IL PRETORE Alla pubblica udienza del 9 ottobre 1997 ha pronunciato la seguente ordinanza nei procedimenti penali riuniti a carico di Massimo Cassan, imputato: del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale p. e p. dall'art. 341 c.p. perche' offendeva l'onore e il prestigio dell'agente di polizia penitenziaria Cali' Paolo, in sua presenza e a causa e nell'esercizio delle sue funzioni, rivolgendogli la frase "Non rompermi i coglioni se no finisci male e vedi di andartene immediatamente". In Tolmezzo il 29 luglio 1994 (proc. n. 510/1995). del delitto p. e p. dall'art. 341 c.p. per aver offeso l'onore e il prestigio di Cucchiolo Francesco, pubblico ufficiale in sua presenza a causa e nell'esercizio delle sue funzioni dicendogli: "che cazzo rompi i coglioni di prima mattina con quei cazzo di ferri". In Tolmezzo il 12 marzo 1995 (proc. n. 130/1996). Svolgimento del processo Con decreti di citazione emessi dal procuratore della Repubblica di Tolmezzo il 22 marzo e il 23 giugno 1995, Massimo Cassan era tratto a giudizio di questo pretore per rispondere dei reati in rubrica indicati. Alle udienze del 15 e 31 ottobre 1996, 6 marzo e 29 maggio 1997, svoltesi in contumacia dell'imputato, riuniti i due procedimenti penali a norma dell'art. 17 c.p.p., e' stata esperita l'istruttoria dibattimentale mediante l'esame dei testi Paolo Cali', Carmine Risoleo, Luciano Padovano, Francesco Cucchiolo e Vanni Clemente, i quali tutti confermavano i fatti addebitati. Poiche' la difesa contestava la capacita' di intendere e di volere dell'imputato al momento dei fatti, producendo copiosa documentazione medica, copia della sentenza del pretore di Venezia d.d. 22 maggio 1996 con la quale l'imputato, per fatti analoghi commessi nel 1992, veniva prosciolto per difetto di imputabilita', nonche' perizia psichiatrica nella quale la totale infermita' di mente dell'imputato, in relazione a quel procedimento, era argomentata da un senso di angoscia per morte imminente derivante da una grava patologia cardiaca, questo pretore disponeva perizia psichiatrica ed il perito, all'esito degli accertamenti svolti, pur evidenziando "un disturbo ansioso in soggetto con note caratteriali", escludeva qualsiasi influenza al momento dei fatti sulla piena capacita' di intendere e di volere. All'udienza del 9 ottobre 1997, fissata per la discussione, la difesa sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p. in relazione agli artt. 3 e 27, comma terzo e 97, comma primo, Cost., nella parte in cui non prevede, neppure per i casi di minore rilevanza, la procedibilita' a querela di parte e la pena pecuniaria in alternativa alla pena detentiva. Il p.m. chiedeva che la questione, ritenuta non manifestamente infondata e rilevante, fosse rimessa alla decisione della Corte costituzionale e questo pretore pronunciava la presente ordinanza. Motivi della decisione 1. - Questo pretore e' ben consapevole che l'art. 341 c.p., sin dagli anni '60, e' stato oggetto di cio' che efficacemente e' stato chiamato un "attacco in massa" da parte dei giudici di merito, che hanno sollevato la questione di legittimita' costituzionale sotto i piu' disparati profili, in gran parte coincidenti con quelli che si andranno di seguito ad evidenziare; e che la Corte costituzionale, sin dal primo precedente, risalente ormai a quasi 30 anni or sono (sentenza 2-19 luglio 1968 n. 109), ha sempre respinto la questione, sino all'importante sentenza 25 luglio 1994 n. 341 che, come e' noto, ha dichiarato l'incostituzionalita', con riferimento agli art. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dell'art. 341, comma 1, c.p., nella parte in cui prevede la pena di mesi 6 di reclusione come minimo edittale, che pertanto e' ora determinato in 15 giorni di reclusione, ai sensi dell'art. 23 c.p. Tuttavia si deve ritenere non inutile sollevare nuovamente la questione, non solo con riferimento agli artt. 3, primo comma, 27, terzo comma e 97, primo comma, della Costituzione, indicati dalla difesa, ma anche in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, secondo comma, 25, secondo comma, 28 e 54 della Costituzione ed in ordine non solo agli aspetti di disciplina denunziati (procedibilita' e pena), ma anche, e soprattutto, alla sussistenza stessa del reato, cosi' come e' attualmente strutturato dalla norma incriminatrice sospetta e costantemente applicato dalla giurisprudenza. Cio' al fine di consentire alla Corte di valutare la questione col piu' ampio spettro d'azione possibile, superando le strettoie che in passato, specie nel 1994, possono averne condizionato il giudizio. D'altra parte sembra a questo pretore non manchino importanti elementi di novita', sia sul versante delle norme costituzionali, in parte gia' evidenziati dalla sentenza n. 314/1994, sia sul versante della norma ordinaria sospetta, essendo forse necessaria una piu' accurata analisi del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, sotto il profilo strutturale, del bene giuridico protetto e dello scopo della tutela, al fine di verificarne la compatibilita' con l'attuale ordinamento costituzionale. Dal primo punto di vista viene in considerazione la correlazione sistematica tra alcuni principi costituzionali fondamentali, principi dettati in materia penale e principi relativi ai rapporti tra Stato e cittadino nonche' alla forma democratica di Stato, oltre al fatto che nella giurisprudenza costituzionale e' in corso un'importante rivalutazione dei vincoli imposti al legislatore in materia penale. Ci si riferisce, in particolare, alla funzione rieducativa della pena di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, riferita non piu', come in passato, alla sola fase esecutiva, ma ritenuta una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue, (cfr. la stessa sentenza n. 341/1994 e, per un significativo precedente, la sentenza 18 luglio 1989 n. 409) con il conseguente riconoscimento del principio c.d. di proporzione tra pena e offesa, non solo sul piano politico - criminale ma anche su quello costituzionale e, pertanto, vincolante per il legislatore. Attiene inoltre alla recente valorizzazione della riserva di legge in materia penale di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, con riferimento al principio di determinatezza (cfr. sentenze 6 febbraio 1995, n. 34 e 17 ottobre-2-novembre 1996 n. 370) e, piu' in generale, dei principi di offensivita', di frammentarieta' e di sussidiarieta' (cfr. sentenze 23-25 ottobre 1989 n. 487 e 10-11 luglio 1991 n. 333). Dal secondo punto di vista si potranno utilizzare non solo gli spunti provenienti dalla giurisprudenza ma anche le teorie, vecchie e nuove, della dottrina, nel cui ambito il dibattito sulla legittimita' della sussistenza stessa della fattispecie, prima ancora della relativa disciplina sanzionatoria, e' piu' che mai aperto all'indomani della sentenza n. 341/1994. 2. - Gli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 341 c.p., sul piano oggettivo, sono: 1) l'offesa, resa con qualsiasi mezzo, all'onore o al prestigio del soggetto passivo; 2) lo status di pubblico ufficiale del soggetto passivo; 3) la presenza del soggetto passivo (salvi i casi di c.d. presenza "mediata" di cui all'art. 341, comma 2, c.p., che tuttavia non vengono in questa sede in considerazione); 4) il legame tra l'offesa e le pubbliche funzioni che si risolve, in via alternativa, o in un nesso di causalita' psicologica (a causa delle funzioni), nel senso che l'offesa deve essere rivolta propter officium ossia a motivo delle funzioni esplicate dal pubblico ufficiale e, in tal caso, il reato potra' essere integrato anche se il soggetto passivo, al momento del fatto, non rivesta piu' la qualita' di pubblico ufficiale a norma dell'art. 360 c.p. (Cass. 2 ottobre 1985 n. 8454), oppure in un nesso cronologico di contestualita' (nell'esercizio delle funzioni), nel senso che l'offesa deve essere arrecata, anche per motivi puramente personali, ma nel momento in cui il pubblico ufficiale sta' esercitando le proprie funzioni. Per onore s'intende l'insieme delle qualita' morali della persona, quale bene strettamente personale, componente essenziale di quella dignita' sociale cui fa riferimento l'art. 3 della Costituzione e, in quanto tale, annoverabile nei diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione, mentre il prestigio viene inteso come quella particolare forma di decoro determinata dalla posizione del soggetto passivo, e attinente alla dignita' e al rispetto da cui la pubblica funzione deve essere circondata (cfr., in particolare, la relazione al codice penale, 140). L'offesa a tali beni va apprezzata in relazione a parametri socio-culturali di valutazione che consentono di ritenere come oltraggiosa oppure no quella data espressione o quel dato gesto in rapporto con tutte le circostanze del caso concreto. Il particolare status che deve rivestire il soggetto passivo e' definito dall'art. 357 c.p., mentre il requisito della presenza viene generalmente inteso nel senso che la condotta incriminata deve essere compiuta in una situazione spaziale tale da rendere semplicemente possibile la percezione dell'offesa al destinatario della medesima. Infine il requisito individuato dall'espressione a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, che nella struttura del reato dovrebbe svolgere la funzione di ricondurre la fattispecie nell'ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, si risolve, nel primo caso, in una caratterizzazione eminentemente soggettiva della condotta, essendo in sostanza elevato un semplice movente ad elemento di tipicita', e, nel secondo caso, in una modalita' spazio - temporale dell'azione e dunque in un elemento intrinsecamente oggettivo. Poiche', come si e' visto, il prestigio viene considerato una particolare forma di decoro collegata allo status soggettivo di pubblico ufficiale, si deve ritenere che la condotta tipica sia la medesima rispetto a quella del reato di ingiuria (art. 594 c.p.). Gli elementi differenziali, in funzione specializzante, tra le due fattispecie, si esauriscono nello status del soggetto passivo e nell'elemento espresso con la formula a causa o nell'esercizio delle sue funzioni. Sennonche' se a base del confronto si assume non il reato di ingiuria nella forma semplice ma il reato di ingiuria nella forma aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p., non si potra' negare una perfetta identita' di struttura tra le due fattispecie, una volta ammessa, secondo l'opinione comune sia in dottrina che, ormai, in giurisprudenza, l'identita' tra la formula nell'esercizio delle funzioni, utilizzata dall'art. 341 c.c., e la formula nell'atto... nell'adempimento delle funzioni di cui all'art. 61 n. 10 c.p. Infatti nel momento in cui la giurisprudenza e' venuta giustamente a respingere l'opinione secondo la quale devono essere sempre considerati nell'esercizio delle proprie funzioni quei pubblici ufficiali che, essendo investiti di compiti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, sono in servizio permanente, per accogliere l'opposta opinione secondo la quale servizio permanente non equivale ad effettivo esercizio della funzione, sicche' finche' il pubblico ufficiale in concreto non svolga la propria funzione non puo' ritenersi integrato il reato di cui all'art. 341 c.p. (Cass. 21 marzo 1997 n. 2727 e Cass. 19 febbraio 1996 n. 5027), viene meno la possibilita' stessa di tracciare una differenziazione tra le due formule. Cio' non toglie che tra le due fattispecie vi siano profonde differenze di disciplina, non solo in ordine all'aspetto sanzionatorio (l'ingiuria e' punibile con la pena fino a un anno di reclusione o della multa fino a lire due milioni, aumentata sino ad un terzo per l'effetto dell'aggravante, effetto che peraltro puo' essere posto nel nulla in ragione del giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti; l'oltraggio e' punito con la sola pena della reclusione sino a 2 anni), ma anche con riferimento all'aspetto processuale della procedibilita' (a querela di parte per l'ingiuria e d'ufficio per l'oltraggio) e dell'estensione delle condotte punibili, sotto il profilo delle cause di giustificazione e/o di esclusione della punibilita', essendo per costante giurisprudenza, inapplicabili all'oltraggio, neppure in via analogica, la c.d. exceptio veritatis (art. 596 c.p.) e gli istituti della provocazione e della ritorsione (art. 599 c.p.), sebbene la funzione della provocazione sia svolta, in riferimento all'oltraggio, dalla scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (art. 4 d.lvo lgt. 14 settembre 1944 n. 288), che tuttavia ha un ambito di operativita' assai piu' circoscritto. Ed e' proprio questa differenza cosi' marcata di disciplina, in mancanza di differenze strutturali, a destare seri dubbi di legittimita' costituzionale soprattutto in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, sebbene la relativa questione non possa essere affrontata compiutamente se non dopo un attento esame dell'obiettivita' giuridica e della ratio del reato. Per il momento e' sufficiente sottolineare l'estrema ampiezza ed estensione della fattispecie cosi' come strutturata dalla norma incriminatrice, che la rende capace di abbracciare un numero di condotte veramente considerevole. Cio' e' dovuto in primo luogo all'estrema ampiezza della formula linguistica utilizzata dalla norma incriminatrice, diretta conseguenza del fatto che il legislatore del 1930 si e' dichiaratamente prefissato di rendere in materia piu' completa e rigorosa la tutela giuridica degli organi e dell'attivita' dei pubblici poteri (Relazione, 141), ma non vanno sottovalutati anche gli effetti di fattori esterni alla norma medesima. Ci si riferisce anzitutto al crescere della presenza dello Stato nei piu' disparati settori e al conseguente riconoscimento della qualita' di pubblico ufficiali a categorie sempre piu' vaste e variegate di soggetti (peraltro una tutela analoga e' accordata ai semplici pubblici dipendenti che prestino un pubblico servizio a norma dell'art. 344 c.p.). In secondo luogo viene in considerazione un costante indirizzo giurisprudenziale, rilevante ai fini considerati in questa sede sul piano del c.d. diritto vivente, che, noncurante delle penetranti e per molti versi condivisibili critiche mosse dalla dottrina, limita oltre misura l'ambito di applicazione della scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (art. 4 cit.), escludendo, da un lato, la rilevanza dell'arbitrarieta' putativa (Cass. 13 dicembre 1996, n. 10747; Cass. 21 marzo 1990, n. 4035; Cass. 29 novembre 1989, n. 16691; Cass. 11 febbraio 1989, n. 2031; Cass. 11 marzo 1985, n. 2307; Cass. 24 novembre 1984, n. 10586; Cass. 16 febbraio 1984, n. 1482) e richiedendo, dall'altro, in aggiunta alla semplice illegittimita' dell'operato del p.u., un particolare atteggiamento psicologico del medesimo, molto vicino in sostanza al dolo intenzionale (Cass. 22 dicembre 1989, n. 17767; Cass. 27 gennaio 1987, n. 788; Cass. 12 maggio 1986, n. 3586; Cass. 27 maggio 1986, n. 4314; Cass. 11 marzo 1985, n. 2285; Cass. 9 ottobre 1985, n. 9951). Viene infine in considerazione l'altrettanto costante indirizzo giurisprudenziale che esclude l'applicabilita', anche in via analogica (in bonam partem) dell'art. 596 c.p. al reato di oltraggio (Cass. 5 novembre 1980, n. 11458; Cass. 30 settembre 1975, n. 8944; Cass. 13 novembre 1972, n. 7586). Ora, e' evidente che restringere il campo di applicazione delle scriminanti o delle esimenti latu sensu intese, comporta una correlativa estensione del campo di applicazione delle condotte punite. Cio' che tuttavia interessa sottolineare e' che l'ampiezza della fattispecie rischia di entrare in conflitto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione sotto il profilo della mancanza di sufficiente determinatezza. Anche in tal caso tuttavia risulta imprescindibile, al fine del giudizio sulla non manifesta infondatezza del dubbio di legittimita' costituzionale, affrontare con cura il tema del bene giuridico protetto e della finalita' di tutela, perche' il deficit di determinatezza per eccessiva onnicomprensivita' della realta' rappresentata (cosi' la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 5 febbraio 1986 in Gazzetta Ufficiale 18 marzo 1986 n. 64, 18), attiene non semplicemente al dato, in se' neutro, dell'eccessiva estensione della fattispecie in quanto tale, ma piuttosto della selezione, in un'unica fattispecie, di condotte tra loro diverse ed eterogenee quanto a disvalore. 3. - Venendo pertanto all'individuazione del bene giuridico protetto, si puo' in prima battuta affermare con certezza che l'art. 341 c.p. tutela anche il bene personale dell'onore e del prestigio del p.u., come persona fisica, che in nulla si distingue dal bene dell'onore e del decoro tutelato dall'art. 594 c.p. Cio' e' confermato e provato dall'identita' strutturale tra il reato di oltraggio ed il reato di ingiuria aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p. Sennonche' costituisce opinione comune che l'art. 341 c.p. protegga un ulteriore bene giuridico, a piu' marcata connotazione pubblicistica, che viene generalmente individuato nel prestigio (non del p.u. come persona fisica ma) della pubblica amministrazione e, talvolta, addirittura nel principio del buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione, cosi' venendo a caratterizzarsi come tipico reato plurioffensivo. La stessa Corte costituzionale ha, fin dal primo precedente, aderito a quest'impostazione, riferendosi tuttavia talvolta al prestigio della puramente e semplicemente (sentenza n. 109/1968), talaltra ancora al prestigio della p.a. ma in ragione della finalita' del buon andamento amministrativo prevista dall'art. 97 della Costituzione, coinvolgente non solo la fase organizzativa iniziale ma anche il complessivo funzionamento (sentenza 2-14 aprile 1980, n. 51 e, sostanzialmente, ordinanza 10-17 marzo 1988, n. 323). Persino la sentenza di accoglimento n. 341/1994 sottolinea, in via generale, questo aspetto osservando come la plurioffensivita' del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio piu' grave di quello riservato all'ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione. Affermazioni in tutto analoghe si rinvengono in dottrina ed in giurisprudenza, ove spesso compaiono locuzioni ancora piu' generiche, quali il "regolare" o "sereno" esercizio delle pubbliche funzioni. Si deve tuttavia osservare che si tratta normalmente di affermazioni apodittiche, assunte quali postulati e come tali non bisognevoli di argomentazione o dimostrazione e, in particolare, senza che vi sia mai, o quasi, alcun approfondimento ne' in relazione alla piu' specifica determinazione del bene protetto, atteso che gli stessi beni del "prestigio" o del "buon andamento" della p.a. possono essere intesi in modo assai vario, ne' in relazione al tipo di raccordo tra il bene che si assume protetto e la tecnica di strutturazione della fattispecie. Ma, come e' noto, la valutazione della rilevanza e pregnanza dell'offesa insita nel reato comporta la necessita' di considerare non solo e semplicemente il rango del bene giuridico che si assume offeso ma anche il grado di offesa (che decresce quanto piu' ci si allontani dallo stadio dell'effettiva lesione per avvicinarsi allo stadio di mero pericolo), desumibile dalla tipologia delle forme di aggressione indicate dalla norma incriminatrice. Al riguardo si puo' osservare come, in riferimento all'art. 341 c.p., si sia verificato un singolare, ma per certi versi assai significativo, fenomeno di commistione e/o di confusione, tra il piano del bene giuridico protetto ed il piano, che dovrebbe invece rimanere rigorosamente distinto, della ratio o scopo politico-criminale della norma. Va allora ribadito che puo' essere individuato come bene giuridico protetto solo quello immancabilmente offeso dal fatto tipico selezionato o, comunque, quello desumibile dall'interpretazione dei singoli elementi del reato nei loro reciproci rapporti. Il problema di fondo non muta neppure accogliendo la c.d concezione realistica del reato, che partendo da un'interpretazione "forte" del reato impossibile (per inidoneita' dell'azione) di cui all'art. 49, comma 2 c.p., individua nell'elemento dell'offesa un elemento, esterno alla tipicita', ed autonomamente rilevante gia' sul piano oggettivo, ai fini dell'integrazione del reato. Infatti anche quest'impostazione presuppone che il bene giuridico sia individuato non sulla base di vaghe considerazioni di ordine generale, bensi' dalla rigorosa interpretazione della singola norma incriminatrice. Cio' del resto e' confermato dall'osservazione che il concetto di bene giuridico puo' svolgere la funzione che gli e' propria, in riferimento alla struttura dell'illecito penale, solo alla duplice condizione che esso sia sufficientemente "afferrabile" e determinato, anche in relazione al principio di determinatezza di cui all'art. 25, comma 2 della Costituzione, e che vengano individuati come i veri interessi offesi solo quelli che realmente possono essere raggiunti dalla capacita' offensiva della condotta, con la conseguenza che nel caso si addotti una tecnica c.d. di "seriazione di beni giuridici", tali non possono essere considerati i c.d. "beni ultimi", ossia irraggiungibili dalla condotta criminosa, come ad esempio, i beni ad "ampio spettro". Diverso e' invece il concetto di scopo o fine che, sul piano politico criminale, ci si propone di perseguire con l'incriminazione, trattandosi di un elemento esterno alla norma, desumibile anche da considerazioni di ordine generale, spesso condizionate da contingenze sociali, economiche, culturali e storiche. Si tratta di un concetto certamente molto importante, anche sul piano interpretativo, ma che non implica una cosi' stretta necessita' di rinvenire in ogni singola condotta punita il fine perseguito sul piano generale. 4. - Al fine di verificare criticamente la fondatezza della tesi della plurioffensivita' del reato di oltraggio a p.u. puo' tornare utile una breve analisi storica della norma, giacche' e' innegabile una connotazione fortemente storicizzata della fattispecie in esame (cfr. sentenza 28 giugno-12 luglio 1995, n. 313). In proposito fin dal principio la Corte costituzionale, nelle molteplici pronunce di rigetto o di manifesta infondatezza, non ha pur tuttavia mancato di rimarcare come la disciplina legislativa dell'oltraggio, cosi' come delineata dal codice Rocco troppo risente dell'ideologia del regime dal quale ebbe origine, e di ammettere che rimane sicuramente, specie in talune ipotesi di fatto, un'effettiva sproporzione tra sanzione comminata e disvalore del fatto, espressamente invitando il legislatore a adeguare il minimo edittale e lo stesso disvalore della fattispecie, alla mutata coscienza sociale ed allo spirito informatore della Costituzione (cfr., tra le tante, ordinanze 6-16 marzo 1989, n. 127 e 10-17 marzo 1988, n. 323). Nella sentenza di accoglimento n. 341/1994, poi, oltre a precisare che la concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, tipica del regime totalitario di cui l'art. 341 c.p. e' espressione, e' estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e societa' non e' un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima, la Corte si spinge sino al punto di ritenere che l'inerzia del legislatore abbia superato ogni limite di ragionevole tollerabilita'. Non abbisogna pertanto di ulteriori dimostrazioni il fatto che il reato di oltraggio fosse inteso dal legislatore del 1930 come una salvaguardia dell'autorita' statale in quanto tale, finendo per rappresentare una super-tutela accordata da uno Stato autoritario a se' stesso e riallacciandosi alle concezioni proprie degli Stati teocratici ed assolutistici, alla concezione della sovranita' come sacra ed inviolabile nella sua diretta emanazione divina, dei funzionari come diretta emanazione del sovrano, dei singoli come sudditi e non come cittadini. Del resto cio' e' sufficientemente testimoniato dal raffronto con la disciplina della materia contenuta nel codice Zanardelli del 1889 (artt. 194-199). Infatti il codice Rocco non si e' limitato ad una modifica della disciplina sanzionatoria, peraltro assai vistosa (il codice Zanardelli puniva il reato base con la pena della reclusione o della multa), ma ha anche modificato strutturalmente la fattispecie estendendone il campo di applicazione, mediante: l'eliminazione della scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (subito reintrodotta all'indomani della caduta del regime); l'unificazione delle ipotesi di offesa arrecata a causa delle funzioni con quelle arrecate nell'esercizio delle funzioni (che il codice Zanardelli puniva in modo attenuato rispetto all'altra); l'eliminazione, per quest'ultima modalita' d'offesa, del termine pubblico (l'art. 196 del codice Zanardelli prevedeva che l'offesa fosse arrecata nell'atto dell'esercizio pubblico delle funzioni); l'estensione della tutela anche ai semplici pubblici impiegati che prestino un pubblico servizio (art. 344 c.p.). Oltre a cio' va pure considerato che, a causa della minore ingerenza dello Stato nella societa', tipica degli ordinamenti di impronta "liberale" dell'ottocento, la qualifica di pubblico ufficiale, ai tempi del codice Zanardelli, era riferibile ad una cerchia di persone infinitamente piu' ristretta. D'altra parte va subito precisato che non si potrebbe utilizzare, per argomentare la legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p. la previsione di un'analoga fattispecie nel codice "liberale" del 1889 a causa della differenza di fondo tra l'attuale Costituzione e lo statuto Albertino. Infatti se lo statuto Albertino puo' ben essere considerato, nel contesto storico di riferimento, una conquista per le garanzie e le liberta' individuali di ascendenza illuministica, non si puo' tuttavia neppure dimenticare: che si trattava comunque di una costituzione elargita, o come si diceva allora "ottriata", dal sovrano ai sudditi, che la persona del re era definita "sacra e inviolabile" (art. 4), che i diritti di liberta' erano garantiti in modo alquanto imperfetto e parziale (artt. 24-32), che in particolare non erano riconosciuti i "diritti sociali", ossia pretese dei cittadini di ricevere dallo Stato particolari prestazioni; che il principio democratico era assai lontano dall'essere riconosciuto nella sua compiutezza (le prime votazioni a suffragio elettorale universale si hanno solo il 2 giugno 1946 e quelle a suffragio elettorale maschile generalizzato nel 1919 e 1921) e che, in definitiva e per cio' che piu' interessa in questa sede, i rapporti tra Stato e cittadino erano in sostanza gia' allora improntati a quel principio di autorita' e dovere di obbedienza, che il regime fascista si limito' ad accentuare e portare sino alle sue estreme conseguenze. Peraltro una piu' attenta ricostruzione della volonta' storica del legislatore fascista evidenzia come il bene oggetto di tutela fosse puramente e semplicemente l'onore ed il prestigio del singolo p.u., mentre il principio di autorita' fosse piuttosto riferito al piano della ratio o scopo politico-criminale della tutela che, nell'ambito dell'ideologia del regime, consentiva di ritenere largamente giustificata una differenziata e piu' rigorosa tutela rispetto a quella accordata ai privati. Cio' emerge con chiarezza da quei passi della relazione ministeriale in cui il prestigio del p.u. viene considerato quale particolare forma di decoro di chi esercita la pubblica funzione (relazione, 140); un bene pertanto che e' proprio del pubblico ufficiale sebbene faccia riferimento alla dignita' della funzione. In definitiva si riteneva che l'onore ed il prestigio del singolo p.u. meritassero una speciale e particolarmente intensa tutela in ragione del rispetto dovuto all'autorita', rispetto che consentiva di qualificare particolarmente quel bene, superando la sua originaria vocazione "personalistica". In tal senso e' anche quel passo della relazione che, dopo aver precisato che il prestigio costituisce una particolare forma di decoro, lo definisce come quella speciale forza o influenza che deriva alla persona dall'altrui riconoscimento dell'autorita' e della dignita' di cui la persona stessa e' rivestita (relazione, 140). Ma cio' che piu' conta e' che questa impostazione ha finito per condizionare in modo evidente la stessa formulazione letterale della norma sospetta e la struttura della fattispecie, essendo l'onore ed il prestigio la cui offesa integra il reato di cui all'art. 341 c.p. riferiti non alla p.a., come avviene ad es. nell'art. 342 c.p., bensi' al singolo p.u. Non solo, ma la mancata previsione di un autonomo reato di diffamazione a pubblico ufficiale, pur originariamente previsto nel progetto preliminare (all'art. 348 c.p.), fu motivata proprio in relazione alla mancanza, in questo caso, di una dimensione pubblicistica dell'offesa ed e' evidente che cio' e' legato alla ratio della tutela, ossia al principio d'autorita' e al rapporto d'imperio tra Stato e cittadini, nel senso cioe' che mentre l'offesa arrecata in presenza del p.u. si considerava manifestazione di disobbedienza e di ribellione all'autorita', l'offesa arrecata in assenza del p.u. era considerata meno grave perche' coinvolgente esclusivamente la dimensione, per cosi' dire, "privatistica" del bene dell'onore del p.u. e pertanto priva di quel rilievo pubblicistico tale da giustificare l'inserimento nei reati contro la p.a. (esplicitamente relazione, 143). Sennonche' al di la' delle originarie intenzioni del legislatore, per effetto di quella confusione sopra evidenziata tra bene giuridico protetto e ratio della norma, ben presto la dottrina allora dominate, seguita subito dalla giurisprudenza, sposto' l'oggetto della tutela dall'onore del p.u., sia pure particolarmente qualificato, all'interesse concernente il normale funzionamento e il prestigio della p.a. in senso lato. Tuttavia tali beni sono intesi in modo assai diverso da quello imposto da una concezione "democratica" dello Stato e ancor piu' dei rapporti tra Stato e cittadino. Infatti, dall'ovvia osservazione che le istituzioni non possono che agire per mezzo di organi e questi per mezzo di persone fisiche e dall'impropria utilizzazione, in materia penale, del rapporto organico, si fa discendere la conclusione per la quale e' manifesto che le offese arrecate a codeste persone (ossia ai pubblici ufficiali), ... risalgono all'organo al quale le persone stesse appartengono, e dall'organo all'ente. Finendo per concludere che la protezione penale, quindi, e' stabilita nell'interesse del rispetto dovuto alla pubblica funzione o al pubblico servizio, e non di quello dovuto alla persona individuale del pubblico ufficiale (...), che riceve protezione soltanto riflessa. Al riguardo si e' acutamente osservato come una simile operazione comporti un indebito processo di identificazione dell'oggetto di tutela, erroneamente individuato nel prestigio della pubblica amministrazione, con la ratio politica della disposizione colta nella sua estensione massima, finendo con l'autorizzare la conclusione secondo la quale qualunque offesa arrecata contro un pubblico ufficiale, in sua presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, costituisca un'offesa diretta all'autorita' in quanto tale. Tale critica va condivisa perche' parlare di normale funzionamento e prestigio della p.a., incentrando tali beni sul rispetto dovuto alle pubbliche funzioni, significa in sostanza assumere ad oggetto di tutela il dovuto ossequio e, dunque, lo stesso principio di autorita' nei rapporti tra Stato e privati. Comunque sia, una volta accolto il sistema di "valori" proprio del regime che ha partorito la norma, la fattispecie non e' priva di una sua intima coerenza ed una certa precisione tecnica. Infatti, alla stregua della scelta di politica criminale secondo la quale alle pubbliche istituzioni e' dovuto sempre e comunque obbedienza e rispetto e che anzi costituisce un "valore" fondamentale, come tipicamente accade per tutti i regimi totalitari, la "fedelta'" allo Stato, diventa del tutto comprensibile punire, ed in modo rigoroso, ogni offesa all'onore del pubblico ufficiale, in sua presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, perche' si tratta di un comportamento di ribellione all'autorita' costituita e aperta manifestazione di spregio a quel "valore", mentre il profilo della tutela del bene personale dell'onore del singolo pubblico ufficiale passa decisamente in seconda linea e, al limite, nulla esclude possa essere del tutto trascurato in omaggio a quel "superiore" interesse statuale. 5. - Ma i problemi veri, in termini di coerenza della fattispecie, nascono dalla doverosa presa d'atto che sia il bene giuridico (prestigio del pubblico ufficiale particolarmente qualificato in ragione della titolarita' di funzioni pubbliche) che la ratio di tutela (principio di autorita'), cosi' come originariamente prospettati, sono non solo estranei al sistema di valori, si potrebbe dire allo "spirito", sul quale si fonda la Costituzione repubblicana, ma esprimono scelte di fondo addirittura opposte e, pertanto, incompatibili con la Costituzione medesima nel suo complesso e con sue specifiche norme e principi, come si avra' modo di argomentare successivamente. Da cio' trae origine la necessita' di rinvenire, alla stregua di un'interpretazione "costituzionalmente orientata" della norma sospetta, nuovi beni giuridici da assumere ad oggetto della tutela che siano, se non addirittura costituzionalmente rilevanti, almeno non incompatibili con la Costituzione. E' in questo contesto che quasi sempre viene individuato come oggetto di tutela del reato di oltraggio, ulteriore rispetto all'onore del singolo p.u., il bene giuridico del prestigio della p.a. A ben vedere, tuttavia, si tratta di un bene che soffre di una scarsa afferrabilita' e di una persistente genericita'. Se inteso nel senso sopra evidenziato, ossia in stretto legame col "rispetto" o l'ossequio dovuto ai pubblici poteri, risolvendosi in sostanza nel principio di autorita', deve certamente ritenersi incompatibile con la Costituzione, come si avra' modo di dimostrare in seguito. Diverso e' invece il discorso se viene inteso come stima o reputazione nella comunita' degli organi e dell'attivita' della p.a., perche' proprio in un ordinamento democratico, che individua come suo fine fondamentale "l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3, comma secondo, della Costituzione), fondato sul principio di parita' tra p.a. e cittadini e su di un potere individuale di "partecipazione" alle attivita' burocratiche, la "fiducia" di cui gode la p.a. nella comunita', sia pure non direttamente prevista dalla Costituzione, non appare affatto sfornita di quella pregnanza ed importanza che giustifica l'intervento della tutela penalistica. Ed anzi si potrebbe persino individuare un certo collegamento tra questo bene ed il principio del buon andamento dell'amministrazione, perche' in un simile "modello" di p.a. e' evidente che la fiducia e la collaborazione del privato alle Istituzioni agevola lo svolgimento delle funzioni pubbliche. Un simile collegamento non e' sfuggito a quella giurisprudenza che costituisce l'avamposto piu' avanzato del tentativo di armonizzare la fattispecie con i principi costituzionali. Si e' infatti osservato che - l'interesse tutelato dalla norma in esame (...) deve essere riferito alla sfera di funzionalita' pubblica, che trova esposizione a pericolo ove non garantita anche da offese alla sua credibilita' ed affidabilita' presso la collettivita'. In tal senso l'offesa al prestigio assurge ad esposizione a pericolo di attributi che devono accompagnare l'azione della pubblica amministrazione e quindi dei soggetti preposti o componenti dei suoi uffici, ed il cui pregiudizio potrebbe risultare ostativo al raggiungimento delle finalita' poste dalla legge, od all'efficacia dell'azione pubblica, incidendo sul consenso che la pubblica amministrazione deve necessariamente avere presso la collettivita'. - (Cass. sez. VI 29 novembre 1995 n. 11579 imp. Pullella). La sentenza citata e' importante per due motivi. In primo luogo perche' sembra richiedere, ai fini dell'integrazione del reato, un requisito ulteriore rispetto alla semplice offesa dell'onore o prestigio del singolo p.u., individuato nella idoneita' della condotta volta a procurare il pericolo di siffatto pregiudizio. In secondo luogo perche' si tratta di una sentenza che conferma un'assoluzione. Ma, a ben vedere, non si tratta di una linea interpretativa realmente capace di spostare i termini della questione circa la legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p. Infatti il requisito dell'idoneita' della condotta ad esporre a pericolo l'efficacia dell'azione pubblica, sotto il profilo della lesione della fiducia presso la collettivita', e piu' apparente che reale, perche' e inteso nel senso di escludere condotte che gia' di per se' sono atipiche in quanto non offensive, alla stregua dei parametri socio-culturali vigenti, del bene dell'onore e del prestigio del singolo pubblico ufficiale, come l'esame del caso di specie dimostra (soggetto che si limita a strappare il verbale di contravvenzione appena elevato, senza porre in essere nessun'altra manifestazione offensiva od irriguardosa; cfr. infatti gia' Cass. 18 settembre 1986 n. 9532), e cosi' smarrisce quel carattere di requisito autonomo della tipicita' in funzione selettiva delle condotte "realmente" offensive, che solo potrebbe consentire di superare ogni dubbio di legittimita' costituzionale. E' evidente che diverso sarebbe il discorso se quell'elemento fosse in grado di sottrarre dal campo di applicazione dell'art. 341 c.p. condotte che indiscutibilmente offendono il bene personale dell'onore del pubblico ufficiale, in quanto inidonee a produrre un concreto pericolo all'"efficacia dell'azione amministrativa". Ma fino a questo punto la giurisprudenza non si e' mai spinta, e giustamente, perche' una simile interpretazione si pone in evidente contrasto con la lettera della legge e presuppone giudizi di valore sul piano politico criminale che non le competono. In definitiva sembra in questo caso realizzarsi il rischio di tutte quelle interpretazioni "costituzionalmente orientate" in realta' incapaci di incidere sul contenuto precettivo delle norme, e che pertanto finiscono col porsi come strumento di legittimazione dell'esistente, in ipotesi di una norma incostituzionale, la quale continuera' ad avere la medesima applicazione (in senso incostituzionale), sotto una diversa giustificazione. In realta' si deve escludere che il prestigio della p.a., sotto il profilo del "consenso" o la "fiducia" presso la collettivita', possa essere individuato come oggetto di tutela dell'art. 341 c.p. Infatti una simile impostazione e' smentita dalla struttura del reato e da decisive implicazioni sistematiche. Sotto il primo profilo emerge in tutta evidenza la mancanza tra gli elementi costitutivi della fattispecie dell'elemento della comunicazione con piu' persone o, perlomeno, della presenza di terzi estranei al compimento della condotta punita, ossia su quel requisito di "pubblicita'" che il codice Zanardelli richiedeva (art. 196) per il caso di offese arrecate al pubblico ufficiale, non a causa delle sue funzioni, ma nell'atto dell'esercizio pubblico di esse (e che consentiva di incentrare la tutela sulla repressione dello "scandalo pubblico"). Sotto il secondo profilo va evidenziata la mancanza di un autonomo titolo di reato di diffamazione a pubblico ufficiale. Del resto che dei termini della questione i compilatori del codice avessero una precisa visione, sicche' non ci si deve stupire della formulazione della norma, emerge con chiarezza in quella parte della Relazione in cui si spiega che il termine reputazione (usato dal codice Zanardelli, insieme al termine onore e al termine decoro nell'art. 194) qui non puo' usarsi, sia perche' ad esso e' attribuito un significato specifico in materia di diffamazione (offesa fuori della presenza), mentre per l'oltraggio e' sempre richiesta la presenza dell'offeso, sia perche' il prestigio e' qualche cosa di diverso da quella stima nella capacita' funzionale del pubblico ufficiale, alla quale si riferisce la reputazione (140). D'altra parte deve escludersi che si possa aggirare l'ostacolo mediante un'interpretazione "costituzionalmente orientata", questa volta davvero in grado di incidere sul contenuto precettivo dell'art. 341 c.p., richiedendo ai fini dell'integrazione del reato il requisito della pubblicita' quale elemento costitutivo implicito. Infatti, se si deve certamente ammettere che l'interprete sia tenuto a ricostruire i singoli tipi in conformita' ai principi costituzionali e, in particolare al principio di necessaria offensivita', sicche' dovra' considerare atipici i comportamenti non offensivi del bene protetto, si deve tuttavia ritenere che cio' sia possibile solo rispettando il limite invalicabile della compatibilita' con la lettera della legge. Nel caso di specie non e' possibile rinvenire in via interpretativa all'interno della fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale l'elemento costitutivo della pubblicita' sia perche' quell'elemento manca totalmente di qualsiasi aggancio letterale nella descrizione degli elementi costitutivi, sia per le implicazioni sistematiche della mancanza di un autonomo reato di diffamazione a pubblico ufficiale, sia infine, e soprattutto, perche' la presenza di una o piu' persone estranee al fatto e' prevista come circostanza aggravante a norma dell'art. 341 u.c. c.p., ossia come elemento accidentale del reato, in funzione aggravante, e pertanto si deve escludere ch'esso possa essere attratto tra gli elementi costitutivi. 6. - Critiche in parte analoghe possono muoversi alla tesi che ravvisa direttamente nel buon andamento dell'amministrazione il bene giuridico tutelato dall'art. 341 c.p. Anche questa tesi omette infatti di individuare il rapporto tra il bene giuridico che si assume protetto e la struttura del reato. D'altra parte, come per il bene del prestigio della p.a., vi e' la tendenza a considerare il bene del buon andamento in termini del tutto generici, svincolato dall'idea di efficienza e di massima aderenza all'interesse pubblico che gli e' proprio e ricondotto a formule vaghe quali quella del "regolare funzionamento", dimenticando che la funzione del bene giuridico puo' essere effettivamente svolta solo in presenza di beni sufficientemente determinati ed "afferrabili", rischiando viceversa di smarrirsi in presenza di beni ad "amplissimo spettro". Ora, e' evidente che il riferimento al bene "buon andamento" non puo' essere concepito nel senso rigoroso di effettivo intralcio all'azione della p.a. in concreto svolta, perche' risulterebbe del tutto incomprensibile la punizione delle offese rivolte a causa delle funzioni ma non durante l'esercizio di esse. Non a caso la relazione, per giustificare la circostanza per la quale i delitti di violenza e di resistenza si possono commettere contro qualunque incaricato di pubblico servizio, mentre per l'art. 344 puo' essere oltraggiato soltanto il pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, afferma espressamente che l'oltraggio non reca intralcio all'andamento del servizio. Neppure, per le motivazioni gia' svolte, puo' accogliersi la tesi che ravvisa un esposizione a pericolo del buon andamento amministrativo nella lesione del prestigio della p.a. sotto il profilo della "fiducia" o stima della p.a. presso la societa'. La piu' compiuta elaborazione dottrinale della tesi e' piuttosto fondata, da un lato, sull'estensione massima del concetto di "buon andamento" fino a comprendere il "normale" e/o "sereno" funzionamento della p.a. e, dall'altro, su di un'argomentazione di natura psicologistica, ossia sulla considerazione che le condotte punite dall'art. 341 c.p. potrebbero determinare un "turbamento psicologico" nel pubblico ufficiale e che cio' potrebbe a sua volta determinare un'alterazione del suo processo decisionale e della stessa azione amministrativa, resa incerta ed esitante. L'art. 341 c.p. cioe' tutelerebbe la stabilita' emotiva del pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni e, quindi, la sua capacita' di decidere correttamente secondo l'interesse pubblico. Sennonche', a parte il rilievo che la tesi appare in contrasto con l'opinione comune che considera irrilevante, ai fini dell'integrazione del reato, che il p.u. si sia in concreto sentito offeso dalla condotta oltraggiosa posta in essere (Cass. il febbraio 1989 n. 2027; Cass. 28 maggio 1985 n. 5393), assorbente e' l'osservazione che in questo modo si finisce col configurare l'obiettivita' del reato come il pericolo di un pericolo. Infatti va rilevato che l'interpretazione fatta propria da questa autorevole dottrina, e seguita senza incertezze dal c.d. diritto vivente (Cass. 31 agosto 1994 n. 9417; Cass. 11 novembre 1989 n. 15559; Cass. 6 febbraio 1985 n. 1173; Cass. 30 dicembre 1985 n. 12547), non richiede, ai fini dell'integrazione del reato, l'effettiva percezione dell'offesa da parte del p.u., perche' l'elemento della presenza del soggetto passivo viene inteso come quella contiguita' spaziale tale da assicurare la semplice possibilita' di percezione. Ora, e' evidente che in mancanza di effettiva percezione, non puo' farsi questione di "turbamento psicologico" del p.u.. Non solo, ma anche ammessa l'effettiva percezione, non e' detto che da questa derivi necessariamente il tanto temuto "turbamento psicologico" del p.u., perche' questo e' piuttosto un effetto che dipende da tutta un serie di fattori contingenti di natura oggettiva e soggettiva, quali il contesto, la posizione sociale del soggetto attivo e passivo, la "pubblicita'" dell'azione, la "sensibilita'" personale del p.u. e cosi' via, sicche' si tratterebbe, anche in questo caso, di una semplice possibilita', un pericolo appunto. Infine non e' affatto detto che il "turbamento" del p.u. si traduca in un'alterazione dello svolgimento delle pubbliche funzione alle quali e' preposto. Cosi' nel caso di offese arrecate semplicementea "a causa delle funzioni", ma non nell'esercizio di esse, e' del tutto ragionevole pensare che il suddetto turbamento possa scemare fino a svanire del tutto con il trascorrere del tempo, sino al momento in cui il p.u. tornera' a svolgere le sue funzioni. Nel caso di offese arrecate nell'"esercizio delle funzioni", magari per motivi del tutto privati, e' ben possibile che nessun nocumento al regolare svolgimento delle funzioni pubbliche in concreto si realizzi, ad es., per la presenza di altri p.u. non coinvolti ed in grado di sostituirsi al collega "turbato". D'altra parte vi e' almeno una classe di comportamenti, riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 341 c.p., in cui non solo un danno ma neppure un mero pericolo di danno al buon andamento della p.a., e' escluso alla radice, per l'impossibilita' di ipotizzare uno svolgimento di pubbliche funzioni successivo al reato: l'offesa arrecata "a causa delle funzioni" ad un soggetto che, al momento del fatto, non possieda piu' la qualita' di p.u. a norma dell'art. 360 c.p. Ora un pericolo di un pericolo di un pericolo deve ritenersi un "non pericolo" e, come tale, inconciliabile col principio di offensivita'. Invero, ai fini della legittimita' costituzionale delle norme incriminatrici sotto il profilo del principio di necessaria offensivita', non e' affatto sufficiente individuare un bene giuridico di rango tale da giustificare, in astratto, la tutela penalistica, dovendosi estendere l'indagine in ordine all'ampiezza e all'intensita' della tutela medesima nonche' alla gravita' dell'offesa. Da questo punto di vista anche un bene sicuramente primario, quale puo' essere per esempio la vita, non riuscirebbe a giustificare, sul piano della compatibilita' col principio di necessaria offensivita', costituzionalmente imposto, una cosi' spinta anticipazione della tutela che conducesse alla punizione di atti meramente preparatori o di mera manifestazione della volonta' o della "tendenza" a commettere un omicidio. Oltre tutto la tesi che ravvisa nell'art. 341 c.p. un reato di pericolo astratto, presunto in via assoluta ed irrimediabile, finisce col sollevare dubbi di legittimita' costituzionale forse anche maggiori di quelli che pretende aver risolto. E' infatti noto che i reati di pericolo presunto pur non essendo di per se' incostituzionali, devono tuttavia rispettare determinati requisiti, in relazione sia al principio di proporzione (art. 27, terzo comma, della Costituzione), sia al principio di necessaria offensivita' (art. 25, secondo comma, della Costituzione), sia infine al principio di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione), che la stessa Corte costituzionale ha precisato con grande efficacia (cfr. sentenza 10-11 luglio 1991 n. 333). Devono infatti essere posti a tutela di beni di rango assolutamente fondamentale ed afferire a settori in cui questa anticipazione di tutela risulti razionalmente giustificata da particolari esigenze di prevenzione (ad es. situazioni di pericolo diffuso incidenti su beni collettivi come l'ambiente o l'economia pubblica), ed inoltre occorre che le condotte riconducibili al fatto tipico siano selezionate in modo pregnante, in modo cioe' che la presunzione assoluta di pericolo sia supportata da corrette verifiche empiriche, ossia giustificata dall'id quod plerumque accidit, costituendo altrimenti una scelta del tutto irragionevole ed arbitraria e pertanto censurabile a norma dell'art. 3 della Costituzione. Orbene, entrambe le condizioni di legittimita' dei reati di pericolo presunto non sembrano soddisfatte dall'art. 341 c.p., perche', da un lato, e' innegabile la distanza di questa fattispecie dai settori in cui legittimamente e' utilizzata questa tecnica legislativa e, dall'altro, e' proprio l'esperienza concreta a smentire quella presunzione di pericolosita' della condotta tipica alla stregua dell'art. 341 c.p. Infine la tesi, nonostante le premesse, non riesce a liberarsi del tutto dalla concezione autoritaria che storicamente e' a fondamento della norma, perche' il pericolo di alterazione del processo decisionale del p.u. conseguente alla mera offesa all'onore o al prestigio del p.u. si giustifica solo in un sistema di p.a. fondato sul dovere di obbedienza del privato, la cui violazione puo' appunto comportare un'alterazione del regolare esercizio della funzione pubblica, ma risulta difficilmente comprensibile in un sistema fondato sulla qualificazione delle attivita' burocratiche come modi di esercizio del potere di partecipazione individuale e, pertanto, su di una parificazione tra funzionari pubblici e privati cittadini. 7. - Si deve pertanto concludere che il bene protetto dall'art. 341 c.p. sia unicamente l'onore ed il prestigio del singolo p.u., perche' solo questo e' sempre ed immancabilmente raggiunto dalla condotta criminosa tipica. Con cio' naturalmente non si intende negare che la tipicita' del reato e' tanto ampia da abbracciare, eventualmente, concrete ipotesi in cui oltre ad essere offeso questo bene sia offeso anche il bene del prestigio (ad es. offese arrecate "pubblicamente") o addirittura del buon andamento della p.a. (si pensi al caso di offese arrecate mediante violenza o minaccia e non solo a causa ma anche nell'esercizio delle funzioni: in questi casi, da un lato, spesso l'azione amministrativa subisce un concreto intralcio e, dall'altro, il riferimento al "turbamento" del p.u. acquista certamente pregnanza). Ma si tratta di casi, dal punto di vista statistico marginali, quasi sempre aggravati ai sensi dell'art. 341 u.c. c.p. o in cui e' possibile ravvisare l'integrazione, in concorso formale o in continuazione col reato di oltraggio, anche dei reati di cui agli artt. 336 e 337 c.p., chiaramente e tipicamente rivolti alla tutela del libero svolgimento dell'azione amministrativa, tali cioe' da assorbire integralmente l'offesa a quel bene. Invece le ipotesi riconducibili alla fattispecie semplice si risolvono spesso, se non sempre, in fatti obbiettivamente "bagattellari", ed in cui ne' il prestigio ne' il buon andamento della p.a. possono ritenersi seriamente colpiti. Insomma si tratta di prendere realisticamente atto che il legislatore non si e' preoccupato di selezionare solo e soltanto le ipotesi concretamente offensive di quei beni, configurando al contrario una fattispecie onnicomprensiva, in cui ricadono indistintamente condotte dal disvalore sociale profondamente diverso, perche' incidenti su beni giuridici diversissimi. Piu' precisamente ancora il legislatore del 1930 ha tipizzato una fattispecie tanto ampia semplicemente perche' e' partito da scelte di politica criminale del tutto diverse, per non dire opposte, mentre il legislatore repubblicano, al quale spettava il compito di adeguare la struttura del reato sulla base di scelte di valore compatibili con la Costituzione, e' rimasto del tutto inerte. Una conferma di questa conclusione e' rintracciabile, ad avviso di questo pretore, nella stessa sentenza n. 341/1994 che, pur confermando in termini generali la plurioffensivita' del reato, che in linea di principio rende improponibile il raffronto, ai sensi dell'art. 3 della Costituzione, con il reato di ingiuria, tuttavia ravvisa l'incostituzionalita' per i casi piu' lievi, nei quali il prestigio ed il buon andamento della pubblica amministrazione, scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in modo cosi' irrisorio da non giustificare che la pena minima debba necessariamente essere dodici volte superiore a quella prevista per il reato di ingiuria. L'illegittimita' costituzionale viene dunque argomentata anche dal raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 594 c.p. ed e' allora evidente che i "casi piu' lievi", proprio perche' legittimano il paragone col reato di ingiuria, normalmente interdetto dalla plurioffensivita' del reato di oltraggio, non attengono affatto, nonostante le apparenze, ad una differenza di quantita' dell'offesa, bensi' ad una differenza di qualita', nel senso cioe' che si tratta di casi in cui, come nell'ingiuria, ad essere offeso e' esclusivamente il bene personale dell'onore del singolo p.u. e non anche, se non in modo del tutto irrisorio, i beni del prestigio e del buon andamento della p.a. Insomma e' la stessa Corte costituzionale ad essere giunta alla conclusione che l'ampia tipicita' tratteggiata dall'art. 341 c.p. comprende ipotesi tra loro eterogenee quanto a disvalore, mentre la dichiarazione di incostituzionalita' con esclusivo riferimento al minimo edittale, si spiega col limite che in quella occasione era imposto dalla questione sollevata, non coinvolgente ne' la previsione del limite massimo di pena, ne' le rimanenti disposizioni dell'art. 341 c.p., come si chiarisce con una precisazione posta ad incipit della sentenza. Peraltro la reale inconsistenza, rispetto al reato di ingiuria, dell'autonoma e distinta obiettivita' giuridica della fattispecie emerge anche da considerazioni non strettamente giuridiche. In primo luogo la prassi giudiziaria, dopo la sentenza n. 341/1994, si e' subito assestata nel senso di applicare, in caso di condanna per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, pene stabilmente ancorate al "nuovo" minimo edittale di giorni quindici di reclusione, con la concessione di tutti i benefici possibili ed immaginabili (come la sospensione condizionale della pena e/o la sostituzione in pena pecuniaria), il che', oltre a confermare che i "casi piu' lievi" costituiscono la quasi totalita' delle condotte punite, costituisce prova di quel disagio dei giudici di merito, gia' acutamente sottolineato dalla stessa Corte costituzionale e che trova riscontro anche nella mutata coscienza sociale, che stenta a riconoscere in queste condotte un disvalore trascendente l'offesa all'onore del singolo p.u. In secondo luogo persino gli autori che considerano costituzionale l'art. 341 c.p., sottolineano l'opportunita' di una riforma in ordine non solo all'aspetto sanzionatorio, ma anche alla struttura del reato con un consistente restringimento della fattispecie, sia nel senso della drastica limitazione delle categorie dei soggetti tutelati, sia nel senso dell'introduzione di ulteriori elementi costitutivi, capaci di garantire un contenuto offensivo tipico effettivamente lesivo del prestigio o del buon andamento della p.a. In terzo luogo numerosi sono stati i progetti di riforma, purtroppo mai andati in porto, i piu' risalenti dei quali limitati all'aspetto sanzionatorio o all'introduzione di particolari attenuanti (cfr. ad es. il disegno di legge "riforma del codice penale" presentato dall'on. Gonella al senato il 19 novembre 1968 che fissava la pena base nella reclusione sino a due anni, con la possibilita' di irrogare solo la pena della multa "qualora il fatto risulti di lieve entita'"), mentre le piu' recenti proposte sono decisamente nel senso della eliminazione della fattispecie e della previsione di una semplice aggravante del reato di ingiuria (cfr. lo schema di legge delega per l'emanazione del nuovo codice penale del 1992). Infine l'analisi comparatistica conferma che in quasi tutti i paesi di democrazia matura, a noi piu' vicini, non esiste un autonomo reato di oltraggio a pubblico ufficiale comparabile col reato di cui all'art. 341 c.p. mentre l'onore dei pubblici ufficiali viene tutelato allo stesso modo dell'onore di qualsiasi privato cittadino. 8. - L'aver escluso che prestigio e/o buon andamento della p.a. costituiscano il bene giuridico tutelato dall'art. 341 c.p. non esclude, di per se', che possano essere assunti, nel quadro del mutato assetto costituzionale, come la ratio politico - criminale della norma, in sostituzione alla ratio originaria, fondata sul principio d'autorita'. Infatti si e' gia' visto come la ratio della norma, al contrario del bene giuridico, non impone di rinvenire, in ogni singola e concreta condotta punita, un coinvolgimento diretto ed immediato di quell'interesse che ne costituisce il fondamento, riposando normalmente su intenti di prevenzione generale di piu' ampia portata. Resta tuttavia da stabilire se lo strumento apprestato sia davvero congruente rispetto al fine che si assume perseguito, sotto il profilo della ragionevolezza, tenendo ben presente che la fattispecie e' stata originariamente tipizzata sulla base di tutt'altra ratio, sicche' occorre in primo luogo verificare se la formula legislativa sia sufficientemente flessibile per essere piegata a diverse finalita', e in secondo luogo se tale finalita' sia davvero capace di giustificare razionalmente la diversa e piu' rigorosa tutela dell'onore dei p.u. rispetto all'onore dei privati cittadini, alla luce di tutte le norme costituzionali che vengono in considerazione. 9. - Venendo finalmente alle norme costituzionali con le quali l'art. 341 c.p. sembra entrare in rotta di collisione, viene in prima battuta in considerazione il principio per il quale "tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale (...) senza distinzione di (...) condizioni personali e sociali" (art. 3, primo comma, della Costituzione). Al riguardo va osservato, da un lato, come la Costituzione consideri primo valore costituzionale la persona in se', prescindendo dalle qualita' ad essa inerenti e dalle mansioni da essa esercitate, e, dall'altro, che il bene tipicamente personale dell'onore, inteso come valore morale intrinseco alla persona in quanto tale, altro non e' che un particolare aspetto di quella dignita' sociale cui fa riferimento l'art. 3 della Costituzione, rientra nei diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti dall'art. 2 della Costituzione ed e', infine, per sua natura, eguale in tutti gli uomini, indipendentemente da giudizi sociali di merito o di demerito. Posta questa premessa e' evidente che l'art. 341 c.p., in quanto comporta una tutela privilegiata dell'onore del p.u. rispetto a quella apprestata all'onore dei privati cittadini dall'art. 594 c.p., si pone in contrasto, in modo diretto, col principio della pari dignita' sociale, nella misura in cui si escluda che esso tuteli altri e diversi beni giuridici. Invero la diversa e piu' rigorosa tutela prevista dall'art. 341 c.p., rispetto all'art. 594 c.p. viene collegata al mero status di pubblico ufficiale, utilizzando cioe' un criterio di distinzione, quello delle "condizioni personali e sociali", espressamente fatto oggetto di divieto dalla norma costituzionale. D'altra parte non puo' essere negato che il principio di uguaglianza e' un principio fondamentale che, in quanto tale, non ammette limitazione se non fondate su interessi costituzionalmente rilevanti. Da questo punto di vista occorre appunto verificare se la tutela diversificata dell'onore del p.u. possa trovare ragionevole giustificazione nella ratio del principio del buon andamento della p.a., costituzionalmente rilevante a norma dell'art. 97, primo comma, della Costituzione. Ma una simile prospettiva non sembra seriamente praticabile e cio' almeno per tre ragioni. La prima e' che il principio del buon andamento della p.a., peraltro difficilmente estensibile sino al punto da comprendere il semplice "normale funzionamento" della p.a., non sembra sia assunto dalla Costituzione come valore in se', ma piuttosto come valore funzionale rispetto alla garanzia dei diritti inviolabili dei cittadini e, pertanto, non puo' assumersi il diritto alla pari dignita' sociale "in funzione" della piena realizzazione dell'interesse al buon funzionamento della p.a. In secondo luogo occorre prendere atto che la fattispecie di cui all'art. 341 c.p. e' stata strutturata seguendo direttrici di tutela addirittura opposte, fondate sul principio d'autorita' e la norma tradisce questa origine ad ogni applicazione concreta, tanto da risultare in larga misura insensibile, sotto il profilo del concreto contenuto precettivo, al mutamento di prospettiva, sul piano dello scopo politico criminale, imposto dai nuovi valori costituzionali. Se ne deve pertanto dedurre che lo strumento apprestato sia radicalmente inidoneo ed incongruo rispetto al fine prospettato, perche' finisce col punire, in modo del tutto sproporzionato, oltre a condotte in qualche modo coinvolgenti anche il buon andamento della p.a., sia pure in senso assai lato, intere categorie di condotte, sovrastanti dal punto di vista quantitativo le precedenti, che tipicamente nulla hanno a che fare con quel fine, con conseguente violazione ancora dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo del criterio di ragionevolezza. In terzo luogo e' la giustificazione stessa alla diversa tutela accordata all'onore del p.u. incentrata sul "buon andamento" che contrasta col "modello" di p.a. accolto dalla Costituzione. Infatti il rapporto tra p.a. e cittadino nell'attuale assetto costituzionale, e' essenzialmente paritario e di "partecipazione", con un netto ed inequivocabile rifiuto del principio di autorita' e di "fedelta'" allo Stato, caratterizzante il precedente regime. Cio' lo si desume anzitutto dal principio secondo il quale "la sovranita' appartiene al popolo" (art. 1, secondo comma, della Costituzione). E' ben vero che l'esercizio della sovranita' e' consentito solo "nelle forme e nei limiti della Costituzione" ma cio' non toglie, da un lato, l'importanza dell'affermazione dell'originaria appartenenza del potere al popolo e, dall'altro, grazie al collegamento con il resto della Costituzione e, in primo luogo col principio personalista di cui all'art. 2 della Costituzione, la possibilita' di rinvenire a carico di chi in concreto esercita il potere un vincolo di corrispondenza ai fini propri del tipo di ordine garantito dalla Costituzione medesima, con particolare riferimento al metodo democratico come il solo che possa determinare la politica nazionale (art. 49 della Costituzione), con conseguente stretto collegamento tra la concezione dei rapporti tra Stato e cittadini e la forma (democratica) di Stato accolta. Inoltre il collegamento con l'art. 2 Cost. consente di riconoscere, come autorevolmente e' stato detto, fra i diritti inerenti della persona e in posizione assolutamente primaria quello di far discendere la soggezione del popolo all'autorita' statale dal riconoscimento della partecipazione del medesimo alla sua formazione ed all'esplicarsi della sua successiva attivita'. Cio' emerge anche nell'indicazione, come fine primario, dell'"effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", nell'art. 3, secondo comma, della Costituzione. Ne deriva che le attivita' burocratiche vengono a porsi come modi di esercizio del potere di partecipazione individuale con conseguente parificazione della condizione personale degli appartenenti alla burocrazia a quella di tutti i cittadini. Da questo punto di vista il fine del buon andamento della p.a. non sembra in grado di giustificare una peculiare tutela dei p.u. rispetto a quella spettante ai cittadini proprio perche', cosi' facendo, si viene ad inficiare la posizione paritaria tra funzionari e cittadini, reintroducendo, in forma larvata, quel principio d'autorita' che si era invece voluto decisamente respingere. Dal mutamento di prospettiva che considera la p.a. al servizio del cittadino e non viceversa, discende piuttosto la possibilita' di ravvisare maggiori doveri in capo ai pubblici funzionari, la cui violazione comporta responsabilita' sia all'interno che all'esterno della p.a., in funzione di garanzia per il buon andamento, l'imparzialita' e la legittimita' dell'azione degli uffici cui sono preposti, come si puo' desumere dagli art. 28 e 54, comma secondo, Cost. Ed anzi dall'art. 54, secondo comma, della Costituzione si ha la conferma che l'"onore" del p.u. si configura non come rispetto od ossequio dovutogli, bensi' come conseguenza del rigoroso adempimento dei propri doveri, sicche' il p.u. non ha tanto il "diritto" all'onore, perlomeno non un diritto diverso da quello spettante ad ogni uomo, quanto piuttosto il "dovere" di meritarsi stima e considerazione presso la collettivita' mediante un comportamento legale, efficiente ed imparziale. In conclusione il funzionario deve essere considerato, nell'attuale assetto costituzionale, non tanto come "autorita'", bensi' come servitore dell'interesse generale e come soggetto che non fa altro che esercitare il potere di partecipazione proprio di ogni cittadino. Come si vede un'impostazione assai diversa, per non dire opposta, di quella degli Stati totalitari e teocratici, secondo la quale non esistono diritti dei sudditi verso lo Stato ma solo doveri, attesa l'origine divina del potere e la derivazione divina del sovrano. Ed e' evidente che, mentre in un sistema di p.a. fondato sul dovere di obbedienza anche una semplice offesa al p.u., in sua presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, puo' ragionevolmente assumersi come possibile causa di un'alterazione del "normale svolgimento" dell'esercizio della funzione, appunto perche' segno di ribellione all'autorita' e, in quanto tale, in contrasto col modello di p.a. accolto, cio' deve invece essere decisamente negato in un sistema di p.a. fondato sulla parita' tra cittadino e funzionario e sul diritto dei privati alla "partecipazione" all'attivita' burocratica. E' cioe' del tutto naturale che il concetto di "normale svolgimento" delle funzioni pubbliche non sia sempre uguale a se stesso ma risulti storicamente condizionato, essendo diretta conseguenza dei principi e delle norme che regolano l'azione della p.a. nei suoi rapporti coi privati. 10. - Ma l'art. 341 c.p., oltre a violare il principio di uguaglianza e le regole che disciplinano i rapporti della p.a. coi privati, si pone in contrasto anche col "volto costituzionale" del moderno diritto penale, che viene a caratterizzarsi soprattutto come sistema di limiti sostanziali al legislatore (sentenza 23-25 ottobre 1989 n. 487). Un simile contrasto si manifestera' con maggiore evidenza, laddove si sappiano cogliere le correlazioni sistematiche tra i principi costituzionali che vengono in considerazione e tenendo presente che oggetto della censura e' "il di piu'" di tutela penalistica accordata dall'art. 341 c.p. rispetto alle esigenze connesse al bene dell'onore del singolo p.u. Al riguardo viene anzitutto in considerazione il principio di necessaria offensivita', strettamente legato alla concezione del diritto penale come extrema ratio (c.d. principio di sussidiarieta'), che si deve ritenere costituzionalizzato per via di implicazione logica dagli artt. 25, comma secondo (in particolare dall'uso del termine "fatto") e 27, terzo comma, della Costituzione, letti alla luce dell'art. 13 della Costituzione. Infatti posto che con la pena si viene ad incidere su di un bene primario come la liberta' personale (art. 13 della Costituzione), oltre che su altri valori fondamentali, quali la dignita' sociale ed il pieno sviluppo della personalita' umana (art. 3 della Costituzione), intanto si giustifica in quanto sia diretta a tutelare beni socialmente apprezzabili. Cio' comporta l'adozione di un "modello" liberale di diritto penale fondato sull'esigenza di tutelare un concreto interesse, offeso dal fatto tipico. Nel caso dell'art. 341 c.p., una volta esclusa la possibilita' di assumere ad oggetto di tutela il prestigio o il buon andamento della p.a., che semmai possono essere considerati sotto il profilo della ratio politico criminale, per la lontananza rispetto al fatto tipico che li rende beni in concreto non aggredibili, perlomeno nella maggioranza dei casi, dalla condotta punita cosi' come tipizzata, e' evidente che la previsione dell'oltraggio a pubblico ufficiale come autonomo titolo di reato non si giustifica, non potendosi rinvenire tale giustificazione nell'esigenza di tutela dell'onore del singolo p.u., gia' compiutamente "coperta" dal diverso reato di cui all'art. 594 c.p. (aggravato a norma dell'art. 61 n. 10 c.p.). D'altra parte recuperare l'originaria ragione dell'incriminazione, ossia la particolare qualificazione dell'onore del p.u. in ragione del principio di autorita', oltre ad aprire la strada alla prima censura sopra evidenziata della violazione della pari dignita' sociale e del modello costituzionale di p.a., non consente di risolvere il problema neppure sotto il profilo qui in esame. Infatti se e' vero che il modello del reato come offesa ai beni giuridici nulla garantisce in ordine ai contenuti delle norme incriminatrici che, pur rispettando formalmente quel modello, possono essere i piu' illiberali, come proprio la legislazione del periodo fascista, in taluni settori, dimostra, si deve tuttavia osservare che nel caso di specie l'assunzione ad oggetto di tutela di un bene giuridico strettamente connesso al principio di autorita' in se' considerato, e conseguentemente al dovere di obbedienza del privato nei confronti dello Stato, finisce col compromettere non solo i contenuti ma anche la forma stessa di un diritto penale liberale, scivolando verso modelli illiberali, come quelli propri del diritto penale della volonta' o dell'atteggiamento interiore, a sfondo eticizzante, o del diritto penale dell'infedelta' allo Stato; modelli cioe' che tendono a concepire il reato in termini di pura disobbedienza alle norme statuali. Un altro principio fondamentale che viene in considerazione e' il principio di proporzione, desumibile dalla funzione rieducativa della pena di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, purche' estesa anche alla fase dell'astratta previsione normativa, oltre che alla fase dell'applicazione giudiziale e dell'esecuzione. Infatti la finalita' rieducativa postula che il reo avverta che il trattamento punitivo inflittogli sia proporzionato al disvalore del fatto commesso, perche' altrimenti si stimola un atteggiamento di ostilita' nei confronti dell'ordinamento. Si tratta di un principio, valido per l'intero diritto pubblico, e che costituisce un'applicazione del piu' generale principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, risolvendosi nella necessita' che la scelta dello strumento per raggiungere il fine sia limitata da considerazioni razionali rispetto ai valori, ma che, in materia penale, acquista una forza cogente tutta particolare in ragione del fatto che lo strumento penale viene ad incidere su diritti fondamentali dell'individuo. Quale vincolo alla discrezionalita' legislativa in materia penale il principio equivale a negare legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa' sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e dei valori delle predette incriminazioni (sentenza n. 409/1989 cit.). Da questo punto di vista il principio di proporzione opera su due piani, altrettanto importanti: a) sul piano della congruenza tra gravita' del fatto tipico e sanzione, comportando la necessita' di un giudizio relazionale interno alla norma (tra fatto e pena), in considerazione del bene della liberta' personale sacrificato dalla pena (con possibilita' di un esito diverso a seconda del tipo di pena previsto, posto che la pena pecuniaria solo eventualmente ed in misura minore viene ad incidere su quel bene, attraverso la conversione in liberta' controllata o in lavoro sostitutivo in caso di insolvibilita': art. 102 legge n. 689/1981), ed in tal caso il giudizio non riguardera' direttamente lo scopo o la ratio dell'incriminazione, che rimarra', per cosi' dire sullo sfondo, ma piuttosto gli elementi di definizione dell'offesa (modalita' di lesione tipizzate e bene giuridico tutelato) ed il suo eventuale esito negativo comportera' conseguenze esclusivamente sulla disciplina sanzionatoria; b) sul piano della congruenza tra strumento normativo, ossia la fattispecie criminosa, e finalita' che con l'incriminazione si intende perseguire, ed in tal caso e' evidente che l'ambito della valutazione e' piu' ampio perche' coinvolgente la ratio politico-criminale della norma, che e' un elemento esterno alla norma stessa. In questo seconda prospettiva cio' che assume rilevanza in via diretta non e' il profilo sanzionatorio, bensi' la struttura del reato, perche' e' il riferimento alle caratteristiche tipologiche dell'offesa a consentire il giudizio di congruenza con la finalita' perseguita, mentre l'eventuale esito negativo del giudizio dovrebbe comportare l'incostituzionalita' della stessa sussistenza della fattispecie, perche' in tal caso la sproporzionatezza attiene non al quantum ma all'an della tutela penalistica. Quanto ai casi in cui si realizza la sproporzione, nel senso da ultimo indicato, ritiene questo pretore che cio' si verifichi quando le condotte punite siano descritte in modo tanto ampio da abbracciare non solo alcune ipotesi marginali (il che non comporterebbe profili di illegittimita' costituzionale ma, semmai, semplici motivi di inopportunita' politica), ma addirittura l'assolta maggioranza di condotte, la cui punizione non ha alcuna attinenza col fine perseguito. In tal caso infatti non si potrebbe escludere la macroscopica irragionevolezza dell'incriminazione, non solo in riferimento all'art. 27, terzo comma, della Costituzione ma anche in riferimento allo stesso art. 3 Costituzione. Nel caso di specie si e' gia' abbondantemente argomentata la particolare "distanza" tra la struttura del reato di cui all'art. 341 c.p. e gli scopi di tutela legittimamente assumibili alla stregua del vigente assetto costituzionale, ossia il prestigio, inteso come stima e "fiducia" presso la collettivita', ovvero il buon andamento della p.a., nel senso cioe' che solo in un numero irrisorio dei casi, quei fini trovano corrispondenza nella realta', mentre nella maggioranza dei casi si tratta di condotte che nulla vi hanno a che fare e la cui punizione, sulla base di un titolo di reato autonomo e distinto rispetto al reato di cui all'art. 594 c.p., trova esclusiva giustificazione sulla base dell'originaria ratio di tutela, ossia il principio di autorita' ed il rapporto di sudditanza tra Stato e cittadini. Se questo e' vero non si potrebbe negare l'incostituzionalita' dell'art. 341 c.p. quale mezzo sproporzionato e, quindi, macroscopicamente irragionevole, rispetto al fine. Al riguardo viene in considerazione un altro principio fondamentale, con funzione di garanzia, proprio del moderno diritto penale, ossia il principio di sufficiente determinatezza direttamente desumibile dalla riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione perche' nel caso di specie ed in riferimento alle ratio di tutela individuate, appare evidente che le espressioni utilizzate per collocare l'offesa all'onore del p.u. in una dimensione "pubblicistica", che va cioe' oltre alla tutela della persona del singolo p.u. e quindi tale da giustificare l'inserimento nei reati contro la p.a. (in particolare l'espressione "a causa o nell'esercizio delle sue funzioni", ma anche il riferimento a tutti i p.u. e, a norma dell'art. 344 c.p., ai pubblici dipendenti che prestino un pubblico servizio), sono caratterizzate da un grado di estensione tale da designare realta' profondamente diverse o addirittura eterogenee quanto a disvalore, venendo cosi' ad integrare un vizio classico di deficit di determinatezza, quello per eccessiva onnicomprensivita' della realta' rappresentata (cfr. circolare Presidenza del Consiglio dei Ministri cit., 18). Insomma il "tipo" individuato dall'art. 341 c.p. non risulta espressivo di un omogeneo contenuto di disvalore. La spiegazione del perche' cio' sia accaduto e' ancora una volta storica e riposa sull'osservazione che, come e' noto, il legislatore nell'elaborare le norme compie un procedimento di astrazione dagli oggetti della realta' sensibile, tutti in quanto tali diversi tra loro, in base al quale sono apprezzate le somiglianze e trascurate le differenze sino ad ottenere una classe di oggetti ritenuti sostanzialmente "uguali" e riconducibili nel significato concettuale espresso dal segno linguistico. Cio' che pero' orienta questo processo sono scelte di valore, sicche' diverse scelte di valore comportano generalmente esiti diversi. Nel caso di specie l'elaborazione della norma e' avvenuta, nel 1930, su di una scelta di valore, fondata sul principio di autorita', nel cui ambito il reato e' effettivamente in grado di esprimere un contenuto di disvalore del tutto omogeneo. Invece una volta che la scelta di valore viene cambiata, perche' cio' e' imposto dall'avvento della Costituzione, l'estensione della norma, rimasta invariata, non puo' non destare fondate perplessita' di legittimita' costituzionale, perche' a questo punto si realizza quella insopportabile sfasatura tra la realta' significata e i contenuti valutativi sottesi alla fattispecie, nella quale consiste la ragione piu' profonda della violazione dell'art. 25, comma secondo, della Costituzione e, sotto il profilo della ragionevolezza, dell'art. 3 Costituzione. In sostanza il significato concettuale, espresso dalla formula di cui all'art. 341 c.p., privato di cio' che efficacemente e' stata chiamata l'"anima valutativa" sua propria (il principio di autorita'), e' divenuto vuoto, finendo per distribuire pene obbligatoriamente detentive senza alcuna razionale giustificazione o, perlomeno, in casi largamente sovrabbondanti rispetto a quanto imporrebbero le nuove ratio di tutela costituzionalmente imposte. Cio', naturalmente, comporta la necessita' di superare la tradizionale diffidenza verso il principio di tassativita', riconoscendo la sua violazione non solo quando i limiti "esterni" della fattispecie siano indeterminati, cosi' da rendere incerti i confini tra lecito ed illecito, ma anche quando e' la stessa fattispecie al suo interno a risultare indeterminata, perche' espressiva di contenuti eterogenei, rispetto al bene giuridico protetto e/o alle finalita' di tutela. Del resto si tratta di un passaggio che la Corte costituzionale ha gia' adombrato nel momento in cui ha dichiarato l'incostituzionalita' dell'art. 708 c.p., riscontrando un deficit di tassativita' non in via assoluta ma perche' strumento ottocentesco di difesa sociale del tutto inadeguato rispetto alle finalita' di tutela, anche in relazione alle mutate condizioni sociali, e, in quanto tale, irragionevole a norma dell'art. 3 Costituzione (sentenza 17 ottobre-2 novembre 1996 n. 370). Ne' il vizio e' sanabile in via interpretativa, perche' l'adeguamento della fattispecie alla Costituzione, utilizzando il criterio teleologico, incontra, come gia' si e' visto, precisi limiti e si deve pertanto arrestare allo stadio in cui la formula legislativa si mostri impermeabile al mutamento di prospettiva della tutela. Infatti il compito di una selezione delle condotte meritevoli della maggiore, rispetto al reato di ingiuria, tutela di cui all'art. 341 c.p., nella misura in cui impone la scelta su diverse opzioni di politica criminale, spetta necessariamente al legislatore, restando precluso all'interprete, perche', altrimenti, si finirebbe col legittimare ed imporre quella "supplenza dei giudici" tanto stigmatizzata, e a ragione, da piu' parti, con conseguente violazione della riserva di legge in materia penale. Da questo punto di vista la "delimitazione" della fattispecie che si puo' ottenere in via interpretativa e' molto modesta e comunque tale da non spostare in modo apprezzabile i termini della questione di legittimita' costituzionale. Ai passi gia' compiuti in questa direzione dalla giurisprudenza (con il progressivo abbandono della tesi del dolo in re ipsa e della tesi che equipara esercizio delle funzioni con l'essere il pubblico ufficiale "in servizio"), si puo' forse aggiungere la valorizzazione dell'elemento della presenza finalizzata alla necessita', ai fini dell'integrazione del reato, dell'effettiva percezione dell'offesa da parte del pubblico ufficiale ed una maggiore estensione delle cause di giustificazione, e, in particolare, della reazione legittima agli arbitrari del p.u. D'altra parte va ricordato che il principio di determinatezza, analogamente al divieto di analogia in malam partem, si pone come garanzia a salvaguardia degli eccessi del potere giudiziario, e la sua violazione comporta tipicamente la necessita' di operazioni interpretative dirette a meglio delimitare il contenuto normativo della disposizione senza che pero' siano offerte sufficienti indicazioni da parte del segno linguistico (circolare Presidenza del Consiglio dei Ministri cit., 19), scadendo in un'opera interpretativa necessariamente intuitiva, variabile da interprete ad interprete a seconda della sensibilita' e delle inclinazioni ideologiche di ciascuno. Neppure e' possibile richiamarsi alla discrezionalita' riservata al giudice in sede di applicazione della pena tra il minimo ed il massimo a norma dell'art. 133 c.p., affermando cioe' che spetta al giudice individuare i casi piu' lievi, perche' coinvolgenti il solo bene dell'onore del singolo p.u., da punire col minimo della pena, differenziandoli dai casi piu' gravi, perche' offensivi anche del bene del prestigio o del buon andamento della p.a., meritevoli di una pena piu' severa, magari sottolineando che e' proprio l'ampia forbice editale conseguente alla sentenza n. 341/1994 che consente di ricondurre in uno stesso modello di genere una pluralita' di sotto - fattispecie diverse per struttura e disvalore. In particolare non potrebbe essere a tal fine citato come precedente la sentenza della Corte costituzionale 23 maggio-18 giugno 1991 n. 285 per almeno tre ragioni. In primo luogo in quella occasione la questione di legittimita' costituzionale era stata sollevata con esclusivo riferimento all'art. 3, della Costituzione, sotto il profilo dell'ingiustificata parificazione di trattamento di ipotesi diversificate, mentre in questi casi assume preminente rilievo piuttosto l'art. 25, secondo comma, Costituzione. In secondo luogo in quel caso la normativa ordinaria denunziata poteva avvalersi di una attenuante ad effetto speciale (art. 5 legge 2 ottobre 1967 n. 895) che consente una riduzione della pena sino a due terzi, permettendo di differenziare le diverse ipotesi e la Corte costituzionale, nel respingere la questione, ha sottolineato con forza l'importanza di questo elemento. In terzo luogo in quella occasione mancava una fattispecie che potesse assumersi come termine di paragone, mentre in questa sede non puo' sfuggire che la medesima strada interpretativa diviene impraticabile proprio per la naturale vocazione dell'art. 594 c.p. a porsi come tertium paragonis. Infatti una volta ammesso che i "casi lievi" in nulla si distinguono dalle ipotesi punite a norma dell'art. 594 c.p. (e art. 61 n. 10 c.p.) non sembra possibile giustificare razionalmente una diversa disciplina. Insomma la disomogeneita' e' gia' a livello astratto e ad essa non puo' porsi rimedio mediante le valutazioni che, sul piano concreto, il giudice deve compiere ai fini della determinazione in concreto della pena, perche' e' lo stesso trattamento punitivo minimo di cui all'art. 341 c.p., a risultare sproporzionato e, in confronto con l'art. 594 c.p., irragionevole per la mancata previsione della pena pecuniaria (e dell'intera disciplina propria dell'art. 594 c.p., compresa la procedibilita'). D'altra parte non va neppure dimenticato che la riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma della Costituzione si riferisce anche alla pena e deve pertanto ritenersi violata dalla previsione di fattispecie "ad amplissimo spettro" con forbici edittali tanto ampie da far scivolare la discrezionalita' del giudice nella determinazione della pena nell'arbitrio punitivo. Anche in tal caso infatti si affida - si potrebbe dire sulla base di una sorta di delega in bianco nelle scelte punitive - al giudice l'individuazione, gia' a livello astratto, della gravita' del fatto, smarrendo la "significativita'" del tipo e la funzione di guida della norma penale, nonche' confondendo il piano della quantificazione del disvalore del fatto sulla base di ragionevoli scelte di valore, riservato al legislatore, col piano della commisurazione della pena, in relazione alle infinite variabili del caso concreto, di pertinenza del giudice. La stessa Corte costituzionale, nella sentenza sopra citata, non ha mancato di ribadire che l'individuazione del disvalore oggettivo dei fatti - reato tipici, e quindi del loro diverso grado di offensivita', spetta al legislatore; mentre al giudice compete di valutare le particolarita' del caso singolo onde individualizzare la pena, stabilendo in base ad esse, nella cornice posta dai limiti edittali, quella adeguata in concreto. Poiche' gli ambiti delle due sfere non vanno confusi, e' compito del legislatore di rispettare quel rapporto attraverso un'adeguata articolazione dei trattamenti sanzionatori. Non solo ma la stessa Corte costituzionale non ha esitato dal dichiarare incostituzionale una norma incriminatrice, sulla base degli stessi rilievi, in presenza di un divario eccessivo tra minimo e massimo di pena (da due a 24 anni di reclusione, con un rapporto di 1 a 12), di una questione sollevata in relazione all'art. 25, secondo comma della Costituzione e di una diversa norma incriminatrice piu' generale alla quale le condotte previste dalla norma dichiarata incostituzionale potessero essere ricondotte, funzione che, nel caso di specie, e' svolta agevolmente dall'art. 594 c.p. (sentenza 15-24 giungo 1992, n. 299). Da questo punto di vista e' la stessa ampia forbice editale prevista dall'art. 341 c.p., a seguito della sentenza n. 341/1994, che va da 15 giorni a 2 anni di reclusione (con un rapporto da 1 a 48) a destare serie perplessita' sotto il profilo della legittimita' costituzionale della norma, anche se non puo' condividersi l'autorevole critica alla sentenza n. 341/1994 che e' argomentata sulla base di questo elemento. Infatti non va dimenticato, da un lato, che quella forbice tanto ampia e' una mera conseguenza tecnica, fondata sull'art. 23 c.p., di una pronuncia di incostituzionalita' che ha posto rimedio ad un vizio assai piu' grave, non costituendo pertanto il risultato di un'autentica scelta politico-criminale, interdetta anche alla Corte costituzionale (art. 28 legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87), bensi' dell'inerzia del legislatore, dall'altro ch'essa non e' che la seconda faccia della medaglia, mentre la prima e' costituita dalla struttura del reato. Con cio' si vuol dire che e' del tutto naturale che ad una fattispecie "ad amplissimo spettro" corrisponda un divario tra pena minima e massima assai ampio, proprio perche' diverse ed eterogenee sono le condotte ad essa riconducibili. Ma la conclusione e' che cio' dovrebbe consigliare di ritenere incostituzionale l'intera disciplina, piuttosto che ad escludere interventi, pur possibili e talvolta imposti dai limiti entro i quali viene sollevata la questione di legittimita' costituzionale, limitati alla quantificazione della pena. 11. - Ultimo profilo di illegittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., nel suo complesso, che va evidenziato e' il principio del buon andamento della p.a. di cui all'art. 97 della Costituzione, che potrebbe apparire paradossale se si pensa che il medesimo principio e' generalmente individuato come il fine dell'incriminazione, se non addirittura come il bene giuridico protetto. Tuttavia a ben vedere cio' non deve sorprendere perche' i fini di politica criminale impongono l'adozione di strumenti congruenti con essi e non di strumenti assolutamente sproporzionati e sovrabbondanti, come si mostra l'art. 341 c.p., perche' altrimenti lo strumento predisposto rischia di tradursi in un elemento controproducente. Del resto non costituisce una novita' l'effetto criminogeno delle pene sproporzionate, che innescano meccanismi di rivolta in coloro che subiscono la punizione e di solidarieta' tra i consociati, in palese contrasto con la funzione preventiva della pena, sia sul piano speciale che generale. Ora, la prassi mostra come l'incriminazione indiscriminata delle condotte descritte dall'art. 341 c.p. non risulti il piu' delle volte per nulla funzionale all'efficienza delle stesse amministrazioni di appartenenza del singolo p.u. offeso, obbligato a denunziare il fatto a norma dell'art. 361 c.p., ad assentarsi dal suo ufficio per presentarsi a rendere testimonianza anche a distanza di anni, magari affrontando viaggi notevoli a seguito di trasferimenti successivi al fatto, con correlativo dispiegamento di tutta un'attivita' burocratica, prima ancora che giudiziaria, del tutto sproporzionata alla scarsissima rilevanza del disvalore sociale (sotto il profilo dell'interesse pubblicistico del prestigio o del buon andamento della p.a.) riscontrabile in simili fatti, con un bilancio, in termini di analisi costi/benefici, gravemente deficitario anche dal punto di vista della p.a. stessa. Non solo, ma si deve peraltro precisare che una simile rigidita' di reazione da parte dei p.u., imposta per legge, avverso comportamenti certo disdicevoli ed anche penalmente illeciti, sotto il profilo dell'offesa all'onore del singolo p.u. in quanto uomo, ma che la coscienza sociale stenta del tutto a riconoscere come qualificati da una quota aggiuntiva di disvalore, finisce proprio con l'inficiare quella "fiducia" dei consociati nella p.a. che, come si e' visto, e' essenziale per un corretto svolgimento delle funzioni pubbliche secondo il modello di p.a. accolto dalla Costituzione, finendo per porsi come fattore di "estraneita'" e di "distanza" tra p.a. e cittadino. Un discorso simile puo' essere svolto anche dal punto di vista dell'interesse dell'amministrazione giudiziaria, spesso impegnata a combattere con la prescrizione di reati di ben altra gravita', a non impegnare risorse assolutamente eccessive per fatti obiettivamente bagattellari, come lo stesso processo odierno testimonia esaurientemente. 12. - Venendo ai dubbi di legittimita' costituzionale "parziali" essi attengono alla mancata previsione, almeno per i casi di minore gravita', della pena pecuniaria, in alternativa alla pena detentiva, e dalla procedibilita' a querela di parte. Quanto alla mancata previsione della pena pecuniaria, viene in considerazione, oltre al principio di uguaglianza sotto il profilo del criterio di ragionevolezza ed in generale tutte le norme ed i principi costituzionali sopra evidenziati, soprattutto il principio di proporzione di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, nella sua versione che si potrebbe definire "classica" ossia come criterio di congruenza tra tipo e quantita' di pena e gravita' del fatto tipico. Nel caso di specie va osservato che la mancata previsione della pena pecuniaria comporta l'impossibilita' di adeguare il trattamento sanzionatorio all'effettivo disvalore del fatto in concreto commesso. E l'illegittimita' costituzionale di questa soluzione, almeno per i "casi piu' lievi", emerge ancora una volta dal raffronto col reato di ingiuria, sotto il profilo del criterio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione. D'altra parte se un simile raffronto, giustificato, come si e' visto, dal fatto che in questi casi entrambe le fattispecie tendono a tutelare il medesimo bene giuridico, senza apprezzabili differenze, porta a considerare irragionevole una pena detentiva superiore di dodici volte nel limite minimo (sentenza n. 314/1994 cit.), a fortiori si puo' ritenere incostituzionale la mancata previsione della pena pecuniaria, in alternativa alla pena detentiva, prevista invece dall'art. 594 c.p. Non si deve infatti dimenticare che la previsione della sola pena detentiva va limitata alle sole ipotesi in cui la gravita' dell'illecito sia particolarmente elevata, ed assolutamente indispensabile il ricorso alla detenzione, mentre le sperequazioni punitive tra ipotesi di reato comparabili, per relativa omogeneita' di contenuto offensivo, in ordine alla qualita' prima ancora che alla quantificazione della pena, finiscono con l'incidere negativamente sulla funzione di prevenzione generale, perche' denunciano casualita' ed eccentricita' dell'incriminazione (circolare Presidenza del Consiglio dei Ministri, cit., 16, 6.2). Si e' peraltro gia' osservato che la previsione di una pena pecuniaria modifica il giudizio sulla proporzione della pena, in termini generali, rispetto alla gravita' del fatto - reato, venendo ad incidere sul bene fondamentale della liberta' personale (art. 13 della Costituzione) solo in via eventuale ed in minor misura (attraverso la sostituzione in liberta' controllata o lavoro sostitutivo). Infine il problema dell'individuazione dei limiti edittali della pena pecuniaria, conseguenti ad un'eventuale dichiarazione di incostituzionalita' della norma, limitata a questo aspetto, puo' agevolmente essere risolto mediante il riferimento o ai limiti generali di cui all'art. 24 c.p. oppure ai limiti previsti dall'art. 594 c.p., ossia previsti per il reato assunto come tertium paragonis, secondo una tecnica non nuova e seguita dalla stessa Corte costituzionale in un caso in cui l'omogeneita' strutturale tra le due fattispecie poste a confronto era certamente minore (sentenza n. 409/1989 cit.). 13. - In ordine alla procedibilita', non nuovo e' il dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., sotto il profilo di una disparita' di trattamento, questa volta ai danni dei pubblici ufficiali, in quanto discriminati, rispetto ai comuni cittadini, perche' privati del potere di proporre, come anche di non proporre, nonche' di rimettere, la querela a tutela della propria onorabilita' (cfr. pret. Prato 15 gennaio 1975 in Giur. Cost. 1975, 1732, la relativa questione, sollevata con esclusivo riferimento all'art. 3 della Costituzione, e' stata respinta dalla sentenza 2-14 aprile 1980, n. 51). In questa sede la questione deve essere riproposta, anche in riferimento all'art. 97 della Costituzione e, soprattutto, all'art. 25 secondo comma, della Costituzione sia sulla base di tutto quanto gia' si e' detto in ordine all'obiettivita' giuridica del reato, sia cercando di svelare i nessi tra funzione della procedibilita' a querela e natura del bene protetto dall'art. 594 c.p., in rapporto col principio di determinatezza. Sotto il primo profilo bastera' ricordare come l'originaria configurazione del reato concepisse la tutela dell'onore del singolo p.u. come semplice "mezzo" per perseguire un fine di piu' ampia portata, ossia il principio di autorita', sicche' veniva imposta una correlazione necessaria tra lesione del bene personale dell'onore del singolo p.u. e dimensione pubblicistica dell'offesa, con una soluzione non priva, una volta accolta la scelta di valore che vi era sottesa, di una certa coerenza, perche' innegabile e' la congruenza con quel fine dello strumento apprestato. Ma, come si e' visto, una simile congruenza inevitabilmente svanisce una volta mutata la prospettiva di tutela mediante l'adozione delle finalita' del prestigio o del buon andamento della p.a., in luogo di quella originaria, come imposto dalle scelte di valore fatte proprie dalla Costituzione, perche' a questo punto e' la stessa estensione della fattispecie a non trovare piu' valida giustificazione, tanto da far apparire lo strumento di cui all'art. 341 c.p. come palesemente incongruo rispetto a quei fini, anche in riferimento al nuovo modello di p.a. delineato dalla Costituzione. Si tratta di una conclusione che puo' trovare conferma dai rilievi che seguono, attinenti alla procedibilita'. Infatti si deve osservare che il significato della procedibilita' della querela per i reati di ingiuria e diffamazione (art. 597 c.p.) va ricercato nell'individualita', si potrebbe dire "intimita'" del bene giuridico protetto dell'onore, quale diritto della personalita' di ciascun uomo in quanto tale, in se' e per se' considerato, e nell'obiettiva scarsa gravita' che spesso queste condotte, sotto il profilo dell'interesse statuale al mantenimento dell'ordine sociale, assumono. Con cio' si vuol dire che si tratta di condotte che tipicamente si originano nell'ambito di conflitti inter-personali, coinvolgenti una dimensione prima di tutto, per cosi' dire, "privatistica", che spesso trovano un adeguato componimento nel medesimo rapporto, mediante ad es., presentazione di scuse o risarcimento dei danni, sicche' appare oltre modo opportuno limitare l'intervento punitivo dello Stato al caso di presentazione di querela anche al fine, mediante l'istituto della remissione, di favorire componimenti in via bonaria. Inoltre la funzione della querela, in stretta correlazione con il principio di determinatezza di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, consiste anche nel selezionare le condotte realmente offensive, in modo da arginare il rischio che l'azione penale sia promossa in relazione ad un'infinita' di fatti bagattellari, con evidente pregiudizio di un'efficiente amministrazione della giustizia. Ebbene nel caso dell'oltraggio a p.u., attraverso la procedibilita' d'ufficio, si viene a realizzare una sorta di "sacrificio" o di "strumentalizzazione", di un bene specificatamente personale, quale l'onore del singolo p.u., in funzione del perseguimento di una finalita' pubblicistica trascendente l'interesse della persona fisica, che tuttavia si risolve alternativamente o in una scelta credibile ma di per se' manifestamente in contrasto con la Costituzione (principio di autorita'), ovvero in una scelta di per se' conforme alla Costituzione (buon andamento della p.a.), ma che non trova alcun riscontro nella struttura del reato, essendo il collegamento con la pubblica funzione tanto generico da risultare evanescente. Vi e' allora da chiedersi se sia razionalmente giustificabile il sacrificio imposto ai p.u., privati del potere di tutelare autonomamente un bene della loro personalita' ed anzi gravati dell'obbligo di presentare denunzia, da una tutela "pubblicistica", priva in realta' di concreti elementi di riscontro normativo. O non sia piuttosto preferibile, e costituzionalmente imposto, selezionare, dal punto di vista tipologico, quelle condotte la cui punizione sia effettivamente funzionale alle finalita' del prestigio e/o del buon andamento della p.a. e lasciare alla libera decisione del singolo p.u. la tutela dei beni propri della sua personalita', mediante l'esercizio del potere di proporre querela, nei casi in cui ad essere offesi sono esclusivamente quei beni, senza alcuna possibilita' di coinvolgimento di quelle finalita'. L'attuale disciplina, come e' evidente, incide anche pesantemente sul buon andamento della p.a. in generale e dell'amministrazione giudiziaria in particolare, imponendo da un lato l'obbligo della denunzia al p.u. e, dall'altro l'obbligo dell'esercizio dell'azione penale (art. 112 della Costituzione) in ordine a tutti i casi, anche quelli obiettivamente bagattellari ed in cui il p.u. non si sia sentito offeso (e non avrebbe pertanto presentato querela) o abbia ricevuto tutte le scuse del caso (e avrebbe pertanto presumibilmente rimesso la querela). 14. - Dimostrata la non manifesta infondatezza di tutte le questioni di legittimita' costituzionali sopra indicate, la loro rilevanza nel presente processo emerge in tutta evidenza, perche' l'accoglimento di una sola delle questioni medesime comporterebbe, in luogo di un'ipotetica sentenza di condanna a pena detentiva, senza la possibilita' di concedere i benefici della sospensione condizionale della pena o della sostituzione in pena pecuniaria, per via dei precedenti dell'imputato, a seconda dei casi, una sentenza di condanna ad una pena eventualmente solo pecuniaria oppure una sentenza di non doversi procedere (art. 529 c.p.p.), per mancanza della condizione di procedibilita' della querela, previa, eventualmente, una diversa qualificazione dei fatti contestati (la dichiarazione di incostituzionalita' dell'intero art. 341 c.p. comporterebbe infatti la riconduzione all'art. 594 c.p. delle condotte da esso punite).