IL TRIBUNALE Visti gli atti del procedimento penale a carico di Caprara Teseo nato a Novi (Modena) il 21 febbraio 1928, ivi residente in via Demas Malavasi n. 1; RITENUTO IN FATTO E DIRITTO L'art. 4 della legge n. 516/1982, nel prevedere al punto 7 del suo primo comma la condotta di chi rediga (tra l'altro) la dichiarazione annuale dei redditi... "dissimulando componenti positivi o simulando componenti negativi del reddito", le attribuisce penale significazione sol quando la stessa sia stata tale "da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione stessa". E, ben ovviamente, spetta al giudice valutare la rilevanza di quella alterazione al fine di stabilire la ricorrenza o meno dell'antigiuridicita' - sotto il profilo penale - di quella condotta, connissiva od omissiva che sia. Per la formulazione d'un siffatto giudizio (che si risolve nella mera valutazione di un quantum) il giudice non puo' far ricorso ad alcun criterio di natura integrativa o sussidiaria magari offertogli da norme concorrenti (di legge o regolamentari) ovvero, come pure talvolta potrebbe verificarsi, da regole di comune e ben sicura esperienza (si pensi all'ipotesi criminosa di cui all'art. 116, secondo comma, del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, per l'individuazione della cui ricorrenza risulta d'obbligo il ricorso all'art. 133 del c.p., ovvero all'ipotesi criminosa di cui all'art. 72 della legge n. 685/1975 per l'individuazione della cui ricorrenza, con riferimento alla " modica" quantita', risulta agevole il ricorso all'esperienza mutuabile dalle piu' comuni acquisizioni in materia chimico-tossicologica e medico-legale. E se, quindi, in subiecta materia, il giudizio (rectius: valutazione) del giudice e' disancorato - per sua stessa natura - da ogni criterio di sicuro riferimento va da se' che la previsione penale in argomento ha carattere di indeterminatezza ed il relativo giudizio finisce inevitabilmente per rivelarsi arbitrario e, come tale, ne' voluto ne' dovuto. Al giudice, verrebbe, cioe' attribuita non una funzione di interpretazione della norma (tipica del suo ministero), bensi' quella di posizione della norma stessa. A ben vedere, infatti, la ratio sottostante alla norma in argomento appare essere non quella della persecuzione sempre e comunque dell'infedelta' fiscale del contribuente bensi' quella della persecuzione di un siffatto comportamento sol quando la dimensione assunta dalla stessa sia tale da risultare intollerabile da parte della collettivita' e, come tale, meritevole di adeguata reprimenda. Attribuire percio' al giudice il compito di stabilire se sia "rilevante" l'alterazione del risultato dell'infedele dichiarazione significa in definitiva conferirgli una funzione di carattere normativo che non puo' e non deve esser ritenuta sua propria: quella di stabilire non "se" un comportamento umano abbia o meno a costituire reato per la sua corrispondenza al modello legale astratto della relativa fattispecie incriminatrice speciale, bensi' "quando" un siffatto comportamento, in relazione alle esigenze di tutela degli interessi della collettivita', possa e debba esser riguardato come reato e cioe', come fatto penalmente rilevante. Ebbene questo tipo di valutazione e' proprio del legislatore cui in via esclusiva va attribuito il potere-dovere di stabilire, facendosi interprete delle ragioni e delle esigenze del corpo sociale, se e quando una umana condotta risulti talmente pregiudizievole da meritare i rigori della reprimenda penale. La conseguenza e', in un siffatto distorto sistema di usurpazione di competenze, che ai consociati non viene proposto un precetto chiaro e determinato dal quale discenda un preciso loro obbligo, di fare o di non fare, bensi' un imperativo nebuloso e dal contenuto incerto che non consente a chiunque dei suoi naturali destinatari di adeguare in senso corretto la propria condotta, in quanto la statuizione normativa in parola viene ad acquistare corpo e specificazione non gia' sin dal momento dalla sua statuizione ed espressione ma soltanto da quello successivo della sua applicazione. In buona sostanza, cioe', il cittadino fiscalmente "infedele", sapra' che la sua condotta integra estremi di reato non dalla preventiva lettura della norma ma dalla successiva determinazione del giudice. Ne' quest'ultimo perverra' (per tutto quanto in precedenza detto) alla determinazione stessa in modo facile! Basti riflettere al fatto che la "rilevanza" di cui e' discorso puo' essere intesa in una duplice accezione: quale valore in se' e quale valore rapportato al complesso della dichiarazione dei redditi (ancorche' quest'ultima appaia la piu' probabile). Orbene, se la si riguarda quale valore in se', occorrera' che il giudice stabilisca quale sia l'entita' (da tradursi in una cifra di denaro) della "simulazione" o "dissimulazione"; se la si riguarda quale valore riferito al complesso della dichiarazione ancora una volta il giudice dovra', sulla scorta dell'esclusivo e personale suo intendimento, decidere quale rapporto (anch'esso traducibile in numerica espressione) debba intercorrere tra l'entita' di quanto nella specie simulato (o dissimulato) e l'entita' della dichiarazione. In entrambi i casi, comunque, il cittadino apprendera' sol dopo aver posto in essere la sua condotta, quale diverso atteggiamento avrebbe dovuto tenere. Altrettanto ovvia (e necessariamente derivata) e' la considerazione che in siffatta situazione e per naturale portato di cose si creeranno a danno dei cittadini non tanto e non solo delle abnormi sperequazioni di trattamento quanto e soprattutto una vera e propria molteplicita' di previsioni normative (tante quante saranno i diversi intendimenti dei vari giudici al cui vaglio decisionale verranno sottoposte le singole fattispecie maturate nella pratica). Se cosi' e', appare di tutta evidenza che la norma in esame (art. 4, primo comma, n. 7, della legge n. 516/1982) cosi' come formulata e strutturata si pone in deciso contrasto con gli artt. 25 e 3 della Costituzione perche' collide in modo vistoso con i principi rispettivamente conclamati in quei citati articoli di "legalita'" e di "uguaglianza". Quanto al primo di detti principi, vale osservare, preliminarmente come la stessa Corte costituzionale (v. sentenza 29 aprile 1982, n. 79, in Giur. cost. 1982, I, 712) abbia stabilito che "il principio di legalita'... implica una stretta riserva di legge che postula la specificazione del fatto previsto come reato"; in questa affermazione e' dato di cogliere la sottolineatura dal principio di "tassativita'" (principio nel quale quello di legalita' si articola), che ha da intendersi quale dovere del legislatore di procedere, al momento della creazione della norma, ad una precisa determinazione della fattispecie legale, affinche' risulti tassativamente stabilito cio' che e' penalmente lecito e cio' che e' penalmente illecito e di quello, derivato e conseguente, di "tipicita'" dello illecito penale stesso, principio risaputamente posto a tutela della ragionevolezza e coerenza dell'esercizio del potere legislativo sicche' costituisce indizio sintomatico della sua violazione non gia' l'esistenza di uno spazio interpretativo attribuito al giudice, bensi' l'ambiguita' esplicita o latente della valutazione normativa e l'eccessiva estensione dell'area dei comportamenti storici abbracciati dalla previsione normativa stessa. Nella surricordata decisione la Corte ha, tra l'altro, osservato che a base del principio di tassativita' sta in primo luogo l'intento di evitare arbitri nell'applicazione di misure limitative... della liberta' personale ed ha affermato che per effetto di tale principio e' onere della legge penale quello di determinare la fattispecie criminosa con connotati precisi, in modo che l'interprete, nel ricondurre un'ipotesi concreta alla norma di legge, possa esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da fondamento controllabile; e la stessa Corte ha aggiunto che tale onere richiede una descrizione intelligibile della fattispecie astratta, sia pure attraverso l'impiego di espressioni indicative e di valore e risulta soddisfatto fintantoche' nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilita' di realizzazione sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiono verificabili, sicche' ove abbia a difettare un simile accertamento, "l'impiego di espressioni intelligibili non sia piu' idoneo ad adempiere all'onere di determinare la fattispecie in modo da assicurare una corrispondenza tra fatto storico che concretizza un determinato illecito ed il relativo modello astratto". Orbene, nel caso di specie, per la gia' asserita "indeterminatezza" della formula legislativa (le "espressioni indicative" sono ridotte al mero aggettivo "rilevante" e quelle "di valore" sono del tutto assenti), manca proprio ogni e qualsiasi possibilita' di assicurare e, quindi, di verificare la "corrispondenza" affermata dalla Corte tra il fatto dell'infedelta' fiscale del contribuente ed il corrispondente "modello". E' sorprendente non poco (ed anzi corrobora il convincimento del collegio sul punto) il poter constatare come nel corpo della stessa legge n. 516/1982 siano previste (artt. 1 e 2) figure di reato per la determinazione della cui configurabilita' si e' fatto ricorso da parte del legislatore a ben precisi ed articolati parametri di valore, sicche' ancor piu' risulta incomprensibile e censurabile l'indeterminatezza invece ricorrente nella previsione della figura criminosa di cui all'art. 4 della legge medesima. Quanto al secondo dei citati principi (quello di cui all'art. 3 della Costituzione), s'e' gia' detto che le pronunce dei giudici sulle svariate fattispecie concrete sottoposte al loro vaglio decisorio risultano necessariamente tali da realizzare una sostanziale condizione di disuguaglianza tra imputato ed imputato: alcuno di essi puo' esser condannato per un'evasione di valore minore ed altri assolti per un'evazione di valore maggiore, senza che alla base di siffatta disuguaglianza sia comunque rinvenibile qualsivoglia spunto di ragionevolezza! Ed infatti pure a volere, a mero titolo di esemplificazione, ipotizzare che il reato si configuri quando il reddito dissimulato sia pari a quello dichiarato (ma potrebbe benissimo ipotizzarsi il doppio, il triplo etc...), verrebbe a verificarsi una situazione per la quale il dissimulatore d'una fonte di reddito di L. 10.000.000 e che abbia esposto un reddito a quella somma almeno superiore non verrebbe punito, mentre lo sarebbe chi avesse dissimulato un reddito inferiore ai citati dieci milioni ma corrispondente o magari superiore al reddito da se' dichiarato. Non v'e' chi non veda che una siffatta conclusione (ben possibile nell'attuale realta' normativa da un lato e' giurisdizionale dall'altro) e' aberrante ed in contrasto con la stessa ratio legis che, richiamandosi a quanto prima detto, non consiste nella individuazione e persecuzione da parte del legislatore della maggiore o minore "disonesta' individuale" riguardata attraverso un'ottica di tipo soggettivo ed ispirata a canoni di etica comportamentale, bensi' nell'individuazione d'un preciso danno sociale e nella valutazione della sua tollerabilita' o meno da parte della collettivita' secondo una visuale doverosamente oggettiva che e' l'unica a poter determinare un risultato di uguaglianza e, quindi, di sostanziale giustizia. Tutto quanto sopra ritenuto e premesso, la questione di costituzionalita' della norma di cui all'art. 4, primo comma, n. 7, nella parte in cui non prevede un preciso limite di valore rimettendo ogni determinazione all'incontrollabile arbitrio del giudice, non e' manifestamente infondata ed e' rilevante per la definizione del procedimento in corso come l'imputazione rivolta al Caprara Teseo rende evidente, sicche' il procedimento stesso andra' sospeso con rimessione degli atti alla Corte costituzionale perche' la stessa abbia a pronunziarsi sulla sollevata questione.