfera di controllo del soggetto, tale da modificare in senso sostanziale il quadro giuridico-normativa che lo stesso aveva di fronte allorquando si e' determinato nella sua scelta delinquenziale, con piena consapevolezza delle relative conseguenze, cosi' da poterne adeguatamente ponderare i benefici e gli svantaggi. L'assenza di una disciplina transitoria finalizzata a temperare il principio di immediata applicazione delle modifiche dell'art. 4-bis O.P. si pone, inoltre, in contrasto con il principio di ragionevolezza e del canone rieducativo iscritto negli articoli 3 e 27, comma 3, della Costituzione. Invero la disciplina piu' severa, laddove incide su esecuzioni relative a reati commessi prima della sua entrata in vigore, determina una irragionevole disparita' di trattamento tra soggetti che, giudicati colpevoli per gli stessi delitti, per mera casualita' o per il difforme carico di lavoro dei tribunali di sorveglianza sul territorio nazionale, abbiano visto decisa la propria istanza di misura alternativa prima della data in vigore della legge n. 3/2019 o successivamente a tale data. Tale situazione viola, altresi', per i medesimi motivi, il principio sancito dal comma 3 dell'art. 27 della Costituzione in quanto incide in senso deteriore sulla liberta' personale dei condannati e sui connessi percorsi rieducativi senza alcuna correlazione con un giudizio sulla personalita' dei medesimi e sul grado di rieducazione dagli stessi raggiunto. Anche le misure alternative alla detenzione, in quanto variante tipologica delle pene a cui si riferisce l'art. 27 della Costituzione devono, infatti, uniformarsi, come piu' volte affermato dal giudice delle leggi, ai principi di proporzionalita' e di individualizzazione della pena, cui l'esecuzione deve essere improntata (Corte costituzionale sentenze n. 50 del 1980 e n. 203 del 1991). La disposizione dell'art. 1, comma 6, lettera b) della legge n. 3/2019 si pone, quindi, in contrasto con i predetti parametri costituzionali nella parte in cui, ammettendo una applicazione retroattiva delle preclusioni in materia di accesso alle misure alternative alla detenzione relativa ai delitti ivi indicati anteriormente commessi ed in particolare, nel caso di specie, al delitto di cui all'art. 319-quater, comma 1, codice penale, incide in modo irragionevole sul percorso rieducativo del condannato, senza che tale vulnus sia ricollegabile ad un suo comportamento colpevole. Ne consegue una violazione del «principio di non regressione del trattamento rieducativo per fatto incolpevole del condannato», piu' volte richiamato dal Giudice delle leggi laddove ha dichiarato la illegittimita' delle norme sopravvenute nella parte in cui non prevedono che i benefici in esse indicati possano essere concessi nei confronti dei condannati che abbiano raggiunto sulla base della normativa previgente un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti (Corte costituzionale n. 79/2007, n. 257 /2006, n. 137 /1999, n. 445/1997). Il significativo rilievo di fondo e' che la valorizzazione dei percorsi rieducativi dei condannati, in armonia con il dettato dell'art. 27, comma 3 della Costituzione, «mal si concilia con la vanificazione, in tutto o in parte, degli stessi, per effetto di una mera successione di leggi nel tempo» (Corte costituzione n. 79/2007). La violazione di tale principio e' particolarmente evidente nel caso del M., il quale, secondo la nuova normativa, non potrebbe neanche proseguire l'esecuzione della pena (la cui scadenza e' fissata attualmente al 21 dicembre 2020 e quindi non supera i due anni) accedendo alla misura della detenzione domiciliare, nonostante il comportamento costantemente corretto tenuto durante gli arresti domiciliari (a cui e' sottoposto dal 17 dicembre 2015), che lo ha reso finora meritevole di giorni 360 di riduzione della pena a titolo di liberazione anticipata. La questione di costituzionalita' e' dunque, nei termini e per i motivi esposti, rilevante e non manifestamente infondata. Il Tribunale di sorveglianza ritiene, pertanto, di sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis comma 1 O.P., si applica anche in relazione ai delitti di cui all'art. 319-quater, comma 1 codice penale commessi anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge, per contrasto con gli articoli 3, 25 comma 2, 27 comma 3, 117 della Costituzione e 7 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. Ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va disposta l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con sospensione del presente procedimento.