LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza nel giudizio in grado d'appello, su impugnazione del pubblico ministero c/o il Tribunale di Tempio Pausania, a carico di Cosseddu Salvatore, nato a Sassari il 10 ottobre 1936 res. Olbia, via Del Cisto, n. 24; assolto perche' il fatto non costituisce reato con sentenza n. 758 del 10 dicembre 2003 del Tribunale di Tempio P. Sezione Distaccata di Olbia; imputato dal reato di cui all'art. 589, primo e secondo comma c.p. perche', messosi alla guida dell'autovettura «Jeep Cherokee» targata AA594JF con a bordo Deiana Giovanni Maria, percorrendo la S.S. 199 verso Sassari, giunto in prossimita' del viadotto ubicato al Km 45 circa, per colpa, consistita nel non moderare la velocita' nonostante sul viadotto l'asfalto fosse ghiacciato, perdeva il controllo dell'autovettura, sbandava sulla propria sinistra invadendo l'opposta corsia di marcia, quindi urtava vari veicoli e il guardrail, in modo tale che il passeggero Deiana Giovanni Maria, in conseguenza dei ripetuti urti, riportava una contusione rachide cervico-dorsale con lussazione C6 su C7, trauma cranico, ferite lacero contuse al viso e decedeva a causa di scompenso cardiaco acuto trombo embolia massiva dell'arteria polmonare. Con l'aggravante di avere commesso il fatto in violazione dell'art. 114, primo comma c. d. s. per non avere tempestivamente moderato la velocita' di marcia nonostante l'asfalto ghiacciato. Comm. in Olbia l'8 dicembre 1998 (incidente stradale del 22 novembre 1998). Sentito nella odierna udienza il procuratore generale che ha insistito sulla questione di legittimita' costituzionale in relazione agli artt. 1, 2 e 10 legge 20 febbraio 2006, n. 64, ritenuti in contrasto con gli artt. 3, 27, 111 e 112 della Costituzione sollevata con la memoria depositata in atti in vista dell'udienza del 31 marzo 2006; Sentito il difensore del Cosseddu che, anche a mezzo di memoria depositata nell'imminenza dell'udienza odierna sostiene la manifesta infondatezza della questione sollevata con le osservazioni di cui si dara' conto; O s s e r v a Il p.g. ha rilevato che, a seguito della entrata in vigore della legge 20 febbraio 2006, n. 46, applicabile, a norma dell'art. 10 di essa, anche ai procedimenti in corso, il gravame del Procuratore della Repubblica dovrebbe essere, con ordinanza inoppugnabile giusta l'art. 10.2 della legge citata, dichiarato inammissibile avendo l'art. 1 della medesima legge reso inappellabili le sentenze di proscioglimento, salvo che per i casi previsti dal secondo comma dell'art. 593 c.p.p. come novellato dalla medesima legge, e che tuttavia, essendo ravvisabile contrasto fra gli articoli 1, 2 e 10 della legge n. 46/2006 e gli artt. 3 e 111 della Costituzione, la Corte dovrebbe rimettere gli atti alla Corte costituzionale. I profili di incostituzionalita' proposti dal procuratore generale sono non manifestamente infondati: l'art. 111 della Costituzione garantisce il principio della parita' delle parti nel processo, e questo principio, nella, previsione costituzionale, non soffre di eccezioni di sorta (come invece puo' avvenire per altri principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio pure stabilito dal medesimo articolo 111). L'esclusione della possibilita' che il pubblico ministero possa gravarsi contro le sentenze di proscioglimento con lo stesso mezzo riconosciuto all'imputato avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione nel sistema delle impugnazioni di una evidente irragionevole disparita' di trattamento che contrasta con il richiamato principio della parita' delle parti nello svolgimento del processo. Giustamente ha poi osservato il p.g. che questo enunciato non confligge con le ripetute pronunce negative rese dalla Corte costituzionale chiamata ad esprimersi sulle limitazioni al potere d'appello del pubblico ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p., essendo le disparita' derivanti da questa disposizione ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con il ricorso al rito abbreviato e delle peculiarita' di questo. Il risultato sarebbe quello della rapida definizione dei processi penali conseguita attraverso la decisione del processo solo sulla base del materiale probatorio raccolto dalla parte pubblica fuori del contraddittorio, e pertanto con una correlativa rinuncia dell'imputato, in vista del miglior trattamento sanzionatorio a lui riservato in caso di affermazione di responsabilita', ad intervenire nel delicato momento della formazione della prova. E' tuttavia, se in un quadro siffatto e' parso ragionevole limitare la facolta' di impugnazione del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna (e pertanto in relazione alla quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante il perdurante interesse della parte pubblica all'accertamento della verita' (e quindi della responsabilita' dell'imputato che dall'acclaramento della verita' possa risultare), come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata conservata al p.m. la facolta' di appellarsi contro le sentenze di condanna che modifichino il titolo del reato. A proposito dei generale interesse del p.m. a proporre appello contro le sentenza di proscioglimento conserva piena validita' il richiamo contenuto nel messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere, la' dove si osserva che «la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento ... fa si' che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibile con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non devono mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione». Degne di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal procuratore generale in risposta alle obbiezioni che potrebbero farsi alla sua tesi e secondo le quali la soppressione della facolta' d'appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento risponderebbe ad esigenze di celerita' del processo, e sarebbe per altro verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o con il precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni giustamente si e' ricordato che le esigenze di celerita' non hanno impedito la conservazione della facolta' di cui all'art. 443.3 c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita' ad essere sacrificate quando, nel caso non infrequente di accoglimento del ricorso per cassazione proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il processo ritornera' in primo grado con la prospettiva della celebrazione (anche) del giudizio d'appello in caso di condanna dell'imputato. Il principio di non colpevolezza implica soltanto il fatto che le conseguenze pratiche della condanna possano discendere solo dalla sentenza definitiva, e nessuna indicazione puo' trarsi da esso circa l'iter per il quale si debba pervenire al giudicato. Quello per il quale la colpevolezza puo' essere affermata solo quando sia provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in questo caso, un principio di lettura equivoca, posto che ove si sostenga la inappellabilita' della sentenza con la quale un giudice abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna non potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad esito di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe pronunciata sulla scorta di prove che dimostrino con la stessa sicurezza la colpevolezza. Che poi l'esclusione della appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte della accusa pubblica sia coerente all'esplicazione dei diritti della difesa e' stato giustamente contestato dal procuratore generale osservandosi che insopprimibile funzione del processo penale e' quello dell'accertamento della verita', e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei diritti della difesa da far valere tuttavia nell'ambito del processo e non gia' nel senso che il confronto fra le tesi debba essere evitato (in altri termini deve potersi esercitare la difesa nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che nel giudizio d'appello l'imputato debba poi godere del pieno dispiegamento dei diritti che la legge gli riconosce: ma non si vede in che cosa la celebrazione del secondo grado del giudizio di merito, sia pure ad istanza del pubblico ministero, possa compromettere il diritto di difesa (diverso sarebbe se ci si appellasse al principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione). A tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle disposizioni denunciate rispetto all'art. 111 (ed anche, a questo punto, all'art. 3) della costituzione apparira' ancor piu' evidente quando si osservi che nella stesura definitiva della legge 20 febbraio 2006 n. 46 alla parte civile e' stato invece conservato il diritto d'appello avverso le sentenze di assoluzione (la genesi della locuzione del secondo periodo dell'art. 576 c.p.p. alinea nell'attuale formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata consista nell'appello). Si deve constatare pertanto che alla parte pubblica, portatrice degli interessi rilevantissimi su cui si tornera' tra breve, e' stato del tutto ingiustificatamente e irragionevolmente riservato un potere di' impugnazione piu' ridotto che alle parti private e questo dato, indubitabile, non puo' che far risaltare in maniera ancor piu' evidente il vulnus subito, per effetto delle norme che vengono sottoposte al giudice delle leggi, dal principio della parita' delle parti. Non sono tali da convincere della non manifesta infondatezza della questione sollevata dal p.g. le notazioni della difesa, che ha riproposto gli argomenti desumibili dalla gia' ricordata giurisprudenza della Corte costituzionale e del cui significato si e' gia' detto. Del tutto priva di rilevanza sembra poi l'osservazione secondo la quale nel sistema processuale italiano sarebbero ravvisabili anche asimmetrie di altro genere, essendo riservati al p.m. poteri dei quali le altre parti non possono disporre: a parte il rilievo circa la peculiarita' della posizione del pubblico ministero, sulla quale si tornera' fra breve, e quindi sulla necessita' di assicuragli i mezzi per l'attuazione dei suoi compiti, non deve sfuggire che, sopratutto a seguito della novella sulle investigazioni difensive, alle parti private siano oggi riconosciute facolta' per il pregresso negate, e che si sia ormai pervenuti ad una sostanziale parita' di mezzi processuali fra le parti. Ma cio' che in ogni caso deve essere chiaro e' che ad assicurare la parita' dei mezzi ben potrebbe il legislatore, ove ne ravvisi ancora l'esigenza, pervenire attraverso l'accesso delle parti private agli strumenti che siano fln'ora riservati alla parte pubblica, e non gia' mutilando quest'ultima di una importante facolta' riservata invece alle parti private (si ribadisce: la difesa deve essere esercitata nel processo e non gia' dal processo). Di nessun pregio e' l'osservazione secondo la quale ad esito di un giudizio di merito di secondo grado instaurato su appello del p.m. potrebbe pervenirsi alla condanna per la prima volta sulla base di un dibattimento solo cartolare e nel quale non sarebbe garantito il contraddittorio: non puo' sfuggire che la stessa doglianza potrebbe avanzare la parte pubblica nell'ipotesi di assoluzione in secondo grado, ma il fatto e' che, con tutta evidenza, il giudizio d'appello non consiste, almeno di norma, nella raccolta del materiale probatorio, che e' proprio il momento in cui si e' voluto che il principio del contraddittorio fosse garantito (art. 111.4 Cost.), ma nella sola interpretazione delle prove gia' raccolte e all'analisi critica dei risultati di esse. Chiaro che quel materiale deve essere stato raccolto nel rispetto dei diritti dell'accusato, ma non e' dato comprendere perche' si possa lamentare la mancanza del contraddittorio con riguardo al giudizio di merito di secondo grado, che ha, e non puo' che avere, carattere eminentemente valutativo. Oltre a tutto quanto sopra enunciato, partendo dalla constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono, in uno Stato di diritto, apprezzabili quanto quelli delle altre parti, compreso l'imputato (ed in realta', sebbene le ultime riforme in materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il riequilibrio della posizione dell'imputato rispetto a quella del p.m., mai l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione di questo era stata reputata sottovalente rispetto a quella degli interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al pubblico ministero il potere di appellarsi contro le sentenze di assoluzione o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa l'attuazione della ricerca della verita' e, quindi dell'istanza di giustizia propria della collettivita', istanza che e' addirittura pregiuridica, posto che su di essa si basa qualsiasi civile convivenza nella quale si voglia evitare che i consociati siano tentati di ricorrere a forme private di giustizia. Di questo primario interesse della collettivita' e' espressione la previsione dell'art. 112 della Costituzione e, in definitiva, anche quella circa l'emenda del condannato sancita dal comma terzo dell'art. 27 della stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di queste due norme si ricava che ufficio del pubblico ministero (parte pubblica, e quindi tenuta al rispetto di comportamenti ispirati a massima correttezza e moralita', oltre che onerata anche della ricerca degli elementi favorevoli all'imputato) non e' l'ottusa persecuzione degli incolpati, ma la realizzazione del compito, della cui primaria importanza si e' detto, di far si' che i soggetti devianti vengano recuperati ad una convivenza civile e ordinata. E menomare i mezzi attraverso i quali l'azione del pubblico ministero, nel rispetto del principio di parita' delle parti, si deve esplicare significa in definitiva legiferare in contrasto, anche, con le due previsioni costituzionali ora richiamate. Vero e' che il Giudice delle leggi ha gia' osservato non essere il potere di impugnazione del pubblico ministero estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale, ma (e non senza aver per richiamato anche in questo punto il contesto in cui quella affermazione, citata nella memoria difensiva, e' stata formulata) non si puo' non osservare che, in questo caso, il potere di impugnazione del p.m. deve essere visto in confronto al parallelo potere delle parti private, e deve essere letto, almeno nella prospettiva qui suggerita, in relazione al principio dell'emenda (o anche, se si vuole, della tutela sociale, ben potendosi ritenere che questo ultimo obiettivo possa essere conseguito anche attraverso la rieducazione di chi delinqua). Che poi il potere di impugnazione del p.m. non sia ne' automatico, ne' obbligatorio e sia rinunciabile e' osservazione che non sposta in alcun modo i termini della questione, poiche' caratteristiche affatto analoghe hanno le impugnazioni delle parti private. Negare infine che il potere di impugnazione del p.m. avverso le sentenze di assoluzione contrasti con l'esigenza di dare compiuta attuazione al principio della obbligatorieta' dell'azione penale nella prospettiva dell'emenda (o anche e sopratutto dell'emenda) di responsabili di reati significa in definitiva negare allo Stato (e per esso al p.m.) la potesta' di individuare e perseguire - senza ricorrere per questo ad alcuna anticipazione di pena - chi debba essere destinatario della risposta giudiziaria alle devianze. E significativamente la memoria della difesa si chiude adombrando il dubbio che il processo sia strumento inteso alla ricerca della verita': ma davvero non si saprebbe quale altro fine, oltre a quello, successivo e variamente condizionato, della applicazione della sanzione di legge ed eventualmente della riparazione del danno, possa assegnarsi, e storicamente sia stato sempre assegnato, al processo penale. La corte, riconosciuta pertanto la non manifesta infondatezza della questione di' legittimita' costituzionale sollevata dal procuratore generale e ritenuto di dovere sollevare d'ufficio l'ulteriore questione di legittimita' costituzionale sopra illustrata, riconosciuta la impossibilita' di addivenire alla decisione del processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme denunciate impedirebbe infatti la definizione del processo a carico del Cosseddu con il possibile ribaltamento della decisione di primo grado e la condanna dell'imputato), dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sospendendo il giudizio in corso.