ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 30 legge del
6 dicembre  1971,  n. 1034  (Istituzione dei tribunali amministrativi
regionali), promosso con ordinanza del 21 novembre 2005 dal Tribunale
amministrativo  regionale della Liguria sul ricorso promosso da Toto'
Pizzeria s.r.l. ed altro contro comune di Genova ed altri iscritta al
n. 148  del  registro  ordinanze  2006  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale    della   Repubblica   n. 21   -   1ª   serie   speciale -
dell'anno 2006.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera  di consiglio del 24 gennaio 2007 il giudice
relatore Romano Vaccarella.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  ordinanza depositata il 21 novembre 2005 il Tribunale
amministrativo  regionale  della Liguria ha sollevato, in riferimento
agli   artt. 24,   111   e   113  della  Costituzione,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 30 della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034  (Istituzione  dei tribunali amministrativi regionali), nella
parte  in  cui non consente al giudice amministrativo, che declini la
giurisdizione, di disporre la continuazione del processo con salvezza
degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
    1.1.  -  Il  dubbio e' stato prospettato nel corso di un giudizio
intentato  da  una  societa' al fine di ottenere l'accertamento della
responsabilita'  e  la  conseguente  condanna  del comune di Genova e
dell'Azienda   Multiservizi  e  d'Igiene  Urbana  s.p.a.  (AMIU),  al
ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni causati
dalla  collocazione di una serie di «cassonetti a cascata», destinati
alla  raccolta  e  allo  smaltimento dei rifiuti solidi urbani, nelle
immediate   vicinanze  dei  locali,  da  essa  occupati,  adibiti  ad
attivita' di ristorazione.
    La  societa'  attrice  lamentava  che,  ottenuto  dal  comune  un
permesso  di  occupazione  permanente  del  suolo pubblico antistante
l'esercizio   commerciale,  se  l'era  visto,  in  parte,  rioccupare
dall'ente  che,  «senza  comunicare  l'avvio del procedimento», aveva
iniziato  lavori  edili interessanti lo spazio oggetto di concessione
ed  aveva  collocato,  a  pochi  metri  di  distanza dall'entrata del
locale,  una  sorta  di  impianto  per la raccolta dei rifiuti solidi
urbani.
    La societa', dopo avere infruttuosamente inoltrato segnalazioni e
diffide  all'amministrazione,  aveva agito sia in via possessoria sia
ex  art. 700  del  codice  di  procedura  civile innanzi al tribunale
civile  al  fine  di ottenere il ristoro dei danni, la reintegrazione
nel  godimento  dei beni e l'adozione di misure atte a scongiurare la
lesione del diritto alla salute.
    Il  giudice  ordinario  adito aveva, pero', dichiarato il proprio
difetto  di  giurisdizione  a decidere la controversia, per essere la
stessa  devoluta,  in  quanto  involgente  la  materia urbanistica ed
edilizia, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai
sensi  dell'art. 34,  del  decreto  legislativo 31 marzo 1998, n. 80,
come modificato dall'art. 7, legge 21 luglio 2000, n. 205.
    Proposto  ricorso  innanzi al Tribunale amministrativo regionale,
questo   rilevava   che   l'intervento  della  sentenza  della  Corte
costituzionale   n. 204   del  2004  -  dichiarativa  della  parziale
illegittimita' degli artt. 33, commi 1 e 2, e 34, comma 1, del d.lgs.
31 marzo  n. 80  del  1998 -, aveva fatto venir meno la giurisdizione
del giudice amministrativo, come eccepito dai convenuti.
    1.2.  -  Il giudice a quo osserva, in ordine alla rilevanza della
questione,  che  l'art. 30  legge 6 dicembre 1971, n. 1034, impone al
giudice   amministrativo   la   mera   declaratoria   di  difetto  di
giurisdizione, da adottare anche d'ufficio, precludendogli l'adozione
di  ogni  altra  pronuncia  volta  ad  assicurare  la possibilita' di
riassumere  il  processo davanti al giudice fornito di giurisdizione,
con  conseguente  salvezza  degli «effetti sostanziali e processuali»
della  domanda,  laddove  la  translatio iudicii consentirebbe di non
vanificare l'attivita' processuale svolta e impedirebbe alla parte di
subire   gli   effetti  della  decadenza  «nel  frattempo  maturata»,
segnatamente  di  quella dalle azioni possessorie, da promuoversi nel
termine annuale.
    1.3.  -  In  ordine  alla  non manifesta infondatezza del dubbio,
l'inutile   «palleggio   di   giudizi»  tra  giudici  appartenenti  a
giurisdizioni  diverse,  ma non separate, con gli inevitabili effetti
distorsivi  costituiti  dal  dispendio  di  energie  processuali e di
risorse  economiche  e  dalla  incolpevole  perdita  del diritto alle
azioni  possessorie, sarebbe, a giudizio del rimettente, in contrasto
col  principio costituzionale della ragionevole durata del processo e
del diritto all'attuazione della legge, e cioe' con gli artt. 24, 111
e 113 Cost.
    Precisa   anche  il  rimettente  che,  per  scongiurare  siffatte
evenienze,    non    solo    non    sarebbe   percorribile   la   via
dell'interpretazione  estensiva  dell'art. 5 cod. proc. civ., perche'
il   diritto   vivente   nega  la  praticabilita'  della  perpetuatio
iurisdictionis  allorche'  la  norma  attributiva della giurisdizione
venga  dichiarata  costituzionalmente illegittima, ma neppure sarebbe
evocabile  l'istituto  dell'errore  scusabile,  comunque  inidoneo  a
surrogare il meccanismo processuale della translatio iudicii, essendo
il  relativo riconoscimento pur sempre rimesso ad una valutazione del
giudice.
    2.  - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
Stato,  che  ha  chiesto  alla  Corte  di  dichiarare inammissibile o
manifestamente   infondata   la   proposta   questione,  per  carente
descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo.
    Secondo  la difesa erariale, infatti, la circostanza che nulla il
rimettente  espliciti  in ordine al concreto svolgimento del processo
e,  in  particolare, in ordine alle eventuali acquisizioni probatorie
(assunte nel primo giudizio civile o in quello successivo, davanti al
giudice   amministrativo)  da  assicurare  nell'instaurando  processo
innanzi  al  giudice ordinario, nonche' in ordine alla data in cui si
sarebbe verificata la lamentata lesione del possesso, all'epoca della
proposizione  della prima domanda e del successivo ricorso innanzi al
Tribunale   amministrativo   regionale,   si   tradurrebbe   in   una
inemendabile  mancanza  di  elementi la cui conoscenza sarebbe invece
assolutamente   indispensabile   ai   fini  della  valutazione  della
rilevanza della prospettata questione rispetto al giudizio in corso.

                       Considerato in diritto

    1.  - Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria dubita,
in  riferimento  agli  artt. 24,  111 e 113 della Costituzione, della
legittimita' costituzionale dell'art. 30 della legge 6 dicembre 1971,
n. 1034  (Istituzione  dei tribunali amministrativi regionali), nella
parte  in  cui  non consente al giudice amministrativo che declini la
giurisdizione  di disporre la continuazione del processo con salvezza
degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
    2. - La questione e' fondata nei sensi di seguito precisati.
    3.  -  Il  Tribunale  rimettente pone, in termini di legittimita'
costituzionale,  il  problema  - in ordine al quale la dottrina ha da
tempo e ripetutamente preso posizione - dell'estensione al difetto di
giurisdizione  del  principio della conservazione degli effetti della
domanda  che,  con  il  codice di procedura civile del 1942, e' stato
introdotto   limitatamente   al   caso  del  difetto  di  competenza;
estensione  che,  nei  piu' organici progetti di riforma del processo
civile, era prevista in puntuali disposizioni dei relativi disegni di
legge delega.
    3.1. - Sollevando la questione in esame, il giudice rimettente si
fa  interprete  del  diffuso  disagio,  per  i gravi (e, non di rado,
irreparabili)  inconvenienti  provocati  da  una  disciplina  che, in
sostanza,  parte dal presupposto che l'atto introduttivo del giudizio
rivolto  ad un giudice privo di giurisdizione sia affetto da un vizio
che  lo  rende  radicalmente  inidoneo  a  produrre  gli effetti, sia
sostanziali  che  processuali,  che  la  legge  collega  ad  un  atto
introduttivo che violi le regole sul riparto di competenza.
    Tale  disagio  e'  accresciuto, in primo luogo, dalla circostanza
che  una  cosi'  rigorosa  disciplina  concerne  un  vizio  dell'atto
introduttivo   che   scaturisce  da  una  estremamente  articolata  e
complessa  regolamentazione del riparto di giurisdizione: sicche' non
solo  e'  tutt'altro  che  agevole il compito della parte attrice, ma
altrettanto disagevole e' quello del giudice il cui eventuale errore,
tuttavia,  ricade  interamente  sulla  parte  (si  pensi  al caso del
giudice  che  erroneamente declini la propria giurisdizione con nuova
proposizione  della  domanda  al  giudice  indicato  come  munito  di
giurisdizione,  il  quale,  a  sua  volta,  la  declini:  la  domanda
riproposta al primo giudice non potrebbe «ancorarsi» alla prima e far
risalire ad essa gli effetti sostanziali e processuali).
    Questa  Corte e' consapevole che il fenomeno appena illustrato ha
assunto  proporzioni  ancor  piu'  vistose  a  seguito di una propria
recente  pronuncia dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale di
talune  norme  che,  secondo  il  criterio  dei «blocchi di materie»,
ripartivano  la  giurisdizione  tra autorita' giudiziaria ordinaria e
giudice amministrativo: l'inapplicabilita', secondo la giurisprudenza
assolutamente dominante, all'ipotesi di sopravvenuta dichiarazione di
illegittimita'   costituzionale   del   principio  della  perpetuatio
iurisdictionis  codificato  nell'art. 5 cod. proc. civ. ha certamente
acuito  la  diffusa  sensazione  della  sostanziale ingiustizia della
disciplina  vigente  in  quanto,  nonostante  la  domanda fosse stata
rivolta  al  giudice munito di giurisdizione secondo la legge vigente
al  momento  della  sua  proposizione,  la  sopravvenuta  carenza  di
giurisdizione ne impediva o pregiudicava la tutela giurisdizionale.
    Peraltro,  l'orientamento  del  Consiglio di Stato, di gran lunga
prevalente,  fondato  sul  potere di rilevare d'ufficio il difetto di
giurisdizione  anche  quando,  essendosi  su  di  essa esplicitamente
pronunciato   il  Tribunale  amministrativo  regionale,  contro  tale
capo della  pronuncia non sia stata proposta impugnazione, fa si' (ed
ha  fatto  si'  in numerosi casi interessati dalla citata sentenza di
questa  Corte)  che il giudizio debba essere proposto ex novo davanti
al  giudice  ordinario  perfino  dopo  che  sulla  sussistenza  della
giurisdizione del giudice amministrativo si sia formato il giudicato.
    3.2.  -  La  dottrina,  a  sua  volta,  e' pressoche' unanime nel
sollecitare  una  riforma legislativa che preveda meccanismi idonei -
come  accade  per l'ipotesi di difetto di competenza - ad assicurare,
con  la  trasmigrazione  del  giudizio  davanti  al giudice munito di
giurisdizione,  la  conservazione  degli effetti che la legge collega
alla proposizione della domanda giudiziale.
    Una  parte  della  dottrina, poi, ha sostenuto che alle pronunzie
emesse  dalla  Corte  di cassazione in tema di giurisdizione potrebbe
conseguire  - in base al combinato disposto degli artt. 50, 367 e 382
cod.  proc.  civ.  -  la  translatio  iudicii con conservazione degli
effetti  della  domanda  giungendo,  recentemente, a desumere da tale
conclusione  che  - non potendosi imporre alle parti, affinche' operi
il  meccanismo  della translatio iudicii, di adire necessariamente la
Suprema   Corte   a   sezioni   unite  -  analogo  risultato  sarebbe
conseguibile,   de   iure   condito,  nel  caso  di  declinatoria  di
giurisdizione da parte di un giudice di merito.
    3.3.  -  Recentemente,  nel  tentativo di risolvere con strumenti
ermeneutici  l'annoso  e  grave  problema,  la  Corte  di  cassazione
(Sezioni unite 22 febbraio 2007, n. 4109) ha affermato - nel rinviare
al  Consiglio  di  Stato,  per  violazione del giudicato interno, una
controversia  definita  dal  medesimo  Consiglio  con  una  pronuncia
declinatoria   della  giurisdizione  -  che  tale  rinvio  costituiva
modifica del proprio «precedente, risalente orientamento, secondo cui
la  decisione  del  giudice  ordinario o del giudice speciale, con la
quale  viene dichiarato il difetto di giurisdizione, non consente che
il   processo   possa   continuare  dinanzi  al  giudice  fornito  di
giurisdizione».
    Ricordato  che  tale  tralaticio  orientamento  si  fondava sulla
circostanza che l'art. 50 cod. proc. civ. prevede la riassunzione del
processo  solo  nel  caso  di  difetto  di competenza, e non anche di
giurisdizione, e che l'art. 367 prevede la riassunzione, a seguito di
regolamento  di  giurisdizione,  solo davanti al giudice ordinario, e
fatto  proprio  il «principio fondamentale dei nostri Autori classici
secondo  cui  il processo deve tendere ad una sentenza di merito», le
Sezioni    unite   «ritengono   che,   in   base   ad   una   lettura
costituzionalmente  orientata  della  disciplina  della  materia, che
tenga   conto   delle   argomentazioni  emergenti  dalle  intervenute
modifiche legislative e delle prospettazioni in parte nuove svolte di
recente  dalla dottrina sul tema, sussistono le condizioni per potere
affermare  che e' stato dato ingresso nell'ordinamento processuale al
principio  della  translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice
speciale, e viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione».
    «Premessa   indispensabile  e'  la  considerazione  di  carattere
generale»  che,  se  e'  assente  per  la giurisdizione la disciplina
prevista  per  la  competenza,  «neppure sussiste la previsione di un
espresso  divieto  della  translatio iudicii nei rapporti tra giudice
ordinario e giudice speciale». Rilevato, poi, che la cassazione senza
rinvio  e'  possibile, a norma dell'art. 382, comma terzo, cod. proc.
civ., in caso di difetto assoluto di giurisdizione, dovendosi in ogni
altro  caso cassare con rinvio al giudice munito di giurisdizione, la
Corte  di  cassazione  osserva,  da un lato, che la norma che esclude
l'incidenza sul merito della pronuncia sulla giurisdizione (art. 386)
e' indice della «proseguibilita» del giudizio e, dall'altro lato, che
l'estensione legislativa del regolamento di giurisdizione al processo
amministrativo   e   a   quello  tributario  impone  di  interpretare
estensivamente l'art. 367, comma secondo, cod. proc. civ., ammettendo
la riassunzione anche davanti al giudice speciale.
    Ne consegue che, a seguito sia del ricorso ordinario ex art. 360,
n. 1,  cod.  proc. civ., sia di regolamento di giurisdizione, sarebbe
sempre  ammessa  la  riassunzione  del  processo  davanti  al giudice
(ordinario  o  speciale)  munito di giurisdizione e tale riassunzione
sarebbe  possibile  -  aggiunge  la Corte «per ragioni di completezza
sistematica» - «anche nel caso di sentenza del giudice di merito, che
abbia declinato la giurisdizione».
    Respinta  la  tesi  secondo la quale tale risultato richiederebbe
l'intervento  della  Corte  costituzionale  (sollecitato,  ricorda la
Corte  di  cassazione, dall'ordinanza di rimessione qui in esame), le
Sezioni  unite  osservano  che  il  giudice  indicato, come munito di
giurisdizione,  dalla  pronuncia  declinatoria  puo',  «a  sua volta,
dichiarare  il  proprio difetto di giurisdizione» ma che in tal caso,
«nel rispetto del principio che ogni giudice e' giudice della propria
giurisdizione»,  il  ricorso  per  cassazione ai sensi dell'art. 362,
secondo comma, cod. proc. civ. risolve, con il conflitto negativo, la
«situazione  di  stallo»; anche se - conclude la Corte - «il problema
giuridico  che  esula  dalla  presente  controversia merita di essere
ulteriormente approfondito».
    4. - La circostanza che la Corte di cassazione abbia diffusamente
trattato  la  questione  -  piu'  volte  ricordandola  -  oggetto del
presente  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  impone a questa
Corte,  per  l'autorevolezza delle Sezioni unite, di dedicare attenta
considerazione  alle  argomentazioni  che  si  sono  appena  riferite
benche'  le  Sezioni unite - decidendo su un error in procedendo, sia
pure  avente  ad  oggetto  la  giurisdizione  - abbiano affrontato la
questione  risolvendo  un  caso  di  conferma della giurisdizione del
giudice a quo e si siano occupate della declinatoria di giurisdizione
da  parte  del  giudice  di  merito  solo «per ragioni di completezza
sistematica».
    Malgrado cio', questa Corte non puo' non considerare attentamente
quanto  sostengono  le  Sezioni  unite nel pervenire alla conclusione
che,  essendo  la questione oggetto del presente giudizio risolvibile
de   iure   condito,   «non   e'  necessario  sollecitare  sul  punto
l'intervento del giudice delle leggi». E' evidente, infatti, che, ove
fossero  condivisibili  gli  argomenti  che  hanno indotto le Sezioni
unite  ad  esprimere  tale opinione, questa Corte dovrebbe dichiarare
inammissibile  la  questione  in esame per non avere il giudice a quo
nemmeno  tentato  di  dare  una  lettura costituzionalmente orientata
della norma censurata.
    4.1.  -  Pur  nella  consapevolezza dell'intento ispiratore della
sentenza  n. 4109 del 2007, si deve anzitutto escludere che - come le
Sezioni   unite   affermano  a  «premessa  indispensabile»  del  loro
argomentare  -  manchi  nell'ordinamento  «un  espresso divieto della
translatio  iudicii  nei  rapporti  tra  giudice  ordinario e giudice
speciale».
    E'  sufficiente rilevare, in proposito, che l'espressa previsione
della   translatio   con  esplicito  ed  esclusivo  riferimento  alla
«competenza»  -  cio' che costituiva una novita' del codice del 1942,
auspicata  (ma  limitatamente  alla  incompetenza) fin dal cosiddetto
progetto  Chiovenda,  non  a  caso  resa  possibile da una articolata
disciplina  (artt. 42-50) totalmente assente per la «giurisdizione» -
non   altro  puo'  significare  se  non  divieto  di  applicare  alla
giurisdizione  quanto previsto, esplicitamente ed esclusivamente, per
la   competenza;   il   che  avrebbe  reso  superfluo,  nell'asciutta
essenzialita'  delle  norme  codicistiche,  l'«espresso  divieto»  di
applicare  alla  giurisdizione le molte norme esplicitamente dedicate
(sia nelle rubriche che nel testo) alla sola competenza.
    In  secondo  luogo,  riguardo  all'argomento che le Sezioni unite
desumono  dal ricorso per cassazione ex art. 362, comma secondo, cod.
proc.  civ.,  occorre  considerare  che  -  a  differenza  di  quanto
l'art. 362,  comma  primo,  prevede  (richiamando  il  termine di cui
all'art. 325,  comma  secondo)  per  l'impugnazione  di  sentenze  di
giudici  speciali  «per  motivi  attinenti  alla  giurisdizione» - la
«denuncia»  di  conflitti  negativi di giurisdizione e' possibile «in
ogni tempo»: ed ai fini qui rilevanti e' sufficiente osservare che la
funzione di «rendere praticabile la translatio», con la conservazione
degli  effetti della domanda proposta al giudice (che risulta essere)
privo  di  giurisdizione,  non  puo' ritenersi affidata ad un ricorso
proponibile   «in   ogni  tempo»  (e,  quindi,  anche  anni  dopo  il
manifestarsi del conflitto).
    4.2.  -  Cio' detto dei due argomenti in base ai quali le Sezioni
unite  ritengono  risolvibile  de  iure condito la questione pendente
dinanzi   a   questa   Corte   -  questione  della  quale  non  puo',
conseguentemente,  dichiararsi  l'inammissibilita'  per  non  aver il
giudice  rimettente valutato la praticabilita' di una interpretazione
costituzionalmente  corretta  -  va  rilevato  che  il  giudice a quo
sollecita  l'intervento di questa Corte non gia' lamentando l'assenza
di  un  meccanismo  processuale  che  consenta  la trasmigrazione del
processo   ad   altro   giudice   fornito  di  giurisdizione,  bensi'
l'impossibilita'    che,   a   seguito   della   declinatoria   della
giurisdizione,  siano  conservati  gli effetti prodotti dalla domanda
proposta davanti ad un giudice privo di giurisdizione.
    Tale modo di impostare la questione e' corretto, essendo evidente
che  l'esistenza  nel  codice  di  procedura  civile di una norma che
disciplina  in  generale  l'istituto  della  riassunzione della causa
(art. 125  disp.  att.) non risolve affatto il problema sollevato dal
giudice  a quo: la possibilita' - esplicitamente prevista dalla legge
ovvero desumibile attraverso una sistematica «ricucitura» delle norme
-  di  riassumere  il  processo non implica di per se' che la domanda
proposta  in  riassunzione  conservi  gli  effetti prodotti da quella
originaria.
    La  trasmigrabilita' del processo e' strumento necessario, ma non
sufficiente  perche' il giudice ad quem possa giudicare della domanda
dinanzi  a  lui riassunta come se essa fosse stata proposta davanti a
lui nel momento in cui lo fu al giudice privo di giurisdizione.
    5.   -   Il   principio   della   incomunicabilita'  dei  giudici
appartenenti  ad  ordini  diversi  -  comprensibile  in altri momenti
storici  quale  retaggio della concezione cosiddetta patrimoniale del
potere giurisdizionale e quale frutto della progressiva vanificazione
dell'aspirazione    del    neo-costituito   Stato   unitario   (legge
sull'abolizione  del  contenzioso  amministrativo)  all'unita'  della
giurisdizione,   determinata   dall'emergere   di   organi   che   si
conquistavano    competenze    giurisdizionali    -   e'   certamente
incompatibile,   nel   momento   attuale,   con  fondamentali  valori
costituzionali.
    Se  e'  vero,  infatti,  che la Carta costituzionale ha recepito,
quanto   alla   pluralita'   dei  giudici,  la  situazione  all'epoca
esistente, e' anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini,
assegnato  con  l'art. 24  (ribadendolo  con  l'art. 111)  all'intero
sistema   giurisdizionale   la  funzione  di  assicurare  la  tutela,
attraverso  il  giudizio,  dei  diritti  soggettivi e degli interessi
legittimi.
    Questa   essendo  la  essenziale  ragion  d'essere  dei  giudici,
ordinari  e  speciali,  la loro pluralita' non puo' risolversi in una
minore  effettivita', o addirittura in una vanificazione della tutela
giurisdizionale:  cio' che indubbiamente avviene quando la disciplina
dei  loro rapporti - per giunta innervantesi su un riparto delle loro
competenze  complesso  ed  articolato  -  e'  tale  per cui l'erronea
individuazione  del  giudice  munito di giurisdizione (o l'errore del
giudice  in  tema di giurisdizione) puo' risolversi in un pregiudizio
irreparabile  della  possibilita' stessa di un esame nel merito della
domanda di tutela giurisdizionale.
    Una  disciplina  siffatta,  in  quanto  potenzialmente lesiva del
diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla
sua  effettivita',  e'  incompatibile  con  un principio fondamentale
dell'ordinamento,  il  quale  riconosce  bensi'  la  esistenza di una
pluralita'  di  giudici,  ma la riconosce affinche' venga assicurata,
sulla  base  di  distinte competenze, una piu' adeguata risposta alla
domanda  di  giustizia,  e  non  gia'  affinche'  sia  compromessa la
possibilita' stessa che a tale domanda venga data risposta.
    Al  principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a
se  stesse,  ma  funzionali  alla miglior qualita' della decisione di
merito,  si  ispira pressoche' costantemente - nel regolare questioni
di rito - il vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi
si ispira la disciplina che all'individuazione del giudice competente
-  volta  ad  assicurare,  da  un  lato,  il  rispetto della garanzia
costituzionale  del  giudice naturale e, dall'altro lato, l'idoneita'
(nella  valutazione  del legislatore) a rendere la migliore decisione
di  merito  -  non  sacrifica  il diritto delle parti ad ottenere una
risposta,  affermativa  o  negativa,  in  ordine al «bene della vita»
oggetto della loro contesa.
    Al  medesimo  principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si
ispiri  la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini
diversi  allorche'  una  causa,  instaurata  presso un giudice, debba
essere  decisa,  a  seguito  di  declinatoria della giurisdizione, da
altro giudice.
    6.  -  Il rispetto dei confini del proprio ruolo nell'ordinamento
impone  a  questa  Corte  di  limitarsi a dichiarare l'illegittimita'
costituzionale  della  norma censurata nella parte in cui non prevede
la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito,
a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito
di  giurisdizione,  ispirandosi essa, viceversa, al principio per cui
la declinatoria della giurisdizione comporta l'esigenza di instaurare
ex  novo  il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali
prodotti  dalla  domanda  originariamente  proposta si conservino nel
nuovo  giudizio; principio questo che, non formulato espressamente in
una  o  piu' disposizioni di legge ma presupposto dall'intero sistema
dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici
speciali, deve essere espunto, come tale, dall'ordinamento.
    7.  -  La  disciplina  legislativa  che,  con l'urgenza richiesta
dall'esigenza  di  colmare  una  lacuna dell'ordinamento processuale,
verra'  emanata,  sara' vincolata solo nel senso che essa dovra' dare
attuazione   al   principio   della   conservazione   degli  effetti,
sostanziali  e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice
privo  di  giurisdizione  nel  giudizio  ritualmente  riattivato  - a
seguito  di declinatoria di giurisdizione - davanti al giudice che ne
e' munito.
    Cio'  posto,  e'  evidente  che  - contrariamente a quanto sembra
sostenere  l'ordinanza di rimessione - la conservazione degli effetti
prodotti   dalla   domanda   originaria  discende  non  gia'  da  una
dichiarazione  del  giudice  che declina la propria giurisdizione, ma
direttamente   dall'ordinamento,   interpretato   alla   luce   della
Costituzione;   ed  anzi  deve  escludersi  che  la  decisione  sulla
giurisdizione,  da qualsiasi giudice emessa, possa interferire con il
merito  (al  quale  appartengono  anche  gli  effetti  della domanda)
demandato al giudice munito di giurisdizione.
    La  conferma  di cio' e' nella circostanza che perfino il supremo
organo regolatore della giurisdizione, la Corte di cassazione, con la
sua  pronuncia  puo'  soltanto,  a norma dell'art. 111, comma ottavo,
Cost.,  vincolare  il  Consiglio  di  Stato  e  la  Corte dei conti a
ritenersi  legittimati  a decidere la controversia, ma certamente non
puo'  vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o
di  rito)  di  tale  decisione;  e  ad  analogo principio, conforme a
Costituzione, si ispira l'art. 386 cod. proc. civ. (applicabile anche
ai  ricorsi  proposti  a norma dell'art. 362, comma primo, cod. proc.
civ.) disponendo che «la decisione sulla giurisdizione e' determinata
dall'oggetto  della  domanda  e,  quando  prosegue  il  giudizio, non
pregiudica   le  questioni  sulla  pertinenza  del  diritto  e  sulla
proponibilita' della domanda».
    8.  -  Nel rispetto di tali limiti costituzionali, il legislatore
ordinario  -  ferma  l'esigenza  di  disporre  che  ogni giudice, nel
declinare  la  propria giurisdizione, deve indicare quello che, a suo
avviso,  ne  e'  munito - e' libero di disciplinare nel modo ritenuto
piu'  opportuno  il  meccanismo  della riassunzione (forma dell'atto,
termine   di  decadenza,  modalita'  di  notifica  e/o  di  deposito,
eventuale  integrazione del contributo unificato, ecc.) sulla base di
una  scelta  di  fondo a lui soltanto demandata: stabilire, cioe', se
mantenere  in vita il principio per cui ogni giudice e' giudice della
propria giurisdizione ovvero adottare l'opposto principio seguito dal
codice di procedura civile (art. 44) per la competenza.
    9. - E' superfluo sottolineare che, laddove possibile utilizzando
gli strumenti ermeneutici (come, nel caso oggetto del giudizio a quo,
dopo  la  declinatoria di giurisdizione), i giudici ben potranno dare
attuazione  al  principio  della  conservazione  degli  effetti della
domanda nel processo riassunto.