ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale degli artt. 1, lettera
 a), della legge 11 novembre  1975,  n.  584  (Divieto  di  fumare  in
 determinati  locali  e  su  mezzi  di trasporto pubblico), 9 e 14 del
 d.P.R. 19 marzo  1956,  n.  303  (Norme  generali  per  l'igiene  del
 lavoro),  cosi'  come modificati dall'art. 33 del d.lgs. 19 settembre
 1994, n. 626  (Attuazione  delle  direttive  89/391/CEE,  89/654/CEE,
 89/655/CEE,   89/656/CEE,   90/269/CEE,   90/270/CEE,   90/394/CEE  e
 90/679/CEE riguardanti  il  miglioramento  della  sicurezza  e  della
 salute  dei lavoratori sul luogo di lavoro), nonche' 64, lettera b) e
 65, secondo comma, del citato decreto n.  626 del 1994, promosso  con
 ordinanza  emessa  il  7  febbraio  1996 dal tribunale di Torino, nel
 procedimento civile vertente  tra  Istituto  bancario  San  Paolo  di
 Torino  s.p.a.  e  Abronio  Susanna  ed altri, iscritta al n. 440 del
 registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1996;
   Visti  gli atti di costituzione dell'Istituto bancario San Paolo di
 Torino s.p.a. e di Vergnano Claudio;
   Udito  nell'udienza  pubblica  del  12  novembre  1996  il  giudice
 relatore Fernando Santosuosso;
   Udito l'avv.to Paolo Tosi per Istituto bancario San Paolo di Torino
 s.p.a.
                           Ritenuto in fatto
   1.  - Nel corso di una controversia di lavoro promossa da oltre 300
 dipendenti nei confronti dell'Istituto bancario San Paolo  di  Torino
 s.p.a.,  finalizzato  ad  ottenere provvedimenti idonei a tutelare la
 salute dei non fumatori contro i danni del c.d.  fumo  "passivo",  il
 tribunale   di   Torino   ha   sollevato  questione  di  legittimita'
 costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 32 della  Costituzione,
 degli  artt.    1,  lettera  a), della legge 11 novembre 1975, n. 584
 (Divieto di fumare in determinati locali  e  su  mezzi  di  trasporto
 pubblico),  9  e  14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali
 per l'igiene del lavoro), cosi'  come  modificati  dall'art.  33  del
 d.lgs.   19  settembre  1994,  n.  626  (Attuazione  delle  direttive
 89/391/CEE,   89/654/CEE,   89/655/CEE,    89/656/CEE,    90/269/CEE,
 90/270/CEE,  90/394/CEE  e  90/679/CEE  riguardanti  il miglioramento
 della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo  di  lavoro),
 nonche'  64,  lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n. 626 del
 1994.
   Nell'ampia ordinanza di rimessione il  giudice  a  quo,  dopo  aver
 premesso  una serie di osservazioni in merito all'accertata nocivita'
 del fumo passivo - da ritenersi ormai pacificamente dimostrata  sulla
 base  dei  numerosi  studi scientifici sull'argomento - rileva che la
 normativa vigente, nell'indicare  i  luoghi  nei  quali  il  fumo  e'
 vietato,  irragionevolmente  non  ha  incluso nell'elenco i luoghi di
 lavoro  in  quanto  tali,  bensi'  soltanto  in  relazione  a  talune
 situazioni  marginali;  e  i  numerosi  progetti  e  disegni di legge
 presentati in Parlamento, finalizzati all'estensione del  divieto  di
 fumare  in  altri luoghi e specialmente a quelli di lavoro, non hanno
 avuto alcun seguito.
   Tanto premesso, il Tribunale rileva che, pur  potendo  l'art.  2087
 del  codice  civile  considerarsi  una  norma  "aperta",  sulla quale
 fondare il dovere del datore di lavoro di adottare ogni misura idonea
 a tutelare la salute del lavoratore, non e' consentito, sulla base di
 tale norma, un legittimo divieto di fumare  disposto  dal  datore  di
 lavoro  di fronte a locali dell'azienda inquinati dal fumo passivo; e
 cio'  perche' il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, nel dettare regole
 per la tutela dei lavoratori, ha previsto che l'obbligo  di  adottare
 misure  specifiche  per  la  protezione  dei  non fumatori contro gli
 inconvenienti del fumo valga soltanto per i locali di  riposo  e  con
 riguardo  ad  alcune  lavorazioni  particolarmente  esposte a rischio
 cancerogeno.
   Ne consegue che, non essendo piu' possibile una  lettura  estensiva
 delle   norme   vigenti,  la  tutela  apprestata  dal  legislatore  a
 protezione della salute dei lavoratori non fumatori  deve  ritenersi,
 allo  stato,  del  tutto  insufficiente,  e  percio' in contrasto con
 l'art. 32 della Costituzione.
   Il giudice a quo mostra piena consapevolezza del fatto  che  questa
 Corte, con la sentenza n. 202 del 1991, dichiarando inammissibile una
 questione  non  molto  diversa da quella attuale, ebbe a rivolgere al
 legislatore un monito, rimasto inascoltato, affinche' apprestasse una
 piu' incisiva e completa tutela della salute dei cittadini dai  danni
 del  fumo  passivo.  Questa  situazione,  unita all'impossibilita' di
 un'interpretazione estensiva delle norme vigenti - accolta invece dal
 giudice di primo grado - ed alla diversita' della domanda  giudiziale
 -  in  questo  caso  non risarcitoria, ma di prevenzione dei danni -,
 induce il tribunale di Torino a sottoporre  nuovamente  la  questione
 all'esame  della  Corte,  chiedendo che la normativa sopra richiamata
 venga dichiarata incostituzionale nella parte in cui non  prevede  il
 divieto di fumare nei luoghi di lavoro chiusi.
   2.   -  Nel  giudizio  davanti  alla  Corte  costituzionale  si  e'
 costituito l'Istituto bancario San Paolo di Torino s.p.a.,  chiedendo
 che   la   questione   venga  dichiarata  infondata.  In  prossimita'
 dell'udienza, la difesa  dell'Istituto  ha  presentato  una  memoria,
 insistendo per l'accoglimento delle conclusioni gia' formulate.
   Preliminarmente,  la  difesa  della banca ha osservato che le norme
 della legge n. 584 del 1975 che regolano il divieto di fumo non  sono
 poste  a  tutela  dei  singoli in quanto lavoratori, bensi' in quanto
 soggetti che, per  le  piu'  svariate  motivazioni  (studio,  salute,
 divertimento  etc.), si trovano a soggiornare per un certo periodo in
 luoghi chiusi; ne conseguirebbe che, mancando ogni  collegamento  tra
 le  ipotesi  previste  dal  legislatore  e  quella  di cui si lamenta
 l'omissione (luoghi di lavoro  chiusi),  la  pretesa  violazione  del
 principio di ragionevolezza sarebbe comunque insussistente.
   L'Istituto  osserva  poi  che, come gia' rilevato dalla Corte nella
 sentenza n. 202  del  1991,  la  pronuncia  richiesta  dal  Tribunale
 rimettente  e'  inammissibile  sia perche' non sussiste una soluzione
 costituzionalmente necessitata, sia perche' una  pronuncia  estensiva
 del  divieto  di  fumare  finirebbe  col  creare una nuova ipotesi di
 reato.
   3. - Nel giudizio davanti a questa Corte  si  e'  costituito  anche
 Vergnano Claudio, con atto depositato fuori termine.
                         Considerato in diritto
   1.  - Il tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimita'
 costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 32 della  Costituzione,
 degli  artt.  1,  lettera  a),  della  legge 11 novembre 1975, n. 584
 (Divieto di fumare in determinati locali  e  su  mezzi  di  trasporto
 pubblico),  9  e  14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali
 per l'igiene del lavoro), cosi'  come  modificati  dall'art.  33  del
 d.lgs.   19  settembre  1994,  n.  626  (Attuazione  delle  direttive
 89/391/CEE,    89/654/CEE,    89/655/CEE,   89/656/CEE,   90/269/CEE,
 90/270/CEE, 90/394/CEE  e  90/679/CEE  riguardanti  il  miglioramento
 della  sicurezza  e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro),
 nonche' 64, lettera b) e 65, comma 2, del citato decreto n.  626  del
 1994,  nella  parte  in  cui  non  prevedono il divieto di fumare nei
 luoghi di lavoro chiusi.
   2. - Occorre premettere il richiamo alla costante giurisprudenza di
 questa Corte (sentenze n. 218 del 1994, n. 202 del 1991,  nn.  307  e
 455  del  1990,  n.  559  del  1987 e n. 184 del 1986) secondo cui la
 salute e' un bene primario che assurge a diritto  fondamentale  della
 persona  ed  impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in
 ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato.
   E' stato pure ripetutamente affermato che la  tutela  della  salute
 riguarda  la generale e comune pretesa dell'individuo a condizioni di
 vita, di ambiente e di lavoro che non pongano a  rischio  questo  suo
 bene  essenziale. E tale tutela implica non solo situazioni attive di
 pretesa, ma comprende - oltre che misure di prevenzione  -  anche  il
 dovere di non ledere ne' porre a rischio con il proprio comportamento
 la  salute  altrui. Pertanto, ove si profili una incompatibilita' tra
 il diritto alla tutela della salute, costituzionalmente protetto,  ed
 i   liberi   comportamenti   che  non  hanno  una  diretta  copertura
 costituzionale, deve ovviamente darsi prevalenza al primo.
   Una questione analoga a quella presente e' stata gia' sottoposta  a
 scrutinio  di  costituzionalita';  in quella occasione la Corte - pur
 dando per pacifica la nocivita' del c.d. fumo passivo - e'  pervenuta
 ad  una  pronuncia  di  inammissibilita'  (sentenza n. 202 del 1991),
 soprattutto per motivi di non rilevanza nel giudizio a  quo.  Non  ha
 mancato,  tuttavia,  di  affermare  la legittimita' (ex art. 32 della
 Costituzione e art. 2043 del codice civile) di una richiesta  diretta
 al  risarcimento  dei  danni  per  detta  causa;  e, nel contempo, ha
 rivolto al legislatore l'invito ad intervenire per la "necessita'  di
 apprestare  una  piu'  incisiva  e  completa  tutela della salute dei
 cittadini  dai  danni  cagionati  dal  fumo   anche   c.d.   passivo,
 trattandosi  di  un  bene  fondamentale e primario costituzionalmente
 garantito".
   3. - Il tribunale propone ora la questione di legittimita'  non  ai
 fini del divieto di fumo nei locali considerati nella sentenza n. 202
 del  1991,  ma  con riguardo ai pregiudizi derivanti dal fumo passivo
 nei  locali  di  lavoro  chiusi,  per  considerazioni  specificamente
 relative  a  questi  luoghi. Avverte il rimettente che "non viene qui
 svolta domanda di risarcimento, bensi' un'azione  in  via  preventiva
 per  l'adozione  di  misure  atte  ad  evitare la verificazione di un
 danno".  Rileva inoltre che, successivamente alla sentenza n. 202 del
 1991, il legislatore, in attuazione delle direttive  comunitarie,  ha
 disciplinato  (nel  decreto  legislativo  n. 626 del 1994) la materia
 concernente la tutela della salute e della sicurezza dei  lavoratori,
 senza  peraltro  introdurre  il  divieto  assoluto e generalizzato di
 fumare in tutti i luoghi  di  lavoro;  divieto  che  dovrebbe  invece
 discendere     necessariamente    dall'esigenza,    prevista    dalla
 Costituzione, della efficace protezione della salute, sul presupposto
 che la vigente normativa  non  contiene  altri  strumenti  idonei  ad
 evitare  il  pregiudizio derivante ai lavoratori dal fumo passivo nei
 locali chiusi.
   La  legge  -  lamenta  in proposito - mentre esige espressamente la
 "protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti  del  fumo"  in
 relazione  ad  alcuni  locali  (corsie di ospedali, aule scolastiche,
 mezzi  di  trasporto  pubblico),  per  quelli  "adibiti  a   pubblica
 riunione",  nonche'  in  una  serie di "locali di divertimento" (e la
 direttiva 14 dicembre 1995 della  Presidenza  del  Consiglio  estende
 questi  divieti a tutti i locali aperti al pubblico appartenenti alla
 pubblica  amministrazione,  alle  aziende  pubbliche  ed  ai  privati
 esercenti  pubblici  servizi),  non  prevede  analoghi  divieti per i
 luoghi di lavoro, dove una molteplicita' di dipendenti sono tenuti  a
 permanere per lungo tempo.
   Parimenti  irragionevole  dovrebbe ritenersi che tali divieti siano
 previsti nell'ambito delle aziende solo per i locali di  riposo  o  -
 come  accettato  anche  dall'Istituto bancario - per quelli di comune
 frequentazione (bar, mense etc.) da parte di lavoratori e non  invece
 per    quelli    dove    le   stesse   persone   devono   trattenersi
 obbligatoriamente per prestare in piena efficienza  le  loro  energie
 lavorative.
   4.  -  L'ordinanza  di  rimessione,  come si e' detto, muove da due
 presupposti: che, avendo la legge direttamente previsto il divieto di
 fumare in determinati luoghi, tale divieto non possa essere  disposto
 dal  datore di lavoro in altri luoghi o circostanze; e che il vigente
 sistema  normativo  non  offre  comunque  altri  strumenti  idonei  a
 tutelare   la   salute   dei   lavoratori  cosi'  come  voluto  dalla
 Costituzione.
   Senonche', tali presupposti sono erronei, dal momento che, pur  non
 essendo  ravvisabile  nel  diritto  positivo  un  divieto  assoluto e
 generalizzato di fumare in ogni luogo di lavoro chiuso, e' anche vero
 che nell'ordinamento gia' esistono disposizioni intese  a  proteggere
 la  salute  dei  lavoratori da tutto cio' che e' atto a danneggiarla,
 ivi compreso il fumo passivo.
   Se alcune norme prescrivono legislativamente il divieto assoluto di
 fumare  in  speciali  ipotesi,  cio'  non  esclude   che   da   altre
 disposizioni discenda la legittimita' di analogo divieto con riguardo
 a  diversi  luoghi  e  secondo  particolari  circostanze concrete; e'
 inesatto ritenere, comunque, che  altri  rimedi  voluti  dal  vigente
 sistema  normativo  siano  inidonei  alla  tutela  della  salute  dei
 lavoratori anche rispetto ai rischi del fumo passivo.
   Ed invero, non sono soltanto le norme costituzionali  (artt.  32  e
 41)  ad  imporre  ai  datori  di  lavoro la massima attenzione per la
 protezione della salute  e  dell'integrita'  fisica  dei  lavoratori;
 numerose  altre  disposizioni,  tra  cui  la disciplina contenuta nel
 decreto legislativo n.  626  del  1994,  assumono  in  proposito  una
 valenza decisiva.
   L'art.  2087  del  codice  civile  stabilisce che l'imprenditore e'
 tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le  misure  che,
 secondo le particolarita' del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono
 necessarie  a  tutelare  l'integrita' fisica e la personalita' morale
 dei prestatori di lavoro. La Cassazione (sentenza n. 5048  del  1988)
 ha  ritenuto  che tale disposizione "come tutte le clausole generali,
 ha una  funzione  di  adeguamento  permanente  dell'ordinamento  alla
 sottostante realta' socio-economica" e pertanto "vale a supplire alle
 lacune  di  una  normativa  che  non  puo'  prevedere ogni fattore di
 rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto  a  quest'ultima  di
 adeguamento di essa al caso concreto".
   Analogamente  gli  artt.  1,  4 e 31 del decreto legislativo del 19
 settembre 1994, n. 626, dispongono  che  il  datore  di  lavoro,  "in
 relazione  alla natura dell'attivita' dell'azienda ovvero dell'unita'
 produttiva", debba valutare, anche "nella sistemazione dei luoghi  di
 lavoro",  i  rischi  per la sicurezza e per la salute dei lavoratori,
 "adottare  le  misure  necessarie",  e  "aggiornare  le   misure   di
 prevenzione  in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che
 hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza", riaffermando
 l'obbligo di "adeguare  i  luoghi  di  lavoro  alle  prescrizioni  di
 sicurezza e di salute".
   Con  piu'  specifico  riferimento  alla  "salubrita' dell'aria" nei
 locali di lavoro chiusi, l'art. 9 del d.P.R. 19 marzo 1956,  n.  303,
 modificato  dall'art. 16 del d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242, stabilisce
 la necessita'  che  i  lavoratori  "dispongano  di  aria  salubre  in
 quantita'  sufficiente,  anche  ottenuta  con impianti di aerazione";
 impianti che peraltro devono essere sempre mantenuti in efficienza  e
 "devono  funzionare  in  modo  che  i  lavoratori non siano esposti a
 correnti d'aria fastidiose". E all'ultimo comma di detto  art.  9  si
 soggiunge   "che  qualsiasi  sedimento  che  potrebbe  comportare  un
 pericolo  per  la  salute  dei  lavoratori  dovuto   all'inquinamento
 dell'aria respirata deve essere eliminato rapidamente".
   A  questi  precisi  e  dettagliati  doveri  del datore di lavoro fa
 riscontro il diritto dei lavoratori (art. 9  della  legge  20  maggio
 1970,  n.    300)  di  controllare  l'applicazione delle norme per la
 prevenzione e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione
 di tutte le misure idonee  a  tutelare  la  loro  salute  e  la  loro
 integrita'  fisica.   Coerentemente il d.lgs. n. 626 del 1994 prevede
 (art. 18) anche la figura del rappresentante dei  lavoratori  che  ha
 tra   l'altro   il   compito   (art.   19,  lett.  h)  di  promuovere
 l'elaborazione e l'attuazione delle misure di  prevenzione  idonee  a
 tutelare  la  salute  e  l'integrita'  fisica dei lavoratori. Costoro
 hanno, inoltre, la possibilita'  di  chiamare  il  datore  di  lavoro
 dinanzi  al  giudice  per l'accertamento di eventuali responsabilita'
 nel predisporre gli adeguati strumenti di tutela.
   5. - Nel sottolineare l'ampiezza dei doveri e delle responsabilita'
 (cui corrispondono i relativi  poteri  organizzativi)  che  le  norme
 richiamate  attribuiscono  ai datori di lavoro, la Corte osserva che,
 in  adempimento  di  queste  disposizioni,   di   natura   non   solo
 programmatica  ma precettiva, costoro devono attivarsi per verificare
 che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata.
   Non e' dato ovviamente precisare in questa  sede  le  varie  misure
 possibili  e  le  modalita' di detti interventi (dislocazioni, orari,
 impianti, fino ad eventuali divieti), dal momento che cio'  discende,
 oltre   che   dal  rispetto  delle  prescrizioni  legislative,  dalle
 diligenti valutazioni del datore di  lavoro  in  corrispondenza  alle
 diverse  circostanze  in  cui  viene prestata l'attivita' lavorativa,
 nonche' dal controllo dei lavoratori, degli ispettori e  del  giudice
 del lavoro.
   Alla Corte compete rilevare, invece, che il dovere di vigilare e di
 provvedere  adeguatamente, cui fa riscontro il diritto dei lavoratori
 (art. 9 dello Statuto, e art. 19 del d.lgs. n. 626 del 1994), e' gia'
 desumibile dalle norme positive, lette come attuazione  dei  principi
 costituzionali di tutela della salute. Ed in tale quadro il datore di
 lavoro  trovera'  le misure organizzative sufficienti a conseguire il
 fine  della protezione dal fumo passivo in modo conforme al principio
 costituzionale dell'art. 32. Il rispetto di  questo  principio  nella
 presente  questione  va inteso nel senso che la tutela preventiva dei
 non fumatori nei luoghi di lavoro puo' ritenersi soddisfatta  quando,
 mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze,
 il  rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto
 ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che  la
 loro salute sia messa a repentaglio.
   6.  -  Una  volta  accertato  che  la  normativa  in vigore prevede
 strumenti  idonei  ad  una  adeguata  protezione  della  salute   dei
 lavoratori  anche  dal  pericolo  del  fumo  passivo, resta assorbito
 l'esame della richiesta di un intervento  finalizzato  all'estensione
 del  divieto  assoluto e generalizzato di fumare in tutti i luoghi di
 lavoro chiusi; intervento che il giudice  rimettente  aveva  ritenuto
 come  l'unico  mezzo  efficace per la protezione della salute secondo
 l'art. 32 della Costituzione.
   Se al legislatore - per l'invito gia' a  lui  rivolto  -  resta  il
 compito   di   riconsiderare   l'intera  materia  per  migliorare  la
 disciplina in tema di  tutela  della  salute  dei  cittadini,  ed  in
 particolare la prevenzione dai danni cagionati dal fumo passivo, deve
 tuttavia  concludersi  che, riguardo ai luoghi di lavoro, la corretta
 interpretazione  del  sistema  vigente  non  consente   di   ritenere
 sussistente  la  violazione  delle  norme costituzionali invocate dal
 giudice a quo.