LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso  la seguente ordinanza nel giudizio d'appello a carico
di  Pittui  Chiara  Maria,  nata  a  Sassari  il  21 maggio 1981, ivi
residente  in  Via  Sieni  n. 2,  imputata  del  reato  p. e p. dagli
artt. 81  cpv.  c.p. e 73, quarto comma, decreto del Presidente della
Repubblica n. 309/1990 per avere, in concorso con Urgias Eliano e con
piu'  azioni  esecutive del medesimo disegno criminoso, illecitamente
detenuto,  fuori  delle ipotesi di cui all' art. 75 stesso decreto ed
in parte ceduto ad alcuni giovani grammi 37 circa di hashish.
    In Sassari il 15 febbraio 2001.
    Considerato  che, con sentenza n. 460/02 del Tribunale di Sassari
Pittui  Maria  Chiara  e' stata assolta dal reati a lei contestato, e
rilevato  che  contro  questa  decisione  ha  interposto  appello  il
procuratore generale che ha chiesto l'affermazione di responsabilita'
dell'imputata e la sua condanna a pena di giustizia;
    Rilevato,   altresi',   che  in  udienza  il  p.g.  ha  osservato
(richiamando  integralmente  il  contenuto di memoria scritta) che, a
seguito  della entrata in vigore della legge 20 febbraio 2006, n. 46,
applicabile,  a  norma dell'art. 10 di essa, anche ai procedimenti in
corso,   il   proposto   gravame   dovrebbe   essere,  con  ordinanza
inoppugnabile  giusta  l'art. 10.2  della  legge  citata,  dichiarato
inammissibile avendo l'art. 1 della medesima legge reso inappellabili
le  sentenze  di  assoluzione,  e  che  tuttavia, essendo ravvisabile
contrasto fra gli articoli 1, 2, 10 e 12 della legge n. 46/2006 e gli
artt. 3  e  111  della  Costituzione, la corte dovrebbe rimettere gli
atti alla Corte costituzionale;
    Sentito il difensore dell'appellata,

                            O s s e r v a

    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non   manifestamente  infondati:  l'art. 111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo  principio, nella previsione costituzionale, non
soffie  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito  dal  medesimo  articolo  111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze   di   proscioglimento  con  lo  stesso  mezzo  riconosciuto
all'imputato  avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione
nel   sistema   delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole
disparita'  di  trattamento che contrasta con il richiamato principio
della parita' delle parti nello svolgimento del processo.
    Giustamente  ha  poi  osservato  il p.g. che questo enunciato non
confligge   con   le   ripetute   pronunce   negative   della   corte
costituzionale  chiamata  ad  esprimersi  sulle limitazioni al potere
d'appello  del  pubblico  ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p.,
essendo    le    disparita'    derivanti   da   questa   disposizione
ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con
il  ricorso  al  rito  abbreviato  e delle peculiarita' di questo. Il
risultato  e'  quello  della  rapida  definizione dei processi penali
conseguita  attraverso  la decisione del processo solo sulla base del
materiale   probatorio   raccolto  dalla  parte  pubblica  fuori  del
contraddittorio,    e   pertanto   con   una   correlativa   rinuncia
dell'imputato  ad  intervenire  nel delicato momento della formazione
della  prova,  in  vista  del miglior trattamento sanzionatorio a lui
riservato  in caso di affermazione di responsabilita'. E tuttavia, se
in  un  quadro  siffatto e' parso ragionevole limitare la facolta' di
impugnazione  del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna
(e   pertanto   in   relazione   alla  quantificazione  della  pena),
altrettanto  non  pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze
di  assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante
il  perdurante  interesse della parte pubblica all'accertamento della
verita'   (e   quindi   della   responsabilita'   dell'imputato   che
dall'acclaramento  della verita' possa risultare), come d'altro canto
dimostra  il  fatto  che  e'  stata conservata al p.m. la facolta' di
appellarsi contro le sentenze ` di condanna che modifichino il titolo
del  reato.  A  proposito  del generale interesse del p.m. a proporre
appello   contro   le  sentenze  di  proscioglimento  conserva  piena
validita'  il  richiamo  contenuto nel messaggio del Presidente della
Repubblica  alle  Camere  la'  dove  si  osserva che «la soppressione
dell'appello  delle  sentenze  di  proscioglimento  ... fa si' che la
stessa  posizione  delle  parti  nel  processo  venga ad assumere una
condizione  di  disparita'  che  supera  quella  compatibile  con  la
diversita'  delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le
asimmetrie  tra  accusa  e  difesa costituzionalmente compatibili non
devono   mai   travalicare   i   limiti  fissati  dal  secondo  comma
dell'art. 111 della Costituzione».
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
procuratore generale in risposta alle obbiezioni che potrebbero farsi
alla  sua  tesi  e  secondo  le  quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di accoglimento del ricorso
per  cassazione  proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il
processo   ritornera'   in  primo  grado  con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato.  Il  principio di non colpevolezza implica soltanto il
fatto  che  le conseguenze pratiche della condanna possano discendere
solo  dalla sentenza definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da
esso  circa  l'iter  per  il  quale  si debba pervenire al giudicato.
Quello per il quale la colpevolezza puo' essere affermata solo quando
sia  provata  oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in questo
caso,  un  principio di lettura equivoca, posto che se si sostiene la
inappellabilita'  della  sentenza  con  la  quale  un  giudice  abbia
pronunciato  assoluzione  poiche' l'eventuale successiva condanna non
potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe
altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un
giudizio  d'appello  contro una sentenza di condanna che, ad esito di
un  processo  celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe
pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che  dimostrino  con la stessa
sicurezza la colpevolezza.
    Che   poi  l'esclusione  dell'appellabilita'  delle  sentenze  di
proscioglimento   da   parte   della  accusa  pubblica  sia  coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  procuratore generale osservandosi che insopprimibile
funzione  del  processo  penale  e'  quello  dell'accertamento  della
verita',  e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei,
piu'  che  giusti,  diritti  della  difesa  da  far  valere  tuttavia
nell'ambito del processo e non nel senso che il confronto fra le tesi
debba  essere  evitato  (in  altri termini deve potersi esercitare la
difesa  nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che nel
giudizio   d'appello   l'imputato   debba   poi   godere   del  pieno
dispiegamento  dei diritti che la legge giustamente gli riconosce: ma
non  si  vede  in  che  cosa  la  celebrazione  del secondo grado del
giudizio di merito, sia pure ad istanza del p.m., possa compromettere
il  diritto  di  difesa  (diverso  sarebbe  se  ci  si  appellasse al
principio  del  «favor  rei»,  che pero' vale nei soli casi in cui la
legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato ncompreso
fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa
corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle
disposizioni  denunciate  rispetto  all'art. 111  (ed anche, a questo
punto,  all'art. 3)  della Costituzione apparira' ancor piu' evidente
quando  si  osservi  che  nella  stesura  definitiva  della  legge 20
febbraio  2006  n. 46 alla parte civile e' stato invece conservato il
diritto d'appello avverso le sentenze di assoluzione (la genesi della
locuzione   del   secondo   periodo   dell'art. 576   c.p.p.   alinea
nell'attuale  formulazione,  unita  alla  mancata  previsione  di una
disciplina  transitoria  per i pregressi appelli della parte civile -
significativamente  prevista,  invece, per quelli dell'imputato e del
p.m.  dall'art. 10  della  novella  - persuade che l'impugnazione ivi
menzionata  consista  nell'appello).  Si deve constatare pertanto che
alla parte pubblica, portatrice degli interessi rilevantissimi su cui
si  tornera'  tra  breve,  e'  stato  del  tutto  ingiustificatamente
riservato  un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto che alle parti
private  e  questo  dato, indubitabile, non puo' che far risaltare in
maniera ancor piu' evidente il vulnus subito, per effetto delle norme
che  vengono  sottoposte  al giudice delle leggi, dal principio della
parita' delle parti.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono,
in  uno  Stato  di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre
parti,  compreso  l'imputato  (ed  in  realta',  per quanto le ultime
riforme  in  materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il
riequilibrio  della  posizione  dell'imputato  rispetto  a quella del
p.m.,  mai  l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione
di  questo  era  stata  reputata sottovalente rispetto a quella degli
interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al
pubblico  ministero  il  potere  di  appellarsi contro le sentenze di
assoluzione  o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa
l'attuazione  della  ricerca  della verita' e, quindi dell'istanza di
giustizia  propria  della  collettivita',  istanza che e' addirittura
pregiuridica,   posto  che  su  di  essa  si  basa  qualsiasi  civile
convivenza  nella  quale  si  voglia  evitare  che i consociati siano
tentati di ricorrere a forme private di giustizia. Di questo primario
interesse   della   collettivita'   e'   espressione   la  previsione
dell'art. 112 della Costituzione e, in definitiva, anche quella circa
l'emenda  del  condannato  sancita dal comma terzo dell'art. 27 della
stessa  Costituzione: dalla lettura coordinata di queste due norme si
ricava  che  l'ufficio  del  p.m. (parte pubblica, e quindi tenuta al
rispetto di comportamenti ispirati a massima correttezza e moralita',
oltre  che  onerata  anche  della  ricerca  degli elementi favorevoli
all'imputato) non e' quello di ottuso persecutore degli incolpati, ma
di soggetto che persegue il compito, della cui primaria importanza si
e'  detto,  di  far si' che i soggetti devianti vengano recuperati ad
una  convivenza  civile  e  ordinata. E menomare i mezzi attraverso i
quali  l'azione del p.m., nel rispetto del principio di parita' delle
parti,  si  deve  esplicare  significa  in  definitiva  legiferare in
contrasto,   anche,   con   le   due  previsioni  costituzionali  ora
richiamate.
    La  Corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della  questione  di legittimita' costituzionale sollevata dal p.g. e
ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio  l'ulteriore  questione di
legittimita'   costituzionale   sopra   illustrata,  riconosciuta  la
impossibilita'  di  addivenire alla decisione del processo sottoposto
al  suo  giudizio  indipendentemente  dalla risoluzione delle cennate
questioni  (l'applicazione delle norme denunciate impedirebbe infatti
la  definizione  del  processo  con  il  possibile ribaltamento della
decisione  di  primo  grado  e la condanna dell'imputata), dispone la
trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale sospendendo il
giudizio in corso.