ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'art.  18,  comma
22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni  urgenti
per la stabilizzazione finanziaria), convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, come modificato dall'articolo 24,
comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti
pubblici), convertito, con modificazioni,  dalla  legge  22  dicembre
2011, n. 214, promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale
per la Regione Campania, con ordinanza del 20 luglio  2012,  e  dalla
Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la  Regione  Lazio,  con
due ordinanze del 25 febbraio 2013, rispettivamente  iscritte  al  n.
254 del registro ordinanze 2012 ed  ai  nn.  55  e  56  del  registro
ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2012  e  n.  12,  prima  serie
speciale, dell'anno 2013. 
    Visti gli atti  di  costituzione  di  Bozzi  Giuseppe  ed  altri,
dell'INPS, nella qualita' di successore ex lege dell'INPDAP,  nonche'
gli atti di intervento del Gruppo Romano Giornalisti Pensionati e del
Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 7 maggio 2013 il Giudice relatore
Giuseppe Tesauro; 
    uditi  gli  avvocati  Vincenzo  Greco  per   il   Gruppo   Romano
Giornalisti Pensionati, Giovanni C. Sciacca  per  Bozzi  Giuseppe  ed
altri, Filippo Mangiapane per l'INPS, nella qualita' di successore ex
lege dell'INPDAP e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri  per  il
Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale  per  la  Regione
Campania, in composizione monocratica, con ordinanza  del  20  luglio
2012, iscritta al reg.  ord.  n.  254  del  2012,  ha  sollevato,  in
riferimento agli articoli 2, 3, 36, 53, 42, terzo comma, e 97,  primo
comma, della Costituzione, questione di  legittimita'  costituzionale
dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio  2011,  n.
98  (Disposizioni  urgenti  per  la   stabilizzazione   finanziaria),
convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. 
    1.1.- Il rimettente  premette  che  il  ricorrente  -  magistrato
Presidente della Corte dei conti in quiescenza dal 21 dicembre  2007,
titolare di pensione diretta di importo superiore  a  euro  90.000,00
annui - ha chiesto il riconoscimento del proprio diritto di percepire
il trattamento  pensionistico  ordinario,  privo  delle  decurtazioni
introdotte dall'art. 18, comma 22-bis, del d.l. 6 luglio  n.  98  del
2011, convertito, con modificazioni, dalla legge  n.  111  del  2011,
nonche' la condanna dell'Amministrazione ai conseguenti pagamenti. La
Corte ricorda, inoltre, come a sostegno del ricorso sia stata dedotta
l'illegittimita' costituzionale della citata  norma,  per  violazione
degli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 108,  111  e  113
Cost. 
    1.2.- In punto di rilevanza, il rimettente assume in primo  luogo
che il ricorso ha un petitum separato e distinto dalla  questione  di
costituzionalita', sul quale e' chiamato, in  ragione  della  propria
competenza, a decidere, trattandosi di una domanda tesa  ad  ottenere
il riconoscimento del diritto a  conservare  il  proprio  trattamento
pensionistico senza le decurtazioni disposte dal citato comma 22-bis.
Inoltre, osserva che, laddove non si dubitasse  della  compatibilita'
costituzionale della norma, la  pretesa  dovrebbe  senz'altro  essere
dichiarata infondata, in quanto le decurtazioni stipendiali censurate
risultano fissate direttamente ed inderogabilmente dalle  «stringenti
ed  inequivoche  disposizioni  di   legge   applicate   doverosamente
dall'amministrazione datrice di lavoro», senza alcuna possibilita' di
interpretazioni alternative. 
    1.3.- Cio' posto, il giudice a quo osserva  che  la  disposizione
impugnata  si  colloca  nel  quadro  di  una  serie   di   previsioni
finalizzate  al   contenimento   della   spesa   pubblica   ed   alla
stabilizzazione finanziaria, in particolare in materia previdenziale,
che impone ai pensionati pubblici sacrifici di considerevole entita'. 
    1.4.- In primo luogo, secondo la Corte dei  conti,  la  norma  in
questione si configurerebbe come prestazione patrimoniale imposta, ai
sensi dell'art. 23 Cost., nonche' come  prelievo  forzoso  di  natura
tributaria, non rispettoso, tuttavia, dei principi di  eguaglianza  e
ragionevolezza  (art.  3  Cost.)  correlati  a  quello  di  capacita'
contributiva (art. 53 Cost.). 
    A suo giudizio, infatti, l'imposizione del  sacrificio  economico
individuale avrebbe tutte le caratteristiche del prelievo tributario,
perche' realizzato  attraverso  un  atto  autoritativo  di  carattere
ablatorio, il cui gettito  e'  destinato  al  fabbisogno  finanziario
dello Stato sotto forma di risparmio di spesa (richiama in  proposito
la sentenza di questa Corte n. 11 del 1995). 
    Al di la' del nomen iuris utilizzato, dunque, si  tratterebbe  di
un   prelievo   forzoso    di    somme    stipendiali,    privo    di
"sinallagmaticita'" e destinato a copertura di fabbisogni  finanziari
indifferenziati dello Stato apparato. 
    Il rimettente osserva, tuttavia, che tale prestazione  graverebbe
soltanto   su   «alcune   categorie    di    pensionati,    lasciando
inspiegabilmente ed illogicamente indenni tutte  le  altre  categorie
dei  settori  previdenziali  privato  ed  autonomo:  categorie  tutte
caratterizzate   dall'unitarieta'    riconducibile    al    principio
costituzionale di tutela dei pensionati». Non si tratterebbe  di  una
mera rideterminazione o "raffreddamento"  dei  livelli  previdenziali
pubblici, in astratto possibile essendo acquisito il principio  della
possibilita'   di   una   disciplina   differenziata   del   rapporto
previdenziale pubblico rispetto a quello privato, ma di  una  vera  e
propria  imposta,  gravante   non   su   tutti   i   pensionati,   ma
esclusivamente su quelli pubblici. 
    Tale  disciplina  si  porrebbe  in  contrasto  con  il  principio
solidaristico di cui all'art. 2 Cost., coordinato con i  principi  di
eguaglianza, parita' di trattamento e capacita' contributiva (artt. 3
e 53 Cost.). 
    Il rimettente ricorda  in  proposito  che  la  giurisprudenza  di
questa  Corte,  su  analoga  questione  relativa  alla  "manovra   di
bilancio" approntata con il decreto-legge 19 settembre 1992,  n.  384
(Misure urgenti in materia di previdenza, di sanita'  e  di  pubblico
impiego,   nonche'    disposizioni    fiscali),    convertito,    con
modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438 (ordinanze n. 341
del 2000 e n. 299  del  1999),  aveva  precisato  che  il  sacrificio
economico  richiesto  dal  provvedimento   legislativo   deve   avere
carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario e consentaneo  allo
scopo prefisso, sicche' non solo deve essere limitato ad un ristretto
periodo di tempo, ma deve anche essere  razionalmente  ripartito  fra
categorie diverse di cittadini. 
    La  norma  impugnata  avrebbe  violato,  pertanto,  i   parametri
costituzionali invocati (artt. 3, 36 e 53 Cost.) non  solo  sotto  il
profilo della sproporzione ed irrazionalita' della misura,  ma  anche
specificamente sotto il profilo della disparita' di  trattamento,  in
quanto non sarebbero state colpite le altre categorie di  pensionati,
pur se  percettori  di  elevati  trattamenti,  e  i  contribuenti  in
generale titolari degli stessi redditi. 
    Il prelievo in questione, in definitiva,  non  solo  non  sarebbe
idoneo a garantire risparmi di spesa o introiti  tali  da  realizzare
significativamente  l'obiettivo  di  stabilizzazione  della   finanza
pubblica, ma si presenterebbe  come  irrazionale  e  discriminatorio,
essendo  diretto  a  colpire  una  limitata  categoria  di  soggetti,
anziche' la collettivita' nel suo insieme, nel rispetto del principio
di  proporzionalita',  in  violazione  quindi   sia   del   principio
solidaristico, che di quello di uguaglianza e di  assoggettamento  al
prelievo fiscale in proporzione alla capacita' retributiva. 
    Richiamando, poi, testualmente precedenti ordinanze di rimessione
di altri giudici, il rimettente afferma che  il  legislatore  avrebbe
«inspiegabilmente ed  ingiustificatamente  aumentato  gli  squilibri,
trascurando del tutto di  colpire  le  ricchezze  evase  al  fisco  e
persino gli introiti derivanti da rendite ben  conosciute  (quali  le
rendite catastali e finanziarie),  per  concentrarsi  su  una  fascia
specifica di  pensionati,  colpevoli  unicamente  di  appartenere  al
settore pubblico e di avere redditi facilmente accertabili ed  ancora
piu' facilmente "attaccabili"». 
    1.5.- La norma censurata infine, secondo il  giudice  a  quo,  si
porrebbe anche in contrasto con gli artt.  42,  terzo  comma,  e  97,
primo comma, Cost., in quanto realizzerebbe per  via  legislativa  un
intervento  ablatorio  della  proprieta',  colpendo  una  determinata
categoria  di  soggetti,  in  assenza  di  previa  valutazione  degli
interessi coinvolti e senza che sia  prevista  la  corresponsione  di
un'indennita'  di  ristoro,  in  quanto,  «l'accurato   esame   degli
interessi in gioco e la ponderata  decisione  della  misura  e  delle
modalita' del sacrificio secondo il principio costituzionale di  buon
andamento  (art.  97  Cost.)  non  puo'  non  valere  anche  per   il
legislatore-amministratore». 
    2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri, concludendo per l'infondatezza della questione. 
    La manovra di finanza pubblica  oggi  censurata  sarebbe,  a  suo
giudizio, intervenuta in maniera non dissimile dalla manovra del 1993
(art. 7 del d.l. n. 384  del  1992,  convertito,  con  modificazioni,
dalla  legge  n.  438  del  1992),  rispetto  alla  quale  la   Corte
costituzionale aveva  dichiarato  analoghe  questioni  manifestamente
infondate (ordinanza n. 299 del 1990).  In  quelle  occasioni  questa
Corte aveva affermato che norme di tale natura  non  si  ponevano  in
contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto intervenute  «in  un  momento
assai delicato per la vita economico-finanziaria del paese». 
    Inoltre,   a   sostegno   dell'infondatezza   della    questione,
l'Avvocatura dello Stato ricorda altresi' che anche  la  sentenza  n.
223 del 2012 ha ribadito la possibilita' dell'utilizzo necessario  da
parte del legislatore  di  strumenti  eccezionali  in  situazioni  di
difficolta' economica, «nel  difficile  compito  di  contemperare  il
soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e
la protezione di cui tutti i cittadini necessitano». 
    Cio' posto, in questo caso la norma impugnata non si porrebbe  in
contrasto  con  l'art.  3  Cost.,  giacche'  si  tratterebbe  di   un
intervento che non limita la platea  dei  soggetti  passivi  ai  soli
pensionati  pubblici,  ma  si  rivolge  a  tutti  i   percettori   di
trattamenti pensionistici corrisposti da enti  gestori  di  forme  di
previdenza obbligatorie,  e  quindi  anche  ai  gia'  dipendenti  del
settore  privato  ed  alle  gestioni  pensionistiche  dei  lavoratori
autonomi. 
    Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri,  anche
in riferimento  all'art.  53  Cost.  l'intervento  censurato  sarebbe
pienamente rispettoso dei criteri  di  capacita'  contributiva  e  di
progressivita'. 
    Infine, viene contestata la questione sollevata  con  riferimento
all'art. 42 Cost., in quanto, trattandosi di materia tributaria,  non
sarebbe concepibile alcun indennizzo come  ristoro  per  un  prelievo
fiscale. 
    Da ultimo, l'Avvocatura dello Stato rileva  che  l'impatto  sulla
finanza pubblica della normativa censurata, alla luce delle relazioni
tecniche presentate in Parlamento nel corso dell'iter di  conversione
del d.l. n. 98 del 2011, viene stimato in circa 26  milioni  di  euro
per anno. 
    3.- Nel giudizio si  e'  costituito  l'INPS  (Istituto  Nazionale
della Previdenza Sociale), successore ex lege  dell'INPDAP  (Istituto
Nazionale   di   Previdenza   e   Assistenza   per    i    Dipendenti
dell'Amministrazione   Pubblica),   ai   sensi   dell'art.   21   del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per  la
crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei   conti   pubblici),
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.  214,
eccependo in via pregiudiziale l'inammissibilita' della questione per
carenza di giurisdizione del giudice rimettente. 
    Secondo l'ente previdenziale, poiche' il  prelievo  previsto  dal
citato art. 18, comma 22-bis, alla luce della costante giurisprudenza
costituzionale (sentenze n. 421 del 1995, n. 11 del 1995, n.  63  del
1990 e n.  146  del  1972)  ha  natura  di  prestazione  patrimoniale
imposta, la giurisdizione sarebbe riservata  in  via  esclusiva  alle
Commissioni tributarie (sentenza della Corte  di  cassazione  civile,
sezioni unite, 27 ottobre 2011, n. 22381). La circostanza secondo  la
quale  il  prelievo   fiscale   operato   dal   sostituto   d'imposta
determinerebbe  una  materiale  riduzione  dell'importo  erogato   al
pensionato,  non  sarebbe  infatti  idonea  all'individuazione  della
giurisdizione  in  capo  al  Giudice  delle  pensioni,   poiche'   il
trattamento oggetto di prelievo forzoso rimarrebbe integro «tal quale
determinato dall'Ente previdenziale, senza alcuna modificazione delle
poste contabili gia' individuate». 
    3.1.- Nel  merito,  la  parte  costituita  ritiene  la  questione
infondata, in primo luogo con riferimento all'art. 3 Cost., in quanto
la disposizione in esame riguarderebbe l'intera platea  dei  titolari
di trattamenti pensionistici, ivi compresi quelli integrativi,  senza
l'asserita esclusione  degli  ordinamenti  previdenziali  privato  ed
autonomo. Tale  assunto  sarebbe,  poi,  dimostrato  dalle  modalita'
applicative seguite dall'INPDAP prima, dall'INPS e dagli enti gestori
di forme di previdenza  obbligatoria,  poi,  i  quali  hanno  emanato
apposite circolari al fine di  regolare  le  modalita'  concrete  per
disporre il prelievo. 
    Neppure sarebbe sussistente, secondo l'INPS, una  discriminazione
rispetto alla  generalita'  dei  consociati,  in  quanto  secondo  la
consolidata giurisprudenza di questa Corte, la formulazione dell'art.
53 Cost. andrebbe valutata in  termini  non  assoluti,  ma  relativi,
imponendo   di   interpretare   il    principio    dell'universalita'
dell'imposizione  in  necessario  coordinamento  con   il   principio
solidaristico e di uguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., essendo
ben possibile l'introduzione, per singole categorie di cittadini,  di
specifici tributi, purche' nei limiti della ragionevolezza. 
    Infine,  quanto  alla  questione  relativa  alla  violazione  del
principio della  espropriabilita'  della  proprieta'  privata,  salva
corresponsione di un indennizzo, ai sensi dell'art. 42, terzo  comma,
Cost., il dubbio sarebbe infondato, in quanto la  speciale  ablazione
della  proprieta'  privata,  ordinata  al  fine  del   concorso   dei
consociati alle  pubbliche  spese  di  cui  all'art.  53  Cost.,  non
prevede, ne' potrebbe prevedere, alcun indennizzo. 
    4.-  Con  le  due  ordinanze,  di  identico  tenore  ed  entrambe
depositate in data 25  febbraio  2013,  iscritte  rispettivamente  al
registro ordinanze con i nn. 55 e 56 del 2013, la  Corte  dei  conti,
sezione giurisdizionale  per  la  Regione  Lazio,  ha  sollevato,  in
riferimento agli articoli 2, 3, 53, Cost., questioni di  legittimita'
costituzionale dell'art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98  del  2011,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011. 
    4.1.- Il rimettente premette che i ricorrenti - tutti  magistrati
ordinari, magistrati  della  Corte  dei  conti,  magistrati  militari
titolari di  pensione  ordinaria  diretta,  ovvero  aventi  causa  da
magistrati della Corte dei conti e  da  magistrati  amministrativi  -
hanno proposto ricorso  avverso  il  trattamento  pensionistico  loro
attribuito a partire dal mese di agosto 2011, nella parte in  cui  e'
assoggettato al  "contributo  di  perequazione"  previsto  dal  comma
22-bis dell'art.  18  del  d.l.  n.  98  del  2011,  convertito,  con
modificazioni,  dalla  legge  n.  111  del  2011,  come  reintrodotto
dall'art. 2, comma l,  del  decreto-legge  13  agosto  2011,  n.  138
(Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla  legge  14  settembre
2011, n. 148, nelle percentuali ivi stabilite, come risultanti  dalle
rispettive certificazioni CUD per l'anno 2011. 
    Nell'ordinanza iscritta al reg. ord. n. 55 del 2013,  si  afferma
che i ricorrenti hanno chiesto,  altresi',  la  corresponsione  della
mancata rivalutazione automatica del loro  trattamento  pensionistico
in applicazione del comma 25 dell'art. 24 del d.l. n. 201  del  2011,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011. 
    Tutti i ricorrenti hanno chiesto, dunque, la  corresponsione  del
proprio trattamento pensionistico senza assoggettamento  al  predetto
"contributo  di  perequazione"  e  con  conseguente   condanna   alla
restituzione di quanto trattenuto per tali titoli, con  rivalutazione
monetaria e interessi sino al soddisfo. 
    4.2.- In particolare, i ricorrenti hanno chiesto alla  Corte  dei
conti, nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al reg. ord. n.  55
del 2013, di rimettere alla  Corte  costituzionale  le  questioni  di
costituzionalita': A) del comma 22-bis dell'art. 18. del d.l.  n.  98
del 2011, per contrasto con gli artt. 2, 3, 53, 23 e 97 Cost.; B) del
comma 25 dell'art. 24 del  d.l.  n.  20l  del  2011  convertito,  con
modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011,  per  contrasto  con  gli
artt. 3, 53, 97, 36 e 38 Cost. 
    Quanto alla questione di legittimita' costituzionale  di  cui  al
punto  B),  il  giudice  a  quo,  ancorche'  rilevante,  la  riteneva
manifestamente infondata con separato provvedimento. 
    4.3.- Nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al reg. ord.  n.
56 del 2013, i ricorrenti hanno chiesto  alla  Corte  dei  conti,  di
rimettere alla Corte  costituzionale  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale: A) del comma 22-bis dell'art. 18 del d.l. n.  98  del
2011, per contrasto con gli artt.  2,  3,  53,  23  e  97  Cost.;  B)
dell'art. 2, commi l e 2, del d.l. n. 138 del 2011,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011; C) dell'art. l, commi l e
5, della legge 6 luglio 2012, n. 96 (Norme in  materia  di  riduzione
dei contributi  pubblici  in  favore  dei  partiti  e  dei  movimenti
politici, nonche' misure per garantire la trasparenza e  i  controlli
dei rendiconti dei medesimi. Delega al Governo per l'adozione  di  un
testo unico delle leggi concernenti il finanziamento  dei  partiti  e
dei movimenti politici e per  l'armonizzazione  del  regime  relativo
alle detrazioni fiscali). 
    La  Corte  riteneva   irrilevante   la   questione   sub   B)   e
manifestamente infondata quella sub C). 
    4.4.- Cio' posto, il giudice a quo  -  dopo  aver  osservato,  in
punto di rilevanza, di trovarsi nell'impossibilita' di poter definire
il giudizio indipendentemente dalla risoluzione  della  questione  di
legittimita' costituzionale -  in  ordine  alla  specifica  eccezione
sollevata  dalla  resistente   INPS,   quale   successore   ex   lege
dell'INPDAP, afferma la propria giurisdizione sulle domande avanzate. 
    Secondo il rimettente, la giurisdizione della Corte dei conti  in
materia di pensioni ha carattere esclusivo,  in  quanto  affidata  al
criterio di collegamento costituito  dalla  materia.  In  essa  sono,
dunque,  comprese  tutte  le  controversie   in   cui   il   rapporto
pensionistico  costituisca  elemento   identificativo   del   petitum
sostanziale  ovvero  sia  comunque  in  questione  la  misura   della
prestazione previdenziale. 
    La circostanza che il contributo di perequazione sia previsto  da
una norma "di natura tributaria" non trasformerebbe il  rapporto  tra
enti gestori di forme di previdenza obbligatorie  e  beneficiari  dei
relativi trattamenti pensionistici in un rapporto tributario. 
    Nella  fattispecie  tale   rapporto,   al   quale   e'   estranea
l'Amministrazione finanziaria - coerentemente non evocata in giudizio
-  non  riguarderebbe  una  contestazione   diretta   della   debenza
all'Erario della somma trattenuta, ovvero un rapporto tributario  tra
contribuente   ed   Amministrazione.   Le    controversie    relative
all'indebito pagamento dei tributi seguirebbero, infatti,  la  regola
della devoluzione alla giurisdizione speciale del giudice  tributario
soltanto  allorche'  si  debba  impugnare  uno  degli  atti  previsti
dall'art. 19  del  decreto  legislativo  31  dicembre  1992,  n.  546
(Disposizioni sul processo tributario in attuazione della  delega  al
Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n.  413)
e il convenuto  in  senso  formale  sia  uno  dei  soggetti  indicati
nell'art. 10 di tale decreto legislativo. Quando la  controversia  si
svolga tra due  soggetti  privati  in  assenza  di  un  provvedimento
impugnabile  soltanto  dinanzi  al  giudice  tributario,  il  giudice
ordinario,  quindi,  si  riapproprierebbe  della  giurisdizione,  non
rilevando  che   la   composizione   della   lite   necessiti   della
interpretazione di una norma tributaria. 
    4.5.- Quanto alle questioni sub A), il rimettente, con  ordinanze
identiche  quanto  a  motivazione,  premette  che  questa  Corte   ha
espressamente riconosciuto  la  natura  tributaria  della  misura  in
questione. In particolare, viene ricordato che la sentenza n. 241 del
2012 ha affermato che il "contributo di perequazione"  di  cui  comma
22-bis dell'art. 18 del d.l. n. 98 del  2011  «ha  natura  certamente
tributaria, in  quanto  costituisce  un  prelievo  analogo  a  quello
effettuato  sul  trattamento  economico  complessivo  dei  dipendenti
pubblici [...] nella parte dichiarata illegittima da questa Corte con
la sentenza n. 223 del 2012 e  la  cui  natura  tributaria  e'  stata
espressamente  riconosciuta  dalla  medesima  sentenza».   La   norma
impugnata,  infatti,  integrerebbe  una   decurtazione   patrimoniale
definitiva  del  trattamento  pensionistico,  con   acquisizione   al
bilancio  statale  del  relativo  ammontare,  che  presenta  tutti  i
requisiti   richiesti   dalla   giurisprudenza   della   Corte    per
caratterizzare il prelievo come tributario, ovvero, indipendentemente
dal nomen iuris attribuitole dal legislatore, quelli di  un  prelievo
coattivo finalizzato al  concorso  delle  pubbliche  spese,  posto  a
carico di un soggetto passivo in base  ad  uno  specifico  indice  di
capacita'  contributiva  che  deve  esprimere  l'idoneita'  di   tale
soggetto all'obbligazione tributaria. 
    Il giudice a  quo,  inoltre,  dopo  aver  richiamato  i  principi
enucleati nella sentenza n. 223 del 2012, assume che l'impugnato art.
18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011 si pone  in  contrasto  con
gli articoli 3 e 53 Cost. 
    In primo luogo, infatti, a parita' di reddito  con  la  categoria
dei  lavoratori   (pubblici   o   privati),   il   prelievo   sarebbe
ingiustificatamente  posto  a  carico  della   sola   categoria   dei
pensionati degli enti gestori di forme  di  previdenza  obbligatoria,
con conseguente irragionevole limitazione della platea  dei  soggetti
passivi.  Il  legislatore,   affrontando   l'eccezionale   situazione
economica  avrebbe  utilizzato  uno  strumento   eccezionale,   senza
tuttavia   garantire   il   rispetto   dei   principi    fondamentali
dell'ordinamento costituzionale e, in particolare, del  principio  di
uguaglianza (come specificato dalla citata sentenza n. 223 del  2012,
che ha dichiarato l'illegittimita'  costituzionale  dell'articolo  9,
comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010,  n.  78,  recante  «Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitivita'
economica», convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  30  luglio
2010, n. 122). 
    Peraltro, la norma censurata si porrebbe  in  contrasto  con  gli
articoli artt. 2, 3 e 53 Cost. anche in quanto lo  speciale  prelievo
di solidarieta' si imporrebbe nei confronti dei  soli  magistrati  in
pensione,   come   conseguenza   indotta   dalla   dichiarazione   di
illegittimita' costituzionale dell'analogo prelievo scrutinato  dalla
sentenza  n.  223  del  2012.  Conseguentemente,  il   principio   di
uguaglianza in relazione alla  capacita'  contributiva  di  cui  agli
artt. 3 e 53 Cost. sarebbe ulteriormente vulnerato, nella specie,  in
quanto la suddetta  categoria  di  pensionati  verrebbe  «colpita  in
misura maggiore  rispetto  ai  titolari  di  altri  redditi  e,  piu'
specificamente, di redditi da lavoro  dipendente»  (in  analogia  con
quanto deciso dalla sentenza n. 119 del 1981). 
    La Corte rimettente, inoltre, assume quale  ulteriore  motivo  di
censura anche la stessa entita' del contributo di perequazione, posto
in comparazione  con  quello  previsto  dall'art.  2,  comma  2,  del
decreto-legge n. 138 del 2011, convertito, con  modificazioni,  dalla
legge  n.  148  del  2011.   Sarebbe,   infatti,   irragionevole   ed
ingiustificato che - con riferimento  a  interventi  di  solidarieta'
connotati da sostanziale identita' di ratio - i contribuenti titolari
di un reddito complessivo superiore a 300.000 euro  siano  tenuti  al
versamento di un contributo di solidarieta' del  3%  sulla  parte  di
reddito che eccede il predetto importo, qualunque siano le componenti
del loro  reddito  complessivo,  compresi  i  redditi  pensionistici,
mentre i ricorrenti  siano  tenuti  (per  far  fronte  alla  medesima
eccezionale  situazione   economica)   ad   un   prelievo   maggiore.
Sintomatico sarebbe peraltro che,  oltre  la  soglia  di  reddito  di
300.000 euro lordi annui,  a  parita'  di  reddito,  l'una  categoria
(tendenzialmente universale) subisce un'imposizione del  3%,  l'altra
(circoscritta  ai  soli  pensionati  titolari   di   trattamenti   di
quiescenza  corrisposti  da  enti  gestori  di  forme  di  previdenza
obbligatoria)  un'imposizione  del  15%,  in  violazione  dei  canoni
costituzionali  dell'eguaglianza  e  della  ragionevolezza  stabiliti
dall'art. 3 Cost., nonche' del canone della capacita' contributiva  e
del criterio di progressivita' delle  imposte  sanciti  dall'art.  53
Cost. 
    Secondo la Corte dei conti, quindi, qualora  la  norma  impugnata
non venisse espunta  dall'ordinamento  giuridico,  determinerebbe  un
ulteriore profilo di irrazionalita'  complessiva  del  sistema  delle
imposte  speciali,  inducendo  un  correlato  irragionevole   effetto
discriminatorio,  tenuto  conto   che   lo   stesso   contributo   di
solidarieta' di cui citato art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del  2011,  non  si
applica sui redditi di cui all'articolo 9, comma 2, del  d.l.  n.  78
del   2010,   con   conseguente    «irragionevole    ed    arbitrario
disallineamento   normativo   derivante    dall'asimmetricita'    nel
meccanismo impositivo del contributo di solidarieta'». 
    5.- Anche in  tali  giudizi  e'  intervenuto  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri, ribadendo le argomentazioni svolte nell'altro
giudizio, in particolare con riferimento alla legittimita' di manovre
di bilancio poste in essere «in un momento assai delicato per la vita
economico-finanziaria del paese»  ed  alla  conseguente  infondatezza
delle questioni, non trattandosi  di  un  intervento  che  limita  la
platea dei soggetti passivi ai soli pensionati pubblici, in quanto si
rivolge a tutti i percettori di trattamenti pensionistici corrisposti
da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie. Non rileverebbe,
infatti, la qualificazione pubblicistica o privatistica del  rapporto
di lavoro, ma unicamente la  natura  del  trattamento,  come  sarebbe
dimostrato, peraltro, dalla circolare INPS n. 109 del 2011, la  quale
espressamente dispone che, ai fini dell'individuazione  dei  soggetti
per  i  quali  opera  il   contributo,   devono   essere   presi   in
considerazione tutti i  trattamenti  pensionistici  obbligatori  e  i
trattamenti pensionistici integrativi e  complementari,  sia  erogati
dall'INPS che da enti diversi dall'INPS. 
    Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri,  anche
in riferimento  all'art.  53  Cost.  l'intervento  censurato  sarebbe
pienamente rispettoso dei criteri  di  capacita'  contributiva  e  di
progressivita'. 
    6.- Anche in questi giudizi si e' costituito l'INPS, con atto  di
tenore identico a quello relativo al giudizio iscritto al  reg.  ord.
n. 254 del 2012. 
    7.- Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 55 del  2013,  si  sono
costituite le parti private ricorrenti nel giudizio a quo, che  hanno
ripercorso   pedissequamente   le   motivazioni   dell'ordinanza   di
rimessione, sostenendo che, alla luce  della  natura  di  prestazione
imposta del prelievo, la norma censurata sarebbe illegittima  perche'
in  contrasto  con  il  principio  di  uguaglianza  tributaria  e  di
capacita'  contributiva  nonche'  con  il  principio   solidaristico,
essendo  una  misura  che  colpirebbe  soltanto  la   categoria   dei
pensionati, anche in  considerazione  dell'intervenuta  pronuncia  di
illegittimita' costituzionale relativa al contributo di cui  all'art.
9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010. A giudizio  dei  ricorrenti,  le
motivazioni adottate dalla  Corte  con  riferimento  a  quella  norma
sarebbero applicabili anche al caso di  specie,  tenuto  conto  della
pacifica  "natura  di  retribuzione  differita"  da  attribuire  alle
pensioni (citano in proposito la sentenza n. 30 del 2004). 
    8.-  Nel  medesimo  giudizio  e'  intervenuto  il  Gruppo  Romano
Giornalisti Pensionati, il quale, premesso di essere un'associazione,
senza fini di lucro, che intende tutelare i suoi circa 300  soci  che
hanno subito le decurtazioni pensionistiche, tramite l'INPGI,  fra  i
quali 4 dei 12 che compongono l'attuale  consiglio  direttivo,  e  di
poter essere dunque annoverato fra gli enti esponenziali di interessi
diffusi, conclude per  l'accoglimento  delle  questioni,  precisando,
quanto all'ordinanza n. 254 del 2012, che  il  tertium  comparationis
non potrebbe essere individuato nei pensionato privati, alla luce del
tenore letterale della disposizione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Sono  sottoposte  all'esame   della   Corte   questioni   di
legittimita'  costituzionale  dell'articolo  18,  comma  22-bis,  del
decreto-legge 6 luglio 2011,  n.  98  (Disposizioni  urgenti  per  la
stabilizzazione finanziaria), convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge 15 luglio 2011, n. 111, nel  testo  successivamente  modificato
dall'articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.
201  (Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,   l'equita'   e   il
consolidamento dei conti pubblici),  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011,  n.  214,  sollevate  dalla  Corte  dei
conti, sezione giurisdizionale per  la  Regione  Campania  e  per  la
Regione Lazio, con tre ordinanze  depositate  rispettivamente  il  20
luglio 2012 ed il 22 febbraio 2013, iscritte al reg. ord. n. 254  del
2012 e nn. 55 e 56 del 203. 
    2.- Secondo la Corte dei  conti,  sezione  giurisdizionale  della
Campania (ordinanza iscritta al reg. ord. n. 254 del 2012), la  norma
censurata, disponendo che, a decorrere dal 1° agosto 2011 e  fino  al
31 dicembre 2014, i trattamenti  pensionistici  corrisposti  da  enti
gestori  di  forme  di  previdenza  obbligatorie,   i   cui   importi
complessivamente superino 90.000 euro lordi annui, sono  assoggettati
ad un contributo di perequazione pari al  5  per  cento  della  parte
eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonche' pari al 10
per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per  cento  per
la parte eccedente 200.000 euro, si porrebbe  in  contrasto  con  gli
articoli 2, 3, 36 e 53, della Costituzione in quanto  tale  prelievo,
avendo natura tributaria -  perche'  realizzato  attraverso  un  atto
autoritativo di carattere ablatorio, con destinazione del gettito  al
fabbisogno finanziario dello Stato -, sarebbe operato  in  violazione
dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, correlati a  quello  di
capacita'  contributiva.  L'intervento  censurato,  in  primo  luogo,
colpirebbe la sola  categoria  dei  pensionati  pubblici,  «lasciando
inspiegabilmente ed illogicamente indenni tutte  le  altre  categorie
dei  settori  previdenziali  privato  ed  autonomo:  categorie  tutte
caratterizzate   dall'unitarieta'    riconducibile    al    principio
costituzionale di tutela dei pensionati»; in secondo  luogo,  analoga
misura non sarebbe prevista per i contribuenti in generale,  titolari
degli stessi redditi. 
    A giudizio della Corte  campana,  poi,  la  disciplina  in  esame
recherebbe vulnus anche agli artt.  42,  terzo  comma,  e  97,  primo
comma, Cost., poiche' realizzerebbe per via legislativa un intervento
ablatorio della proprieta', colpendo  una  determinata  categoria  di
soggetti, in assenza di previa valutazione degli interessi  coinvolti
e senza che  sia  prevista  la  corresponsione  di  un'indennita'  di
ristoro, in quanto «l'accurato esame degli interessi in  gioco  e  la
ponderata decisione della misura e  delle  modalita'  del  sacrificio
secondo il principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.)
non puo' non valere anche per il legislatore-amministratore». 
    2.1.- Le ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 55 e 56 del 2013, di
identico tenore ed entrambe emesse dalla  Corte  dei  conti,  sezione
giurisdizionale del Lazio, assumono che la norma impugnata violerebbe
gli artt. 2, 3 e  53  Cost.,  poiche',  come  precisato  anche  dalla
sentenza n. 241 del 2012 di questa Corte, pur avendo  il  «contributo
di perequazione» natura «certamente tributaria, in quanto costituisce
un prelievo analogo a quello  effettuato  sul  trattamento  economico
complessivo dei dipendenti  pubblici  [...]  nella  parte  dichiarata
illegittima dalla Corte con la sentenza  n.  223  del  2012»,  e  pur
essendo stato adottato in una eccezionale situazione  economica,  non
garantirebbe il rispetto dei principi fondamentali di  uguaglianza  a
parita' di reddito  con  la  categoria  dei  lavoratori  (pubblici  o
privati), essendo  ingiustificatamente  posto  a  carico  della  sola
categoria dei pensionati degli enti gestori di  forme  di  previdenza
obbligatoria, con conseguente irragionevole limitazione della  platea
dei soggetti passivi. 
    Il contributo  in  questione  sarebbe  stato  adottato,  poi,  in
violazione del principio di uguaglianza in relazione  alla  capacita'
contributiva, perche' imposto nei confronti dei  soli  magistrati  in
pensione, categoria «colpita in misura maggiore rispetto ai  titolari
di altri  redditi  e,  piu'  specificamente,  di  redditi  da  lavoro
dipendente»,  come  conseguenza  indotta   dalla   dichiarazione   di
illegittimita'  costituzionale   dell'analogo   prelievo   dichiarato
illegittimo dalla sentenza n. 223 del 2012. 
    Inoltre,  posto  in  comparazione  con  il  contributo   previsto
dall'art. 2, comma 2,  del  decreto-legge  13  agosto  2011,  n.  138
(Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla  legge  14  settembre
2011, n.  148,  il  prelievo  sarebbe  palesemente  irragionevole  ed
ingiustificato,  perche'  -   con   riferimento   a   interventi   di
solidarieta'  connotati  da  sostanziale  identita'  di  ratio  -   i
contribuenti titolari di un reddito complessivo superiore  a  300.000
euro sarebbero tenuti al versamento di un contributo di  solidarieta'
del 3% sulla  parte  di  reddito  che  eccede  il  predetto  importo,
qualunque siano le componenti del loro reddito complessivo,  compresi
redditi pensionistici, mentre i ricorrenti  nei  giudizi  principali,
sarebbero tenuti (per far fronte alla medesima eccezionale situazione
economica) ad un prelievo maggiore, in violazione non solo dei canoni
costituzionali dell'eguaglianza e della ragionevolezza, ma  anche  di
quelli della capacita' contributiva e del criterio di  progressivita'
delle imposte. 
    Infine, la disposizione in esame determinerebbe, a  giudizio  dei
rimettenti, un irragionevole effetto discriminatorio,  in  quanto  lo
stesso contributo di solidarieta' di cui al citato art. 2,  comma  2,
del d.l. n. 138 del 2011, non trova applicazione sui redditi  di  cui
all'articolo 9, comma 2, del decreto-legge  31  maggio  2010,  n.  78
(Misure urgenti  in  materia  di  stabilizzazione  finanziaria  e  di
competitivita' economica), convertito, con modificazioni, dalla legge
30 luglio 2010, n. 122, con conseguente «irragionevole ed  arbitrario
disallineamento   normativo   derivante    dall'asimmetricita'    nel
meccanismo impositivo del contributo di solidarieta'». 
    3.-  Tutte  le  ordinanze  hanno  ad  oggetto  la  stessa  norma,
censurata con argomentazioni in larga misura coincidenti, e,  quindi,
va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un'unica  trattazione
e di un'unica pronuncia. 
    4.-  Preliminarmente,  va  confermata  l'ordinanza  letta   nella
pubblica udienza del 7 maggio 2013, che ha  dichiarato  inammissibile
l'intervento spiegato nel giudizio iscritto al reg. ord.  n.  55  del
2013  dal  Gruppo  Romano  Giornalisti  Pensionati.  L'intervento  di
soggetti estranei al giudizio principale e' ammissibile soltanto  per
i terzi titolari  di  un  interesse  qualificato,  inerente  in  modo
diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non
semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla  norma  o  dalle
norme oggetto di censura (ex plurimis:  ordinanza  letta  all'udienza
del 23 ottobre 2012, confermata con la  sentenza  n.  272  del  2012;
ordinanza letta all'udienza del 23  marzo  2010,  confermata  con  la
sentenza n. 138 del 2010; ordinanza letta all'udienza  del  31  marzo
2009, confermata con la sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94  del
2009, n. 96 del 2008 e n. 245 del 2007). 
    Nel  giudizio,  da  cui  traggono   origine   le   questioni   di
legittimita' costituzionale, i rapporti sostanziali dedotti in  causa
riguardano profili che possono riguardare le posizioni  previdenziali
dei  soci  dell'ente  intervenuto,  ma  non  concernono  direttamente
prerogative o diritti dei medesimi, con conseguente  inammissibilita'
dell'intervento. 
    5.- Ancora in via preliminare, va respinta l'eccezione, sollevata
dall'INPS, di inammissibilita' della questione, sotto il profilo  che
la  giurisdizione  spetterebbe  non  al  rimettente,  ma  al  giudice
tributario. 
    In considerazione  dell'autonomia  del  giudizio  incidentale  di
costituzionalita' rispetto  a  quello  principale,  questa  Corte  ha
costantemente affermato che il difetto di giurisdizione puo' rilevare
soltanto nei casi in cui appaia macroscopico, cosi' che nessun dubbio
possa aversi sulla sua sussistenza; non anche  quando  il  rimettente
abbia motivato  in  maniera  non  implausibile  in  ordine  alla  sua
giurisdizione (da ultimo sentenze n. 279 del 2012 e n. 241 del 2008).
Nella specie, i rimettenti, in particolare nelle ordinanze n. 55 e n.
56  del  2013,  sulla  specifica  eccezione  sollevata  dalla   parte
costituita in quel giudizio, hanno affermato la propria giurisdizione
sulla base di motivazioni del tutto plausibili. A loro  giudizio,  la
natura  tributaria  della  norma  che  prevede   il   contributo   di
perequazione non trasforma il rapporto tra enti gestori di  forme  di
previdenza  obbligatorie  e  beneficiari  dei  relativi   trattamenti
pensionistici in un rapporto tributario,  in  quanto  la  devoluzione
alla giurisdizione speciale del giudice tributario presuppone che sia
impugnato  uno  degli  atti  previsti  dall'art.   19   del   decreto
legislativo 31 dicembre  1992,  n.  546  (Disposizioni  sul  processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta  nell'art.
30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e che il convenuto in  senso
formale sia uno dei soggetti indicati nell'art. 10  di  tale  decreto
legislativo. 
    A fronte di siffatta espressa statuizione, il sindacato di questa
Corte non puo' che arrestarsi, attesa la non implausibilita'  di  una
simile motivazione, peraltro in linea con i principi  espressi  dalle
sezioni unite della Corte di cassazione, in sede  di  regolamento  di
giurisdizione, richiamati dalle ordinanze di rimessione. 
    6.- La questione sollevata in riferimento agli articoli  3  e  53
Cost. e' fondata. 
    7.- La norma censurata si inserisce nell'ambito del  d.l.  n.  98
del  2011,  recante  disposizioni  urgenti  per  la   stabilizzazione
finanziaria, emanato nel quadro di una  piu'  articolata  manovra  di
stabilizzazione che ha avuto inizio con  il  d.l.  n.  78  del  2010,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del  2010,  recante
misure  urgenti  in  materia  di  stabilizzazione  finanziaria  e  di
competitivita' economica, sviluppatasi in  seguito  attraverso  altri
interventi, contenuti nel d.l. n. 138 del 2011. In tali manovre  sono
state contemplate, per quanto attiene specificamente alle  situazioni
evocate dalle ordinanze in esame,  misure  dirette  a  perseguire  un
generale "raffreddamento" delle dinamiche  retributive  del  pubblico
impiego,  oltre  a   interventi   temporanei   di   riduzione   delle
retribuzioni  e   ad   interventi   "di   solidarieta'",   variamente
articolati, quanto a diverse categorie di cittadini, posti  a  carico
sia del personale dipendente  dalle  pubbliche  amministrazioni,  sia
della generalita' di cittadini. 
    Per quanto qui interessa, con riferimento alla  norma  censurata,
questa Corte ha ricostruito la portata  dell'attuale  formulazione  e
dell'attuale vigenza della disposizione. La legge 14 settembre  2011,
n. 148, nel non convertire in  legge  l'originaria  formulazione  del
comma 1 dell'art. 2 del d.l. n. 138 del 2011 (che aveva  abrogato  il
comma 22-bis dell'art. 18 del d.l. n. 98 del  2011),  ha  sostituito,
come gia' osservato nella sentenza n. 241  del  2012,  il  comma  non
convertito con una disposizione che si e' limitata a  riaffermare  la
perdurante efficacia del comma 22-bis dell'art. 18 del d.l. n. 98 del
2011 («le disposizioni di cui agli articoli [...] 18,  comma  22-bis,
del decreto-legge 6 luglio 2011 n. 98, convertito, con modificazioni,
dalla legge 15 luglio 2011, n.  111,  continuano  ad  applicarsi  nei
termini ivi previsti  rispettivamente  dal  1°  gennaio  2011  al  31
dicembre  2013  e  dal  1°  agosto  2011  al  31   dicembre   2014»).
Conseguentemente, con la mancata conversione, la  stessa  abrogazione
e' venuta meno, con effetto retroattivo, ai sensi dell'art. 77, terzo
comma, Cost., cosi' da determinare la reviviscenza del  comma  22-bis
abrogato dal decreto non convertito. 
    7.1.- Va altresi' osservato che,  alla  luce  del  chiaro  tenore
letterale, la disposizione  trova  applicazione,  in  relazione  alle
erogazioni di trattamenti pensionistici obbligatoria, sia  in  favore
del personale del pubblico impiego, sia  in  relazione  a  tutti  gli
altri trattamenti corrisposti da enti gestori di forme di  previdenza
obbligatori, ivi incluse le  forme  pensionistiche  che  garantiscono
prestazioni  in  aggiunta   o   ad   integrazione   del   trattamento
pensionistico  obbligatorio  (comprese  quelle  di  cui  al   decreto
legislativo 16 settembre 1996,  n.  563,  recante  «Attuazione  della
delega conferita dall'articolo 2, comma 23, lettera b), della legge 8
agosto 1995, n. 335, in materia di trattamenti pensionistici, erogati
dalle  forme  pensionistiche  diverse  da  quelle  dell'assicurazione
generale obbligatoria, del personale degli enti che svolgono le  loro
attivita' nelle materie di cui all'art. 1 del D.Lgs.C.P.S. 17  luglio
1947, n. 691», al decreto  legislativo  20  novembre  1990,  n.  357,
recante  «Disposizioni   sulla   previdenza   degli   enti   pubblici
creditizi», al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n.  252,  recante
«Disciplina delle forme  pensionistiche  complementari»),  nonche'  i
trattamenti che assicurano prestazioni definite dei dipendenti  delle
regioni a statuto speciale e degli enti di cui alla  legge  20  marzo
1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del
rapporto  di  lavoro  del   personale   dipendente),   e   successive
modificazioni. 
    7.2.- Questa Corte ha gia' espressamente qualificato l'intervento
di perequazione in questione come avente natura tributaria, non  solo
allorche'   si   e'    occupata,    dichiarandone    l'illegittimita'
costituzionale, dell'analogo intervento di cui all'art.  9,  comma  2
del decreto-legge n. 78 del 2010 (sentenza n. 223 del 2012), ma anche
e soprattutto allorche' ha esaminato la stessa norma oggi  impugnata,
con la citata sentenza n. 241 del 2012. In tale  pronuncia  e'  stato
affermato che «il contributo oggetto di censura e' previsto a  carico
dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di
previdenza obbligatorie ed ha natura certamente tributaria, in quanto
costituisce un prelievo analogo a quello effettuato  sul  trattamento
economico complessivo dei dipendenti  pubblici  (sopra  descritto  al
punto 7.3.) previsto dallo stesso  comma  1  nella  parte  dichiarata
illegittima da questa Corte con la suddetta sentenza n. 223 del  2012
e la cui natura tributaria e' stata espressamente riconosciuta  dalla
medesima  sentenza.  La  norma  impugnata,   infatti,   integra   una
decurtazione patrimoniale definitiva del  trattamento  pensionistico,
con acquisizione al bilancio  statale  del  relativo  ammontare,  che
presenta tutti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza  di  questa
Corte per caratterizzare il prelievo come  tributario  (ex  plurimis,
sentenze n. 223 del 2012; n. 141 del 2009; n. 335, n. 102 e n. 64 del
2008; n. 334 del 2006; n. 73 del 2005)». 
    Nella specie, la Corte ribadisce la natura tributaria della norma
impugnata, e pertanto la correttezza  della  premessa  interpretativa
che ha condotto i rimettenti ad impugnare  la  norma  per  violazione
degli artt. 3 e 53 Cost. 
    7.3.- Le principali  censure  dei  rimettenti  individuano  nella
misura  in  questione  un  intervento  impositivo   irragionevole   e
discriminatorio  ai  danni  di  una  sola  categoria  di   cittadini.
L'intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il
rispetto dei  principi  fondamentali  di  uguaglianza  a  parita'  di
reddito, attraverso una irragionevole limitazione  della  platea  dei
soggetti  passivi,  divenuta  peraltro  ancora  piu'   evidente,   in
conseguenza  della  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale
dell'analogo prelievo di cui al comma 2 dell'art. 9 del  d.l.  n.  78
del 2010 (sentenza n. 223 del 2012). 
    Cosi' correttamente individuato il rapporto di  comparazione  fra
soggetti  titolari  di  trattamenti  pensionistici  erogati  da  enti
gestori di  forme  di  previdenza  obbligatorie  e  tutti  gli  altri
titolari di redditi, anche e non solo da lavoro dipendente, come reso
palese nelle ordinanze nn. 54 e 55 del 2013, la questione,  come  con
la pronuncia n.  223  del  2012,  va  scrutinata  in  riferimento  al
contrasto con il principio della "universalita' della imposizione" ed
alla irragionevolezza della sua deroga, avendo riguardo, quindi,  non
tanto alla disparita' di trattamento fra dipendenti o fra  dipendenti
e pensionati o fra pensionati e lavoratori autonomi od  imprenditori,
quanto piuttosto a quella fra cittadini. 
    Va infatti, al riguardo, precisato che i  redditi  derivanti  dai
trattamenti pensionistici non hanno, per  questa  loro  origine,  una
natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi  a
riferimento, ai fini dell'osservanza dell'art. 53 Cost., il quale non
consente trattamenti in pejus di determinate categorie di redditi  da
lavoro. Questa Corte ha, anzi, sottolineato (sentenze n. 30 del 2004,
n. 409 del 1995, n. 96 del 1991) la particolare tutela che il  nostro
ordinamento   riconosce    ai    trattamenti    pensionistici,    che
costituiscono, nei diversi sistemi che la legislazione contempla,  il
perfezionamento  della  fattispecie  previdenziale   conseguente   ai
requisiti anagrafici e contributivi richiesti. 
    A fronte di  un  analogo  fondamento  impositivo,  dettato  dalla
necessita' di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il
legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari
di  trattamenti  pensionistici:  il  contributo  di  solidarieta'  si
applica su soglie inferiori e  con  aliquote  superiori,  mentre  per
tutti gli altri cittadini la misura e' ai redditi oltre 300.000  euro
lordi annui, con un'aliquota del 3 per cento, salva in questo caso la
deducibilita' dal reddito. 
    La  giurisprudenza  di  questa  Corte  ha   precisato   che   «la
Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme,  con
criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie
di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile  raccordo
con la capacita' contributiva, in un quadro di  sistema  informato  a
criteri  di  progressivita',  come   svolgimento   ulteriore,   nello
specifico campo tributario, del principio di  eguaglianza,  collegato
al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di
fatto alla liberta' ed eguaglianza dei  cittadini-persone  umane,  in
spirito di solidarieta' politica, economica e sociale (artt.  2  e  3
della Costituzione)» (sentenza n. 341 del 2000). Il  controllo  della
Corte in ordine alla lesione dei principi di cui all'art.  53  Cost.,
come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di  cui
all'art. 3 Cost., non puo',  quindi,  che  essere  ricondotto  ad  un
«giudizio sull'uso ragionevole, o meno,  che  il  legislatore  stesso
abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia  tributaria,  al
fine di verificare la coerenza interna della  struttura  dell'imposta
con il suo presupposto economico,  come  pure  la  non  arbitrarieta'
dell'entita' dell'imposizione» (sentenza n. 111 del 1997). 
    In relazione agli interventi  di  stabilizzazione  della  finanza
pubblica, nel cui contesto  si  colloca  la  disposizione  in  esame,
questa Corte ha evidenziato la sostanziale coincidenza  dei  prelievi
tributari posti in comparazione, ritenendo irragionevole  il  diverso
trattamento  fra  dipendenti  pubblici  e  contribuenti  in  generale
(sentenza n. 223 del 2012). 
    Anche  in  questo  caso,  e'  necessario  analogamente   rilevare
l'identita'  di  ratio  della  norma  oggi  censurata  rispetto   sia
all'analoga  disposizione  gia'  dichiarata   illegittima,   sia   al
contributo di solidarieta' (l'art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) del  3
per cento sui redditi annui superiori a  300.000  euro,  quest'ultimo
assunto anche quale tertium comparationis. 
    Al fine di reperire risorse per la  stabilizzazione  finanziaria,
il  legislatore  ha  imposto  ai   soli   titolari   di   trattamenti
pensionistici,  per  la  medesima  finalita',  l'ulteriore   speciale
prelievo tributario oggetto di censura, attraverso una ingiustificata
limitazione della platea dei soggetti passivi. 
    Va pertanto ribadito, anche questa volta, quanto  gia'  affermato
nella citata sentenza n. 223 del 2012, e cioe' che  tale  sostanziale
identita' di  ratio  dei  differenti  interventi  "di  solidarieta'",
determina  un  giudizio  di  irragionevolezza  ed  arbitrarieta'  del
diverso  trattamento  riservato  alla  categoria  colpita,   «foriero
peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe  potuto  essere  ben
diverso e piu' favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse
rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di  solidarieta'
economica, anche modulando diversamente  un  "universale"  intervento
impositivo».  Se  da  un  lato  l'eccezionalita'   della   situazione
economica che lo Stato deve affrontare e' suscettibile di  consentire
il  ricorso  a  strumenti  eccezionali,  nel  difficile  compito   di
contemperare il  soddisfacimento  degli  interessi  finanziari  e  di
garantire  i  servizi  e  la  protezione  di  cui   tutti   cittadini
necessitano, dall'altro cio' non puo' e non deve  determinare  ancora
una volta un'obliterazione dei fondamentali  canoni  di  uguaglianza,
sui quali si fonda l'ordinamento costituzionale. 
    Nel caso di specie, peraltro,  il  giudizio  di  irragionevolezza
dell'intervento settoriale  appare  ancor  piu'  palese,  laddove  si
consideri che la  giurisprudenza  della  Corte  ha  ritenuto  che  il
trattamento  pensionistico  ordinario  ha  natura   di   retribuzione
differita (fra le altre sentenza n. 30 del 2004, ordinanza n. 166 del
2006); sicche' il  maggior  prelievo  tributario  rispetto  ad  altre
categorie risulta con piu' evidenza discriminatorio, venendo  esso  a
gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati  a
prestazioni lavorative gia' rese da cittadini che hanno  esaurito  la
loro vita lavorativa, rispetto ai quali non  risulta  piu'  possibile
neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro. 
    Va, quindi, pronunciata l'illegittimita' costituzionale dell'art.
18,  comma  22-bis,  del  d.l.  n.  98  del  2011,  convertito,   con
modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, come modificato dall'art.
24,  comma  31-bis,  del  d.l.  n.  201  del  2011,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011.