LA CORTE DI APPELLO

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Visti  gli  atti  relativi  all'appello  proposto  dalla  Procura
generale  della  Repubblica  presso  la  Corte  di appello di Sassari
avverso  la  sentenza  con  la  quale  il  Tribunale  di Sassari, con
sentenza  in  data  21  novembre  2003,  ha  dichiarato  non  doversi
procedere,  per  remissione di querela, nei confronti di Piga Antonio
Raimondo,  nato  ad  Alghero  il  24 luglio 1959 ed ivi residente via
Manzoni n. 55, imputato:
        del reato di cui all'art. 614 u.c. c.p. perche', con violenza
e minacce consistiti nel lanciare delle pietre e proferire minacce di
morte,  si  introduceva  nel  giardino  pertinenza dell'abitazione di
Vagnoni Laura e Koohestani Bosenjani, contro la volonta' dei medesimi
in Sassari l'8 luglio 2000;
        del  reato  di  cui  agli  artt. 81  cpv. e 612 cpv. c.p. per
avere,  con  piu'  atti  esecutivi  di un medesimo disegno criminoso,
minacciato  a  Vagnoni  Paola un ingiusto danno dicendole al telefono
«adesso  mi sono stancato, stai attenta perche' te la faccio pagare e
ti  ammazzo»; in Sassari in data antecedente e prossima al 23 ottobre
2000.
    Con  nota  in  data  3  ottobre  2006  il p.g. ha espresso parere
favorevole   alla   ravvisabilita'   di   profili  di  illegittimita'
costituzionale dell'art. 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46;

                            O s s e r v a

    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non   manifestamente  infondati:  l'art. 111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo  principio, nella previsione costituzionale, non
soffre  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito  dal  medesimo  articolo  111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze   di   proscioglimento  con  lo  stesso  mezzo  riconosciuto
all'imputato  avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione
nel   sistema   delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole
disparita'  di  trattamento che contrasta con il richiamato principio
della parita' delle parti nello svolgimento del processo.
    Si  rileva  che  questo  enunciato  non confligge con le ripetute
pronunce  negative  della Corte costituzionale chiamata ad esprimersi
sulle   limitazioni   al  potere  d'appello  del  pubblico  ministero
stabilite  dall'art. 443.3 c.p.p., essendo le disparita' derivanti da
questa  disposizione  ragionevolmente  giustificabili  alla  luce del
risultato  perseguito  con  il  ricorso  al  rito  abbreviato e delle
peculiarita'   di   questo.  Il  risultato  e'  quello  della  rapida
definizione  dei  processi  penali conseguita attraverso la decisione
del  processo solo sulla base del materiale probatorio raccolto dalla
parte  pubblica  fuori  del  contraddittorio,  e pertanto con una con
relativa  rinuncia  dell'imputato ad intervenire nel delicato momento
della  formazione  della  prova,  in  vista  del  miglior trattamento
sanzionatorio   a   lui   riservato   in   caso  di  affermazione  di
responsabilita'.  E  tuttavia,  se  in  un  quadro  siffatto e' parso
ragionevole   limitare  la  facolta'  di  impugnazione  del  pubblico
ministero  quanto  alle sentenze di condanna (e pertanto in relazione
alla  quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa
dirsi  in  relazione  alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a
seguito  di  rito  abbreviato,  stante  il perdurante interesse della
parte   pubblica  all'accertamento  della  verita'  (e  quindi  della
responsabilita'  dell'imputato  che  dall'acclaramento  della verita'
possa  risultare),  come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata
conservata  al  p.m.  la facolta' di appellarsi contro le sentenze di
condanna  che  modifichino  il  titolo  del  reato.  A  proposito del
generale  interesse  del p.m. a propone appello contro le sentenza di
proscioglimento  conserva  piena  validita' il richiamo contenuto nel
messaggio  del  Presidente  della  Repubblica alle Camere la' dove si
osserva   che   «la   soppressione  dell'appello  delle  sentenze  di
proscioglimento  ...  fa  si' che la stessa posizione delle parti nel
processo  venga  ad  assumere una condizione di disparita' che supera
quella  compatibile  con  la  diversita'  delle funzioni svolte dalle
parti  stesse  nel  processo.  Le  asimmetrie  tra  accusa  e  difesa
costituzionalmente  compatibili  non  devono mai travalicare i limiti
fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione.».
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
procuratore  generale  gia' in altra sede in risposta alle obbiezioni
che potrebbero farsi alla sua tesi e secondo le quali la soppressione
della   facolta'   d'appello   del   p.m.   contro   le  sentenze  di
proscioglimento  risponderebbe ad esigenze di celerita' del processo,
e  sarebbe  per  altro verso coerente con la presunzione di innocenza
dell'imputato  o  con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve
essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di
tali  osservazioni  giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di
celerita'  non  hanno impedito la conservazione della facolta' di cui
all'art. 443.3  c.p.p.,  e  che,  al  contrario,  saranno  proprio le
esigenze  di  celerita'  ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di
accoglimento  del  ricorso per cassazione proposto dal p.m. contro la
sentenza  assolutoria,  il  processo ritornera' in primo grado con la
prospettiva della celebrazione (anche) del giudizio d'appello in caso
di  condanna  dell'imputato. Il principio di non colpevolezza implica
soltanto  il fatto che le conseguenze pratiche della condanna possano
discendere solo dalla sentenza definitiva, e nessuna conseguenza puo'
trarsi  da  esso  circa  l'iter  per  il  quale si debba pervenire al
giudicato.  Quello per il quale la colpevolezza puo' essere affermata
solo quando sia provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece,
in  questo  caso,  in  principio di lettura equivoca, posto che se si
sostiene  la  inappellabiita'  della sentenza con la quale un giudice
abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna
non  potrebbe  essere  pronunciata  fuor  di ogni ragionevole dubbio,
potrebbe  altrettanto  legittimamente sostenersi che sarebbe del pari
inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad
esito  di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti,
sarebbe  pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che dimostrino con la
stessa sicurezza la colpevolezza.
    Che  poi  l'esclusione  della  appellabilita'  delle  sentenze di
proscioglimento   da   parte   della  accusa  pubblica  sia  coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  procuratore generale osservandosi che insopprimibile
funzione  del  processo  penale  e'  quello  dell'accertamento  della
verita',  e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei,
piu'  che  giusti,  diritti  della  difesa  da  far  valere  tuttavia
nell'ambito del processo e non nel senso che il confronto fra le tesi
debba  essere  evitato  (in  altri termini deve potersi esercitare la
difesa  nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che nel
giudizio   d'appello   l'imputato   debba   poi   godere   del  pieno
dispiegamento  dei diritti che la legge giustamente gli riconosce: ma
non  si  vede  in  che  cosa  la  celebrazione  del secondo grado del
giudizio di merito, sia pure ad istanza del pubblico ministero, possa
compromettere  il  diritto  di  difesa  (diverso  sarebbe  se  ci  si
appellasse  al  principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi
in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato
ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte sempre dal procuratore generale, che
questa  Corte  condivide  e  fa  proprie,  puo'  aggiungersi  che  il
contrasto  delle  disposizioni  denunciate  rispetto all'art. 111 (ed
anche, a questo punto, all'art. 3) della Costituzione apparira' ancor
piu'  evidente  quando  si osservi che nella stesura definitiva della
legge  20  febbraio  2006,  n. 46  alla  parte civile e' stato invece
conservato  il  diritto  d'appello avverso le sentenze di assoluzione
(la  genesi  della locuzione del secondo periodo dell'art. 576 c.p.p.
alinea  nell'attuale  formulazione  persuade  che  l'impugnazione ivi
menzionata  consista  nell'appello).  Si deve constatare pertanto che
alla parte pubblica, portatrice degli interessi rilevantissimi su cui
si  tornera'  tra  breve,  e'  stato  del  tutto  ingiustificatamente
riservato  un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto che alle parti
private  e  questo  dato, indubitabile, non puo' che far risaltare in
maniera ancor piu' evidente il vulnus subito, per effetto delle norme
che  vengono  sottoposte  al giudice delle leggi, dal principio della
parita' delle parti.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono,
in  uno  Stato  di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre
parti,  compreso  l'imputato  (ed  in  realta',  per quanto le ultime
riforme  in  materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il
riequilibrio  della  posizione  dell'imputato  rispetto  a quella del
p.m.,  mai  l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione
di  questo  era  stata  reputata sottovalente rispetto a quella degli
interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al
pubblico  ministero  il  potere  di  appellarsi contro le sentenze di
assoluzione  o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa
l'attuazione  della  ricerca  della verita' e, quindi dell'istanza di
giustizia  propria  della  collettivita',  istanza che e' addirittura
pregiuridica,   posto  che  su  di  essa  si  basa  qualsiasi  civile
convivenza  nella  quale  si  voglia  evitare  che i consociati siano
tentati di ricorrere a forme private di giustizia. Di questo primario
interesse   della   collettivita'   e'   espressione   la  previsione
dell'art. 112 della Costituzione e, in definitiva, anche quella circa
l'emenda  del  condannato  sancita dal terzo comma dell'art. 27 della
stessa  Costituzione: dalla lettura coordinata di queste due norme si
ricava che l'ufficio del pubblico ministero (parte pubblica, e quindi
tenuta  al rispetto di comportamenti ispirati a massima correttezza e
moralita',  oltre  che  onerata  anche  della  ricerca degli elementi
favorevoli  all'imputato)  non  e' quello di ottuso persecutore degli
incolpati, ma di soggetto che persegue il compito, della cui primaria
importanza  si  e'  detto,  di far si che i soggetti devianti vengano
recuperati  ad  una  convivenza civile e ordinata. E menomare i mezzi
attraverso  i quali l'azione del pubblico ministero, nel rispetto del
principio  di  parita'  delle  parti,  si deve esplicare significa in
definitiva  legiferare  in  contrasto,  anche,  con le due previsioni
costituzionali ora richiamate.
    La  Corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della   questione   di   legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
procuratore   generale  e  ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio
l'ulteriore    questione   di   legittimita'   costituzionale   sopra
illustrata,   riconosciuta   la  impossibilita'  di  addivenire  alla
decisione,  del processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente
dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile  ribaltamento  della decisione di primo grado e la condanna
dell'imputato),   dispone  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale sospendendo il giudizio in corso.