IL PRETORE
    Letti  gli  atti  e  sciogliendo  la  riserva che precede, osserva
 quanto segue in fatto e in diritto.
    I. Con atto di citazione notif. il  28  settembre  1992  Gliubizzi
 Giuseppe, premessa la sua qualita' di proprietario di un appartamento
 "con  annesso  deposito"  in  Salerno  e  rispettivamente alla via B.
 Freda, 50, e alla  via  dei  Mille,  condotti  in  locazione  dal  12
 dicembre 1990 da tal Paglionico Giuseppe per il canone di L. 400.000,
 deduceva  come  incombente  la  scadenza contrattuale del 13 dicembre
 1992; e, sul presupposto di aver inviato disdetta sin dal 2 settembre
 1991, intimava al conduttore licenza per quella  data  o  per  quella
 stabilita  sulla  base di una piu' corretta applicazione della norma,
 nel contempo citandolo per la convalida o, in caso d'opposizione, per
 l'emissione di ordinanza  provvisoria  di  rilascio,  con  fissazione
 della data di esecuzione e vittoria di spese.
   Ritualmente   instauratosi   il   contraddittorio,   si  costituiva
 l'intimato,  opponendosi  alla  convalida  in  forza   del   disposto
 dell'art.  11 della legge 8 agosto 1992 e specificamente adducendo di
 intender valersi della possibilita' di stipulare un patto  in  deroga
 o,  in  mancanza,  di usufruire della conseguente proroga di due anni
 del contratto di locazione, oltre che del termine ex  art.  56  della
 legge  n.  392/1978;  ed alla successiva udienza 6 novembre 1992 egli
 ribadiva la posizione, solo ulteriormente eccependo che  i  contratti
 di  locazione  relativi agli immobili di causa erano due e soggetti a
 discipline  del  tutto  diverse   in   vista   dell'uso   cui   erano
 separatamente  adibiti,  con  conseguente diversa scadenza, anche per
 essere stata la sola comunicata disdetta relativa all'appartamento  e
 non anche al terraneo.
    Dal canto suo, l'intimante ribadiva di non avere la benche' minima
 intenzione  di rinnovare il contratto, interpretando la norma addotta
 da controparte nel senso che il patto in  deroga  poteva  non  essere
 stipulato  ove  il  locatore  intendesse adibir l'immobile agli usi o
 effettuare sullo stesso le opere di cui, rispettivamente, agli  artt.
 29  e  59 della citata legge n. 392/1978; inoltre, egli sosteneva che
 comunque la legge gli consentiva di non soggiacere ad alcuna  proroga
 legale  ove  il  locatore non avesse voluto accedere ad alcun accordo
 circa    la    stipula    di    patti    in    deroga,    ipotizzando
 l'incostituzionalita' della norma, se intesa diversamente.
    Questo  pretore  si  riservava  la  decisione  sulle  richieste di
 convalida o di concessione di ordinanza provvisoria.
    II. La richiesta di convalida va subito dichiarata  inammissibile,
 in  quanto,  dinanzi  all'opposizione  dell'intimato, e' preclusa del
 tutto  ogni  pronunzia  di  quel  tipo,  potendosi  soltanto  emanare
 l'ordinanza  con  riserva  delle  eccezioni  di  cui all'art. 665 del
 c.p.p.: e, mentre la  convalida  conclude  il  processo,  la  seconda
 invece  ne  costituisce  il  presupposto  e al tempo stesso una tappa
 indefettibile, tanto da aprire la successiva fase a cognizione  piena
 od ordinaria in favore di entrambe le parti.
    Molto  piu'  complesso  si  appalesa  il  discorso  in ordine alla
 richiesta di ordinanza provvisoria  di  rilascio,  formulata  sia  in
 citazione sia, per quanto in subordine, a verbale.
    III.  In  primo luogo, quand'anche l'opposizione dell'intimato non
 fosse fondata su prova scritta (come nel caso di specie,  in  cui  si
 adduce  una  diversa interpretazione dei contratti posti dallo stesso
 intimante a base dell'azione, espressamente riservando  al  prosieguo
 la  prova  del  regime  applicabile  al  "deposito", occorrerebbe pur
 sempre  delibare  la  sussistenza  del  fumus  boni  juris  in   capo
 all'intimante.
    Il  provvedimento  ex art. 665 del c.p.p. costituisce, invero, pur
 nella forma  dell'ordinanza,  uno  dei  rari  casi  di  condanna  con
 riserva:  in  cui,  cioe', rigorosamente argomentando, l'accertamento
 dei fatti costitutivi si e' gia' avuto almeno in via di delibazione o
 cognizione sommaria, mentre quello dei fatti modificativi, impeditivi
 od estintivi e' rimesso ovvero rinviato ad un tempo  e  ad  una  fase
 successiva e talvolta anche solo eventuale.
    Certamente  e'  da escludere una natura meramente istruttoria, non
 solo e non tanto per la non impugnabilita'  e  la  non  revocabilita'
 dell'ordinanza,  bensi'  - e soprattutto - perche' la detta ordinanza
 non  mira  a  regolare  il  futuro   svolgimento   del   processo   o
 l'acquisizione  di idonei mezzi di prova sulle contrastanti posizioni
 delle parti. Essa, invece, contenendo quanto meno una condanna  -  al
 rilascio dell'immobile - sul presupposto di una futura (ed anticipata
 quoad  effectum)  pronunzia costitutiva - la cessazione o risoluzione
 del contratto - ed essendo assistita da una efficacia esecutiva  ipso
 iure,  costituisce una vera e propria pronunzia giurisdizionale su di
 un punto controverso (la sussistenza dei fatti costitutivi).
    La sua funzione non e', percio', cautelare od interinale,  poiche'
 per la sua emissione non e' rilevante alcun requisito di urgenza o di
 pericolo  nel  ritardo  ne'  alcuna sommarieta' della valutazione del
 buon diritto dell'attore:  anzi,  l'esame  delle  ragioni  di  costui
 dovrebbe  essere pieno, mentre sommaria puo' restare la deliberazione
 di quelle del convenuto (tanto che delle eccezioni  si  fa,  appunto,
 riserva).
    Pienamente  da  condividere e', pertanto, la tesi che ricostruisce
 l'ordinanza in esame come una pronunzia condizionata  risolutivamente
 all'accoglimento  (ovvero  al  riconoscimento  di  fondatezza)  delle
 eccezioni.
    Al fine di apprezzare l'importanza della valutazione delle ragioni
 del ricorrente e quindi della fondatezza dei fatti costitutivi da lui
 dedotti  a  fondamento  della   domanda,   va   allora   attentamente
 considerato  che  la pronunzia stessa sopravvive anche all'estinzione
 del giudizio di merito.
    Al  riguardo,  pur  potendosi  condividere  la  tesi   della   non
 equiparabilita'  dell'ordinanza  in  esame  ad una sentenza di merito
 (v., da ultimo, Cass. 25 novembre 1976, n. 4464), deve ritenersi  che
 l'efficacia  della  prima oltre l'estinzione del processo deriverebbe
 non dalla predicata (e negata) equiparazione, bensi' dalla  descritta
 sua  natura.  A  ben  vedere,  una  simile  conclusione e' confortata
 proprio  dall'attento  esame  delle  premesse:  la  possibilita'  del
 conduttore  di far valere in autonomo giudizio le proprie ragioni, in
 caso di estinzione del processo successiva all'ordinanza in esame, si
 ricollega alla non  definitivita'  dell'accertamento  giurisdizionale
 soltanto e proprio sulle ragioni del convenuto (argum. anche da Cass.
 24  marzo 1983, n.  2078, ove, in verita', sviluppando le premesse in
 modo  forse  non  del  tutto  rigorosamente  coerente,   si   ritiene
 provvisorio  anche  l'accertamento  delle  ragioni del locatore) e si
 inquadra  nella  "garanzia  di  tutela,  pur  se   posticipata,   del
 conduttore,  che  assicura la legittimita' costituzionale dell'intero
 procedimento" (Corte costituzionale 19 giugno 1974, n. 171).
    In altri termini, una volta che il locatore-intimante abbia svolto
 puntualmente il suo ruolo processuale adempiendo all'onere impostogli
 dall'art. 2697 del cod. civ., non vi sarebbe motivo di gravarlo della
 prosecuzione  del  processo,  alla  quale  unico  interessato sarebbe
 oramai il solo conduttore: e, diversamente opinando, la  peculiarita'
 del procedimento di convalida di licenza o sfratto verrebbe frustrata
 e  la  sua  funzione  di  assicurare  tutela  pronta ed efficace alle
 ragioni  del  locatore  non  controbattute  da  corrette  e  complete
 eccezioni rimarrebbe, nella sostanza, non piu' perseguibile.
    In  tal  modo,  nonostante  la  divisione  della giurisprudenza di
 merito (a favore della tesi qui accolta, tra le piu'  recenti:  trib.
 Napoli  29  giugno  1984, Critelli c. Mazzuolo, in dir. e giur. 1985,
 772; idem 10 giugno 1985, Enel c. Marangio,  in  giur.  merito  1985,
 1036;  pret.  Firenze 26 agosto 1985, Torrini c. Bacceschi Cofani, in
 arch. loc. 1985, 749; appello Napoli 26 settembre  1985,  Velardi  c.
 Improta,  in  giust.  civ.  1986,  I,  2922;  pret. Frattamaggiore 24
 febbraio 1986, Capasso c. Borga, in giur.  merito  1986,  786;  pret.
 Molfetta,  8  novembre  1986,  n.  171,  in arch. locaz. 1987, 574; a
 favore della tesi contraria, sempre fra le piu' recenti: pret. Milano
 29 novembre 1984, in rass. equo canone  1985,  85;  pret.  Verona  13
 novembre  1985, in foro it. 1986, I, 1457; pret. Brindisi 28 febbraio
 1986, Mangia c. Sarli, in arch.  civ.  1986,  765;  pret.  Napoli  29
 gennaio  1987,  n. 353, in dir. e giur. 1987, 189), questo pretore ha
 da sempre ritenuto che l'efficacia esecutiva tipica  della  pronunzia
 ex  art.  665  del  c.p.c.  non  viene meno se non con l'accertamento
 definitivo, con le forme ordinarie - siano  quelle  del  giudizio  ex
 art.   667   del   c.p.c.,  siano  quelle  di  autonomo  giudizio  di
 accertamento, secondo cassazione n.  4464/1976  -,  della  fondatezza
 delle  eccezioni  del convenuto (ovvero anche nel caso, che pero' qui
 non interessa, di sostituzione all'ordinanza di sentenza esecutiva di
 rigetto delle eccezioni stesse). A prescindere, percio', dalla  norma
 dell'art.  310  del  c.p.c.,  inapplicabile  per  la singolare natura
 dell'ordinanza  ex  art.  665  del  c.p.c.,  quest'ultima  non   puo'
 ritenersi  caducata per la successiva estinzione del giudizio ex art.
 667 del c.p.c., volto ad esaminare le eccezioni del conduttore. Anche
 in caso consimile, pertanto,  l'ordinanza  mantiene  intatta  la  sua
 efficacia di titolo esecutivo.
    Sul  punto  sembra  oramai  orientata  in  senso  analogo anche la
 suprema Corte, la quale, con sentenza del 30 marzo 1990, n. 2619,  ha
 statuito che "in tema di procedimento di convalida di sfratto, emessa
 ..  ordinanza  ex  art.  665  del c.p.c., la mancata riassunzione del
 giudizio nel termine perentorio fissato ex art. 667 del c.p.c.    non
 determina  la  perdita  di efficacia di detta ordinanza quale effetto
 dell'estinzione del giudizio di merito,  atteso  che  l'ordinanza  di
 rilascio, pur se non idonea ad acquistare l'autorita' di giudicato in
 ordine  al  diritto  fatto  valere  dal  locatore,  rientrando  nella
 categoria dei provvedimenti di condanna con riserva  delle  eccezioni
 del  convenuto, ha natura di provvedimento sostanziale provvisorio, i
 cui effetti (afferenti alla cessazione o risoluzione della  locazione
 e   conseguentemente   alla  attribuzione  del  diritto  al  rilascio
 dell'immobile attuabile in via esecutiva) permangono  fin  a  quando,
 ove  non  vengano  definitivamente  confermati, siano messi nel nulla
 dalla  sentenza  di  merito  che  conclude  l'ordinario  giudizio  di
 cognizione,  salva  restando  -  in caso di estinzione di questo - al
 conduttore di fare  valere,  nel  termine  di  prescrizione,  le  sue
 eccezioni in un autonomo nuovo processo".
    Tale  efficacia  e  tale  funzione  dell'ordinanza ex art. 665 del
 c.p.c. (suscettibile di resistere anche all'estinzione  del  giudizio
 nel corso del quale e' stata emanata) impongono quindi di verificare,
 ai  fini  della  sua  medesima concedibilita' e pertanto nella stessa
 fase a cognizione sommaria e prima della sua conclusione, se i  fatti
 costitutivi  addotti dall'intimante sussistano o meno (e siano o meno
 forniti di prova), a prescindere dal fondamento su prova scritta - ed
 anzi soprattutto quando esso manchi - dell'opposizione  dell'intimato
 alla convalida.
    E  il  principale  fatto costitutivo da esaminare e' certamente la
 scadenza del contratto alla data dedotta dall'intimante (accantonando
 momentaneamente il problema circa la natura del secondo immobile e il
 nesso tra i due oggetti del rapporto di  locazione):  la  quale,  pur
 essendo  in  citazione specificato che si intendeva agire per la data
 del 13 dicembre 1992 (desumibile dal contratto versato in atti)  o  -
 in   alternativa   -   per  quella  ritenuta  di  giustizia,  e'  poi
 chiaramente,   all'esito   della   concreta   condotta    processuale
 dell'intimante,   calcolata   in   esclusione  della  norma  invocata
 dall'intimato.
   Di  conseguenza,  quest'ultima  e'  certamente  rilevante  per   la
 decisione,  dovendosi,  sulla  sua  base,  determinare  una  data  di
 scadenza del rapporto diversa da quella sola per la quale l'intimante
 si riduce  ad  insistere:  sicche'  l'applicazione  di  quella  norma
 condurrebbe  al  rigetto  della  domanda  -  anche se limitatamente a
 quella di provvedimento ex art. 665 del c.p.c., almeno per il momento
 -, mentre la  sua  disapplicazione  condurrebbe,  ben  al  contrario,
 all'accoglimento di quella.
    IV.  Per  una  migliore  comprensione  del  problema agitato dalle
 parti, non e' inopportuno riportare il testo dell'art.  11  d.l.  11
 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto
 1992, n. 359:
      "1.  Fino  alla revisione della disciplina delle locazioni degli
 immobili urbani, le disposizioni di cui  agli  artt.  12  e  seguenti
 della  legge  27 luglio 1978, n. 392, concernenti l'equo canone degli
 immobili adibiti a uso d'abitazione, non si applicano ai contratti di
 locazione stipulati successivamente alla data di  entrata  in  vigore
 del  presente  decreto,  aventi ad oggetto immobili per i quali, alla
 predetta  data,  non  sia  stata  presentata  la   dichiarazione   di
 ultimazione  dei  lavori  e  sempreche', alla data del contratto, sia
 stata  richiesta  la  certificazione  di  abitabilita'  e  sia  stata
 presentata domanda per l'accatastamento;
      2.  Nei contratti di locazione relativi ad immobili non compresi
 fra quelli di cui al comma 1, stipulati o  rinnovati  successivamente
 alla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di conversione del
 presente decreto, le parti,  con  l'assistenza  delle  organizzazioni
 della    proprieta'    edilizia   e   dei   conduttori   maggiormente
 rappresentative a livello nazionale, tramite le  loro  organizzazioni
 provinciali,  possono  stipulare  accordi  in deroga alle norme della
 citata legge n. 392/1978. La disposizione si applica per i  contratti
 ad  uso  abitativo  limitatamente  ai casi in cui il locatore rinunzi
 alla facolta' di disdettare i contratti alla prima  scadenza  a  meno
 che  egli  intenda  adibire  l'immobile  agli  usi o effettuare sullo
 stesso le opere di cui, rispettivamente, agli artt.  29  e  59  della
 citata legge n. 392/1978. Resta ferma l'applicazione, per i contratti
 indicati  nel  presente  comma,  degli  artt.  24 e 30 della legge n.
 392/1978;
      2-bis. Nei casi  in  cui,  alla  prima  scadenza  del  contratto
 successiva  alla data di entrata in vigore della legge di conversione
 del presente decreto, le parti non  concordino  sulla  determinazione
 del  canone,  il  contratto  stesso  e'  prorogato di diritto per due
 anni".
    La complessa normativa in esame, a prescindere da imponenti  dubbi
 indotti  dalla  straordinaria improprieta' del tecniloquio giuridico,
 sembra ispirata da due obiettivi o finalita' di fondo, apparentemente
 limitati al solo campo delle  locazioni  di  immobili  abitativi:  il
 primo e' che per gli immobili di nuova costruzione il concetto stesso
 di canone "equo", quale elemento di obiettivo calmiere - funzionale o
 meno  -  del  mercato immobiliare, viene meno; il secondo e' che, per
 gli immobili gia' esistenti, si vorrebbe favorire  uno  svincolo  per
 cosi'  dire  spontaneo  dal calmiere stesso, ma con la contropartita,
 per il conduttore, di  una  durata  sostanzialmente  raddoppiata  del
 rapporto di locazione.
    Tecnicamente,  questo  secondo  obiettivo,  su  cui sorvegliano le
 organizzazioni di categoria  dei  proprietari  e  dei  conduttori  (a
 riprova  della  rilevanza  sociale del fenomeno e della necessita' di
 una mediazione  superindividuale  per  il  passaggio  dal  regime  di
 calmiere a quello di libera contrattazione) con le loro articolazioni
 territoriali, si attua mediante la rinunzia del locatore a disdettare
 il contratto alla prima scadenza quale corrispettivo della fissazione
 del  canone  in  misura  - evidentemente maggiore - di quella massima
 prevista dalle norme di cui agli artt. 12 e seguenti della  legge  n.
 392/1978.  Dalla stessa rinunzia si escludono tuttavia, a mo' di vere
 e proprie clausole di salvaguardia, in modo singolarmente  simmetrico
 -   e  quindi,  stavolta,  congruamente  parallelo  -  rispetto  alla
 normativa dei contratti non abitativi, alcune specifiche  ipotesi  in
 cui  al  locatore sarebbe consentito in ogni caso non addivenire alla
 rinnovazione: ipotesi incentrate sulla sua intenzione di addivenire a
 particolari usi del bene  o  di  effettuarvi  determinati  interventi
 strutturali.
    In  tal  modo,  l'inciso  " .. a meno che egli (cioe' il locatore)
 intenda adibire l'immobile agli usi  o  effettuare  sullo  stesso  le
 opere  di  cui,  rispettivamente,  agli articoli 29 e 59 della citata
 legge n. 392/1978 .." non si riferisce,  come  sostiene  il  locatore
 nelle  sue  note a verbale, alla stessa facolta' di stipula del patto
 in deroga, ma evidentemente soltanto al contenuto  di  questo  stesso
 patto,  in  cui  si  regolamenta ex lege la modalita' di rinnovazione
 alla scadenza. Del resto, non avrebbe senso attribuire alle parti una
 mera facolta' (" .. le parti .. possono stipulare ..") per  stabilire
 poi i casi in cui questa potrebbe non essere esercitata, visto che le
 parti,  almeno in teoria, rimangono pur sempre padrone della relativa
 decisione sull' an della  stipula  (quand'anche  sotto  la  terribile
 comminatoria   della   proroga   forzosa   in   caso   di  fallimento
 dell'accordo) e quindi della valutazione dei motivi in base ai  quali
 non addivenirvi.
   Puo'  sembrare  allora  coerente  con questo disegno legislativo, a
 prescindere  dalle  aporie  derivanti  dal  tenore  letterale   delle
 espressioni,  che un simile sitema di volontaria, progressiva e cauta
 deregulation del canone degli abitativi  sia  fortemente  caldeggiato
 dal legislatore: il quale deve anzi avere previsto, dinanzi ai limiti
 dell'ipotesi  di riforma, il plausibile e comprensibile disfavore con
 cui i locatori, di fronte ad aumenti  del  canone  probabilmente  non
 consistenti  (a  causa della presenza attiva, nelle trattative, delle
 stesse   organizzazioni   degli   inquilini,   le    quali    avranno
 prevedibilmente  la  funzione  di  freno  di  aumenti  illimitati  od
 eccessivi), potrebbero accogliere la conseguenza - per loro del tutto
 negativa - di un raddoppio della durata minima.
    E per vincere  tale  remora,  obiettivamente  giustificabile,  dei
 locatori,  ha  ritenuto  di  introdurre  uno strumento di pressione o
 coazione psicologica, quale l'imposizione di una proroga biennale del
 contratto stesso di locazione.
    La proroga consiste,  almeno  per  i  contratti  abitativi,  nella
 sgradevole   sorpresa   di   una   sostanziale,  benche'  sommaria  e
 raffazzonata, riedizione, dopo quasi dieci  anni  dallo  spirare  del
 precedente,  di  un  regime  di  proroghe legali in tema di locazione
 pressoche' trentennale, della cui conformita' alla Carta fondamentale
 la stessa Corte costituzionale aveva piu' volte dubitato.
    In  particolare,  sovente  essa  ha  rilevato  che   l'alterazione
 dell'equilibrio - il quale deve pur sempre sussistere - tra interessi
 dei conduttori e interessi dei proprietari locatori poteva sfumare in
 secondo   piano   soltanto   in   vista  di  obiettivi  caratteri  di
 straordinarieta' e temporaneita'  della  disciplina  delle  proroghe,
 all'epoca ritenuta come concretante un intervento per fini sociali in
 favore  delle classi meno abbienti: tanto che, ove il regime si fosse
 sostanzialmente   consolidato   come   irreversibile   e   definitiva
 compressione delle facolta' di godimento del proprietario, oltretutto
 senza  alcun considerazione comparativa delle condizioni personali ed
 economiche di questo e  del  locatario,  si  sarebbe  giunti  ad  una
 diversa  valutazione  di  costituzionalita' (per tutte, sul punto, le
 perspicue Corte costituzionale 15 gennaio 1976, n. 3 -  in  foro  it.
 1976,  I  5  -  e  18 novembre 1976, n. 225 - in giur. cost. 1976, I,
 1805).
    E una consimile conseguenza  si  e'  poi  avuta,  per  quanto  nel
 contiguo  settore dei contratti relativi ad immobili destinati ad uso
 non abitativo, con la nota sentenza del 22 aprile 1986, n.  108:  con
 la  quale  si falcidiava - coerentemente - la legge 5 aprile 1985, n.
 118, e la proroga sessennale con essa introdotta (per di piu' con  la
 garanzia  di  sottrazione al regime in particolari casi di necessita'
 del locatore) in  quanto  comportante  un'ulteriore  e  intollerabile
 compressione  generalizzata  del diritto di proprieta' e delle usuali
 facolta' di godimento ad esso connaturate.
    E' convinta opinione di questo giudice che la norma  invocata  dal
 conduttore nel caso in esame, vale a dire l'art. 11, comma 2- bis del
 d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, in legge
 8  agosto  1992,  n.  359,  non si sottragga ad analoghi, consistenti
 dubbi di incostituzionalita', con riferimento  agli  artt.  3  e  42,
 secondo comma, della Carta fondamentale.
    Non  ignora  questo  giudice  che  gia'  in passato si e' ritenuta
 accettabile l'imposizione di un regime di proroga al fine di favorire
 o rendere meno traumatico  il  transito  ad  una  diversa  disciplina
 generale,  soprattutto  in  settori  di  rara rilevanza sociale quali
 quello della locazione di immobili urbani e per  di  piu'  di  quelli
 destinati  ad  uso  abitativo  (tra le tante: Corte costituzionale 12
 dicembre 1984, n. 281, in rass. equo canone 1984, 207).
    Eppure,  stavolta  la  scelta  legislativa   in   esame   comprime
 indiscriminatamente, irrazionalmente ed unilateralmente il diritto di
 proprieta',  pretermettendo  poi  la ricca ed inesauribile diversita'
 delle  concrete  situazioni  personali  ed  economiche  dei   singoli
 locatori,   anche  comparate  con  quelle  dei  conduttori,  con  una
 disposizione infelicemente generalizzata e indifferenziata.
    In primo luogo, l'ampiezza e la  tacitiana  secchezza  del  tenore
 letterale,  considerate  alla luce del fatto che la norma viene posta
 da una disposizione emanata separatamente rispetto  al  pur  contorto
 comma  precedente, non consentono di limitare la proroga ai soli casi
 in cui il mancato accordo sul canone siasi avuto prima, nel  corso  o
 al termine di trattative per la stipula dei patti in deroga di cui al
 comma  precedente: cioe', ai casi in cui essa avrebbe una sua qualche
 ragione giustificatrice quale mezzo di pressione  per  l'applicazione
 del regime di svincolo dal calmieramento.
    In  altre  parole, la proroga viene comminata, dalla lettera della
 norma, in tutti  i  casi  in  cui,  alla  prima  scadenza  successiva
 all'entrata  in  vigore della legge, le parti non si mettano comunque
 d'accordo sul canone, vale a dire, non solo nei casi in cui si voglia
 favorire il transito alla disciplina dei patti in deroga, ma anche in
 almeno due altre grandi categorie  di  fattispecie:  una  prima,  dei
 contratti  per immobili "vecchi" (diversi, cioe', da quelli di cui al
 primo comma), al cui termine il locatore sia persino d'accordo  sulla
 rinnovazione  ma  in  cui  il conduttore chieda un ribasso del canone
 (non si dimentichi che il  canone  equo  rappresenta  pur  sempre  il
 limite  massimo  del  corrispettivo  della  locazione, ben potendo le
 parti convenire un  canone  inferiore);  una  seconda,  degli  stessi
 contratti  per  immobili  "nuovi"  di  cui  al primo comma, in cui il
 disaccordo sul canone  sembra  ancora  piu'  plausibile,  per  essere
 completamente  libera  la  trattativa  tra  le  parti  su  quel punto
 essenziale.
    In entrambi questi casi, non soccorre la finalita' di favorire  il
 transito  verso  la  normativa  del  patto  in deroga: non nel primo,
 perche' il legislatore mantiene pur sempre come cardine della materia
 il regime dell'equo canone e finirebbe, invece, con il  rendere  piu'
 difficile   l'applicazione  in  premio  di  condotte  vessatorie  del
 conduttore; non nel secondo, perche'  ricondurrebbe  alla  disciplina
 del  patto  in deroga, con evidenza e chiarezza intermedia tra il re-
 gime di calmiere e quello di libera contrattazione,  proprio  i  casi
 per i quali aveva consentito quest'ultima e l'abbandono del primo. In
 tal modo e sotto tale profilo la norma in esame violerebbe i principi
 di   razionalita'   e   di   eguaglianza  di  cui  all'art.  3  della
 Costituzione, trattando incongruamente in  modo  identico  situazioni
 obiettivamente   diverse,   nonche'  il  canone  della  tutela  della
 proprieta', imponendo ai proprietari incongrue  e  non  comprensibili
 limitazioni  delle  facolta'  di  godimento  e  di uso a quel diritto
 riconducibili,   consistenti   nella   protrazione   autoritativa   e
 inesorabile dell'indisponibilita' del bene.
    D'altra  parte,  anche  con  riferimento  ai  soli  casi in cui il
 mancato accordo sul canone siasi avuto prima, nel corso o al  termine
 di  trattative  per  la  stipula  dei patti in deroga di cui al primo
 comma, puo' dubitarsi della non conformita' al dettato costituzionale
 della norma in oggetto.
    Il  primo  e' che, inquadrata l'imposizione della proroga come una
 vera e propria sanzione di fatto per il fallimento delle  trattative,
 incongruamente  si  finisce  con  il penalizzare sempre e soltanto il
 locatore, ritenendolo comunque - in un certo qual modo - responsabile
 ovvero addossando sempre e in ogni modo a lui e  a  lui  soltanto  il
 peso  del  transito  nella nuova disciplina dei patti in deroga: peso
 che, si ricordi, non era prevedibile e non si sarebbe attuato secondo
 la disciplina in vigore al momento della stipula del contratto (cioe'
 il regime ordinario della legge n. 392/1978), visto che,  alla  prima
 scadenza  successiva  all'entrata  in  vigore della legge, si sarebbe
 giunti al semplice e  normale  esaurimento  del  quadriennio  e  alla
 cessazione   immotivata,  per  cosi'  dire  pura  e  semplice,  della
 locazione.
    Nessuna rilevanza, quindi, viene data al caso concreto, in cui  il
 mancato  accordo  sui  patti  in deroga sia imputabile al conduttore,
 ovvero in cui le  contrapposte  condizioni  personali  ed  economiche
 delle  parti finiscano con il ledere prevalentemente o esclusivamente
 un soggetto che versa in concreto in  una  posizione  sfavorevole  di
 diseguaglianza   rispetto   alla   controparte.   Non  sempre  e  non
 automaticamente, infatti, il conduttore riceve, dalla cessazione  del
 contratto  di locazione, un danno maggiore di quello imposto alla sua
 controparte dalla protrazione autoritativa del rapporto:  e  cio'  e'
 tanto  piu'  evidente se si considera che da sempre anche le proroghe
 piu' vessatorie hanno  consentito  (ora  in  via  originaria,  ora  a
 seguito delle pronunce della Corte) una comparazione delle rispettive
 posizioni  delle parti. E' cosi' la stessa attuale formulazione della
 norma in esame che non assicura affatto che della proprieta' del bene
 locato sia in concreto garantita una funzione o un'utilita'  sociale,
 in  genere  individuata  nel  sostegno  alle  classi meno abbienti in
 ordine al bene primario e insostituibile dell'abitazione: e quindi la
 limitazione al diritto  di  proprieta'  vi'ola  in  modo  espresso  e
 irreparabile   il   dettato   dell'art.   42,  secondo  comma,  della
 Costituzione  e  lo  stesso  principio  di  eguaglianza   formale   e
 sostanziale di cui all'art. 3.
    Ma  tutto  questo  non  basta:  al  locatore  si impone la proroga
 biennale senza nemmeno che possano  rilevare,  per  evitarla  al  suo
 insorgere  ovvero per farla cessare una volta iniziata, le necessita'
 peculiari e personali generalmente riconosciute persino  da  tutti  i
 regimi,  per  quanto  vessatori, di proroga del decorso quarantennio,
 ultimi dei quali  quelli  codificati  dall'art.  59  della  legge  n.
 392/1978.  E  cio'  veramente  in  modo incongruo e iniquo, in quanto
 persino nel regime che si vorrebbe favorire  quei  motivi  potrebbero
 poi  trovare  concreta  rilevanza,  richiamati, almeno in parte, come
 sono per il  momento  della  rinnovazione  alla  prima  scadenza:  ne
 consegue che la proroga viene imposta anche al locatore che abbia sin
 d'ora la necessita' di adibire gli immobili per uno degli usi che gli
 avrebbero  consentito,  nel  regime  vigente e quale risultante dalla
 pratica protratta applicabilita' degli artt. 2, primo e terzo  comma,
 seg.  della  legge n. 61/1989 in tema di esecuzione dei provvedimenti
 di  rilascio,  la  concessione  della  forza  pubblica  -  e   quindi
 l'effettivo riconseguimento del bene - in tempi ravvicinati; e, quale
 ulteriore  conseguenza,  si  ha  che  al  locatore  (il  quale i suoi
 conteggi  e  le  sue previsioni circa le sue personali esigenze aveva
 gia' liberamente effettuato al momento della precedente  rinnovazione
 o della prima stipulazione - comunque anteriori all'entrata in vigore
 della  norma in esame -) si impone la sostanziale privazione del bene
 per due anni senza le sue  esigenze  e  i  suoi  bisogni  relativi  e
 connessi   al   bene   primario   dell'abitazione  possano  non  solo
 soddisfarsi ma neppur venir presi in considerazione.
    Ne' puo' dirsi del tutto pacifico che,  pendente  la  proroga,  il
 canone  possa  essere adeguato o aggiornato ai sensi degli artt. 23 o
 24 della legge n. 392/1978, in difetto di esplicita menzione da parte
 della norma: sicche' si verificherebbe un'ulteriore - e  ancora  piu'
 inspiegabile  -  compressione del diritto di proprieta', riconoscendo
 ai  rapporti  ancora  in  corso  per   volonta'   delle   parti   una
 remunerazione del godimento maggiore di quelli in cui la legge invece
 gia'  coarta e comprime la volonta' del locatore quanto alla capitale
 circostanza del riottenimento del bene proprio.
    In definitiva,  nessuna  funzione  sociale  puo'  garantirsi  alla
 proprieta'   e  nessun  rispetto  puo'  tributarsi  al  principio  di
 eguaglianza con formule generali e indifferenziate del tipo di quelle
 adoperate dal legislatore del 1992.
   Ne' spetta a questo giudice rilevare o evidenziare, per il caso che
 la  norma  possa  essere  ricondotta  nell'alveo  delle  prescrizioni
 costituzionali  violate, le possibili modifiche del tenore letterale:
 o, cio' ch'e' lo stesso, esula dai poteri di questo  giudice  a  quo,
 nel  giudizio incidentale di legittimita' costituzionale, limitare la
 questione ai profili per i quali  la  norma  denunziata  non  prevede
 alcune  precisazioni, cosi' implicitamente suggerendo le integrazioni
 opportune (ad es., in quanto non prevede che si applica  soltanto  in
 occasione  delle  trattative  per  i  patti in deroga di cui al comma
 precedente e in quanto non richiama la normativa di cui all'art. 59 -
 ed eventualmente 60 - della legge n. 392/1978). L'opportunita' di una
 sentenza manipolativa o additiva va valutata, invero,  esclusivamente
 e  sovranamente  dalla  Corte  costituzionale:  la  quale a tanto, se
 riterra', potra' sempre indursi sciogliendo la questione, qui esposta
 senza alcuna limitazione di prospettiva.
    Tutti tali aspetti sembrano a questo giudice  qualificare  di  una
 riesumata vessatorieta' - e cioe' di una contrarieta' con le norme di
 cui  agli  artt.  3  e 42, secondo comma, della Costituzione, sotto i
 profili  rispettivamente  gia'  esaminati  -  il  regime  di  proroga
 indifferenziata  reintrodotto  con  la norma in esame: in ordine alla
 quale, peraltro, per la vista univocita' del tenore letterale e della
 conseguente  interpretazione,  neppure  soccorre   la   possibilita',
 generalmente  riconosciuta  al  magistrato, di prescegliere, tra piu'
 soluzioni   ricostruttive,   quella   sola   conforme   alla    Carta
 costituzionale.
    In  particolare,  neppure si potrebbe sostenere che la mancanza di
 accordo sulla cui base fare scattare la proroga biennale sarebbe solo
 quella che segue alle trattative sul patto in  deroga,  concretamente
 avviate  e fallite proprio sul punto della quantificazione del canone
 come corrispettivo della rinunzia alla disdetta alla prima  scadenza:
 questa,  come  si  e'  detto,  sarebbe la ratio giustificatrice della
 proroga (e, sia pure con ulteriori dubbi circa la non  estensione  di
 ipotesi  di  non operativita' originaria o sopravvenuta, potrebbe, al
 limite e  a  tutto  concedere,  fondare  una  sua  funzione  tale  da
 escludere  un  pieno  contrasto  con  le norme denunziate), ma non si
 ricava affatto dall'infelice tenore letterale della norma, sulla  cui
 base  non  puo' non sostenersi che un accordo sul canone - e cioe' su
 di una, anche se sulla piu' importante, delle clausole del  contratto
 -  manca  anche  e  soprattutto  se  manca  un  accordo  sulla stessa
 rinnovazione del contratto.
    Non rimane altra via, allora,  che  qualificare  rilevante  e  non
 manifestamente  infondata  la  questione  di  costituzionalita' della
 norma in esame, invocando il giudizio della Consulta e impartendo  le
 ulteriori  statuizioni  di  cui  in  dispositivo:  e  non  potendosi,
 nell'attuale sistema di controllo della conformita' delle leggi  alla
 Costituzione,  considerare come ostativo il fatto che ai locatori, in
 attesa dell'auspicata pronunzia vendicatrice della Consulta e  quindi
 del  sicuro  vantaggio  a  medio  termine, si impone il danno certo e
 immediato (in un certo senso, a breve termine) della sospensione -  e
 per tempo non breve - dello stesso processo.
    All'esito  del  giudizio  incidentale cosi' attivato potra' essere
 presa in esame l'istanza di concessione dell'ordinanza provvisoria di
 rilascio, intendendosi il presente giudizio  sospeso  nella  pendenza
 della  c.d.  fase  sommaria  e prima della consunzione del potere del
 giudice di emanare i provvedimenti tipici di quella, a cognizione non
 piena, ex artt. 665-7 del c.p.c.