SENTENZA
     nei giudizi riuniti di legittimita' costituzionale degli artt. 414,
 416,  418, 420, commi primo e quinto, e 429, comma terzo, del codice di
 procedura civile, come modificati dall'art. 1  della  legge  11  agosto
 1973,  n.  533,  sul  nuovo  rito  del lavoro, promossi con le seguenti
 ordinanze:
     1) ordinanze emesse l'8 marzo 1974 dal pretore di Arcidosso  (causa
 di  lavoro tra Balzani Paola ed altri ed il Calzaturificio Kent), il 16
 marzo 1974 dal pretore di Roma (Gaetani Mario c/soc.  Simon Rochas), il
 20 marzo 1974 dal pretore di Catania (Sambataro Antonio c/soc.  SIRET),
 il  6  aprile  1974  ed  il  1  aprile 1974 dal pretore di Roma (Tudini
 Albertino  c/Azienda   Gerardi   e   Santellini   Gino   c/soc.   Aerea
 Mediterranea),  ed  il 26 giugno 1974 dal pretore di Rotondella (Vitale
 Nicola c/Lunati Pasquale), rispettivamente iscritte ai nn.   165,  185,
 226,  299,  300  e  372  del registro ordinanze 1974 e pubblicate nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 146 del 5 giugno 1974, n.    153
 del 12 giugno 1974, n. 167 del 26 giugno 1974, n.  250 del 25 settembre
 1974 e n. 284 del 30 ottobre 1974;
     2)  ordinanze  emesse il 10 maggio 1974 dal pretore di San Severino
 Marche (Serloni Giorgio c/soc. SIELPA), il 9 marzo 1974 dal pretore  di
 Modena  (Benetti Silvano c/soc. CEOM), il 26 luglio 1974 dal pretore di
 Catania (Baccini Grazia ed altro c/Caffarelli Giuseppe), il  25  luglio
 1974 dal pretore di Alba (Ferro Vittorio c/Monte dei Paschi di Siena ed
 altro),  il  25  settembre  1974  dal tribunale di Udine (Minisini Anna
 Maria c/soc.  Centro Ricerche Arte Industria), ed il  18  ottobre  1974
 dal  pretore  di Sanremo (De Rosa Persco c/soc.  OTAT), rispettivamente
 iscritte ai nn.  392, 406, 421, 490, 500 e 508 del  registro  ordinanze
 1974  e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 284 del
 30 ottobre 1974, n. 296 del 13 novembre 1974, n. 309  del  27  novembre
 1974, n. 14 del 15 gennaio 1975 e n. 21 del 22 gennaio 1975.
     Visti  gli atti di costituzione della Societa' Aerea Mediterranea e
 del Monte dei Paschi  di  Siena,  nonche'  gli  atti  d'intervento  del
 Presidente del Consiglio dei ministri;
     udito nell'udienza pubblica del 27 ottobre 1976 il Giudice relatore
 Giulio Gionfrida;
     uditi  l'avv.  Maurizio  Marazza,  per  la soc. Aerea Mediterranea,
 l'avv. Valente Simi, per il Monte dei Paschi di Siena, ed il  sostituto
 avvocato  generale  dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del
 Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     1. -  Disciplinando  l'introduzione  della  lite  e  la  successiva
 costituzione  in  giudizio  del convenuto, stabilisce la legge 1973, n.
 533, sul nuovo rito del lavoro (rispettivamente):
     a) all'art. 414, n. 5, che la domanda (la  quale  va  proposta  con
 ricorso)  "deve  contenere"  (tra l'altro) "l'indicazione specifica dei
 mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in  particolare
 dei documenti che si offrono in comunicazione";
     b) all'art. 416, commi secondo e terzo, che nella memoria (mediante
 il  cui  deposito  in  cancelleria,  almeno  dieci  giorni  prima della
 udienza, si costituisce il convenuto) "devono essere proposte a pena di
 decadenza le eventuali domande in via riconvenzionale  e  le  eccezioni
 processuali  e  di  merito  (che  non  siano rilevabili di ufficio)" ed
 inoltre deve essere presa "posizione in maniera precisa e non  limitata
 ad  una  generica  contestazione  circa i fatti affermati dall'attore a
 fondamento della sua domanda" e devono essere proposte "tutte le difese
 in fatto ed in diritto ed indicati specificamente, a pena di decadenza,
 i mezzi di prova  dei  quali  il  convenuto  intende  avvalersi  ed  in
 particolare i documenti che deve contestualmente depositare".
     Confrontando  tali  due  indicate norme (o meglio la disciplina, in
 queste  contenuta,  della   posizione   processuale,   rispettivamente,
 dell'attore  e  del  convenuto), varie ordinanze prospettano violazione
 dei precetti costituzionali dell'eguaglianza (art. 3)  e  della  difesa
 (art. 24) in danno del convenuto.
     In  premessa, tutti i provvedimenti muovono dalla constatazione che
 una (espressa) previsione di decadenza si contiene nell'art.  416  (ove
 e'  ripetuta  nei  commi  secondo  e terzo) e non anche nell'art.   414
 citato.
     Da cio'  la  questione  di  costituzionalita'  (in  riferimento  ai
 parametri menzionati) che si puntualizza, poi, nella denuncia dell'art.
 414  o dell'art.  416: secondo che l'accento sia, in particolare, posto
 sulla mancata previsione di decadenza anche a  carico  dell'attore  sul
 fatto,  invece, della comminatoria di tali decadenze "nei confronti del
 solo convenuto".
     Nel primo senso, l'ordinanza 9 marzo 1974 del pretore di Modena.
     Nel  secondo senso, le ordinanze 1 aprile 1974 del pretore di Roma;
 10 maggio 1974 del pretore di San Severino Marche; 26 luglio  1974  del
 pretore  di Catania; 18 ottobre 1974 del pretore di Sanremo; nonche' 20
 marzo 1974 del pretore di Catania (limitatamente al solo comma secondo)
 e (limitatamente al comma terzo della  norma)  25  settembre  1974  del
 giudice del lavoro presso il tribunale di Udine.
     Nei  giudizi  relativi a tutte le ordinanze indicate e' intervenuto
 il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  escludendo  la  fondatezza
 delle sollevate questioni (alla luce anche di una interpretazione delle
 norme  impugnate,  che  si coordini con il disposto del successivo art.
 420, commi primo e quinto).
     2. - La disciplina della posizione dell'attore,  nei  cui  riguardi
 sia   stata   proposta   domanda   riconvenzionale,   viene,   poi,  in
 considerazione nelle ordinanze 9 marzo 1974 del pretore di Modena, gia'
 citata, e in quella 25 luglio 1974 del pretore di Alba.
     I provvedimenti indicati muovono dalla identica premessa della  non
 equiparabilita'  della  posizione dell'attore in riconvenzione a quella
 del convenuto e - desumendone, il primo, il corollario che  l'attivita'
 defensionale  dell'attore, nei cui confronti sia stata proposta domanda
 riconvenzionale,  si  sottragga  alle  preclusioni  stabilite  per   il
 convenuto  e,  viceversa,  il  secondo,  che  la detta attivita' resti,
 invece, subordinata, ex commi  primo  e  quinto  dell'art.  420  c.p.c.
 modificato,  all'esistenza  di  "gravi  motivi",  quanto  all'emendatio
 libelli, e alla impossibilita' di precedente indicazione,  quanto  alla
 richiesta  di  prove  -  denunziano,  in  diversa  (ed anzi antitetica)
 prospettiva, rispettivamente, l'art.  418 c.p.c., per contrasto con gli
 artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto  "non  prevede  l'estensione
 all'attore in riconvenzione degli obblighi e preclusioni stabiliti, per
 il  convenuto,  nei  commi  secondo e terzo del precedente art. 416", e
 l'art. 420, commi primo e quinto, citato, per violazione del diritto di
 difesa in danno (questa volta) dell'attore.
     In entrambi i giudizi e' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio
 dei ministri, per contestare la fondatezza delle sollevate questioni.
     Nel  giudizio  relativo  all'ordinanza  del  pretore di Alba si e',
 altresi', costituito il convenuto Monte dei Paschi di Siena,  eccependo
 l'inammissibilita' della questione, in quanto la norma denunziata (art.
 420)  non  si riferirebbe all'ipotesi dell'attore chiamato a difendersi
 in riconvenzionale (disciplinata, invece, dall'art. 418).
     3. - Anche l'art. 429, comma terzo, della legge sul nuovo rito  del
 lavoro  ha  formato  oggetto di denunzia; in particolare nella parte in
 cui  prevede  a  favore  del  lavoratore  l'obbligo  del   giudice   di
 "determinare  il  maggior danno eventualmente subito per la diminuzione
 di valore del credito".
     La  questione  e'  sollevata,  in  riferimento  all'art.  3   della
 Costituzione,  con  le  ordinanze  1 aprile (gia' citata), 16 marzo e 6
 aprile  1974  del   pretore   di   Roma,   sotto   il   profilo   della
 (ingiustificata)   disparita'  di  trattamento  che  la  norma  de  qua
 determinerebbe  rispetto  alle  altre  obbligazioni   pecuniarie,   non
 derivanti  da  rapporto  di  lavoro:  sia per quanto concerne l'esonero
 (nella specie) dell'onus probandi  (rispetto  al  danno),  sia  per  la
 decorrenza  del  diritto  alla  rivalutazione  (anche da data anteriore
 all'entrata in vigore della legge 1973, n.  533), sia, infine,  per  la
 liquidabilita' ex officio del danno da svalutazione.
     Sotto  analogo  profilo, la questione e' proposta anche dal pretore
 di Rotondella, con ordinanza 26 giugno 1974,  la  cui  motivazione,  in
 prevalenza,  e'  accentrata  sul punto dell'ingiustificato esonero (del
 lavoratore)  dalla  prova  del   danno   subito   per   effetto   della
 svalutazione.
     Con  l'ordinanza 9 marzo 1974 (in precedenza menzionata) il pretore
 di Modena denunzia, invece, la norma (sempre in riferimento all'art.  3
 della  Costituzione)  per  la  parte  in  cui  non  attribuisce analogo
 trattamento (anche) al datore di lavoro, per  crediti  derivanti  dallo
 stesso rapporto.
     Infine,  il  pretore  di Arcidosso prospetta (con ordinanza 8 marzo
 1974) violazione, sotto vari profili, del precetto di eguaglianza.
     Rileva, infatti,  che  la  trasformazione  (a  suo  avviso  attuata
 dall'art.  429  denunziato)  dei crediti di lavoro (aventi, ab origine,
 carattere pecuniario)  in  "crediti  di  valore"  costituisce  una  non
 giustificata  "scelta preferenziale per il lavoratore", risolventesi in
 una "situazione di privilegio per il credito di lavoro non ancorata  ad
 una  effettiva  diseguaglianza  sociale-economica  fra  le categorie di
 lavoratori e dei prestatori di lavoro".
     Ed aggiunge che la norma "avrebbe dovuto caso mai  distinguere  fra
 categorie  di  lavoratori e categorie di imprenditori" (il rapporto fra
 grande imprenditore ed operaio non essendo certo eguale  a  quello  fra
 piccolo  imprenditore  dipendente; e cosi', nell'ambito della categoria
 dei prestatori d'opera, non  essendo,  evidentemente,  assimilabile  la
 posizione  sociale  ed  economica del dirigente a quella del piu' umile
 dei lavoratori).
                         Considerato in diritto:
     1. - In quanto tra loro connesse - nelle premesse da cui muovono  o
 in  alcuni profili di svolgimento - le questioni sollevate con le varie
 ordinanze in epigrafe, possono esaminarsi congiuntamente,  al  fine  di
 decisione con unica sentenza.
     2. - Con le varie ordinanze in narrativa indicate - che formalmente
 investono  l'art.  414 o l''art. 416 od entrambe dette norme del codice
 di procedura civile (come modificate dall'art. 1 della legge  1973,  n.
 533) - questa Corte e' investita, innanzi tutto, della questione se sia
 costituzionalmente  legittima la disciplina della posizione processuale
 delle  parti  (risultante  dal  coordinamento  delle  norme  predette),
 dubitandosi   che   essa   consacri  una  situazione  di  disparita'  e
 (conseguentemente) vulneri il  diritto  di  difesa  del  convenuto:  in
 quanto  -  mentre  si troverebbe colpita da decadenza la non tempestiva
 indicazione, nella memoria di costituzione, delle  difese  eccezioni  e
 prove  ed  il  non  contestuale  deposito  di  documenti,  da parte del
 convenuto - analoga sanzione non sarebbe, invece, prevista  per  quanto
 attiene al ricorso introduttivo del giudizio, nel caso in cui manchi la
 specificazione  delle domande, o la indicazione dei mezzi di prova e in
 particolare dei documenti, da parte dell'attore.
     La questione - che fa esclusivamente perno sulla comparazione della
 lettera degli artt. 414 e 416  citati,  dando  rilievo  alla  presenza,
 soltanto nella seconda norma, della espressione "a pena di decadenza" -
 e' priva di fondamento.
     La  premessa  esegetica  comune  a tutte le ordinanze - che, cioe',
 debba desumersi, dalla detta mancanza (nell'art. 414) di  una  espressa
 statuizione  di  decadenza, la effettiva inesistenza di preclusione per
 l'attivita' defensionale dell'attore (a fronte della diversa disciplina
 stabilita, dall'art.  416, per il convenuto) - e', infatti, palesemente
 erronea.
     La retta interpretazione delle norme consente, invero, di pervenire
 alla conclusione che si realizza, invece, nella concreta dialettica del
 nuovo  processo  del lavoro, una perfetta simmetria di posizione tra le
 parti.
     Tale simmetria - gia' sottolineata nella Relazione alle Commissioni
 riunite  della  Camera  nel  corso  della  V  legislatura   (ove,   con
 suggestione  di  immagine,  si contrappone all'obbligo del convenuto di
 "vuotare il sacco" fin dal principio,  quello  analogo  dell'attore  di
 "dire,  senza riserva alcuna, fin dall'atto introduttivo tutto cio' che
 attiene alla sua difesa e fornire  il  materiale  su  cui  si  basa  la
 pretesa")  -  e'  ancora,  tra  l'altro,  ribadita nella Relazione alla
 Commissione Giustizia e Lavoro del Senato nella VI legislatura, venendo
 additata  come  una   componente   essenziale   di   quella   reciproca
 collaborazione   che,   nello  spirito  della  buona  fede  processuale
 informativo del codice del 1942 (alla cui formulazione originaria si e'
 inteso riportarsi), condiziona, in pratica, lo  svolgimento  del  nuovo
 rito, nei suoi caratteri di concentrazione, immediatezza ed oralita'.
     La  lettura  sistematica  del  dato  normativo conferma, del resto,
 senza margine alcuno di dubbio, il carattere paritario della disciplina
 dell'attivita' defensionale delle parti.
     La stessa sanzione che per  il  convenuto  si  trova  espressamente
 sancita  nell'art.  416  deve, invero, ritenersi prevista per l'attore,
 sia pure in modo implicito, ma non per questo meno chiaro, in  base  al
 disposto dell'art. 414 n. 5 e dell'art. 420.
     Infatti, poiche' il comma quinto di questa ultima norma consente al
 giudice di ammettere all'udienza di discussione, oltre i mezzi di prova
 gia'  proposti,  quelli  che la parte - e, quindi, anche l'attore - non
 poteva  proporre  prima,  ne   consegue   che,   successivamente   alla
 presentazione  del ricorso, non potranno essere ammesse le prove che lo
 stesso atto poteva e doveva indicare  ai  sensi  dell'art.  414  ultimo
 comma.
     Valgono    analoghe   considerazioni   per   quanto   concerne   la
 modificabilita' delle' domande, eccezioni e conclusioni, che  il  comma
 primo dell'art. 420 cit. subordina, allo stesso modo per l'attore e per
 il  convenuto,  alla  ricorrenza  di  "gravi  motivi" da accertarsi dal
 giudice.
     Le preclusioni sono dunque nel  sistema  (nel  contesto  del  quale
 adempiono  alle  cennate  esigenze  di  accelerazione e semplificazione
 della procedura): e si rivolgono senza discriminazione cosi' all'attore
 come al convenuto, con riguardo rispettivamente al ricorso introduttivo
 e alla  comparsa  di  risposta,  che  sono  gli  unici  atti  di  parte
 antecedenti all'udienza di discussione.
     Il  riferimento  espresso  alla  decadenza  nell'art. 416 potrebbe,
 quindi,  a  questo  punto,  ritenersi  superfluo:  se   non   adempisse
 all'esigenza  (non  sfuggita  ai  primi  commentatori  della  legge) di
 ribadire, con la massima incisivita', che il  contrattacco  al  ricorso
 introduttivo  deve  essere  concentrato  ed  esaurito  nella memoria di
 costituzione; sicche' il magistrato, conoscendo per tempo e nella  loro
 integralita'   le  contrapposte  linee  difensive,  possa  speditamente
 procedere verso l'auspicato obiettivo  di  un  rapido  esaurimento  del
 processo, possibilmente in un'unica udienza di discussione.
     Pertanto,   dovendo   escludersi   (contrariamente  all'assunto  di
 partenza delle ordinanze di rinvio) che siano mantenute al solo  attore
 facolta'  processuali  precluse  al convenuto o che, comunque, sussista
 alcuna sostanziale discriminazione  nella  disciplina  delle  attivita'
 processuali   delle  parti,  risulta  confermata  l'infondatezza  delle
 sollevate questioni di legittimita' degli artt. 414 e 416 citati.
     3. - Parimenti non consistenti sono, poi, i dubbi prospettati,  con
 le  ordinanze  dei  pretori di Modena e di Alba, rispettivamente, sulla
 legittimita'  dell'art.  418  del  codice  di  procedura   civile,   in
 riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, e per la parte in cui
 non  prevede  che  si estendano, all'attore nei cui confronti sia stata
 spiegata  domanda  riconvenzionale,  gli  obblighi  e  le   preclusioni
 stabiliti   per   il   convenuto  dal  precedente  art.  416;  e  sulla
 legittimita' dei commi primo e quinto dell'art. 420 cit., per contrasto
 con il diritto di difesa (questa volta)  dell'attore,  nella  parte  in
 cui,   relativamente  alla  riconvenzionale  contro  di  lui  proposta,
 subordinano la sua attivita' defensionale alle condizioni stabilite per
 l'emendatio e la richiesta di nuove prove in udienza.
     Entrambe le questioni muovono -  come  in  narrativa  detto  -  dal
 presupposto  (da  cui,  poi,  traggono  opposti  corollari)  della  non
 equiparabilita', quanto  alla  disciplina  delle  rispettive  attivita'
 difensive, della posizione dell'attore in riconvenzione e di quella del
 convenuto.
     Tale  presupposto  non  e',  pero',  esatto.  Come  dalla  dottrina
 riconosciuto gia' con riguardo al processo ordinario (anche nell'ambito
 del quale manca, come nel nuovo rito del lavoro, una specifica completa
 regolamentazione della fattispecie  conseguente  alla  proposizione  di
 domanda  riconvenzionale)  si  verifica,  con  riferimento appunto alla
 riconvenzionale, un  rovesciamento  simmetrico  della  posizione  delle
 parti, in quanto l'attore assume la veste di convenuto e, viceversa, il
 convenuto quella di attore.
     Discende   da  cio'  che  la  disciplina  dell'attivita'  difensiva
 dell'attore nei riguardi della riconvenzionale, si ricava, per  via  di
 analogia  (e  nei limiti, ovviamente, delle specifiche modalita' che la
 fattispecie   impone),   dalla   disciplina   relativa    all'attivita'
 processuale del convenuto rispetto alla domanda principale.
     Con specifico riguardo al rito del lavoro, cio' equivale a dire che
 l'attore  nei  cui confronti sia proposta domanda riconvenzionale ha in
 sostanza gli stessi poteri, e correlativamente incorre (quanto al  loro
 esercizio)  nelle  stesse  preclusioni,  che  l'art. 416 prevede per il
 convenuto.
     Con l'unica differenza,  sul  piano  formale,  che  il  termine  di
 riferimento  e',  per il convenuto in riconvenzione, non gia' l'udienza
 fissata ex art. 415, bensi' la nuova udienza, la  cui  fissazione  deve
 essere    richiesta    contestualmente    alla    proposizione    della
 riconvenzionale, in base al peculiare meccanismo  apprestato  dall'art.
 418.
     Anche  in  questo  caso,  pertanto,  la dimostrata erroneita' della
 premessa (travolgendo le conclusioni che da essa si traggono)  conferma
 la  non  fondatezza  delle  questioni  di illegittimita' costituzionale
 formulate.
     4. - La Corte e', infine, chiamata a  decidere  della  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  429,  comma  terzo,  del codice di procedura
 civile, come modificato dalla legge del  1973,  per  la  parte  in  cui
 prevede, a favore del lavoratore, l'obbligo del giudice di "determinare
 il  maggior danno eventualmente subito per la diminuzione di valore del
 credito".
     Di tale norma  varie  ordinanze  prospettano  -  come  detto  -  il
 contrasto  con  l'art. 3 della Costituzione; e cio' sotto vari profili,
 attinenti, da un lato, alla ingiustificata  disparita'  di  trattamento
 dei  crediti  del  lavoratore  rispetto in genere agli altri crediti di
 carattere pecuniario e in particolare ai crediti del datore  di  lavoro
 nascenti  dallo  stesso  rapporto; dall'altro lato, alla ingiustificata
 identita' di trattamento (quanto al rilievo dato alla svalutazione)  di
 tutti  i  crediti  di  lavoro  senza  distinguere  la diversa posizione
 sociale-economica delle varie categorie di lavoratori  (che  vanno  dal
 modesto  dipendente  all'alto  dirigente)  e  delle varie categorie dei
 datori di lavoro (che  analogamente  vanno  dal  piccolo  artigiano  al
 grande  imprenditore).  Osserva innanzi tutto, la Corte che non occorre
 prendere posizione sul problema (allo stato ancora dibattuto e  di  cui
 e'  cenno, in particolare, nell'ordinanza del pretore di Arcidosso), se
 la disciplina introdotta dall'art. 429  impugnato  abbia  "operato  una
 trasformazione dei crediti del lavoratore aventi (ab origine) carattere
 pecuniario  in  crediti  di valore" ovvero si sia limitata ad apportare
 delle deroghe in ordine ai presupposti del risarcimento del  danno  per
 inadempimento delle obbligazioni pecuniarie.
     Una  volta,  infatti,  che della norma in esame (cui si collega, in
 via di integrazione, l'art. 150 disp.   attuaz. cod.  proc.  civ.  come
 sostituito  dall'art.  9  della  legge  n.  533  del 1973) e' chiaro il
 contenuto  pratico  voluto  dal  legislatore  -  assicurare  cioe'   al
 lavoratore  (con  riferimento  al  mancato  o ritardato pagamento delle
 prestazioni in suo favore alla scadenza e a decorrere da tale  momento)
 l'adeguamento  delle  somme  dovutegli, in funzione delle variazioni in
 aumento degli indici dei prezzi calcolati per la  scala  mobile  -  non
 assumono,   evidentemente,   rilievo,   sul   piano   del  giudizio  di
 costituzionalita',  le  implicazioni  dommatiche  (quanto   all'attuale
 inquadramento   ed   alla  astratta  classificazione  dei  crediti  del
 lavoratore)  che   l'introdotta   disciplina   prospetta:   di   questa
 interessando  unicamente  valutare il contenuto, sotto il profilo della
 razionalita' o  meno  della  diversificazione  dei  crediti  di  lavoro
 rispetto agli altri crediti pecuniari.
     Ora,   proprio  tale  razionalita',  con  riferimento  alla  scelta
 legislativa nella specie operata, non  puo',  ad  avviso  della  Corte,
 revocarsi in dubbio.
     La  prima  (e,  di  per  se',  gia'  decisiva)  giustificazione del
 trattamento privilegiato attribuito ai crediti di lavoro sta,  infatti,
 nella  qualita' stessa del credito che trova, nello sfondo, il presidio
 e  la  garanzia  (per  cosi'  dire   rafforzata)   di   piu'   precetti
 costituzionali,  quali  quelli contenuti negli artt. 1, 3 cpv., 4, 34 e
 36.
     Nel contesto di tale peculiare tutela razionalmente si  colloca  la
 normativa  denunziata,  apprestando  un meccanismo di conservazione del
 valore in senso economico delle prestazioni dovute al lavoratore, volto
 a preservare (o, comunque, ripristinare) quel "potere  di  acquisto  di
 beni  reali"  che  si  connette alla retribuzione ed alle indennita' di
 fine rapporto (costituenti la parte  indiscutibilmente  prevalente  dei
 crediti  del  lavoratore)  e nel contempo ad eliminare il vantaggio che
 (in  precedenza)  conseguiva  il  datore  di   lavoro   col   ritardato
 adempimento,  il  quale  lo  poneva,  a  fronte  del  solo  rischio del
 pagamento degli interessi legali, in condizioni di lucrare gli  effetti
 della svalutazione monetaria e di disporre delle somme di spettanza del
 lavoratore.  Il che, in altre parole, equivale a dire che il meccanismo
 esaminato non si risolve (ex altero latere) in  un  depauperamento  del
 patrimonio   del  datore  di  lavoro  (soccombente):  dal  quale  viene
 recuperato, con manovra sostanzialmente riequilibratrice, quel tanto di
 arricchimento conseguito dal datore di lavoro che non ha compensato  la
 forza  di  lavoro,  il  cui frutto ha investito nella propria struttura
 organizzativa.
     Non va, poi, trascurato l'elemento funzionale concorrente  (che  si
 combina  con  gli  altri  sin qui esaminati con carattere di maggiore o
 minore  prevalenza,  a  seconda  del  tipo  di   rapporto   di   lavoro
 considerato)  rappresentato dalla "remora" che la disciplina denunciata
 ingenera rispetto - piu' che a manovre dilatorie nel processo  (cui  la
 stessa  attuale  strutturazione  del  rito,  improntata  a  criteri  di
 accelerazione, contribuisce a porre rimedio) - al fatto stesso del  non
 puntuale  adempimento  alla  scadenza  delle  prestazioni  destinate ad
 assolvere esigenze primarie del lavoratore.
     Tale remora basterebbe, di per se',  a  giustificare  la  norma  in
 esame, ove si consideri che il pagamento tempestivo delle spettanze dei
 lavoratori,  oltreche' all'interesse individuale dei medesimi, risponde
 ad un interesse generale della intera collettivita' e che - proprio con
 riguardo alle prestazioni retributive - e' stata gia' sottolineata  (v.
 sentenza  di  questa  Corte n. 54 del 1967) la legittimita' di norme di
 tutela risolventisi nella previsione, addirittura, di  sanzioni  penali
 per il caso del mancato o ritardato adempimento.
     La ratio stessa della disciplina impugnata ne giustifica la mancata
 estensione  ai  crediti  del  datore di lavoro, nei riguardi dei quali,
 evidentemente, non ricorrono la sottolineata esigenza  di  garanzia  di
 bisogni  primari  e  la  predetta  funzione  di riequilibrio economico:
 dimodoche', anche sotto tale aspetto, il dubbio di costituzionalita' si
 rivela non fondato.
     Lo stesso e' a dire per  quanto  attiene  al  profilo  (su  cui  si
 sofferma  il  pretore  di  Arcidosso) di mancata diversificazione della
 disciplina sul punto della svalutazione in rapporto  alla  posizione  -
 "non  certo  di debolezza" - di alcune categorie di prestatori d'opera,
 quali, ad esempio, i dirigenti e, correlativamente, alla posizione "non
 preminente", in cui si trovano categorie di datori di  lavoro,  come  i
 piccoli imprenditori, gli artigiani, etc.
     A  parte,  infatti,  che a tale rilievo sarebbe sufficiente opporre
 l'esigenza,  propria  della  legislazione  per   norme   generali,   di
 modellarsi  sull'id  quod  plerumque  accidit (onde l'impossibilita' di
 tener conto delle situazioni limite o, comunque, estreme), gli e'  che,
 in  realta',  anche  rispetto  ai  rapporti peculiari sopra cennati non
 difettano le ragioni che giustificano l'applicazione del meccanismo  ex
 art.  429; anche se, nel concreto, queste, poi, si combinano in diversa
 misura e intensita' :   assumendo,  ad  esempio,  nei  rispetti  di  un
 dirigente,  la funzione di riequilibrio economico, carattere certamente
 prevalente rispetto a quella di sostentamento.
     Considerazione a parte  richiede,  infine,  il  rilievo,  contenuto
 nelle  ordinanze  del  pretore di Roma, di violazione dell'art. 3 della
 Costituzione, per il trattamento  ingiustificatamente  piu'  favorevole
 riservato ai crediti di lavoro (rispetto agli altri crediti pecuniari),
 quanto  alla  possibilita' di decorrenza del diritto alla rivalutazione
 da data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 533 del 1973.
     Il problema di applicabilita' della disciplina dettata dagli  artt.
 1  (come  modificativo  dell'art.  429  cod.  proc.  civ.)  e  9  (come
 sostitutivo dell'art. 150 disp.  attuaz. cod. proc. civ.)  della  legge
 n.  533  del 1973 ai crediti sorti anteriormente alla entrata in vigore
 della detta legge non puo' dirsi univocamente risolto in dottrina e  in
 giurisprudenza:      giacche'   alla   tesi   che  -  pur  riconoscendo
 l'applicabilita' di tale  disciplina  ai  crediti  di  lavoro  maturati
 anteriormente   alla   entrata   in   vigore  della  legge  (sempreche'
 l'inadempimento si sia protratto oltre la data predetta) - ritiene  che
 l'adeguamento   debba   farsi   con   riguardo   e  limitatamente  alla
 svalutazione  successiva,  si   contrappone   la   tesi   secondo   cui
 l'adeguamento  deve  operarsi  tenendo  conto  anche della svalutazione
 intervenuta prima della entrata in vigore della legge.
     A giudizio della Corte va condivisa  la  prima  delle  due  esposte
 soluzioni,  la quale risponde al principio della irretroattivita' della
 legge  che  (ancorche'   non   sempre   costituzionalmente   garantito)
 costituisce  espressione  di  civilta'  giuridica  e non risulta, nella
 specie, derogato ne' esplicitamente, ne' implicitamente.
     Deve, infatti, anzitutto escludersi che la retroattivita' nel senso
 sopraindicato discenda dalla  disposizione  transitoria  dell'art.  20,
 comma  primo, della legge del 1973 citata (che dispone l'applicabilita'
 delle norme della legge stessa anche "ai giudizi in  corso  al  momento
 della  sua  entrata  in  vigore"):  se  non altro perche', - come ha di
 recente riconosciuto la stessa Corte di Cassazione, che pur ha  aderito
 alla  prima  tesi  -  la  detta disposizione si riferisce alle norme di
 natura processuale e non anche alle norme di carattere sostanziale come
 quella del comma terzo dell'art. 429.
     Ne' possono condividersi le altre argomentazioni  che  desumono  la
 efficacia  retroattiva della norma dalla dizione dello stesso art. 429,
 la' dove questo indica come decorrenza il giorno della "maturazione del
 diritto"; dal fatto che la  norma,  essendo  diretta  ad  ovviare  alle
 conseguenze  del  fenomeno  della  svalutazione (il quale presuppone il
 decorso di un non breve periodo di tempo),  resterebbe  svuotata  della
 sua  ragione  d'essere  qualora  non  prendesse  in  considerazione gli
 effetti della svalutazione anteriore alla sua entrata  in  vigore,  una
 volta  che,  ad  impedire  l'incidenza  della  svalutazione successiva,
 sarebbe bastato il meccanismo complessivo che assicura la rapidita' del
 processo del  lavoro;  ed  inoltre  dalle  enunciazioni  che  sarebbero
 contenute nei lavori preparatori.
     Infatti, l'espressione "con decorrenza dal giorno della maturazione
 del diritto", che si riferisce, non solo alla somma corrispondente alla
 diminuzione  di  valore del credito, ma anche agli interessi legali, e'
 dettata al fine di determinare il dies a quo indipendentemente da  atti
 di  costituzione  in  mora  (analogamente a quanto prescritto dall'art.
 1282 cod. civ. per il decorso degli interessi corrispettivi).
     E, nel contesto di tale espressione, il riferimento al giorno della
 maturazione del diritto fa parte del  contenuto  precettivo  innovativo
 della  norma  e  non  rappresenta  una  disposizione collaterale avente
 carattere intertemporale.
     Il   secondo   degli  argomenti  sopra  indicati  trascura  poi  di
 considerare che l'intervallo temporale entro cui  puo'  verificarsi  la
 svalutazione  del  credito  non e' soltanto costituito dalla durata del
 processo ma anche e soprattutto  dal  periodo  di  tempo  (normalmente)
 intercorrente tra la maturazione del diritto e l'inizio del processo.
     Infine,  per  quanto attiene ai lavori preparatori, e' da osservare
 che - se pure alcuni parlamentari, nei loro interventi (soprattutto nel
 corso della legislatura precedente a  quella  in  cui  il  testo  della
 disposizione  fu  approvato) consideravano la norma come retroattiva -,
 quando il problema fu discusso ex-professo, un emendamento  diretto  ad
 escludere  l'efficacia  retroattiva nel senso sopra precisato non venne
 accolto proprio in base  alla  considerazione,  espressa  dal  relatore
 Martinazzoli  (Senato,  VI Legislatura - Commissioni riunite - 29 marzo
 1973), che esso  era  superfluo  in  quanto  la  irretroattivita'  gia'
 discendeva dai principi generali.
     Dovendosi  quindi escludere, per quanto fin qui detto, che risulti,
 nella specie, espressamente od  implicitamente  voluta  una  deroga  al
 principio  di  irretrattivita'  consacrato nell'art. 11 delle preleggi,
 resta confermato che, secondo la corretta interpretazione  della  norma
 denunziata, nell'ipotesi di crediti maturati anteriormente alla data di
 entrata  in  vigore  della  legge,  deve  tenersi  conto soltanto della
 svalutazione posteriore alla data predetta.
     Cio', del resto, risponde  pienamente  alla  applicazione  che  del
 suddetto  principio di irretrattivita' fa l'art. 161 delle disposizioni
 di attuazione del codice civile rispetto  al  decorso  degli  interessi
 corrispettivi,  di cui all'art. 1282 cod. civ., sui crediti di somme di
 denaro divenuti esigibili prima dell'entrata  in  vigore  dello  stesso
 codice;  nonche'  la  giurisprudenza, ormai da tempo consolidata, della
 Corte di Cassazione  sui  limiti  di  applicazione  della  disposizione
 innovativa di cui all'art. 1224 cod. civ. concernente la risarcibilita'
 del maggior danno dipendente dalla mora, nella ipotesi di inadempimento
 verificatosi prima della entrata in vigore dello stesso codice.
     Pertanto,  anche  sotto il profilo della prospettata decorrenza del
 diritto alla rivalutazione "anche da data  anteriore  alla  entrata  in
 vigore  della  legge 1973, n.   533", la questione di costituzionalita'
 dell'art. 429, comma terzo, non e' fondata, poiche' muove  da  una  non
 esatta interpretazione della norma denunziata.