ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  649  del
codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Monza
nel procedimento penale a carico di  C.  S.,  con  ordinanza  del  30
giugno 2016, iscritta al 236 del registro ordinanze 2016 e pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  47,  prima   serie
speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 24 gennaio  2018  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 30 giugno 2016 (r.o. n. 236 del  2016),  il
Tribunale ordinario di Monza ha sollevato,  in  riferimento  all'art.
117, primo comma, della Costituzione, in  relazione  all'art.  4  del
Protocollo n. 7 alla Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo  e   delle   liberta'   fondamentali   (CEDU),   protocollo
concernente l'estensione della lista dei diritti civili  e  politici,
adottato  a  Strasburgo  il  22  novembre  1984,  ratificato  e  reso
esecutivo con la legge  9  aprile  1990,  n.  98,  una  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 649  del  codice  di  procedura
penale, «nella  parte  in  cui  non  prevede  l'applicabilita'  della
disciplina  del  divieto  di  un  secondo  giudizio   nei   confronti
dell'imputato al quale, con riguardo  agli  stessi  fatti,  sia  gia'
stata irrogata in via  definitiva,  nell'ambito  di  un  procedimento
amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente  penale  ai
sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dei  relativi
Protocolli». 
    Il rimettente giudica un imputato del reato previsto dall'art. 5,
comma 1,  del  decreto  legislativo  10  marzo  2000,  n.  74  (Nuova
disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e  sul  valore
aggiunto, a norma dell'articolo 9 della  legge  25  giugno  1999,  n.
205), per avere omesso di presentare la dichiarazione dell'anno  2008
relativa all'imposta sul reddito  delle  persone  fisiche  (IRPEF)  e
all'imposta sul valore  aggiunto  (IVA),  al  fine  di  evadere  tali
imposte per un importo superiore alla soglia di punibilita'. 
    La medesima  omissione  costituisce  illecito  tributario  ed  e'
sanzionata in via amministrativa, ai sensi degli artt. 1, comma 1,  e
5, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 (Riforma
delle sanzioni tributarie non penali in materia di  imposte  dirette,
di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a  norma
dell'articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre  1996,
n. 662). A tale titolo l'imputato e' gia' stato destinatario  di  una
sanzione amministrativa pari al 120 per cento di entrambe le  imposte
evase. 
    La sanzione, conseguente a  un  avviso  di  accertamento  del  20
febbraio 2003, e' stata irrogata in via definitiva.  Su  quest'ultimo
punto, il giudice a quo reputa  ininfluente  che  non  vi  sia  prova
dell'avvenuto pagamento della sanzione, posto che il procedimento  di
riscossione e' stato sospeso in base all'art. 21, comma 2, del d.lgs.
n. 74 del 2000. Cio' che rileva, pertanto, e' la  sola  definitivita'
della sanzione, di cui il rimettente da' atto, rilevando che non sono
stati esperiti ricorsi contro l'avviso di accertamento. 
    Attraverso un'accurata ricostruzione della  giurisprudenza  della
Corte europea dei diritti dell'uomo, con specifico  riferimento  alle
«sovrattasse tributarie», il  rimettente  conclude  che  la  sanzione
amministrativa tributaria inflitta in via definitiva all'imputato  ha
natura penale, ai sensi dell'art. 7 della CEDU, e che  l'art.  4  del
Protocollo n. 7 alla Convenzione vieta di procedere nuovamente per il
medesimo fatto e nei confronti della stessa persona. 
    Ne', aggiunge il rimettente, sulla base della concezione di  idem
factum  accolta  dalla  consolidata  giurisprudenza   europea,   puo'
dubitarsi che il fatto sia  il  medesimo,  e  tuttavia  l'ordinamento
giuridico italiano non permetterebbe di far valere tale divieto. 
    Gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000 prevengono,  «sul
piano  sostanziale,  la  duplicazione   delle   sanzioni»,   ma   non
impediscono, ne' hanno impedito  nel  caso  di  specie,  l'avvio  del
procedimento   penale   pur   dopo   che   la   sanzione   tributaria
amministrativa e' divenuta definitiva. L'art. 19 del d.lgs. n. 74 del
2000 infatti stabilisce che quando il medesimo fatto  e'  punito,  in
quanto reato, ai sensi del Titolo II del d.lgs. n.  74  del  2000,  e
allo stesso tempo, in quanto  illecito  amministrativo,  deve  essere
applicata la sola disposizione speciale, che, nel  caso  oggetto  del
processo principale, e' quella penale. Pero' questa regola,  in  base
all'art. 21  del  d.lgs.  n.  74  del  2000,  non  impedisce  che  il
procedimento  amministrativo   finalizzato   all'applicazione   della
sanzione e il  processo  tributario  siano  avviati  e  se  del  caso
conclusi, posto che la legge esclude che essi siano sospesi  a  causa
della pendenza del procedimento penale (cosiddetto sistema del doppio
binario). 
    La sanzione amministrativa, anzi, e' applicata in ogni  caso,  ma
non puo' essere  eseguita,  salvo  che  il  procedimento  penale  sia
definito con provvedimento di archiviazione, o sentenza  irrevocabile
di assoluzione o di proscioglimento con una formula  che  esclude  la
rilevanza penale del fatto (art. 21, comma 2, del d.lgs.  n.  74  del
2000). 
    In tal modo, osserva ancora il rimettente, si  offre  un  rimedio
per  «scongiurare  il  rischio  di  duplicazione  delle  sanzioni  al
medesimo soggetto per l'identico fatto», ma  si  postula,  sul  piano
processuale, che il giudizio penale debba essere celebrato nonostante
la definitivita' della sanzione amministrativa gia' inflitta, benche'
sospesa nell'esecuzione. 
    Questa situazione e' reputata dal rimettente in contrasto con  il
divieto di bis in idem enunciato dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla
CEDU; tuttavia, non vi sarebbe modo di far valere una  simile  regola
nell'ordinamento, perche' l'art. 649 cod. proc. pen.,  enunciando  il
divieto di un secondo giudizio penale per il  medesimo  fatto,  opera
solo se l'imputato e' stato gia' giudicato con  «sentenza  o  decreto
penale divenuti irrevocabili», ovvero presuppone la formazione di  un
giudicato penale. 
    Il rimettente esclude di poter superare la  previsione  letterale
della   disposizione   con   un'interpretazione    costituzionalmente
orientata, ne' reputa che l'art. 649 cod.  proc.  pen.  possa  essere
applicato in via analogica. 
    Per  tale  ragione  il  Tribunale  di  Monza  solleva   l'odierna
questione di legittimita' costituzionale. 
    Pur consapevole  che  l'accoglimento  di  essa  comporterebbe  la
rinuncia alla sanzione penale laddove, come  accade  di  regola,  sia
divenuta definitiva in  precedenza  la  sanzione  amministrativa,  il
giudice a quo considera che si tratti dell'unica soluzione  possibile
per evitare la violazione del divieto di bis in idem e per consentire
conseguentemente che il giudizio penale sia definito con sentenza  di
non luogo a procedere. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, o, in
via subordinata, che gli atti siano restituiti al giudice a quo. 
    L'eccezione di inammissibilita' si basa sul fatto che, agli atti,
non   vi   e'   prova   dell'avvenuto   pagamento   della    sanzione
amministrativa. E'  opinione  dell'Avvocatura  dello  Stato  che,  in
questo caso, la giurisprudenza di legittimita' escluda che  si  possa
ritenere provata  la  definitivita'  della  sanzione  amministrativa,
ovvero uno dei presupposti di applicabilita' del divieto  di  bis  in
idem. 
    In via subordinata, l'Avvocatura dello Stato  rileva  che  l'art.
11, comma 1, del  decreto  legislativo  24  settembre  2015,  n.  158
(Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell'articolo  8,
comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23) ha  sostituito  l'art.  13
del d.lgs. n. 74 del 2000, introducendo, «nel caso di  pagamento  del
debito tributario e  delle  relative  sanzioni»,  una  causa  di  non
punibilita' del delitto per il quale il rimettente procede. 
    Gli atti andrebbero percio' restituiti  al  rimettente  affinche'
accerti se si e' verificata questa circostanza e alla  luce  di  cio'
rivaluti il requisito della rilevanza. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Monza ha sollevato, in  riferimento
all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione  all'art.
4 del Protocollo n.  7  alla  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  protocollo
concernente l'estensione della lista dei diritti civili  e  politici,
adottato  a  Strasburgo  il  22  novembre  1984,  ratificato  e  reso
esecutivo con la legge  9  aprile  1990,  n.  98,  una  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 649  del  codice  di  procedura
penale, «nella  parte  in  cui  non  prevede  l'applicabilita'  della
disciplina  del  divieto  di  un  secondo  giudizio   nei   confronti
dell'imputato al quale, con riguardo  agli  stessi  fatti,  sia  gia'
stata irrogata in via  definitiva,  nell'ambito  di  un  procedimento
amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente  penale  ai
sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dei  relativi
Protocolli». 
    Il rimettente riferisce di dover giudicare  una  persona  per  il
delitto punito dall'art. 5, comma 1, del decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in  materia  di  imposte  sui
redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25
giugno 1999, n. 205), consistito nell'omissione  delle  dichiarazioni
relative all'imposta sui redditi e all'imposta sul  valore  aggiunto,
al  fine  di  evaderle  per  una  somma  superiore  alla  soglia   di
punibilita'. 
    Il  medesimo  fatto  storico  integra  anche  gli  estremi  degli
illeciti amministrativi previsti dall'art. 1, comma  1,  del  decreto
legislativo  18  dicembre  1997,  n.  471  (Riforma  delle   sanzioni
tributarie non penali in materia di imposte dirette, di  imposta  sul
valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a  norma  dell'articolo
3, comma 133, lettera q, della  legge  23  dicembre  1996,  n.  662),
quanto all'IRPEF, e dall'art.  5,  comma  1,  del  medesimo  decreto,
quanto all'IVA. 
    In relazione a tali ultimi illeciti,  l'imputato  e'  gia'  stato
destinatario di una sanzione tributaria di importo pari  al  120  per
cento   delle   imposte   evase,   all'esito   di   un   procedimento
amministrativo oramai definitivamente  concluso  con  atti  non  piu'
soggetti a impugnazione. 
    L'art. 19 del d.lgs. n. 74 del 2000, enunciando il  principio  di
specialita'  nel  rapporto  tra  reato   e   illecito   ammnistrativo
tributario, assicura che la persona non possa  subire  l'applicazione
sia della sanzione tributaria sia della  sanzione  penale.  All'esito
dei procedimenti gli verra' applicata la sola sanzione prevista dalla
disposizione speciale, che secondo il rimettente e' quella penale. 
    Non  puo'  verificarsi  percio'  un'ipotesi  di   bis   in   idem
sostanziale, ovvero di cumulo tra sanzione amministrativa e  sanzione
penale in  rapporto  al  medesimo  fatto,  perche'  lo  impedisce  il
principio di specialita'. 
    Al contempo, la normativa vigente postula che per lo stesso fatto
debbano svolgersi due procedimenti distinti, l'uno penale  e  l'altro
tributario, e non esclude che uno di  essi  possa  essere  avviato  o
proseguito anche dopo che l'altro  si  e'  definitivamente  concluso.
Difatti, anche quando  opera  la  specialita',  l'amministrazione  e'
comunque  tenuta  a  irrogare  le  sanzioni  amministrative,  che  si
prestano  cosi'   a   divenire   definitive.   Esse   restano   pero'
ineseguibili, fino a quando  il  procedimento  penale  non  e'  stato
definito con provvedimento di archiviazione o  sentenza  irrevocabile
di assoluzione o  di  proscioglimento  con  formula  che  esclude  la
rilevanza penale del fatto (art. 21, comma 2, del d.lgs.  n.  74  del
2000). 
    In  altri  termini  la  sanzione  tributaria  viene  disposta   e
acquisisce  natura  definitiva,  ma,  in  virtu'  del  principio   di
specialita', puo' essere messa in esecuzione solo se per il  medesimo
fatto non e' stata inflitta una pena. A  questo  fine  e'  necessario
avviare il procedimento penale, quand'anche,  come  e'  accaduto  nel
giudizio a quo, esso sia posteriore alla definizione del procedimento
e del contenzioso tributario. 
    La  normativa  vigente   presuppone   percio'   una   fisiologica
duplicazione  dell'attivita'  sanzionatoria,  che  da'  vita  ad   un
fenomeno  di  bis  in  idem  processuale:  e'  consentito   procedere
nuovamente per il medesimo fatto gia' oggetto di un  procedimento  di
altra natura anche se quest'ultimo e' gia' stato definito. 
    2.- L'ipotesi appena tracciata, e che si e' inverata nel giudizio
a quo, declina sul piano  processuale  la  scelta  discrezionale  del
legislatore di punire un fatto, sia con la sanzione penale,  sia  con
la sanzione tributaria, salvo  che  si  accerti  la  sussistenza  del
rapporto di specialita'. Benche' non manchino nella legislazione casi
in cui l'irrogazione della sanzione amministrativa  e'  demandata  al
giudice penale, resta fermo che in linea tendenziale la competenza  a
irrogare  tale  sanzione  spetta,  in  ragione  della   sua   natura,
all'amministrazione, all'esito di un apposito  procedimento  distinto
da quello penale. 
    In tal caso l'eventualita' che il processo  penale  origini  dopo
che l'esito del procedimento sanzionatorio  amministrativo,  vertente
sul medesimo fatto, e' divenuto definitivo, o viceversa, non comporta
alcuna violazione del divieto di bis in idem  processuale  ricavabile
dalla Costituzione nella materia propriamente penale (sentenza n. 200
del 2016), ma riflette piuttosto l'ampia sfera di reciproca autonomia
tra sanzioni amministrative e pene in senso  proprio  che  e'  tipica
dell'ordinamento giuridico nazionale (sentenze n. 109  e  n.  43  del
2017,  n.  49  del  2015).  Posto  che,  nei  limiti  del   controllo
costituzionale di proporzionalita' (che vieta risposte  sanzionatorie
nel complesso palesemente sproporzionate), il legislatore  e'  libero
di cumulare sanzioni di genere diverso  per  il  medesimo  fatto,  la
circostanza che esse siano inflitte da autorita' differenti e  dunque
all'esito di  procedimenti  privi  di  reciproco  coordinamento,  non
incontra in linea di principio obiezioni di ordine costituzionale, se
non per il profilo sollevato dal rimettente nell'odierno giudizio. 
    Quest'ultimo   osserva,   infatti,   che   sanzioni   di   natura
amministrativa alla luce  del  diritto  nazionale  possono  rivestire
carattere penale ai sensi dell'art. 7  della  CEDU,  sulla  base  dei
criteri di qualificazione enunciati dalla consolidata  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo fin  dalla  sentenza  della
grande camera dell'8 giugno 1976, Engel e altri contro  Paesi  Bassi.
In tali casi la Corte EDU ha altresi' costantemente ritenuto che  tra
le garanzie assicurate dalla Convenzione vi sia, enunciato  dall'art.
4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, il divieto di  procedere  nuovamente
per il medesimo fatto gia' giudicato in via definitiva. 
    Pertanto, una  volta  riconosciuta  la  natura  penale,  in  base
all'art. 7 della CEDU, di una sanzione amministrativa, la fattispecie
a livello convenzionale e' presidiata dalla garanzia del  divieto  di
bis in idem, con la conseguenza che la definitivita'  dell'esito  del
procedimento amministrativo deve precludere, salvo quanto si dira' in
seguito, l'avvio del processo penale, e viceversa. 
    Questo e' il caso  con  il  quale  il  rimettente  si  confronta:
l'imputato e' gia' stato  destinatario  di  una  afflittiva  sanzione
tributaria, che ha senza dubbio natura  penale  in  base  all'art.  7
della CEDU, come del resto e' stato gia'  riconosciuto  dalla  stessa
Corte EDU nello  scrutinare  analoghe  «sovrattasse»  previste  dalla
legislazione  di  altri  Stati  aderenti  (ad  esempio,  sentenza  27
novembre 2014, Lucky Dev contro Svezia). 
    Nonostante  la  definitivita'  dell'accertamento  tributario,  la
legislazione vigente esige lo svolgimento di un  procedimento  penale
per il medesimo fatto, con cio' ledendo,  a  parere  del  rimettente,
l'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU e, con esso, l'art. 117, primo
comma, Cost. 
    Considerato che, allo stato, il divieto di  bis  in  idem  recato
dall'art. 649 cod. proc. pen. si applica alla sola materia penale  in
senso  proprio,  e  non  si  estende  percio'  alla   relazione   tra
procedimento tributario e procedimento  penale,  per  la  quale  vige
invece la regola opposta, il rimettente  chiede  a  questa  Corte  di
conformare  l'ordinamento  italiano  alla  CEDU.   Andrebbe   percio'
adeguato l'art. 649 cod. proc. pen. in modo tale che esso comporti il
divieto di procedere penalmente per  un  fatto  che  sia  gia'  stato
oggetto di un definitivo accertamento  di  carattere  amministrativo,
quando per tale fatto e'  prevista  l'applicazione  di  una  sanzione
sostanzialmente penale in base all'art. 7 della CEDU. 
    3.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' della questione,  perche'  il  rimettente  non  ha
acquisito la prova dell'avvenuto pagamento della sanzione tributaria.
Questa omissione  impedirebbe  di  ritenere  che  tale  sanzione  sia
definitiva e che quindi ricorrano i presupposti del ne bis in idem. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il pagamento della sanzione amministrativa  puo'  costituire,  al
limite e in certi casi,  un  indizio  del  fatto  che  la  stessa  e'
divenuta definitiva, ma cio' che rileva e' esclusivamente la verifica
della sua definitivita'. Nel caso di  specie  il  giudice  a  quo  ha
affermato motivatamente  che  la  sanzione  tributaria  non  e'  piu'
soggetta a impugnazione, e tanto basta per ritenere  che  sussistono,
sotto tale profilo, le condizioni perche' operi il divieto di bis  in
idem. 
    L'Avvocatura dello Stato ha poi sollecitato in via subordinata la
restituzione degli atti al giudice a quo, in ragione della  causa  di
non punibilita' introdotta dall'art. 11 del  decreto  legislativo  24
settembre 2015, n.  158  (Revisione  del  sistema  sanzionatorio,  in
attuazione dell'articolo 8, comma 1, della legge 11  marzo  2014,  n.
23), che ha sostituito l'art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000. 
    In particolare l'art. 13, comma 2, del  d.lgs.  n.  74  del  2000
prevede nel testo attualmente in vigore  che  il  reato  oggetto  del
processo principale non sia punibile se l'agente estingue  il  debito
tributario,  comprensivo  di  sanzioni  e   interessi,   purche'   il
ravvedimento  operoso  intervenga  prima  «dell'inizio  di  qualunque
attivita' di accertamento amministrativo o di  procedimenti  penali».
L'Avvocatura generale ritiene che il rimettente  dovrebbe  rivalutare
la  rilevanza  della  questione  accertando  se  la  causa   di   non
punibilita' ricorra o no nel caso concreto. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Anzitutto, va precisato che l'art. 11 del d.lgs. n. 158 del  2015
non costituisce ius superveniens in quanto e' anteriore all'ordinanza
di rimessione del 30 giugno 2016, sicche' non vi sono  i  presupposti
di una restituzione degli atti. 
    In ogni caso, la descrizione dei  fatti  esposta  dal  rimettente
consente di escludere la sussistenza della causa di non  punibilita'.
Nel  caso  di  specie  l'avvio  e  la  conclusione  del  procedimento
amministrativo sanzionatorio comprovano che l'eventuale pagamento del
debito tributario non sarebbe stato comunque  efficace  ai  fini  del
ravvedimento   operoso,   perche'   sopravvenuto   all'attivita'   di
accertamento amministrativo. 
    4.- La lettera e la ratio dell'art. 649 cod. proc. pen. escludono
che, in difetto di una pronuncia  di  illegittimita'  costituzionale,
tale disposizione sia idonea a regolare il caso del giudizio  a  quo,
come il rimettente ha posto in luce.  La  questione  di  legittimita'
costituzionale  e'   percio'   ammissibile,   dato   che   e'   stata
motivatamente  e  convincentemente   esclusa   la   possibilita'   di
un'interpretazione  costituzionalmente  conforme  della  disposizione
censurata (sentenze n. 253 del 2017, n. 36 del  2016  e  n.  221  del
2015). 
    5.- Le disposizioni della CEDU e dei suoi protocolli  addizionali
vivono nel significato loro  attribuito  dalla  giurisprudenza  della
Corte EDU (sentenze n. 349 e n.  348  del  2007),  che  introduce  un
vincolo conformativo a carico dei poteri interpretativi  del  giudice
nazionale quando puo' considerarsi consolidata (sentenza  n.  49  del
2015). 
    Adeguandosi ai  principi  cosi'  espressi  da  questa  Corte,  il
rimettente  ha  collocato  a  base   del   dubbio   di   legittimita'
costituzionale  una  normativa  interposta,  ricostruita   in   forza
dell'analisi  della  giurisprudenza  europea  disponibile  alla  data
dell'ordinanza  di  rimessione,  e  ne  ha  colto  correttamente   il
significato. 
    In particolare due sono i tratti peculiari del divieto di bis  in
idem che meritano qui di venire  sottolineati  alla  luce  di  quella
giurisprudenza e ai quali il rimettente si e' doverosamente  ritenuto
legato. 
    Anzitutto il ne  bis  in  idem  convenzionale  aveva,  quando  la
questione  di  legittimita'  costituzionale   e'   stata   sollevata,
carattere  tendenzialmente  inderogabile,  nel  senso  che   la   sua
efficacia non era mediata da apprezzamenti discrezionali del  giudice
in ordine alle concrete modalita'  di  svolgimento  dei  procedimenti
sanzionatori, ma si riconnetteva  esclusivamente  alla  constatazione
che un fatto, colto nella sua  componente  naturalistica  (cosiddetto
idem factum), era gia' stato giudicato in via  definitiva,  con  cio'
impedendo l'avvio di un nuovo procedimento. 
    Sotto questo aspetto e' vero che  la  Corte  EDU  aveva  talvolta
ritenuto conforme alla CEDU e all'art. 4 del suo Protocollo n.  7  la
conclusione di un secondo procedimento,  nonostante  il  primo  fosse
gia' stato definito, a condizione che esistesse tra i due  un  legame
materiale e temporale sufficientemente stretto. 
    Tuttavia, fino allo sviluppo di  cui  presto  si  dira',  si  era
trattato di un criterio di cosi' sporadica applicazione da non  poter
in alcun modo contribuire a scolpire con  univocita'  il  significato
della normativa interposta.  Esso  aveva  infatti  trovato  esplicita
manifestazione, nel senso di escludere il bis in idem,  soltanto  nei
casi in cui  la  seconda  sanzione  costituiva  una  conseguenza,  in
sostanza automatica e necessitata, della condanna con cui  era  stata
inflitta la prima pena: e' l'ipotesi del ritiro in via amministrativa
della patente di guida, a seguito della condanna penale per un  reato
legato alla circolazione stradale (Corte EDU,  sentenza  13  dicembre
2005, Nilsson contro Svezia; analogamente, sentenza 17 febbraio 2015,
Boman contro Finlandia). Del resto altra parte  della  giurisprudenza
europea si e' esercitata sul tema in discussione nel medesimo periodo
senza neppure menzionare il criterio del legame temporale e materiale
tra i due  procedimenti  (ad  esempio,  grande  camera,  sentenza  10
febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia;  sentenza  4  marzo  2014,
Grande Stevens contro Italia). 
    In  nessun  caso,  soprattutto,  tale  criterio  avrebbe   potuto
estendersi al rapporto tra  procedimento  tributario  e  procedimento
penale, quando, come accade nell'ordinamento  italiano,  entrambe  le
autorita' chiamate in gioco sono tenute ad un autonomo  apprezzamento
dei fatti (Corte EDU, sentenza 27 novembre  2014,  Lucky  Dev  contro
Svezia; sentenza 20 maggio 2014, Nykänen contro  Finlandia;  sentenza
20 maggio 2014, Glantz contro Finlandia). 
    E' percio' evidente che, perlomeno con riguardo al  caso  oggetto
del giudizio a quo, non sarebbe stato  conforme  alla  giurisprudenza
europea  valorizzare  il  legame  temporale   e   materiale   tra   i
procedimenti, al fine di escludere il bis in idem. 
    In secondo luogo il divieto convenzionale di bis in  idem  aveva,
alla luce della giurisprudenza vigente  al  tempo  dell'ordinanza  di
rimessione,  natura  esclusivamente   processuale.   L'art.   4   del
Protocollo n. 7 alla CEDU permetteva «agli Stati aderenti  di  punire
il medesimo  fatto  a  piu'  titoli,  e  con  diverse  sanzioni»,  ma
richiedeva che cio' avvenisse «in un unico procedimento o  attraverso
procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della  condizione  che
non si proceda per uno di  essi  quando  e'  divenuta  definitiva  la
pronuncia relativa all'altro» (sentenza n. 102 del 2016).  La  tutela
convenzionale basata su quella disposizione  non  richiedeva  percio'
alcun controllo  di  proporzionalita'  sulla  misura  della  sanzione
complessivamente  irrogata,  ne',  allo   scopo   di   prevenire   un
trattamento sanzionatorio eccessivamente afflittivo,  subordinava  la
quantificazione  della  pena  inflitta  per  seconda   a   meccanismi
compensativi rispetto alla sanzione divenuta definitiva per prima. 
    Sotto  tale  profilo,  gli  approdi   della   giurisprudenza   di
Strasburgo non coincidevano  pienamente  con  quanto  statuito  dalla
grande sezione della Corte di giustizia dell'Unione  europea  con  la
sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-617/10,  Fransson.  Nell'ambito
del diritto dell'Unione, secondo quanto affermato da tale  decisione,
a fronte di un obbligo a carico dello Stato membro di repressione  di
certe condotte,  l'efficacia  del  divieto  di  bis  in  idem  basato
sull'art.  50  della  Carta  dei  diritti  fondamentali   dell'Unione
europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000  e,  in  una  versione
adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo,  e'  subordinata  ad  una
verifica sul carattere effettivo, proporzionato  e  dissuasivo  delle
sanzioni applicate. Qualora la  risposta  sanzionatoria  fosse  sotto
tale verso inadeguata  il  giudice  potrebbe  procedere  nel  secondo
giudizio anche se il primo fosse gia' esaurito. Benche'  operante  in
malam partem, il limite  all'efficacia  del  ne  bis  in  idem  cosi'
descritto apre la strada ad una valutazione sul peso combinato  delle
sanzioni applicabili in due separate sedi; valutazione che incrina la
portata meramente processuale della regola. 
    Il divieto convenzionale di bis in idem, viceversa, escludeva, al
pari di quello ricavabile nella  materia  penale  dalla  Costituzione
(sentenza n. 200 del 2016), ogni valutazione di tale natura, operando
su una sfera esclusivamente processuale. 
    Sulla base di questa premessa il rimettente, per  decidere  sulla
sussistenza, o no, di un  divieto  di  procedere  nuovamente  per  lo
stesso fatto, non aveva ragione di interrogarsi  sulla  misura  della
sanzione tributaria per rapportarla  alla  pena  che  avrebbe  potuto
applicare in caso di condanna dell'imputato. 
    In conclusione, il dubbio di legittimita' costituzionale e' stato
correttamente formulato, assumendo  a  presupposto,  in  forza  della
giurisprudenza europea allora in  essere,  che  il  ne  bis  in  idem
convenzionale opera,  nel  rapporto  tra  accertamento  tributario  e
accertamento penale, ogni qual  volta  sia  stato  definito  uno  dei
relativi procedimenti. 
    La questione doveva percio' ritenersi  rilevante,  dato  che,  in
seguito alla definitiva irrogazione di una sanzione convenzionalmente
penale, il giudice a quo non avrebbe potuto  procedere  nel  giudizio
penale sul medesimo  fatto  senza  affrontare  il  nodo  del  divieto
imposto dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. 
    6.- Con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro  Norvegia,  la
grande camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo
alla  materia  di  cui  si  discute.   La   rigidita'   del   divieto
convenzionale di bis in idem, nella parte in cui  trova  applicazione
anche per sanzioni che gli  ordinamenti  nazionali  qualificano  come
amministrative, aveva ingenerato gravi difficolta' presso  gli  Stati
che hanno ratificato  il  Protocollo  n.  7  alla  CEDU,  perche'  la
discrezionalita' del legislatore nazionale di punire lo stesso  fatto
a duplice titolo, pur non negata dalla Corte  di  Strasburgo,  finiva
per essere frustrata di fatto dal divieto di bis in idem. 
    Per alleviare tale inconveniente la Corte  EDU  ha  enunciato  il
principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i
procedimenti  sono  avvinti  da  un  legame  materiale  e   temporale
sufficientemente  stretto   («sufficiently   closely   connected   in
substance and in time»), attribuendo a questo  requisito  tratti  del
tutto  nuovi  rispetto  a  quelli  che  emergevano  dalla  precedente
giurisprudenza. 
    In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato (paragrafo 132
della sentenza  A  e  B  contro  Norvegia)  che  legame  temporale  e
materiale sono requisiti congiunti; che il legame temporale non esige
la  pendenza  contemporanea  dei  procedimenti,  ma  ne  consente  la
consecutivita', a condizione che  essa  sia  tanto  piu'  stringente,
quanto piu' si protrae la durata  dell'accertamento;  che  il  legame
materiale  dipende  dal  perseguimento  di  finalita'   complementari
connesse ad aspetti differenti della condotta,  dalla  prevedibilita'
della duplicazione  dei  procedimenti,  dal  grado  di  coordinamento
probatorio tra di essi,  e  soprattutto  dalla  circostanza  che  nel
commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al
fine di evitare l'imposizione di un eccessivo fardello per lo  stesso
fatto illecito. Al contempo, si dovra' valutare anche se le sanzioni,
pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro  del
diritto penale, perche' in caso  affermativo  si  sara'  piu'  severi
nello scrutinare la  sussistenza  del  legame  e  piu'  riluttanti  a
riconoscerlo in concreto. 
    7.- Con la sentenza  A  e  B  contro  Norvegia,  per  quanto  qui
interessa, entrambi i presupposti intorno ai quali e' stata costruita
l'odierna questione di legittimita' costituzionale sono venuti meno. 
    Il ne bis in idem  convenzionale  cessa  di  agire  quale  regola
inderogabile  conseguente   alla   sola   presa   d'atto   circa   la
definitivita' del primo  procedimento,  ma  viene  subordinato  a  un
apprezzamento proprio della discrezionalita' giudiziaria in ordine al
nesso che lega i procedimenti, perche'  in  presenza  di  una  "close
connection" e' permesso proseguire nel nuovo giudizio ad  onta  della
definizione dell'altro. 
    Inoltre neppure si puo' continuare a sostenere che il divieto  di
bis in idem convenzionale ha  carattere  esclusivamente  processuale,
giacche' criterio eminente per affermare o negare il legame materiale
e'   proprio   quello    relativo    all'entita'    della    sanzione
complessivamente  irrogata.  Se  pertanto  la  prima  sanzione  fosse
modesta, sarebbe in linea di  massima  consentito,  in  presenza  del
legame  temporale,  procedere  nuovamente   al   fine   di   giungere
all'applicazione  di  una  sanzione  che  nella  sua  totalita'   non
risultasse  sproporzionata,  mentre  nel  caso  opposto   il   legame
materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto  di  bis  in  idem
pienamente operante. 
    Cosi', cio' che il divieto di bis in idem ha perso in termini  di
garanzia individuale, a causa  dell'attenuazione  del  suo  carattere
inderogabile,  viene  compensato  impedendo  risposte  punitive   nel
complesso sproporzionate. 
    E' chiaro il carattere innovativo che la regola della sentenza  A
e B contro Norvegia ha impresso in ambito convenzionale al divieto di
bis in idem, rispetto al quadro esistente al tempo dell'ordinanza  di
rimessione. In sintesi puo' dirsi  che  si  e'  passati  dal  divieto
imposto agli Stati  aderenti  di  configurare  per  lo  stesso  fatto
illecito due procedimenti che si concludono  indipendentemente  l'uno
dall'altro, alla facolta' di coordinare nel tempo e nell'oggetto tali
procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza  come
preordinati a un'unica, prevedibile  e  non  sproporzionata  risposta
punitiva, avuto specialmente  riguardo  all'entita'  della  pena  (in
senso convenzionale) complessivamente irrogata. 
    Questa svolta giurisprudenziale e' potenzialmente  produttiva  di
effetti con  riguardo  al  rapporto  tra  procedimento  tributario  e
procedimento penale. 
    In precedenza, come si e' visto,  l'autonomia  dell'uno  rispetto
all'altro escludeva in radice che essi potessero sottrarsi al divieto
di bis in idem. Oggi, pur dovendosi  prendere  in  considerazione  il
loro grado di coordinamento  probatorio,  al  fine  di  ravvisare  il
legame materiale, vi e' la possibilita' che in  concreto  gli  stessi
siano ritenuti sufficientemente connessi, in modo  da  far  escludere
l'applicazione del divieto di bis in idem, come testimonia la  stessa
sentenza A e B contro Norvegia, che proprio a  tali  procedimenti  si
riferisce. 
    Naturalmente la decisione non puo' che  passare  da  un  giudizio
casistico, affidato all'autorita' che procede. Infatti, sebbene possa
affermarsi in termini astratti che la  configurazione  normativa  dei
procedimenti e' in grado per alcuni aspetti di integrare  una  "close
connection",  vi  sono  altri  aspetti  che  restano  necessariamente
consegnati alla peculiare dinamica con cui le vicende  procedimentali
si sono atteggiate nel caso concreto. 
    8.- Il mutamento  del  significato  della  normativa  interposta,
sopravvenuto all'ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia
della grande camera della Corte di Strasburgo che esprime il  diritto
vivente europeo, comporta la restituzione degli  atti  al  giudice  a
quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione
di legittimita' costituzionale  (ordinanza  n.  150  del  2012).  Se,
infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale e'  legato
temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto  da
non  costituire  un  bis  in  idem  convenzionale,  non  vi   sarebbe
necessita'  ai   fini   del   giudizio   principale   di   introdurre
nell'ordinamento, incidendo sull'art. 649  cod.  proc.  pen.,  alcuna
regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto. 
    9.- Questa Corte tiene a sottolineare che la nuova  regola  della
sentenza A e B contro Norvegia rende  meno  probabile  l'applicazione
del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione
dei procedimenti sanzionatori  per  il  medesimo  fatto,  ma  non  e'
affatto da escludere che tale applicazione si imponga di  nuovo,  sia
nell'ambito  degli  illeciti  tributari,   sia   in   altri   settori
dell'ordinamento, ogni qual volta sia  venuto  a  mancare  l'adeguato
legame temporale e materiale, a causa di un ostacolo normativo o  del
modo in cui si sono svolte le vicende procedimentali. 
    Resta percio' attuale l'invito al legislatore a «stabilire  quali
soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni»  che  il
sistema del  cosiddetto  doppio  binario  «genera  tra  l'ordinamento
nazionale e la CEDU» (sentenza n. 102 del 2016). 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.