ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei  giudizi  di  legittimita' costituzionale dell'art. 13, comma 13,
del  decreto  legislativo  25 luglio  1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni  concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e norme
sulla  condizione dello straniero), come sostituito dall'art. 1 della
legge   12 novembre   2004,   n. 271   (Conversione   in  legge,  con
modificazioni,  del  decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante
disposizioni  urgenti  in  materia  di  immigrazione),  promossi  con
ordinanze del 19 gennaio 2005 dal Tribunale di Gorizia, dell'11 marzo
2005  dal  Tribunale  di  Trieste, del 31 marzo 2005 dal Tribunale di
Gorizia,  del  23 aprile 2005 dal Tribunale di Trieste e del 30 marzo
2005  dal  Tribunale di Gorizia, rispettivamente iscritte ai nn. 242,
314,  318,  437  e 462 del registro ordinanze 2005 e pubblicate nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica,  nn. 19,  25, 26, 38 e 39, 1ª
serie speciale, dell'anno 2005;
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera  di  consiglio del 23 maggio 2007 il giudice
relatore Gaetano Silvestri;
    Ritenuto che il Tribunale di Gorizia in composizione monocratica,
con  ordinanza  del  19 gennaio  2005  (r.o.  n. 242  del  2005),  ha
sollevato  -  in  riferimento  agli  artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione - questione di legittimita' costituzionale dell'art. 13,
comma 13, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico
delle  disposizioni  concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero) - come sostituito dall'art. 1
della  legge  12 novembre  2004,  n. 271  (Conversione  in legge, con
modificazioni,  del  decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante
disposizioni urgenti in materia di immigrazione) - nella parte in cui
prevede  la  pena  minima  della  reclusione  pari  ad un anno per lo
straniero  espulso  che  rientri  nel territorio dello Stato senza la
speciale autorizzazione del Ministro dell'interno;
        che  il  giudice  rimettente  -  investito del procedimento a
carico   del  cittadino  di  uno  Stato  all'epoca  non  appartenente
all'Unione   europea,  accusato  d'essere  rientrato  nel  territorio
nazionale,  dopo  un precedente provvedimento di espulsione, senza la
prescritta  autorizzazione  speciale  -  e'  chiamato  a valutare una
richiesta congiunta di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444
del codice di procedura penale;
        che  secondo  lo stesso rimettente la sanzione concordata tra
le  parti,  pur  computata  a  partire  dal  minimo edittale e con la
massima possibile estensione delle riduzioni connesse alle attenuanti
generiche  ed  al  rito,  sarebbe sproporzionata per eccesso rispetto
alla gravita' effettiva del fatto contestato;
        che  il  Tribunale  rileva  come la norma censurata sia stata
modificata  in  sede  di  conversione  del decreto-legge 14 settembre
2004,  n. 241  (Disposizioni  urgenti  in  materia  di immigrazione),
contestualmente   all'analogo   intervento   compiuto   sull'art. 14,
comma 5-ter,  del  d.lgs. n. 286 del 1998, che il legislatore avrebbe
attuato,  dopo la sentenza di questa Corte n. 223 del 2004, a fini di
nuova  legittimazione  dell'arresto  obbligatorio  per  il  reato  di
indebito trattenimento dello straniero nel territorio nazionale;
        che,  in  particolare,  a fronte d'un provvedimento che aveva
stabilito l'illegittimita' della previsione di arresto concernente un
reato   per  il  quale  non  avrebbe  potuto  essere  successivamente
applicata  una  misura  cautelare,  pur  senza  attingere il comma 13
dell'art. 13  del  d.lgs.  n. 286  del  1998,  il legislatore avrebbe
trasformato  la  relativa contravvenzione in un delitto punito con la
reclusione   fino   a  quattro  anni  con  uno  scopo  «evidentemente
preventivo  rispetto ad eventuali censure di incostituzionalita», nel
contempo   sostituendo   l'originaria   previsione   dell'arresto  in
flagranza  con quella dell'arresto obbligatorio, anche fuori dai casi
di flagranza;
        che  dunque, a parere del rimettente, il marcato inasprimento
della  sanzione  per  il  reato  di  indebito  reingresso non sarebbe
connesso  alle  caratteristiche  sostanziali  del fenomeno criminoso,
rimaste   invariate,   ed   avrebbe  quindi  alterato  la  necessaria
proporzione tra pena edittale e disvalore della condotta incriminata,
con  conseguente lesione del principio di uguaglianza e del principio
di necessaria finalizzazione rieducativa della pena;
        che  l'intervento  riformatore sulla norma censurata, secondo
il  Tribunale,  sarebbe  privo  di  congruenza  perfino rispetto alle
ragioni giustificatrici emerse nel corso dei lavori parlamentari, non
solo  per  la  riferibilita' della sentenza n. 223 del 2004 di questa
Corte  ad  una diversa fattispecie di reato, ma anche, e soprattutto,
perche'  l'obiettivo  di  consentire  l'applicazione  di  una  misura
cautelare  dopo  l'arresto  avrebbe  potuto  essere  raggiunto con la
fissazione  a quattro anni del valore massimo di pena, senza indicare
un  minimo  tanto  elevato  da  impedire, nei casi di minor gravita',
l'irrogazione o l'applicazione di una pena proporzionata;
        che  la carenza di proporzionalita' sarebbe evidenziata anche
dal raffronto tra la pena prevista per l'indebito reingresso e quella
comminata  per  fattispecie  che  avrebbero  natura similare, perche'
anch'esse  pertinenti  a  forme  di disobbedienza nei confronti di un
ordine dell'autorita';
        che il Tribunale richiama, a questo proposito, l'art. 650 del
codice  penale  (recante  la  rubrica «Inosservanza dei provvedimenti
dell'Autorita»),  ove  la  pena  dell'arresto  fino  a  tre  mesi  e'
alternativa  ad  una  sanzione  pecuniaria,  e  l'art. 2  della legge
27 dicembre  1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle
persone  pericolose per la sicurezza), concernente la contravvenzione
al  foglio  di  via  obbligatorio,  punita con l'arresto da uno a sei
mesi;
        che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto nel
giudizio  con  atto  depositato  il  31 maggio 2005, chiedendo che la
questione sia dichiarata infondata;
        che  infatti, con le variazioni introdotte per il trattamento
sanzionatorio dell'indebito reingresso nel territorio dello Stato, il
legislatore    avrebbe    ragionevolmente   esercitato   la   propria
discrezionalita',   in   coerenza   con  l'analogo  intervento  sulla
fattispecie  di  cui  all'art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del
1998, ed in corrispondenza con la gravita' dei fatti considerati;
        che  l'asserita  sproporzione  della pena non potrebbe essere
dimostrata,  d'altro  canto,  mediante  il  raffronto con le sanzioni
previste  dall'art. 650  cod.  pen. o dall'art. 2 della legge n. 1423
del  1956,  poiche'  la  norma  censurata,  a  differenza  dei tertia
comparationis  evocati  dal  rimettente,  si caratterizzerebbe per la
complessita'  e  rilevanza  degli  interessi  tutelati,  tra  i quali
l'efficienza  della  politica  di  controllo  dei  flussi migratori e
l'osservanza dei vincoli internazionali assunti in materia;
        che  il Tribunale di Trieste in composizione monocratica, con
ordinanza  dell'11 marzo  2005 (r.o. n. 314 del 2005), ha sollevato -
in  riferimento  agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. - questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286
del  1998,  come  sostituito dall'art. 1 della legge n. 271 del 2004,
nella  parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a quattro
anni  per lo straniero espulso che rientri nel territorio dello Stato
senza la speciale autorizzazione del Ministro dell'interno;
        che   il   rimettente,  chiamato  a  valutare  una  richiesta
congiunta  di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. per
una  fattispecie  di  indebito  reingresso  nel territorio nazionale,
ritiene  che  i  valori edittali della sanzione siano sproporzionati,
per eccesso, rispetto al disvalore del fatto contestato;
        che,  secondo  il  Tribunale, la discrezionalita' legislativa
deve  essere  esercitata  secondo  criteri  di ragionevolezza, con la
conseguente  necessita',  sul  piano  delle  scelte sanzionatorie, di
assicurare  una  proporzione  fra  la  previsione  di pena e l'offesa
recata dalle condotte incriminate, tale da escludere che la punizione
produca,   per   l'individuo   aggressore   e   per  i  suoi  diritti
fondamentali,   danni   «sproporzionatamente  maggiori  dei  vantaggi
ottenuti (o da ottenere)» in termini di tutela del bene protetto;
        che   proprio   una   siffatta  sproporzione,  a  parere  del
rimettente,  segna  la  disciplina  dell'indebito  reingresso dopo la
riforma  attuata  con  la  legge n. 271 del 2004, in quanto l'odierno
minimo  edittale  della  pena risulta fissato nella stessa misura del
precedente   massimo,   senza   che   emerga,   neppure   dai  lavori
parlamentari, una giustificazione sostanziale dell'inasprimento;
        che la rottura della corrispondenza tra disvalore del fatto e
trattamento  sanzionatorio  risulterebbe  evidente, sempre secondo il
giudice  a  quo, considerando che la norma censurata prevede sanzioni
identiche a quelle comminate nella prima parte del comma 13-bis dello
stesso  art. 13  del  d.lgs.  n. 286  del  1998,  sebbene  tale norma
riguardi   l'indebito  reingresso  dopo  un  provvedimento  espulsivo
adottato  dal  giudice,  cioe'  un  fatto  piu'  grave  di  quello in
considerazione,  perche' presuppone che un reato sia stato commesso o
almeno   che   sia  stato  aperto,  nei  confronti  dell'espulso,  un
procedimento penale;
        che  l'entita'  della  sanzione edittale pregiudicherebbe non
solo  il valore costituzionale dell'uguaglianza, ma anche l'effettiva
capacita'  della  pena di operare per la rieducazione del condannato,
essendo  funzionali  in  tal  senso solo le sanzioni proporzionate al
fatto,   mentre,   nella  specie,  la  commisurazione  sarebbe  stata
disancorata  dagli  ordinari  parametri di riferimento, ed operata al
solo  fine  di  introdurre, per il reato in questione, un piu' severo
trattamento    processuale    (con    la    previsione   dell'arresto
obbligatorio);
        che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato, si e' costituito nel
giudizio  con  atto  depositato  il  12 luglio 2005, chiedendo che la
questione sia dichiarata infondata;
        che, infatti, con le variazioni introdotte per il trattamento
sanzionatorio dell'indebito reingresso nel territorio dello Stato, il
legislatore    avrebbe    ragionevolmente   esercitato   la   propria
discrezionalita',  in coerenza con l'analogo intervento sull'art. 14,
comma 5-ter,  del  testo  unico  in  materia  di  immigrazione, ed in
corrispondenza con la gravita' dei fatti considerati;
        che  la  denunciata  carenza  di  proporzionalita' della pena
prevista  dalla  norma  censurata, d'altra parte, non potrebbe essere
dimostrata  mediante  il  raffronto con l'identica pena comminata nel
comma 13-bis  dello  stesso  testo  unico,  dato  che l'assunto d'una
differente  gravita'  della  condotta  a  seconda  che  la  pregressa
espulsione  sia stata disposta dall'autorita' giudiziaria o da quella
amministrativa sarebbe privo di ogni giustificazione razionale;
        che  il Tribunale di Gorizia in composizione monocratica, con
ordinanza del 31 marzo 2005 (r.o. n. 318 del 2005), ha sollevato - in
riferimento  agli artt. 2, 3, 10 e 27, terzo comma, Cost. - questione
di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 13,  comma 13, del d.lgs.
n. 286  del  1998, come sostituito dall'art. 1 della legge n. 271 del
2004,  nella parte in cui prevede la pena minima della reclusione per
un  anno  per  lo  straniero espulso che rientri nel territorio dello
Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell'interno;
        che   il  rimettente,  investito  del  procedimento  relativo
all'indebito  reingresso nel territorio nazionale di uno straniero di
cittadinanza  (all'epoca) extracomunitaria, e chiamato a valutare una
richiesta congiunta di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444
cod. proc. pen., ritiene che la sanzione concordata tra le parti, pur
corrispondendo  al  minimo  edittale,  sia sproporzionata per eccesso
rispetto alla gravita' effettiva del fatto contestato;
        che,   secondo  il  Tribunale,  l'esercizio  razionale  della
discrezionalita' legislativa impone congruenza tra i vantaggi sociali
assicurati  mediante  la  comminatoria  della  pena ed i danni che la
conseguente  irrogazione  provoca  per  i  diritti  fondamentali  del
condannato;
        che  detta  congruenza,  a  parere  del  giudice  a  quo,  e'
necessaria   affinche'   la   pena,   fin  dalla  fase  dell'astratta
determinazione  dei  valori  edittali,  possa  esplicare un'efficacia
rieducativa;
        che  invece,  nel  caso  di specie, la sanzione sarebbe stata
determinata   dal   legislatore   senza  alcun  riguardo  ai  profili
sostanziali  del  fatto,  volendosi piuttosto assicurare, pur dopo la
citata  sentenza  n. 223  del 2004, un severo trattamento processuale
per  i  reati in materia di immigrazione (ed in particolare l'arresto
obbligatorio);
        che  le  nuove  scelte  sanzionatorie,  secondo il Tribunale,
sarebbero  esorbitanti perfino con riguardo alla finalita' dichiarata
e perseguita dal legislatore, dato che l'applicabilita' di una misura
cautelare  personale  per  il  reato  de  quo, necessaria per rendere
ammissibile  un  precedente arresto, avrebbe potuto essere assicurata
fissando   in   quattro  anni  il  limite  edittale  massimo  per  la
reclusione, senza necessita' di prevedere un valore minimo pari ad un
anno;
        che  la  norma censurata violerebbe l'art. 3 Cost., oltre che
per    il   difetto   di   ragionevolezza,   anche   per   l'indebita
discriminazione   istituita   tra  cittadini  comunitari  e  soggetti
extracomunitari,  posto  che  i  primi,  quando violano provvedimenti
amministrativi  dati  per ragioni di ordine pubblico, sono puniti con
blande  sanzioni  contravvenzionali  (come  accade  nei casi previsti
dall'art. 650  cod. pen. e dall'art. 2 della legge n. 1423 del 1956),
mentre  gli  stranieri  extracomunitari,  per un comportamento che il
rimettente  considera  assimilabile,  sono puniti con le sanzioni ben
piu' severe della norma oggetto di censura;
        che  il  rimettente  prospetta anche ulteriori violazioni del
terzo  comma dell'art. 27 Cost., dato che la sanzione penale verrebbe
applicata, nei casi in esame, «in mancanza di soggettivita' criminale
da  rieducare»,  e  che  sarebbe  comunque  irragionevole  dispiegare
attivita'  istituzionalmente  deputate  al  reinserimento sociale per
soggetti   cui   l'ordinamento  preclude,  in  via  definitiva,  ogni
possibilita'  di  soggiorno  nel territorio dello Stato e dell'Unione
europea;
        che sarebbero infine violati, sempre a parere del rimettente,
gli  artt. 2  e  10  Cost.,  che  garantiscono i «diritti inviolabili
dell'uomo  tra i quali rientra evidentemente il diritto alla liberta'
individuale»,  non  essendo  dubitabile che, «in ragione dell'art. 10
della   Costituzione,  tali  principi  fondamentali  spieghino  piena
vigenza  anche  nei confronti degli stranieri presenti nel territorio
della Repubblica»;
        che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato, si e' costituito nel
giudizio  con  atto depositato il 12 luglio 2005, chiedendo, mediante
la  prospettazione  degli  argomenti  gia' illustrati con riguardo ai
precedenti  atti  di  costituzione,  che  la questione sia dichiarata
infondata;
        che  il Tribunale di Trieste in composizione monocratica, con
ordinanza  del  23 aprile 2005 (r.o. n. 437 del 2005), ha sollevato -
in  riferimento  agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. - questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286
del  1998,  come  sostituito dall'art. 1 della legge n. 271 del 2004,
nella  parte  in  cui  prevede la pena minima della reclusione per un
anno  per lo straniero espulso che rientri nel territorio dello Stato
senza la speciale autorizzazione del Ministro dell'interno;
        che  il  rimettente  -  chiamato  a  valutare  una  richiesta
congiunta  di  applicazione  della  pena, ai sensi dell'art. 444 cod.
proc.  pen., per una fattispecie di indebito reingresso - ritiene che
la  sanzione  concordata  tra  le parti, pur corrispondendo al minimo
edittale,  sia  sproporzionata  per  eccesso  rispetto  alla gravita'
effettiva del fatto contestato;
        che   l'ordinanza   di  rimessione  e'  argomentata  mediante
citazione  testuale  ed integrale della motivazione del provvedimento
adottato  dal  Tribunale  di  Gorizia  in  data 19 gennaio 2005 (r.o.
n. 242 del 2005), gia' sopra riassunta;
        che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato, si e' costituito nel
giudizio   con   atto   depositato   l'11 ottobre   2005,  proponendo
osservazioni  e  conclusioni  analoghe  a quelle prospettate riguardo
alla citata ordinanza n. 242 del 2005;
        che  il Tribunale di Gorizia in composizione monocratica, con
ordinanza del 30 marzo 2005 (r.o. n. 462 del 2005), ha sollevato - in
riferimento  agli artt. 2, 3, 10 e 27, terzo comma, Cost. - questione
di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 13,  comma 13, del d.lgs.
n. 286  del  1998, come sostituito dall'art. 1 della legge n. 271 del
2004,  nella parte in cui prevede la pena minima della reclusione per
un  anno  per  lo  straniero espulso che rientri nel territorio dello
Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell'interno;
        che il rimettente, il quale procede con rito direttissimo nei
confronti  di  una  cittadina  extracomunitaria accusata del reato di
indebito  reingresso, ritiene integrata la prova del fatto contestato
ma reputa che la sanzione da irrogare, pur nel suo minimo valore, sia
sproporzionata per eccesso rispetto alla gravita' effettiva del fatto
medesimo;
        che,   secondo  il  Tribunale,  l'esercizio  razionale  della
discrezionalita'  legislativa  imporrebbe  congruenza  tra i vantaggi
sociali  assicurati mediante la comminatoria della pena e i danni che
la  conseguente  irrogazione determina per i diritti fondamentali del
condannato, e detta congruenza sarebbe necessaria affinche' la stessa
pena,  fin  dalla fase dell'astratta quantificazione, possa esplicare
un'efficacia rieducativa;
        che  invece  nel  caso di specie, a parere del rimettente, la
sanzione  sarebbe  stata  determinata senza alcun riguardo ai profili
sostanziali  del  fatto,  volendosi piuttosto assicurare, pur dopo la
sentenza  di  questa  Corte  n. 223  del  2004, un severo trattamento
processuale per i reati in materia di immigrazione (ed in particolare
l'arresto  obbligatorio, che per altro non era previsto riguardo alla
fattispecie di indebito reingresso);
        che  le  nuove  scelte  sanzionatorie,  secondo il Tribunale,
sarebbero  esorbitanti perfino con riguardo alla finalita' perseguita
dal  legislatore,  dato  che l'applicabilita' di una misura cautelare
personale,  necessaria per rendere ammissibile un precedente arresto,
avrebbe  potuto  essere assicurata fissando in quattro anni il limite
massimo  della  reclusione,  senza  necessita' di prevedere un valore
minimo pari ad un anno;
        che  la  norma censurata violerebbe l'art. 3 Cost., oltre che
per  l'intrinseca  irragionevolezza,  per  l'indebita discriminazione
istituita  tra cittadini comunitari e soggetti extracomunitari, posto
che  i  primi,  quando  violano provvedimenti amministrativi dati per
ragioni   di   ordine  pubblico,  sono  puniti  con  blande  sanzioni
contravvenzionali  (come  accade nei casi previsti dall'art. 650 cod.
pen.  e  dall'art. 2  della  legge  n. 1423  del  1956),  mentre  gli
stranieri  extracomunitari,  per  un  comportamento che il rimettente
considera  assimilabile,  sono puniti con le sanzioni ben piu' severe
della norma oggetto di censura;
        che sarebbero infine violati, sempre a parere del rimettente,
gli  artt. 2  e  10  Cost.,  che  garantiscono i «diritti inviolabili
dell'uomo  tra i quali rientra evidentemente il diritto alla liberta'
individuale»,  non  potendosi  negare  che,  «in ragione dell'art. 10
della   Costituzione,  tali  principi  fondamentali  spieghino  piena
vigenza  anche  nei confronti degli stranieri presenti nel territorio
della Repubblica»;
        che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato, si e' costituito nel
giudizio  con  atto  depositato  il 18 ottobre 2005, chiedendo che la
questione  sia dichiarata infondata per le ragioni gia' esposte con i
precedenti atti di intervento.
    Considerato  che  i  Tribunali  di Gorizia e Trieste, con quattro
delle ordinanze indicate in epigrafe (r.o. numeri 242, 318, 437 e 462
del  2005), hanno sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo
comma,  della Costituzione - questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 13,  comma 13,  del  decreto  legislativo  25 luglio  1998,
n. 286  (Testo  unico  delle  disposizioni  concernenti la disciplina
dell'immigrazione  e  norme  sulla condizione dello straniero) - come
sostituito   dall'art. 1   della   legge   12 novembre  2004,  n. 271
(Conversione   in   legge,   con   modificazioni,  del  decreto-legge
14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di
immigrazione)  -  nella  parte  in  cui  prevede la pena minima della
reclusione  pari  ad un anno per lo straniero espulso che rientri nel
territorio  dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro
dell'interno;
        che la stessa norma e' stata censurata, dal solo Tribunale di
Gorizia,  anche  con riferimento agli artt. 2 e 10 Cost. (r.o. numeri
318 e 462 del 2005);
        che il Tribunale di Trieste, con ordinanza dell'11 marzo 2005
(r.o.  n. 314 del 2005), ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e
27,  terzo  comma,  Cost.  - questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 13,  comma 13,  del d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito
dall'art. 1  della  legge n. 271 del 2004, nella parte in cui prevede
la  pena  della  reclusione  da  uno  a quattro anni per lo straniero
espulso  che  rientri  nel  territorio  dello Stato senza la speciale
autorizzazione del Ministro dell'interno;
        che   tutte   le  questioni  indicate  riguardano  l'asserita
sproporzione per eccesso del trattamento sanzionatorio previsto dalla
medesima  norma  incriminatrice, di talche' puo' disporsi la riunione
dei relativi giudizi;
        che,  in  epoca  successiva  alle ordinanze di rimessione, la
norma   incriminatrice  e'  stata  modificata  dall'art. 2,  comma 1,
lettera c)  del  decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5 (Attuazione
della  direttiva 2003/1986/CE relativa al diritto di ricongiungimento
familiare);
        che  il  divieto  per lo straniero espulso di far rientro nel
territorio  dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro
dell'interno  non  opera  piu',  in ragione della riforma, riguardo a
coloro   per  i  quali  sia  stato  autorizzato  il  ricongiungimento
familiare  ai  sensi  dell'art. 29 del d.lgs. n. 286 del 1998, sempre
che  la  pregressa  espulsione  sia  stata  disposta  dal prefetto in
applicazione  delle  lettere a)  o  b) del comma 2 dell'art. 13 dello
stesso t.u. in materia di immigrazione;
        che  l'inserimento  nella  fattispecie  incriminatrice  di un
ulteriore  presupposto  negativo  della  condotta  ha  modificato  la
fisionomia  del  comportamento  delittuoso,  limitando  la  rilevanza
penale   del   reingresso   ai   soli   casi   in  cui  lo  straniero
precedentemente   espulso   non  abbia  conseguito  ne'  la  speciale
autorizzazione ministeriale ne' l'autorizzazione al ricongiungimento;
        che  la  nuova  disciplina e' suscettibile di applicazione ai
fatti commessi in epoca antecedente alla riforma, secondo il disposto
del secondo comma dell'art. 2 del codice penale;
        che,  pertanto,  gli atti devono essere restituiti ai giudici
rimettenti   affinche'  procedano  ad  una  nuova  valutazione  della
rilevanza  delle questioni, posto che le disposizioni sul trattamento
sanzionatorio   presuppongono,   per  la  relativa  applicazione,  un
giudizio di perdurante rilievo penale delle condotte contestate.