P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 1) Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, dell'art. 443, comma 1, come modificato dall'art. 2 della predetta legge, nonche' dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della legge n. 46/2006 medesima per contrasto con gli articoli 24, 25, e 111, 112, secondo comma, e 3 della Costituzione e per le ragioni specificate in premessa; 2) Per l'effetto ordina trasmettersi immediatamente i relativi atti alla Corte costituzionale e sospende il processo nei confronti degli imputati; 3) Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza venga notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Bari, addi' 7 dicembre 2006 Il Presidente: Gagliardi Allegato La corte di assise di appello di Bari all'udienza del 14 giugno 2006 Ha emesso la seguente ordinanza. Nell'ambito del procedimento penale a carico di Francavilla Giuseppe ed altri per reati di cui agli artt. 416-bis c.p., 56-629 c.p., 10 e 12 legge n. 497/74, 56 e 575 c.p., definito con rito abbreviato, con sentenza del 29 aprile 2005 il G.u.p. presso il Tribunale di Bari assolveva l'imputato Sinesi Roberto dal reato ex art. 416-bis c.p. ascrittogli per non aver commesso il fatto. Avverso l'anzidetta pronuncia assolutoria il p.m. proponeva appello con atto de 7 dicembre 2005 e, fissata dinanzi a questa Corte di assise di appello l'udienza del 19 aprile 2006 per la discussione del gravame, nelle more entrava in vigore la legge 20 febbraio 2006, n. 46, che - al comma secondo dell'art. 10 - testualmente recita «l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall'imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della presente legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile»; Pertanto, nel corso della predetta udienza, il p.g. ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della Legge n. 46/06; dell'art. 443 comma 1 c.p.p., come modificato dall'art. 2 della legge predetta; nonche' dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della medesima legge, deducendo - sotto vari profili - il contrasto tra la normativa innanzi specificata e gli artt. 3, 111 e 24 della Costituzione. Cio' premesso, va rammentato che - al fine di sollevare la questione di legittimita' costituzionale - non e' sufficiente che la stessa appaia non manifestamente infondata, ma occorre inoltre che essa sia rilevante nel processo e cio' nel senso che il processo stesso non puo' essere definito senza la risoluzione di tale questione. L'art. 593 c.p.p., come novellato dall'art. 1 della Legge n. 46/2006, contempla una eccezione al principio della inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento giacche' il secondo comma di esso cosi' recita «l'imputato e il pubblico ministero possono appellare contro le sentenze di proscioglimento nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, se la nuova prova e' decisiva. Qualora 11 giudice, in via preliminare, non disponga la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, dichiara con ordinanza l'inammissibilita' dell'appello». Nel caso di specie con l'atto di appello il p.m. impugnante ha dedotto la sopravvenienza di prove nuove e di carattere decisivo, formulando conseguenzialmente richiesta di rinnovazione del dibattimento per l'assunzione delle stesse. Trattasi, quindi, di accertare se la disposizione di cui al secondo comma dell'art. 593 c.p.p., come attualmente novellato, sia applicabile anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 46/2006, giacche' appare evidente che, in caso di risposta affermativa, verrebbe meno il requisito della rilevanza della sollevata questione di legittimita' costituzionale, dovendosi in tale ipotesi ritenere ammissibile l'impugnazione proposta. Opina questa Corte che la disposizione di cui al secondo comma dell'art. 593 c.p.p., come attualmente novellato, trovi applicazione anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della Legge n. 46/2006, cio' deducendo - oltre che dalla portata generale della norma di cui al comma 1 dell'art. 10 della Legge suddetta (a mente della quale «la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima») - dalla considerazione che risulta costituzionalmente orientata (ed e' dunque da privilegiare) l'interpretazione che riconosce anche nei procedimenti gia' in corso l'operativita' dell'eccezione al principio dell'inappellabilita' delle sentenze di procedimento come prevista dal secondo comma dell'art. 593 c.p.p. sopra citato. Pertanto, essendosi nella specie dedotta con l'atto di impugnazione la sopravvenienza di prove nuove ed essendo - per costante giurisprudenza - consentita la rinnovazione del dibattimento anche nei giudizi abbreviati, l'appello proposto dal p.m. e' da considerarsi in astratto ammissibile. Deve pero' rimarcarsi che, ai fini dell'operativita' dell'eccezione predetta, non e' sufficiente che la prova dedotta con l'atto di impugnazione sia nuova, ma occorre anche che essa abbia un carattere decisivo e, nella specie, le nuove prove dedotte tale carattere non risultano presentare giacche', riferendosi le testimonianze da assumere a periodi notevolmente precedenti la costituzione del sodalizio oggetto di contestazione, nulla esse dicono in ordine al contributo eventualmente fornito dal Sinesi all'associazione per cui e' processo e, sotto altri aspetti, sembrano addirittura contraddire il ruolo che viene al medesimo attribuito. Ne deriva che, pur essendo in astratto ravvisabile l'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 593 c.p.p., come novellato, per essere state dedotte prove nuove, in concreto di tale previsione non puo' farsi uso nella specie, perche' le anzidette prove nuove non presentano un carattere decisivo. Ne discende che, per la ragione da ultimo accennata, deve in concreto escludersi l'ammissibilita' dell'appello proposto dal p.m. e cio' porta a riconoscere tuttora rilevanza alla questione di legittimita' proposta dal p.g.. Tutto cio' premesso, rileva la corte che la questione cosi' sollevata appare non manifestamente infondata con riguardo alla denunciata violazione dei principi di parita' e di ragionevolezza di cui agli artt. 111, secondo comma, e 3 della Costituzione. Invero, la norma posta dall'art. 593 c.p.p. come modificata dalla legge n. 46 del 2006, innovando il sistema previgente e stabilendo che imputato e accusa possono appellare solo le sentenze di condanna, da' luogo - a dispetto di una solo apparente «... uguaglianza ...» di attribuzioni - ad una sostanziale riduzione del potere di impugnazione della parte pubblica, unica portatrice dell'interesse ad appellare le sentenze di proscioglimento. Infatti, in virtu' di quanto disposto oggi dall'art. 593 c.p.p., a fronte della possibilita' riconosciuta all'imputato di appellare una sentenza di condanna (e, percio', di promuovere una rivisitazione critica nel merito delle risultanze del processo celebrato in primo grado), viene escluso analogo potere per la pubblica accusa relativamente alle sentenze di proscioglimento, avverso le quali e' possibile solo ricorrere per cassazione secondo il noto paradigma a critica vincolata (salva l'ipotesi residuale di cui al secondo comma del medesimo articolo 593). La diversificazione - in termini cosi' radicali - dei mezzi di impugnazione in capo alle parti del processo determina inevitabilmente una sensibile alterazione della «condizione di parita», senza che (e cio' risulta essere di decisivo rilievo) tale alterazione appaia riconducibile al criterio della ragionevolezza e possa, per tale via, essere ritenuta compatibile con i principi costituzionali sopra richiamati. In particolare, gli articoli di legge denunciati appaiono in contrasto con quanto disposto dall'art. 111 Cost., laddove stabilisce al secondo comma che «... ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita'...», nonche' con l'art. 3 della stessa Costituzione che, sancendo il principio di uguaglianza, impone il limite della ragionevolezza in tutti i casi in cui la legge ordinaria detti discipline diversificate in funzione di situazioni differenti. Tale ultimo concetto e' stato in piu' occasioni e con chiarezza ribadito dalla Corte costituzionale, leggendosi testualmente nella sentenza n. 89 del 1996: «... Se, dunque, il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtu' del quale a situazioni eguali deve corrispondere l'identica disciplina e, all'inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, cio' equivale a postulare che la disamina della conformita' di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul " perche'" una determinata disciplina oper all'interno del tessuto egualitario dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo. Il giudizio di eguaglianza, pertanto,... e' in se' un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di conformita' tra la regola introdotta e la "causa" normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa e' chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sara' la stessa "ragione" della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell'eguaglianza. Ogni tessuto normativo presenta, quindi, e deve anzi presentare, una "motivazione" obiettivata nel sistema, che si manifesta come entita' tipizzante del tutto avulsa dai "motivi" storicamente contingenti, che possono aver indotto il legislatore a formulare una specifica opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturira' la verifica di una carenza di "causa" o "ragione" della disciplina introdotta, allora e soltanto allora potra' dirsi realizzato un vizio di legittimita' costituzionale della norma, proprio perche' fondato sulla "irragionevole" e per cio' stesso arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe...». Chiarito dunque che il limite della ragionevolezza rappresenta l'essenza stessa del principio di eguaglianza, va soggiunto che l'art. 111 Cost. individua il principio del contraddittorio non solo come metodo di formazione della prova nel processo penale (comma quarto), ma anche (e soprattutto) - con l'affermazione di portata generale contenuta nel secondo comma - come regola avente la valenza oggettiva di mezzo per raggiungere la verita' e la correttezza della decisione processuale. E' principio, cioe', che identifica il metodo che deve presiedere allo svolgimento del processo in ogni fase. E' sicuramente vero che il doppio grado di merito, come si avra' modo di meglio chiarire successivamente, non rappresenta una opzione garantita da copertura costituzionale. E', pero', altrettanto innegabile che, qualora la si operi (con cio' stesso riconoscendo la necessita' di un controllo a garanzia contro gli eventuali errori commessi dal primo giudice), il metodo dialettico costituzionalmente prescelto, e valutato come il piu' adeguato al fine ultimo del processo, importa inevitabilmente che ciascuna parte sia posta nella condizione di promuovere quel controllo destinato a tradursi in un approfondimento della conoscenza dei fatti processuali attraverso la critica a tutto campo vuoi degli elementi sui quali si basa l'accertamento del fatto, vuoi del ragionamento attraverso il quale il primo giudice ha valutato le prove ed e' pervenuto alla sua decisione. In altri termini, il principio del contraddittorio in condizioni di parita' non puo' avere una operativita' limitata alla fase precedente l'emanazione della sentenza ma, a causa della valenza a portata metodologica assegnatagli dalla Costituzione, deve esplicarsi anche nelle fasi successive, posto che queste ultime - al pari della prima - sono finalizzate non solo a garantire l'innocente ma, piu' in generale, a ricercare la verita'. Che tale ultima ricerca rappresenti «il fine primario e ineludibile del processo penale», in un ordinamento «improntato al principio di legalita' (art. 25, secondo comma Cost.) - che rende doverosa la punizione di condotte penalmente sanzionate - nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale», e' stato piu' volte ribadito dalla Corte costituzionale (cfr. ex plurimis: sentenza n. 111/1993), la quale ha altresi' riconosciuto che il processo penale, volto alla ricerca della verita' per la riaffermazione dei valori irrinunciabili della legalita' e dell'eguaglianza dei cittadini e' costruito come «processo di parti» e che, all'interno di «un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e di legalita», e' attribuito al p.m. - «magistrato indipendente appartenente all'ordine giudiziario» - il ruolo di parte che «agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge» (cfr. sentenza n. 255/1992). Se tale e' il quadro costituzionale di riferimento, la violazione della regola metodologica generale di cui al secondo comma dell'art. 111 Cost. (violazione rappresentata dalla esclusione radicale del potere del p.m. di promuovere una rivisitazione critica nel merito della decisione di proscioglimento) si configura come una vera e propria alterazione di quel quadro, al quale «non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione» (cfr. sentenza n. 111/1993). Non si ignora che l'ordinamento conosce non poche asimmetrie tra i poteri delle parti del processo e cio' anche con riguardo alla disciplina delle impugnazioni. Trattasi, pero', di asimmetrie che esprimono la diversita' di posizione sostanziale e processuale tra il p.m. e l'imputato, dovendosi qui ribadire che il principio di parita' deve essere comunque adeguato alla natura dell'interesse sostanziale sotteso alla specifica disciplina. Tale e' il senso delle numerose pronunce della Corte costituzionale che, valutando le disparita' di poteri tra le parti di volta in volta denunciate, ha escluso che con le stesse restassero violati i principi di cui agli artt. 3, 111 (e 112) Cost. in quanto giustificate da altri interessi meritevoli di tutela, preminenti sul piano costituzionale, e cio' in un'ottica di bilanciamento che non sacrifica irrimediabilmente uno dei valori eventualmente in conflitto. In altri termini, alla stregua della consolidata giurisprudenza costituzionale, deve ritenersi pacifico che puo' anche esservi un trattamento differenziato tra le parti processuali, con attribuzione di poteri diversi anche con riguardo alla specifica materia delle impugnazioni, senza che tale diversita' si ponga di per se' sola in contrasto con i precetti costituzionali. E', pero', altrettanto pacifico che la compatibilita' costituzionale della disparita' di poteri tra le parti processuali e' sempre stata subordinata alla sussistenza del limite della ragionevolezza e cio' con riferimento alla posizione istituzionale del p.m., alla funzione allo stesso affidata ed alle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia. Significativa in tale senso e' la sentenza n. 401 del 2001 con la quale, premesso che nell'indicata ottica era stato «gia' escluso - proprio con riferimento alla nuova disciplina del giudizio abbreviato introdotta dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 - che il mancato riconoscimento al pubblico ministero di un potere di iniziativa probatoria, analogo a quello attribuito., all'imputato..., violi il nuovo parametro costituzionale "dal momento che" si tratta di asimmetria ragionevolmente giustificata dalla diversa posizione in cui vengono a trovarsi i due soggetti processuali nell'ambito del giudizio abbreviato (cfr. sentenza n. 115 del 2001)», si ribadi' da parte della Corte che «nella cornice di un sistema nel quale il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale e il potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale (cfr. sentenza n. 280 del 1995; ordinanza n. 426 del 1998) - la preclusione dell'appello della parte pubblica contro le sentenze di condanna continua a trovare giustificazione - come per il passato (cfr. sentenze n. 98 del 1994 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del 1991) - nell'obbiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado con il rito abbreviato di cui si tratta». Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale si trae, dunque, il chiaro principio per il quale le possibili asimmetrie di poteri tra le parti, di per se' non necessariamente contrastanti con il dettato degli artt. 3, 111 e 112 Cost., devono comunque trovare giustificazione nella salvaguardia di qualche interesse di rango costituzionale pari o superiore; giustificazione che sola puo' ricondurre detta asimmetria nei limiti della ragionevolezza. E' proprio nelle richiamate pronunce del giudice delle leggi che si rinviene l'indirizzo interpretativo che consente oggi di eccepire l'illegittimita' costituzionale della normativa sopra specificata, apparendo evidente che quest'ultima determina uno squilibrio nella posizione delle parti privo di ragionevolezza e destinato a ripercuotersi a catena sul complessivo assetto del processo penale (che cosi' perde coerenza ed armonia), senza che nel contempo sia tutelato in cambio alcun valore costituzionale alternativo. In particolare, e' da escludere che la compressione del potere di impugnazione del p.m. possa considerarsi bilanciata dalla salvaguardia di quel valore cosituzionale che va comunemente sotto il nome di «ragionevole durata del processo». Si e' gia' rammentato che le sentenze della Corte costituzionale, nel ritenere riconducibile al principio della ragionevolezza - nell'ipotesi di giudizio abbreviato - tanto la contrazione dei poteri di iniziativa probatoria (sent. n. 115/2001), quanto la contrazione del potere di impugnazione del p.m. (sent. n. 421/2001), cio' hanno affermato in ragione della peculiarita' del rito abbreviato, considerando cioe' la denunciata disparita' come funzionale «all'obbiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo» e rispondendo «il minor dispendio di tempo e di energie processuali», che di quel rito «resta un carattere essenziale», all'interesse - costituzionalmente protetto - della ragionevole durata del processo medesimo. La riforma introdotta dalla legge n. 46 del 2006, con il suo «carattere disorganico e asistematico» denunciato dal Capo dello Stato nel messaggio alle Camere del 20 gennaio 2006, non risponde affatto alle esigenze di accelerazione dei tempi del processo. Al contrario, istituzionalizza uno schema processuale che, in caso di annullamento della sentenza di proscioglimento intervenuta in primo grado e stante il carattere rescindente del ricorso di legittimita', comportera' non meno di cinque gradi di giudizio (primo grado, ricorso per cassazione del p.m., nuovo primo grado, secondo grado e ricorso per cassazione dell'imputato contro eventuale sentenza di condanna). In altri termini, se prima della riforma i processi conclusi in primo grado con sentenza di proscioglimento si definivano in tre gradi di giudizio (ovvero in quattro, nei casi del ricorso per saltum seguito da annullamento e rinvio al giudice appello ex art. 569, quarto comma, c.p.p.), con la nuova disciplina il sistema comportera' fisiologicamente un allungamento dei tempi nei quali e' destinato a concludersi il processo. Il che, se da un lato esclude che il sacrificio del principio di parita' delle parti possa ritenersi bilanciato dalla maggiore tutela assicurata al diritto dell'imputato ad essere giudicato in tempi ragionevoli, dall'altro porta ad evidenziare un ulteriore profilo di illegittimita' della norma denunciata che, di fatto, finisce col violare anche il principio costituzionalizzato nella parte finale del secondo comma dell'art. 111 Cost. e, cioe', il diritto della persona accusata alla rapida definizione del processo. Diritto - quest'ultimo - la cui tutela rappresenta oggi un obbiettivo primario ed urgente ove si abbia riguardo alle numerosissime sentenze con le quali la Corte europea dei diritti dell'uomo, pronunciando nei confronti dell'Italia, ha riconosciuto la violazione dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'uomo che, come e' noto, obbliga gli Stati contraenti ad organizzare il sistema giudiziario, in termini tali da assicurare la ragionevole durata del processo. Alla citata norma internazionale fanno espresso riferimento anche alcune decisioni della Corte costituzionale per ribadire che quello della ragionevole durata del processo rappresenta un bene costituzionale e per inserire il relativo diritto tra quelli fondamentali del nostro ordinamento, oggetto di immediata ed inviolabile tutela (cfr. sent. n. 78 del 2002, n. 888 del 1992 e ordinanza n. 305 del 2001). Il profilo di incompatibilita' della normativa denunciata con il bene costituzionale della ragionevole durata del processo ha formato, tra l'altro, oggetto di puntuale richiamo da parte del capo dello Stato che, nel messaggio alle Camere del 20 gennaio 2006, ha rilevato come «una delle finalita' della legge avrebbe dovuto essere quella della deflazione del carico di lavoro della giustizia penale, mentre, come si e' piu' sopra posto in luce, la legge approvata provochera' invece un insostenibile aggravio di lavoro, con allungamento certo dei tempi del processo». Escluso che il sacrificio, del principio di parita' delle parti trovi un bilanciamento nella maggiore tutela del bene - costituzionalmente protetto - della ragionevole durata del processo, va rilevato che un bilanciamento siffatto neppure potrebbe essere ravvisato nel cd. principio della «doppia conforme». Nei lavori preparatori si e' frequentemente fatto riferimento al diritto dell'imputato ad avere un doppio grado di giudizio di merito nell'ipotesi di condanna e, di conseguenza, si e' giustificata la scelta di escludere l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento proprio con l'esigenza di evitare che taluno, assolto in primo grado e condannato in grado di appello, venga privato dell'anzidetto diritto. E', pero', agevole replicare che il diritto al doppio grado di giudizio di merito non e' riconosciuto ne' dalla carta costituzionale, ne' dalle convenzioni internazionali. La stessa Corte costituzionale si e' piu' volte pronunciata in tal senso, chiarendo che l'art. 2, comma 1, del protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali «non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito. La formulazione dell'art. 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del diritto di impugnazione, non esclude, infatti, che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso per cassazione, gia' previsto dalla Costituzione italiana». Le indicazioni cosi' fornite sono destinate a spiegare riflessi sulla valutazione delle motivazioni, di ordine diverso, che pure sono state evocate durante i lavori parlamentari a sostegno della riforma cosi' come articolata e della scelta di assicurare, nell'ipotesi di condanna, la cd. «doppia conforme». Invero, l'esigenza di escludere che un individuo, gia' riconosciuto innocente all'esito di un regolare processo, venga nuovamente sottoposto ai patimenti del processo penale per consentire al p.m. di provare davanti ad altro giudice che il primo e' caduto in errore; l'assenta contraddittorieta' di un sistema che consente di modificare la prima favorevole decisione, assunta nel rispetto dei principi dell'oralita' e dell'immediatezza coerenti al rito accusatorio, sulla base di un secondo giudizio svolto invece sulle sole carte; l'affermazione secondo cui, intervenuta una sentenza di proscioglimento, l'eventuale successiva condanna verrebbe inevitabilmente inficiata da un ragionevole dubbio sulla colpevolezza (e cio' in violazione dell'art. 533, comma 1, come modificato dalla stessa legge n. 46 del 2006); sono tutte argomentazioni che, se valutate alla luce della giurisprudenza del giudice delle leggi, non conducono comunque ad individuare un valore costituzionalmente garantito che sia in grado di bilanciare l'amputazione del potere di impugnazione nel merito di una sola delle parti processuali. E' innegabile che la soluzione della cd. «doppia conforme» nasce da incongruenze di sistema originate dal mancato adeguamento del regime delle impugnazioni (ed, in particolare, del giudizio di appello) alla scelta del metodo accusatorio operata con la riforma del 1989. Non e' un caso che tali incongruenze agitano da tempo il dibattito dottrinale e giurisprudenziale e pongono il problema di una «(ri)perimetrazione delle opzioni decisorie consentite al giudice d'appello», se non addirittura di un generale ripensamento del «sistema delle impugnazioni... alla luce dei criteri ispiratori del codice vigente dal 1989» (cfr. Cass., s.u., sent. 30 ottobre 2003, n. 45276, Andreotti). Ma l'esistenza di una esigenza siffatta non puo' di per se' sola tradursi in una giustificazione della scelta operata con la legge n. 46 del 2006: la soluzione adottata dal legislatore, comportando una indubbia asimmetria nella posizione delle parti del processo, in tanto puo' ritenersi costituzionalmente compatibile in quanto sia riconducibile nei binari della ragionevolezza (binari della ragionevolezza che, a loro volta, devono essere segnati non dalla mera necessita' di un cambiamento, ma solo dal bilanciamento del sacrificio del principio di parita' con la tutela di un concorrente e superiore interesse di rango costituzionale). Tale interesse, per quanto sopra specificato, non e' identificabile ne' nella ragionevole durata del processo (esigenza che, anzi, viene ulteriormente frustrata dalla riforma), ne' nella necessita' di un doppio grado di giudizio di merito nell'ipotesi di condanna (necessita' di per se' estranea ai principi fondamentali della carta costituzionale ed alle convenzioni internazionali in materia). In definitiva, a fronte del sacrificio del principio di parita' delle parti del processo, non e' dato scorgere il rafforzamento della tutela di altro concorrente interesse di rango costituzionale e, pertanto, il sacrificio medesimo sembra violare il limite della ragionevolezza (che del principio di uguaglianza rappresenta l'essenza stessa), esso traducendosi in una ingiustificata asimmetria nella posizione delle parti. Le considerazioni sopra svolte, evidenziando profili di dubbia legittimita' costituzionale della normativa denunciata, richiedono l'intervento della Corte costituzionale. La rilevanza della questione di legittimita' costituzionale cosi' sollevata e' in re ipsa, apparendo evidente che l'eventuale accoglimento della stessa consentirebbe di celebrare a carico degli imputati prima menzionati quel giudizio di appello che e' allo stato precluso dalla normativa denunciata. P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87: 1) dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, dell'art. 443 comma 1, come modificato dall'art. 2 della predetta legge, nonche' dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della legge n. 46/2006 medesima per contrasto con gli articoli 111, comma 2, e 3 della Costituzione e per le ragioni specificate in premessa; 2) per l'effetto, previa separazione della posizione relativa all'imputato Sinesi Roberto, ordina trasmettersi immediatamente i relativi atti alla Corte costituzionale e sospende il processo nei confronti del medesimo imputato; 3) ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza venga notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Bari, addi' 14 giugno 2006 Il Presidente: Coferra 07C1089