IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Matteace Giacomo, nato a Roma il 25 novembre 1949 (atto di nascita n. 1557/01/ A) residente a Pomezia in via Virgilio n. 23 B/6. capitano presso l'8º O.R.E. in Roma, libero, imputato peculato continuato ed aggravato (artt. 81 del c.p., 47, n. 2, e 215 del c.p.m.p.) perche', avendo per ragione del suo ufficio di aiutante maggiore presso l'8º battaglione trasporti (Casilina) in Roma il possesso dell'autoveicolo Fiat 900 tg EI 321 BD e dell'autoveicolo Fiat 900 tg EI 635 BD, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso li distraeva, a profitto proprio, utilizzando il primo nei giorni 11, 12, 13 e 15 febbraio 1989 e il secondo nel giorno 14 febbraio 1989 per recarsi in orario di servizio e per fini privati nella propria abitazione in Pomezia. Con l'aggravio del grado rivestito. FATTO E DIRITTO Prima del compimento delle formalita' di apertura del dibattimento l'imputato - con il consenso del p.m. - ha richiesto il giudizio abbreviato, a norma degli artt. 442 del c.p.p. e 247 decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. Accolta la richiesta, si e' disposta la celebrazione dell'udienza in camera di consiglio, ove il difensore del Matteace ha eccepito la illegittimita' costituzionale dell'articolo 215 del c.p.m.p., in relazione all'art. 3 della Costituzione. La sollevata questione di costituzionalita' - oltre a non essere manifestamente infondata per le ragioni di seguito illustrate - e' in concreto, rilevante, poiche' il processo appare definibile allo stato degli atti, in base agli elementi raccolti nel corso della istruttoria sommaria. Sono, invero risultati compiutamente provati sia l'elemento oggettivo che il corrispondente elemento soggettivo del reato di peculato militare descritto in rubrica, nella forma della distrazione - a profitto proprio - dei mezzi militari sopra indicati, dei quali l'ufficiale aveva la disponibilita' giuridica e di fatto. E' stato infatti accertato, anche alla luce della piena confessione resa dall'interessato, che questi, nelle circostanze specificate nel capo di imputazione, impiego' per finalita' private, del tutto estranee al servizio, i suddetti veicoli, (ogni volta immediatamente restituiti dopo l'uso), cosi' sottraendoli, temporaneamente, alla loro naturale e legalmente prefissata destinazione, ed utilizzandoli ad un fine assolutamente incompatibile rispetto a quello per il quale gli erano stati posti concretamente a disposizione. Dovrebbe, pertanto, nei confronti del Matteace essere applicata la pena che il vigente art. 215 del c.p.m.p. stabilisce per il peculato militare, senza distinguere l'ipotesi di "appropriazione", da quella di "distrazione", e cioe' la reclusione da un minimo di due anni ad un massimo di dieci anni. Questo tribunale militare, nel recepire l'eccezione sollevata dalla difesa, e sentito in proposito il p.m., dubita, peraltro, della legittimita' costituzionale del citato art. 215 del c.p.m.p., nella parte in cui equipara, sotto il profilo sanzionatorio le condotte della appropriazione e della distrazione del denaro o della cosa mobile appartenente alla amministrazione militare, per contrasto con il fondamentale canone di cui all'art. 3 Costituzione, in relazione al recentissimo intervento di riforma del legislatore penale comune che, con la legge 26 aprile 1990, n. 86 (contenente modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), ha, sostanzialmente riscritto l'intero capo primo del titolo secondo del secondo libro del codice penale (artt. 314 e seguenti), senza nulla disporre circa le corrispondenti o analoghe norme incriminatrici contenute nella legislazione penale militare. Prima di tale intervento di riforma, la fattispecie dell'art. 215 del c.p.m.p. ricalcava infatti, sostanzialmente, quella dell'articolo 314 del c.p. vecchio testo, (salvo l'indispensabile adattamento soggettivo), tanto sotto il profilo dei presupposti del reato, (. . . avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso etc. . . . ), che dell'oggetto materiale, (denaro o altra cosa mobile appartenente all'amministrazione), e della condotta (. . . se l'appropria ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri): identica era, in particolare, la pena edittale massima, pari a dieci anni di reclusione, con una lieve differenza in punto di pena edittale minima (due anni di reclusione per il peculato militare e tre anni per il peculato comune). Tra le novita' piu' rilevanti della disciplina introdotta con la legge n. 86/1990, spicca oggi il riordino della norma sul peculato comune con la testuale scomparsa del peculato per distrazione, la estensione dell'oggetto materiale del reato (. . . ) denaro o altra cosa mobile altrui) e la introduzione - al secondo comma della norma, come risultante dalla modifica legislativa - del peculato d'uso, allorche' il colpevole abbia posto in essere la condotta indicata al primo comma al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e questa, dopo l'uso momentaneo, sia stata immediatamente restituita. La nuova figura del peculato d'uso viene ora sanzionata con la piu' lieve pena della reclusione da sei mesi a tre anni. Alla luce del quadro normativo ora delineato, emerge con evidenza una profonda differenza di regime sanzionatorio tra fatti sostanzialmente identici, a seconda che gli stessi si verifichino in ambito militare o meno. Secondo la normativa del codice penale comune, infatti, l'eventuale distrazione - da parte del pubblico funzionario - di beni di cui egli abbia il possesso o la disponibilita' e' oggi sanzionabile, ricorrendone tutti i presupposti, a titolo di peculato d'uso (reclusione da sei mesi a tre anni), ovvero, forse, residualmente ed in altre prospettabili ipotesi, a titolo di abuso di ufficio nei casi non preveduti specificamente dalla legge (art. 323 del c.p. nuovo testo: reclusione fino a due anni). La medesima condotta infedele, se compiuta dal "pubblico funzionario militare", (altro non e' il militare incaricato di funzioni amministrative o di comando, individuando la norma dell'art. 215 del c.p.m.p. un'area di soggetti tendenzialmente coincidente con quella dei pubblici ufficiali ed incaricati di un pubblico servizio ex art. 314 del c.p.), rimane oggi, invece, punibile con la ben piu' grave pena della reclusione da due a dieci anni, essendo - come accennato - rimasta inalterata la comprensivita' della norma incriminatrice dell'art. 215 del c.p.m.p. Tale situazione, lungi dal rispondere ad insindacabili valutazioni discrezionali del legislatore ed anzi frutto di un cronico disinteresse normativo per il settore dell'ordinamento penale militare, appare, invero, manifestamente irrazionale, (e come tale censurabile sotto il profilo della legittimita' costituzionale), poiche' - per quanto subiettivamente diversificati nella dizione legislativa - i due comportamenti posti a raffronto si differenziano tra loro soltanto per aspetti non essenziali e ledono con la medesima intensita' gli stessi interessi protetti, quello patrimoniale e quello alla correttezza della azione del pubblico funzionario, mentre non si rinvengono nel sistema ulteriori valide ragioni che possano, in qualche modo giustificare, sotto il profilo logico, ed in relazione anche ad eventuali specifiche esigenze delle forze armate, l'indicata disparita' di trattamento. Osserva peraltro il tribunale che i problemi interpretativi nascenti dalla nuova normativa sui delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione - in punto di coordinamento tra legge penale comune e legge penale militare - sono, in realta', ben piu' numerosi ed ampi rispetto al solo prospettato, involgendo essi, necessariamente - tra l'altro -, anche il raffronto con gli ulteriori reati militari di peculato e malversazione contemplati dal c.p.m.p. (artt. 216, 217 e 218): a causa della irrilevanza nel giudizio a quo, pero' tali questioni non possono essere affrontate in questa sede, salva per la Corte, la possibilita' di estendere d'ufficio il proprio giudizio alle altre norme la cui illegittimita' dovesse derivare come conseguenza della decisione adottata, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Per le ragioni sopra esposte, prospettandosi nell'interpretazione di questo tribunale militare come rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 215 del c.p.m.p. sollevata dalla difesa nei termini di cui alla motivazione ed in relazione all'art. 3 della Costituzione, si rimette l'esame alla Corte costituzionale, previa sospensione del procedimento in corso.