ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 414, ultimo comma, del codice Penale, promosso con ordinanza emessa il 23 novembre 1968 dal giudice istruttore del tribunale di Rovigo nel procedimento penale a carico di Traniello Leobaldo Giovanni e Milan Paolo, iscritta al n. 261 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969. Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; udito nell'udienza pubblica del 28 gennaio 1970 il Giudice relatore Paolo Rossi; udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ritenuto in fatto: Il giudice istruttore presso il tribunale di Rovigo, richiesto dal p .m. di emettere decreto di archiviazione nei confronti di Leobaldo Giovanni Traniello e di Paolo Milan, imputati di apologia di delitto per aver giustificato il reato di disobbedienza per cui tale Bellettato era stato denunziato alla procura militare di Torino (art. 173 c.p.m.p.), respingeva l'istanza, disponendo l'ulteriore corso del procedimento. Il giudice procedente osservava che nell'articolo "L'obiettore di coscienza" a firma del Traniello, erano contenute frasi di apprezzamento della condotta degli obiettori di coscienza, (quale "... forse, oggi e' prematuro abolire l'obblico del servizio militare; ma per questo e' anche preziosa la presenza di coloro che, a costo di pagare di persona, portano avanti l'idea che un giorno bisognera' farne a meno se ci si vorra' considerare ancora popoli civili ") che, secondo una certa interpretazione potevano essere sufficienti ad integrare gli estremi del reato previsto nell'ultimo comma dell'art. 414 del codice penale. Sollevata dal difensore questione di legittimita' costituzionale della norma incriminatrice, per contrasto con l'art. 21, primo comma, della Costituzione che garantisce il diritto di libera manifestazione del pensiero, il giudice a quo, ritenendo la questione rilevante e non manifestamente infondata, rimetteva gli atti del giudizio alla Corte costituzionale. Con atto depositato il 18 febbraio 1969 interveniva in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentata dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione proposta. Osserva l'Avvocatura che l'art. 21 della Costituzione non pone in essere un diritto illimitato, tanto vero che la Corte costituzionale ha riconosciuto che operano in senso limitativo, oltre la tutela del buon costume, espressamente richiamata, l'esigenza di impedire turbamenti dell'ordine pubblico, il cui mantenimento costituisce una finalita' immanente nel sistema (sentenze n. 87 del 1966 e 19 del 1962). In secondo luogo, osserva l'Avvocatura, anche ad aderire alla piu' rigorosa interpretazione dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale, l'apologia di delitto si riferisce sempre ad un concreto determinato avvenimento del passato, onde non puo' concernere la libera critica al sistema o alle sue singole norme. Mentre, dunque, la manifestazione del puro pensiero, scientifico, religioso, politico, ecc., tutelata dal principio costituzionale invocato, rimane del tutto estranea alla norma incriminatrice denunciata, questa punisce soltanto l'elogio del singolo fatto storico vietato penalmente, per la possibilita' dell'evento turbativo dell'ordine pubblico che ne deriva immancabilmente. Considerato in diritto: La questione sottoposta all'esame della Corte e' la seguente: se l'art. 414, ultimo comma, del codice penale, colpendo la pubblica apologia di ogni delitto, non possa, in talune ipotesi, costituire ingiusto impedimento alla liberta' di manifestare il proprio pensiero; liberta' fondamentale garantita a tutti, senza distinzione di modi e di materia, dall'art. 21, primo comma, della Costituzione. Il denunciato contrasto non sussiste, ove dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale si dia corretta interpretazione. Ogni ordinamento statuale prevede e indica i mezzi per mutare le leggi penali quando esse appaiono non piu' rispondenti al comune sentimento della giustizia. Non solo, quindi, i regimi autoritari, ma altresi' quelli liberali, democratici, popolari hanno sempre preveduto e prevedono il reato d'apologia del delitto, gia' contemplato nell'art. 247 del codice penale italiano del 1889. L'art. 414, ultimo comma, del codice penale non limita in alcun modo la critica della legislazione o della giurisprudenza, ne' l'attivita' propagandistica di singoli, partiti, movimenti, gruppi, diretta a promuovere la deletio di qualsiasi norma incriminatrice, anche nel momento in cui essa viene applicata in concreto. Ne' costituisce reato d'apologia l'affermare che fatti preveduti dalla legislazione vigente come delitti hanno, o possono avere, soggettivamente od oggettivamente positivo contenuto morale o sociale: che l'autore di un reato possa aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale e' riconosciuto del resto dall'art. 62 n. 1 del codice penale. Diversa dalla critica alla legge, dalla propaganda per il suo aggiornamento, dal giudizio favorevole sui moventi dell'autore, che sono tutte lecite manifestazioni di pensiero, e' la pubblica apologia diretta, e idonea, a provocare la violazione delle leggi penali. Plaudire a fatti che l'ordinamento giuridico punisce come delitto e glorificarne gli autori e' da molti considerata una ipotesi di istigazione indiretta: certo e' attacco contro le basi stesse di ogni immaginabile ordinamento apologizzare il delitto come mezzo lodevole per ottenere l'abrogazione della legge che lo prevede come tale. Non sono concepibili, infatti, liberta' e democrazia se non sotto forma di obbedienza alle leggi che un popolo libero si da' liberamente e puo' liberamente mutare. L'apologia punibile ai sensi dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale non e', dunque, la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalita' integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti. Si vuole ricordare, a chiarimento, che la liberta' di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21, primo comma, della Costituzione, trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella necessita' di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell'esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalita' immanente del sistema (sentenze n. 19 dell'8 marzo 1962, n. 87 del 6 luglio 1966, n. 84 del 2 aprile 1969).