IL PRETORE Letti gli atti e sciogliendo la riserva che precede, osserva quanto segue in fatto e in diritto. I. Con atto di citazione notif. il 28 settembre 1992 Gliubizzi Giuseppe, premessa la sua qualita' di proprietario di un appartamento "con annesso deposito" in Salerno e rispettivamente alla via B. Freda, 50, e alla via dei Mille, condotti in locazione dal 12 dicembre 1990 da tal Paglionico Giuseppe per il canone di L. 400.000, deduceva come incombente la scadenza contrattuale del 13 dicembre 1992; e, sul presupposto di aver inviato disdetta sin dal 2 settembre 1991, intimava al conduttore licenza per quella data o per quella stabilita sulla base di una piu' corretta applicazione della norma, nel contempo citandolo per la convalida o, in caso d'opposizione, per l'emissione di ordinanza provvisoria di rilascio, con fissazione della data di esecuzione e vittoria di spese. Ritualmente instauratosi il contraddittorio, si costituiva l'intimato, opponendosi alla convalida in forza del disposto dell'art. 11 della legge 8 agosto 1992 e specificamente adducendo di intender valersi della possibilita' di stipulare un patto in deroga o, in mancanza, di usufruire della conseguente proroga di due anni del contratto di locazione, oltre che del termine ex art. 56 della legge n. 392/1978; ed alla successiva udienza 6 novembre 1992 egli ribadiva la posizione, solo ulteriormente eccependo che i contratti di locazione relativi agli immobili di causa erano due e soggetti a discipline del tutto diverse in vista dell'uso cui erano separatamente adibiti, con conseguente diversa scadenza, anche per essere stata la sola comunicata disdetta relativa all'appartamento e non anche al terraneo. Dal canto suo, l'intimante ribadiva di non avere la benche' minima intenzione di rinnovare il contratto, interpretando la norma addotta da controparte nel senso che il patto in deroga poteva non essere stipulato ove il locatore intendesse adibir l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui, rispettivamente, agli artt. 29 e 59 della citata legge n. 392/1978; inoltre, egli sosteneva che comunque la legge gli consentiva di non soggiacere ad alcuna proroga legale ove il locatore non avesse voluto accedere ad alcun accordo circa la stipula di patti in deroga, ipotizzando l'incostituzionalita' della norma, se intesa diversamente. Questo pretore si riservava la decisione sulle richieste di convalida o di concessione di ordinanza provvisoria. II. La richiesta di convalida va subito dichiarata inammissibile, in quanto, dinanzi all'opposizione dell'intimato, e' preclusa del tutto ogni pronunzia di quel tipo, potendosi soltanto emanare l'ordinanza con riserva delle eccezioni di cui all'art. 665 del c.p.p.: e, mentre la convalida conclude il processo, la seconda invece ne costituisce il presupposto e al tempo stesso una tappa indefettibile, tanto da aprire la successiva fase a cognizione piena od ordinaria in favore di entrambe le parti. Molto piu' complesso si appalesa il discorso in ordine alla richiesta di ordinanza provvisoria di rilascio, formulata sia in citazione sia, per quanto in subordine, a verbale. III. In primo luogo, quand'anche l'opposizione dell'intimato non fosse fondata su prova scritta (come nel caso di specie, in cui si adduce una diversa interpretazione dei contratti posti dallo stesso intimante a base dell'azione, espressamente riservando al prosieguo la prova del regime applicabile al "deposito", occorrerebbe pur sempre delibare la sussistenza del fumus boni juris in capo all'intimante. Il provvedimento ex art. 665 del c.p.p. costituisce, invero, pur nella forma dell'ordinanza, uno dei rari casi di condanna con riserva: in cui, cioe', rigorosamente argomentando, l'accertamento dei fatti costitutivi si e' gia' avuto almeno in via di delibazione o cognizione sommaria, mentre quello dei fatti modificativi, impeditivi od estintivi e' rimesso ovvero rinviato ad un tempo e ad una fase successiva e talvolta anche solo eventuale. Certamente e' da escludere una natura meramente istruttoria, non solo e non tanto per la non impugnabilita' e la non revocabilita' dell'ordinanza, bensi' - e soprattutto - perche' la detta ordinanza non mira a regolare il futuro svolgimento del processo o l'acquisizione di idonei mezzi di prova sulle contrastanti posizioni delle parti. Essa, invece, contenendo quanto meno una condanna - al rilascio dell'immobile - sul presupposto di una futura (ed anticipata quoad effectum) pronunzia costitutiva - la cessazione o risoluzione del contratto - ed essendo assistita da una efficacia esecutiva ipso iure, costituisce una vera e propria pronunzia giurisdizionale su di un punto controverso (la sussistenza dei fatti costitutivi). La sua funzione non e', percio', cautelare od interinale, poiche' per la sua emissione non e' rilevante alcun requisito di urgenza o di pericolo nel ritardo ne' alcuna sommarieta' della valutazione del buon diritto dell'attore: anzi, l'esame delle ragioni di costui dovrebbe essere pieno, mentre sommaria puo' restare la deliberazione di quelle del convenuto (tanto che delle eccezioni si fa, appunto, riserva). Pienamente da condividere e', pertanto, la tesi che ricostruisce l'ordinanza in esame come una pronunzia condizionata risolutivamente all'accoglimento (ovvero al riconoscimento di fondatezza) delle eccezioni. Al fine di apprezzare l'importanza della valutazione delle ragioni del ricorrente e quindi della fondatezza dei fatti costitutivi da lui dedotti a fondamento della domanda, va allora attentamente considerato che la pronunzia stessa sopravvive anche all'estinzione del giudizio di merito. Al riguardo, pur potendosi condividere la tesi della non equiparabilita' dell'ordinanza in esame ad una sentenza di merito (v., da ultimo, Cass. 25 novembre 1976, n. 4464), deve ritenersi che l'efficacia della prima oltre l'estinzione del processo deriverebbe non dalla predicata (e negata) equiparazione, bensi' dalla descritta sua natura. A ben vedere, una simile conclusione e' confortata proprio dall'attento esame delle premesse: la possibilita' del conduttore di far valere in autonomo giudizio le proprie ragioni, in caso di estinzione del processo successiva all'ordinanza in esame, si ricollega alla non definitivita' dell'accertamento giurisdizionale soltanto e proprio sulle ragioni del convenuto (argum. anche da Cass. 24 marzo 1983, n. 2078, ove, in verita', sviluppando le premesse in modo forse non del tutto rigorosamente coerente, si ritiene provvisorio anche l'accertamento delle ragioni del locatore) e si inquadra nella "garanzia di tutela, pur se posticipata, del conduttore, che assicura la legittimita' costituzionale dell'intero procedimento" (Corte costituzionale 19 giugno 1974, n. 171). In altri termini, una volta che il locatore-intimante abbia svolto puntualmente il suo ruolo processuale adempiendo all'onere impostogli dall'art. 2697 del cod. civ., non vi sarebbe motivo di gravarlo della prosecuzione del processo, alla quale unico interessato sarebbe oramai il solo conduttore: e, diversamente opinando, la peculiarita' del procedimento di convalida di licenza o sfratto verrebbe frustrata e la sua funzione di assicurare tutela pronta ed efficace alle ragioni del locatore non controbattute da corrette e complete eccezioni rimarrebbe, nella sostanza, non piu' perseguibile. In tal modo, nonostante la divisione della giurisprudenza di merito (a favore della tesi qui accolta, tra le piu' recenti: trib. Napoli 29 giugno 1984, Critelli c. Mazzuolo, in dir. e giur. 1985, 772; idem 10 giugno 1985, Enel c. Marangio, in giur. merito 1985, 1036; pret. Firenze 26 agosto 1985, Torrini c. Bacceschi Cofani, in arch. loc. 1985, 749; appello Napoli 26 settembre 1985, Velardi c. Improta, in giust. civ. 1986, I, 2922; pret. Frattamaggiore 24 febbraio 1986, Capasso c. Borga, in giur. merito 1986, 786; pret. Molfetta, 8 novembre 1986, n. 171, in arch. locaz. 1987, 574; a favore della tesi contraria, sempre fra le piu' recenti: pret. Milano 29 novembre 1984, in rass. equo canone 1985, 85; pret. Verona 13 novembre 1985, in foro it. 1986, I, 1457; pret. Brindisi 28 febbraio 1986, Mangia c. Sarli, in arch. civ. 1986, 765; pret. Napoli 29 gennaio 1987, n. 353, in dir. e giur. 1987, 189), questo pretore ha da sempre ritenuto che l'efficacia esecutiva tipica della pronunzia ex art. 665 del c.p.c. non viene meno se non con l'accertamento definitivo, con le forme ordinarie - siano quelle del giudizio ex art. 667 del c.p.c., siano quelle di autonomo giudizio di accertamento, secondo cassazione n. 4464/1976 -, della fondatezza delle eccezioni del convenuto (ovvero anche nel caso, che pero' qui non interessa, di sostituzione all'ordinanza di sentenza esecutiva di rigetto delle eccezioni stesse). A prescindere, percio', dalla norma dell'art. 310 del c.p.c., inapplicabile per la singolare natura dell'ordinanza ex art. 665 del c.p.c., quest'ultima non puo' ritenersi caducata per la successiva estinzione del giudizio ex art. 667 del c.p.c., volto ad esaminare le eccezioni del conduttore. Anche in caso consimile, pertanto, l'ordinanza mantiene intatta la sua efficacia di titolo esecutivo. Sul punto sembra oramai orientata in senso analogo anche la suprema Corte, la quale, con sentenza del 30 marzo 1990, n. 2619, ha statuito che "in tema di procedimento di convalida di sfratto, emessa .. ordinanza ex art. 665 del c.p.c., la mancata riassunzione del giudizio nel termine perentorio fissato ex art. 667 del c.p.c. non determina la perdita di efficacia di detta ordinanza quale effetto dell'estinzione del giudizio di merito, atteso che l'ordinanza di rilascio, pur se non idonea ad acquistare l'autorita' di giudicato in ordine al diritto fatto valere dal locatore, rientrando nella categoria dei provvedimenti di condanna con riserva delle eccezioni del convenuto, ha natura di provvedimento sostanziale provvisorio, i cui effetti (afferenti alla cessazione o risoluzione della locazione e conseguentemente alla attribuzione del diritto al rilascio dell'immobile attuabile in via esecutiva) permangono fin a quando, ove non vengano definitivamente confermati, siano messi nel nulla dalla sentenza di merito che conclude l'ordinario giudizio di cognizione, salva restando - in caso di estinzione di questo - al conduttore di fare valere, nel termine di prescrizione, le sue eccezioni in un autonomo nuovo processo". Tale efficacia e tale funzione dell'ordinanza ex art. 665 del c.p.c. (suscettibile di resistere anche all'estinzione del giudizio nel corso del quale e' stata emanata) impongono quindi di verificare, ai fini della sua medesima concedibilita' e pertanto nella stessa fase a cognizione sommaria e prima della sua conclusione, se i fatti costitutivi addotti dall'intimante sussistano o meno (e siano o meno forniti di prova), a prescindere dal fondamento su prova scritta - ed anzi soprattutto quando esso manchi - dell'opposizione dell'intimato alla convalida. E il principale fatto costitutivo da esaminare e' certamente la scadenza del contratto alla data dedotta dall'intimante (accantonando momentaneamente il problema circa la natura del secondo immobile e il nesso tra i due oggetti del rapporto di locazione): la quale, pur essendo in citazione specificato che si intendeva agire per la data del 13 dicembre 1992 (desumibile dal contratto versato in atti) o - in alternativa - per quella ritenuta di giustizia, e' poi chiaramente, all'esito della concreta condotta processuale dell'intimante, calcolata in esclusione della norma invocata dall'intimato. Di conseguenza, quest'ultima e' certamente rilevante per la decisione, dovendosi, sulla sua base, determinare una data di scadenza del rapporto diversa da quella sola per la quale l'intimante si riduce ad insistere: sicche' l'applicazione di quella norma condurrebbe al rigetto della domanda - anche se limitatamente a quella di provvedimento ex art. 665 del c.p.c., almeno per il momento -, mentre la sua disapplicazione condurrebbe, ben al contrario, all'accoglimento di quella. IV. Per una migliore comprensione del problema agitato dalle parti, non e' inopportuno riportare il testo dell'art. 11 d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 1992, n. 359: "1. Fino alla revisione della disciplina delle locazioni degli immobili urbani, le disposizioni di cui agli artt. 12 e seguenti della legge 27 luglio 1978, n. 392, concernenti l'equo canone degli immobili adibiti a uso d'abitazione, non si applicano ai contratti di locazione stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, aventi ad oggetto immobili per i quali, alla predetta data, non sia stata presentata la dichiarazione di ultimazione dei lavori e sempreche', alla data del contratto, sia stata richiesta la certificazione di abitabilita' e sia stata presentata domanda per l'accatastamento; 2. Nei contratti di locazione relativi ad immobili non compresi fra quelli di cui al comma 1, stipulati o rinnovati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le parti, con l'assistenza delle organizzazioni della proprieta' edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro organizzazioni provinciali, possono stipulare accordi in deroga alle norme della citata legge n. 392/1978. La disposizione si applica per i contratti ad uso abitativo limitatamente ai casi in cui il locatore rinunzi alla facolta' di disdettare i contratti alla prima scadenza a meno che egli intenda adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui, rispettivamente, agli artt. 29 e 59 della citata legge n. 392/1978. Resta ferma l'applicazione, per i contratti indicati nel presente comma, degli artt. 24 e 30 della legge n. 392/1978; 2-bis. Nei casi in cui, alla prima scadenza del contratto successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le parti non concordino sulla determinazione del canone, il contratto stesso e' prorogato di diritto per due anni". La complessa normativa in esame, a prescindere da imponenti dubbi indotti dalla straordinaria improprieta' del tecniloquio giuridico, sembra ispirata da due obiettivi o finalita' di fondo, apparentemente limitati al solo campo delle locazioni di immobili abitativi: il primo e' che per gli immobili di nuova costruzione il concetto stesso di canone "equo", quale elemento di obiettivo calmiere - funzionale o meno - del mercato immobiliare, viene meno; il secondo e' che, per gli immobili gia' esistenti, si vorrebbe favorire uno svincolo per cosi' dire spontaneo dal calmiere stesso, ma con la contropartita, per il conduttore, di una durata sostanzialmente raddoppiata del rapporto di locazione. Tecnicamente, questo secondo obiettivo, su cui sorvegliano le organizzazioni di categoria dei proprietari e dei conduttori (a riprova della rilevanza sociale del fenomeno e della necessita' di una mediazione superindividuale per il passaggio dal regime di calmiere a quello di libera contrattazione) con le loro articolazioni territoriali, si attua mediante la rinunzia del locatore a disdettare il contratto alla prima scadenza quale corrispettivo della fissazione del canone in misura - evidentemente maggiore - di quella massima prevista dalle norme di cui agli artt. 12 e seguenti della legge n. 392/1978. Dalla stessa rinunzia si escludono tuttavia, a mo' di vere e proprie clausole di salvaguardia, in modo singolarmente simmetrico - e quindi, stavolta, congruamente parallelo - rispetto alla normativa dei contratti non abitativi, alcune specifiche ipotesi in cui al locatore sarebbe consentito in ogni caso non addivenire alla rinnovazione: ipotesi incentrate sulla sua intenzione di addivenire a particolari usi del bene o di effettuarvi determinati interventi strutturali. In tal modo, l'inciso " .. a meno che egli (cioe' il locatore) intenda adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di cui, rispettivamente, agli articoli 29 e 59 della citata legge n. 392/1978 .." non si riferisce, come sostiene il locatore nelle sue note a verbale, alla stessa facolta' di stipula del patto in deroga, ma evidentemente soltanto al contenuto di questo stesso patto, in cui si regolamenta ex lege la modalita' di rinnovazione alla scadenza. Del resto, non avrebbe senso attribuire alle parti una mera facolta' (" .. le parti .. possono stipulare ..") per stabilire poi i casi in cui questa potrebbe non essere esercitata, visto che le parti, almeno in teoria, rimangono pur sempre padrone della relativa decisione sull' an della stipula (quand'anche sotto la terribile comminatoria della proroga forzosa in caso di fallimento dell'accordo) e quindi della valutazione dei motivi in base ai quali non addivenirvi. Puo' sembrare allora coerente con questo disegno legislativo, a prescindere dalle aporie derivanti dal tenore letterale delle espressioni, che un simile sitema di volontaria, progressiva e cauta deregulation del canone degli abitativi sia fortemente caldeggiato dal legislatore: il quale deve anzi avere previsto, dinanzi ai limiti dell'ipotesi di riforma, il plausibile e comprensibile disfavore con cui i locatori, di fronte ad aumenti del canone probabilmente non consistenti (a causa della presenza attiva, nelle trattative, delle stesse organizzazioni degli inquilini, le quali avranno prevedibilmente la funzione di freno di aumenti illimitati od eccessivi), potrebbero accogliere la conseguenza - per loro del tutto negativa - di un raddoppio della durata minima. E per vincere tale remora, obiettivamente giustificabile, dei locatori, ha ritenuto di introdurre uno strumento di pressione o coazione psicologica, quale l'imposizione di una proroga biennale del contratto stesso di locazione. La proroga consiste, almeno per i contratti abitativi, nella sgradevole sorpresa di una sostanziale, benche' sommaria e raffazzonata, riedizione, dopo quasi dieci anni dallo spirare del precedente, di un regime di proroghe legali in tema di locazione pressoche' trentennale, della cui conformita' alla Carta fondamentale la stessa Corte costituzionale aveva piu' volte dubitato. In particolare, sovente essa ha rilevato che l'alterazione dell'equilibrio - il quale deve pur sempre sussistere - tra interessi dei conduttori e interessi dei proprietari locatori poteva sfumare in secondo piano soltanto in vista di obiettivi caratteri di straordinarieta' e temporaneita' della disciplina delle proroghe, all'epoca ritenuta come concretante un intervento per fini sociali in favore delle classi meno abbienti: tanto che, ove il regime si fosse sostanzialmente consolidato come irreversibile e definitiva compressione delle facolta' di godimento del proprietario, oltretutto senza alcun considerazione comparativa delle condizioni personali ed economiche di questo e del locatario, si sarebbe giunti ad una diversa valutazione di costituzionalita' (per tutte, sul punto, le perspicue Corte costituzionale 15 gennaio 1976, n. 3 - in foro it. 1976, I 5 - e 18 novembre 1976, n. 225 - in giur. cost. 1976, I, 1805). E una consimile conseguenza si e' poi avuta, per quanto nel contiguo settore dei contratti relativi ad immobili destinati ad uso non abitativo, con la nota sentenza del 22 aprile 1986, n. 108: con la quale si falcidiava - coerentemente - la legge 5 aprile 1985, n. 118, e la proroga sessennale con essa introdotta (per di piu' con la garanzia di sottrazione al regime in particolari casi di necessita' del locatore) in quanto comportante un'ulteriore e intollerabile compressione generalizzata del diritto di proprieta' e delle usuali facolta' di godimento ad esso connaturate. E' convinta opinione di questo giudice che la norma invocata dal conduttore nel caso in esame, vale a dire l'art. 11, comma 2- bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 1992, n. 359, non si sottragga ad analoghi, consistenti dubbi di incostituzionalita', con riferimento agli artt. 3 e 42, secondo comma, della Carta fondamentale. Non ignora questo giudice che gia' in passato si e' ritenuta accettabile l'imposizione di un regime di proroga al fine di favorire o rendere meno traumatico il transito ad una diversa disciplina generale, soprattutto in settori di rara rilevanza sociale quali quello della locazione di immobili urbani e per di piu' di quelli destinati ad uso abitativo (tra le tante: Corte costituzionale 12 dicembre 1984, n. 281, in rass. equo canone 1984, 207). Eppure, stavolta la scelta legislativa in esame comprime indiscriminatamente, irrazionalmente ed unilateralmente il diritto di proprieta', pretermettendo poi la ricca ed inesauribile diversita' delle concrete situazioni personali ed economiche dei singoli locatori, anche comparate con quelle dei conduttori, con una disposizione infelicemente generalizzata e indifferenziata. In primo luogo, l'ampiezza e la tacitiana secchezza del tenore letterale, considerate alla luce del fatto che la norma viene posta da una disposizione emanata separatamente rispetto al pur contorto comma precedente, non consentono di limitare la proroga ai soli casi in cui il mancato accordo sul canone siasi avuto prima, nel corso o al termine di trattative per la stipula dei patti in deroga di cui al comma precedente: cioe', ai casi in cui essa avrebbe una sua qualche ragione giustificatrice quale mezzo di pressione per l'applicazione del regime di svincolo dal calmieramento. In altre parole, la proroga viene comminata, dalla lettera della norma, in tutti i casi in cui, alla prima scadenza successiva all'entrata in vigore della legge, le parti non si mettano comunque d'accordo sul canone, vale a dire, non solo nei casi in cui si voglia favorire il transito alla disciplina dei patti in deroga, ma anche in almeno due altre grandi categorie di fattispecie: una prima, dei contratti per immobili "vecchi" (diversi, cioe', da quelli di cui al primo comma), al cui termine il locatore sia persino d'accordo sulla rinnovazione ma in cui il conduttore chieda un ribasso del canone (non si dimentichi che il canone equo rappresenta pur sempre il limite massimo del corrispettivo della locazione, ben potendo le parti convenire un canone inferiore); una seconda, degli stessi contratti per immobili "nuovi" di cui al primo comma, in cui il disaccordo sul canone sembra ancora piu' plausibile, per essere completamente libera la trattativa tra le parti su quel punto essenziale. In entrambi questi casi, non soccorre la finalita' di favorire il transito verso la normativa del patto in deroga: non nel primo, perche' il legislatore mantiene pur sempre come cardine della materia il regime dell'equo canone e finirebbe, invece, con il rendere piu' difficile l'applicazione in premio di condotte vessatorie del conduttore; non nel secondo, perche' ricondurrebbe alla disciplina del patto in deroga, con evidenza e chiarezza intermedia tra il re- gime di calmiere e quello di libera contrattazione, proprio i casi per i quali aveva consentito quest'ultima e l'abbandono del primo. In tal modo e sotto tale profilo la norma in esame violerebbe i principi di razionalita' e di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, trattando incongruamente in modo identico situazioni obiettivamente diverse, nonche' il canone della tutela della proprieta', imponendo ai proprietari incongrue e non comprensibili limitazioni delle facolta' di godimento e di uso a quel diritto riconducibili, consistenti nella protrazione autoritativa e inesorabile dell'indisponibilita' del bene. D'altra parte, anche con riferimento ai soli casi in cui il mancato accordo sul canone siasi avuto prima, nel corso o al termine di trattative per la stipula dei patti in deroga di cui al primo comma, puo' dubitarsi della non conformita' al dettato costituzionale della norma in oggetto. Il primo e' che, inquadrata l'imposizione della proroga come una vera e propria sanzione di fatto per il fallimento delle trattative, incongruamente si finisce con il penalizzare sempre e soltanto il locatore, ritenendolo comunque - in un certo qual modo - responsabile ovvero addossando sempre e in ogni modo a lui e a lui soltanto il peso del transito nella nuova disciplina dei patti in deroga: peso che, si ricordi, non era prevedibile e non si sarebbe attuato secondo la disciplina in vigore al momento della stipula del contratto (cioe' il regime ordinario della legge n. 392/1978), visto che, alla prima scadenza successiva all'entrata in vigore della legge, si sarebbe giunti al semplice e normale esaurimento del quadriennio e alla cessazione immotivata, per cosi' dire pura e semplice, della locazione. Nessuna rilevanza, quindi, viene data al caso concreto, in cui il mancato accordo sui patti in deroga sia imputabile al conduttore, ovvero in cui le contrapposte condizioni personali ed economiche delle parti finiscano con il ledere prevalentemente o esclusivamente un soggetto che versa in concreto in una posizione sfavorevole di diseguaglianza rispetto alla controparte. Non sempre e non automaticamente, infatti, il conduttore riceve, dalla cessazione del contratto di locazione, un danno maggiore di quello imposto alla sua controparte dalla protrazione autoritativa del rapporto: e cio' e' tanto piu' evidente se si considera che da sempre anche le proroghe piu' vessatorie hanno consentito (ora in via originaria, ora a seguito delle pronunce della Corte) una comparazione delle rispettive posizioni delle parti. E' cosi' la stessa attuale formulazione della norma in esame che non assicura affatto che della proprieta' del bene locato sia in concreto garantita una funzione o un'utilita' sociale, in genere individuata nel sostegno alle classi meno abbienti in ordine al bene primario e insostituibile dell'abitazione: e quindi la limitazione al diritto di proprieta' vi'ola in modo espresso e irreparabile il dettato dell'art. 42, secondo comma, della Costituzione e lo stesso principio di eguaglianza formale e sostanziale di cui all'art. 3. Ma tutto questo non basta: al locatore si impone la proroga biennale senza nemmeno che possano rilevare, per evitarla al suo insorgere ovvero per farla cessare una volta iniziata, le necessita' peculiari e personali generalmente riconosciute persino da tutti i regimi, per quanto vessatori, di proroga del decorso quarantennio, ultimi dei quali quelli codificati dall'art. 59 della legge n. 392/1978. E cio' veramente in modo incongruo e iniquo, in quanto persino nel regime che si vorrebbe favorire quei motivi potrebbero poi trovare concreta rilevanza, richiamati, almeno in parte, come sono per il momento della rinnovazione alla prima scadenza: ne consegue che la proroga viene imposta anche al locatore che abbia sin d'ora la necessita' di adibire gli immobili per uno degli usi che gli avrebbero consentito, nel regime vigente e quale risultante dalla pratica protratta applicabilita' degli artt. 2, primo e terzo comma, seg. della legge n. 61/1989 in tema di esecuzione dei provvedimenti di rilascio, la concessione della forza pubblica - e quindi l'effettivo riconseguimento del bene - in tempi ravvicinati; e, quale ulteriore conseguenza, si ha che al locatore (il quale i suoi conteggi e le sue previsioni circa le sue personali esigenze aveva gia' liberamente effettuato al momento della precedente rinnovazione o della prima stipulazione - comunque anteriori all'entrata in vigore della norma in esame -) si impone la sostanziale privazione del bene per due anni senza le sue esigenze e i suoi bisogni relativi e connessi al bene primario dell'abitazione possano non solo soddisfarsi ma neppur venir presi in considerazione. Ne' puo' dirsi del tutto pacifico che, pendente la proroga, il canone possa essere adeguato o aggiornato ai sensi degli artt. 23 o 24 della legge n. 392/1978, in difetto di esplicita menzione da parte della norma: sicche' si verificherebbe un'ulteriore - e ancora piu' inspiegabile - compressione del diritto di proprieta', riconoscendo ai rapporti ancora in corso per volonta' delle parti una remunerazione del godimento maggiore di quelli in cui la legge invece gia' coarta e comprime la volonta' del locatore quanto alla capitale circostanza del riottenimento del bene proprio. In definitiva, nessuna funzione sociale puo' garantirsi alla proprieta' e nessun rispetto puo' tributarsi al principio di eguaglianza con formule generali e indifferenziate del tipo di quelle adoperate dal legislatore del 1992. Ne' spetta a questo giudice rilevare o evidenziare, per il caso che la norma possa essere ricondotta nell'alveo delle prescrizioni costituzionali violate, le possibili modifiche del tenore letterale: o, cio' ch'e' lo stesso, esula dai poteri di questo giudice a quo, nel giudizio incidentale di legittimita' costituzionale, limitare la questione ai profili per i quali la norma denunziata non prevede alcune precisazioni, cosi' implicitamente suggerendo le integrazioni opportune (ad es., in quanto non prevede che si applica soltanto in occasione delle trattative per i patti in deroga di cui al comma precedente e in quanto non richiama la normativa di cui all'art. 59 - ed eventualmente 60 - della legge n. 392/1978). L'opportunita' di una sentenza manipolativa o additiva va valutata, invero, esclusivamente e sovranamente dalla Corte costituzionale: la quale a tanto, se riterra', potra' sempre indursi sciogliendo la questione, qui esposta senza alcuna limitazione di prospettiva. Tutti tali aspetti sembrano a questo giudice qualificare di una riesumata vessatorieta' - e cioe' di una contrarieta' con le norme di cui agli artt. 3 e 42, secondo comma, della Costituzione, sotto i profili rispettivamente gia' esaminati - il regime di proroga indifferenziata reintrodotto con la norma in esame: in ordine alla quale, peraltro, per la vista univocita' del tenore letterale e della conseguente interpretazione, neppure soccorre la possibilita', generalmente riconosciuta al magistrato, di prescegliere, tra piu' soluzioni ricostruttive, quella sola conforme alla Carta costituzionale. In particolare, neppure si potrebbe sostenere che la mancanza di accordo sulla cui base fare scattare la proroga biennale sarebbe solo quella che segue alle trattative sul patto in deroga, concretamente avviate e fallite proprio sul punto della quantificazione del canone come corrispettivo della rinunzia alla disdetta alla prima scadenza: questa, come si e' detto, sarebbe la ratio giustificatrice della proroga (e, sia pure con ulteriori dubbi circa la non estensione di ipotesi di non operativita' originaria o sopravvenuta, potrebbe, al limite e a tutto concedere, fondare una sua funzione tale da escludere un pieno contrasto con le norme denunziate), ma non si ricava affatto dall'infelice tenore letterale della norma, sulla cui base non puo' non sostenersi che un accordo sul canone - e cioe' su di una, anche se sulla piu' importante, delle clausole del contratto - manca anche e soprattutto se manca un accordo sulla stessa rinnovazione del contratto. Non rimane altra via, allora, che qualificare rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' della norma in esame, invocando il giudizio della Consulta e impartendo le ulteriori statuizioni di cui in dispositivo: e non potendosi, nell'attuale sistema di controllo della conformita' delle leggi alla Costituzione, considerare come ostativo il fatto che ai locatori, in attesa dell'auspicata pronunzia vendicatrice della Consulta e quindi del sicuro vantaggio a medio termine, si impone il danno certo e immediato (in un certo senso, a breve termine) della sospensione - e per tempo non breve - dello stesso processo. All'esito del giudizio incidentale cosi' attivato potra' essere presa in esame l'istanza di concessione dell'ordinanza provvisoria di rilascio, intendendosi il presente giudizio sospeso nella pendenza della c.d. fase sommaria e prima della consunzione del potere del giudice di emanare i provvedimenti tipici di quella, a cognizione non piena, ex artt. 665-7 del c.p.c.