Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona  del  Presidente
della Giunta regionale  pro-tempore  Vasco  Errani,  autorizzato  con
deliberazione della Giunta regionale 14 novembre 2011, n. 1645  (doc.
1), rappresentata e difesa,  come  da  procura  speciale  rogata  dal
notaio dott. Michele Zerbini del Collegio di Bologna il  14  novembre
2011, repertorio n. 41257  (doc.  2),  dall'avv.  prof.  Giandomenico
Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco Mastragostino di  Bologna  e
dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio  eletto  in  Roma  nello
studio di quest'ultimo in via Confalonieri, n. 5, 
    Contro il Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale: 
        del decreto-legge 13 agosto 2011 n.  138,  recante  Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo  sviluppo,
in quanto convertito, con modificazioni, nella legge n. 148 del 2011,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. del  16  settembre  2011,  con
riferimento alle seguenti disposizioni: 
          articolo 3, commi 2, 3, 4„ 10 e 11; articolo 4, commi  8  e
12, 13, 14, 32 33; articolo 11; articolo 14, comma 1; articolo 16; 
    Per violazione: 
        degli articoli 3, 5, 75, 77, 97, 100,  103,  114,  117,  118,
119, 121, 123 e 133 della Costituzione; 
        del principi di legalita' sostanziale, di non discriminazione
e  di  ragionevolezza,  di  certezza   del   diritto   e   di   leale
collaborazione; 
        nei modi e per i profili di seguito illustrati. 
 
                                Fatto 
 
    Il decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138  ha  introdotto  Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo  sviluppo.
Esso e' stato poi convertito, con modificazioni, nella legge  n.  148
del 2011.  La  presente  impugnazione  si  rivolge  dunque  a  talune
disposizioni del decreto-legge, in quanto esse sono state  convertite
dalla citata legge e nella forma che con essa hanno assunto. 
    Naturalmente la Regione Emilia-Romagna e' ben  consapevole  delle
gravi ragioni, legate alla situazione  della  finanza  pubblica,  che
hanno fornito la motivazione per le diverse disposizioni del decreto.
Ritiene pero' che anche le misure restrittive  debbano  muoversi  nel
quadro delle regole costituzionali dei  rapporti  tra  lo  Stato,  le
Regioni e le autonomie locali, e che anzi il rispetto di tali  regole
sia  necessario  sempre,  ma  lo  sia  ancor  piu'  quando  la   loro
applicazione  comporta  sacrifici  per  le   comunita'   territoriali
coinvolte e per le persone che di esse fanno parte. 
    Cio' premesso, la ricorrente Regione Emilia-Romagna  ritiene  che
le disposizioni sopra  indicate  siano  lesive  della  sua  autonomia
regionale   costituzionalmente   garantita,    nonche'    in    parte
dell'autonomia garantita agli enti locali della Regioni, e che dunque
esse risultino costituzionalmente illegittime per le seguenti ragioni
di 
 
                               Diritto 
 
I. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 3, recante Abrogazione
delle  indebite  restrizioni  all'accesso   e   all'esercizio   delle
professioni e delle attivita' economiche, in relazione ai commi 2, 3,
4, 10 e 11. 
    L'art. 3 e' dedicato,  come  ricorda  la  sua  intitolazione,  al
tentativo  di  semplificare  il  regime  giuridico  al   quale   sono
sottoposte le attivita' economiche, nel quadro pero' della necessaria
salvaguardia dei valori pubblici concorrenti e spesso contrapposti. 
    Esso si apre enunciando, al comma 1, un principio, e prescrivendo
che l'ordinamento di tutti gli enti  territoriali,  dai  Comuni  allo
Stato, vi si adegui. 
    Il  principio  consiste  nella  statuizione  secondo   la   quale
«l'iniziativa e l'attivita'  economica  privata  sono  libere  ed  e'
permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge  nei
soli casi di: 
        a) vincoli derivanti  dall'ordinamento  comunitario  e  dagli
obblighi internazionali; 
        b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; 
        c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e
contrasto con l'utilita' sociale; 
        d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute
umana,  la   conservazione   delle   specie   animali   e   vegetali,
dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; 
        e) disposizioni relative alle attivita' di raccolta di giochi
pubblici  ovvero  che  comunque  comportano  effetti  sulla   finanza
pubblica». 
    Il comma 1, ora illustrato,  non  forma  oggetto  della  presente
impugnazione. 
    Esso pone un ovvio principio di liberta' e non meno ovvie  regole
che lo limitano, ponendo «eccezioni» che in  realta'  consistono  nel
riferimento a valori  ampi  ed  indeterminati,  che  non  restringono
affatto l'ambito dei possibili divieti, e si traducono in un richiamo
ad un principio di ragionevolezza. Si puo' affermare senza  paura  di
sbagliare che tutti i divieti oggi esistenti potrebbero giustificarsi
in base ad una o piu' delle categorie enunciate. 
    Il problema che si pone, come si  dira',  consiste  invece  nella
circostanza che per la stessa ragione esso non e'  in  grado  ne'  di
funzionare  da  norma  parametro  della  possibile   abrogazione   di
particolari regimi amministrativi, ne' di  fungere  da  significativa
indicazione dei contenuti di una possibile normazione attuativa. 
    Il  comma  secondo  dell'art.  3  stabilisce  che  «il  comma   1
costituisce principio fondamentale per lo sviluppo economico e  attua
la piena tutela della concorrenza tra le imprese». 
    Esso costituisce dunque una qualificazione giuridica del comma 1.
Esso forma oggetto della presente impugnazione per la circostanza che
le qualificazioni che esso assegna ad avviso della ricorrente Regione
sono o del tutto prive di significato, o comunque erronee. 
    Che  il  comma  I  costituisca  «principio  fondamentale  per  lo
sviluppo economico» potra' essere affermato  in  senso  generico,  ma
tradotto in termini di qualificazione giuridica risulta privo di ogni
significato.  Infatti,  lo  sviluppo  economico  non  e'  materia  di
potesta' legislativa concorrente tra lo Stato  e  le  Regioni,  e  in
quanto  considerato  come  materia  e'   semmai   materia   residuale
regionale. Non vi  e'  dunque  alcuno  specifico  potere  statale  di
dettare principi fondamentali. 
    Ne' si vede quale possa  essere  il  significato  concreto  della
enunciazione secondo la quale il comma 1 «attua la piena tutela della
concorrenza tra le imprese». 
    Esso stabilisce - come gia' l'art. 41 Cost. - il principio  della
libera iniziativa economica, e lo tempera -  sempre  come  l'art.  41
Cost. - con la necessaria tutela di  altri  valori  competitivi,  gli
stessi che l'art. 41 sintetizza nella tutela della utilita' sociale e
della sicurezza, liberta' e dignita' umana, prescrivendo che anche  a
tal fine vi siano «i programmi e i controlli opportuni». 
    Esso dunque descrive i criteri del bilanciamento tra la  liberta'
di impresa e le sue limitazioni, e non tutela la concorrenza piu'  di
quanto la tuteli qualunque altra regola alla quale tutte  le  imprese
siano soggette. 
    Da sempre le Regioni sono competenti,  nelle  proprie  materie  e
secondo le regole  di  ciascuna,  a  porre  limiti  all'attivita'  di
impresa per la tutela dei valori enunciati al comma  1.  Il  comma  2
sarebbe dunque  del  tutto  illegittimo  ove  con  tale  enunciazione
volesse affermare la competenza esclusiva statale in materia. 
    Ma che cio' non sia, risulta dallo stesso comma 1, che impegna le
stesse Regioni ad adeguare il proprio  ordinamento  al  principio  in
esso enunciato, cosi' direttamente  riconoscendo  la  competenza  del
legislatore regionale. 
    Il nucleo centrale della presente  impugnazione  ha  comunque  ad
oggetto i meccanismi giuridici che, secondo  il  comma  3  dovrebbero
garantire l'operativita' del comma 1. 
    A termini  del  comma  3,  primo  periodo,  «sono  in  ogni  caso
soppresse, alla scadenza del termine di  cui  al  comma  1»  -  cioe'
decorso il termine di un anno - «le  disposizioni  normative  statali
incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con conseguente
diretta applicazione degli istituti della segnalazione di  inizio  di
attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi». 
    Cosi' disponendo il comma 3, pur utilizzando il termine  atecnico
della soppressione introduce indubbiamente un meccanismo  abrogativo,
che tuttavia non e' in grado di funzionare, per le ragioni gia' sopra
esposte. Infatti, nessun divieto o limitazione posta dalla  legge  e'
puramente capriccioso, e tutti hanno necessariamente un fondamento in
termini di tutela della sicurezza, liberta', dignita' umana,  o  sono
destinati ad evitare un contrasto  con  l'utilita'  sociale,  o  sono
stati ritenuti indispensabili per la protezione della  salute  umana,
la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente,  del
paesaggio e del patrimonio culturale. 
    Il  problema  e'  piuttosto  quello  di   trovare   un   corretto
bilanciamento tra le diverse esigenze,  ma  cio'  non  puo'  avvenire
attraverso un meccanismo abrogativo che si limiti  a  confrontare  un
astratto principio di liberta' con i limiti che proteggono  i  valori
contrapposti, ma deve essere operato in concreto,  norma  per  norma,
attraverso la specifica fissazione normativa di un nuovo equilibrio. 
    Di difficile comprensione e' poi la previsione della sostituzione
delle disposizioni «soppresse» con i meccanismi della segnalazione di
inizio  di  attivita'   e   dell'autocertificazione   con   controlli
successivi:  si  tratta  infatti  di   meccanismi   (previsti   dalla
legislazione  sul  procedimento  amministrativo)   che,   quando   ne
ricorrono i presupposti, sono gia' autoapplicativi e prevalenti sulle
discipline di settore: mentre se non ne ricorrono i  presupposti  non
si vede come essi potrebbero essere applicati. 
    La disposizione risulta dunque  illegittima  per  violazione  del
principio di ragionevolezza, dedotto dall'art. 3 Cost., del principio
di buon andamento, di cui all'art. 97, primo  comma,  Cost.,  nonche'
del principio di certezza  del  diritto,  palesemente  violato  dalla
assoluta incertezza sulla disciplina vigente  che  deriverebbe  dalla
applicazione del comma 3. 
    Conviene precisare che la Regione ritiene di essere legittimata a
far valere il vizio enunciato  anche  se  il  comma  3  si  riferisce
apparentemente alle sole disposizioni normative statali. Infatti,  la
legittimazione e lo stesso interesse della Regione verrebbero meno se
si potesse intendere che il comma 3 e' destinato ad operare  soltanto
negli ambiti in cui non puo' intervenire la  legislazione  regionale,
cioe' negli ambiti materiali statali  chiaramente  ed  oggettivamente
distinti dagli ambiti di legislazione regionale. 
    Sennonche', proprio i principi  enunciati  al  comma  2  lasciano
invece pensare che la disposizione intenda operare anche negli ambiti
in cui e' legittimata ad intervenire la  legislazione  regionale:  di
qui la legittimazione e  l'interesse  al  ricorso,  dal  momento  che
l'abrogazione  delle  disposizioni  statali  e  la  sostituzione  dei
meccanismi vigenti con i meccanismi della segnalazione di  inizio  di
attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi verrebbe
ad incidere sulla applicazione della legislazione regionale. 
    Le considerazioni sopra  svolte  circa  l'impossibilita'  di  una
applicazione diretta del  comma  1  nella  direzione  di  un  sensato
giudizio di abrogazione delle singole discipline vigenti nei  diversi
settori inducono ad affermare che la vera funzione del  comma  3  sta
nel fungere da  premessa  al  «vero»  meccanismo  attuativo  previsto
dall'art. 3: il potere regolamentare statale previsto dal  secondo  e
terzo periodo. 
    Dispone  infatti  ancora  il  comma  3  che  «nelle  more   della
decorrenza del predetto termine, l'adeguamento al principio di cui al
comma 1 puo' avvenire  anche  attraverso  gli  strumenti  vigenti  di
semplificazione normativa» (secondo  periodo)  e  che  «entro  il  31
dicembre 2012 il Governo  e'  autorizzato  ad  adottare  uno  o  piu'
regolamenti ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto
1988, n.  400,  con  i  quali  vengono  individuate  le  disposizioni
abrogate per effetto di quanto disposto  nel  presente  comma  ed  e'
definita  la  disciplina  regolamentare   della   materia   ai   fini
dell'adeguamento al principio di cui al comma 1» (terzo periodo). 
    La previsione di un  meccanismo  di  integrazione  normativa  che
settore per settore e norma per norma provveda a compiere ex novo  la
valutazione necessaria per  stabilire  un  nuovo  equilibrio  tra  il
principio della liberta' di impresa e  la  tutela  costituzionalmente
dovuta dei valori antagonisti si spiega facilmente, alla  luce  della
illustrata impossibilita' giuridica di una  attuazione  del  comma  1
attraverso il meccanismo della abrogazione implicita. 
    Ma  per  la  stessa  ragione  la  previsione  di  regolamenti  di
semplificazione e di  delegificazione  si  rivela  costituzionalmente
illegittima, in primo luogo per violazione del principio di legalita'
sostanziale. Sono infatti del tutto generici, ed  in  pratica  dunque
assolutamente  assenti,  quei  criteri,  indicazioni  e  vincoli   di
contenuto che devono costituire la cornice legislativa al cui interno
puo' esplicarsi: sicche'  la  disciplina  regolamentare  finisce  per
essere meramente potestativa da parte del potere esecutivo. 
    Inoltre, l'assenza di  qualunque  delimitazione  di  materia  del
potere regolamentare cosi' creato finisce per estenderne l'ambito sia
alle materie di potesta' concorrente che  alle  materie  di  potesta'
residuale regionale, con specifica violazione  dell'art.  117,  sesto
comma. 
    In  subordine,  ove  in   denegata   ipotesi   per   ragioni   di
sussidiarieta' dovesse essere  ammessa  la  legittimita'  del  potere
regolamentare cosi'  attribuito,  la  sua  disciplina  procedimentale
rimarrebbe illegittima per la mancata previsione dell'intesa  con  la
Conferenza Stato Regioni per i profili di connessione o  interferenza
con le materie regionali. 
    Il comma 4 dell'art. 3  dispone  che  «l'adeguamento  di  Comuni,
Province e Regioni all'obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento
di valutazione della virtuosita' dei predetti enti ai sensi dell'art.
20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla
legge 15 luglio 2011, n. 111». 
    Ad avviso della ricorrente Regione, anche  tale  disposizione  e'
illegittima, sotto un duplice profilo. 
    In primo luogo, essendo (come sopra esposto) i criteri  ai  quali
le Regioni dovrebbero adeguarsi del  tutto  generici  ed  indefiniti,
cosi'  come  risulta  impossibile  un  giudizio  di  abrogazione   di
specifica disciplina,  allo  stesso  modo  risulta  indeterminato  il
dovere  di  adeguamento,  ed  ulteriormente  privo  di  parametri  il
giudizio  sull'avvenuto  o  non  avvenuto  adeguamento.  Di  qui   la
complessiva incertezza  ed  irrazionalita'  della  disciplina,  e  la
sottoposizione della potesta' legislativa regionale a limiti  diversi
da quelli previsti dalla Costituzione. 
    In secondo luogo, se anche i criteri ai quali  adeguarsi  fossero
definiti, non vi e' alcun collegamento razionale  tra  le  discipline
regionali in questione e lo stato della finanza regionale, sicche' e'
del tutto incongruo che  la  Regione  possa  venire  finanziariamente
penalizzata per presunti  mancati  adeguamenti  ai  principi  statali
nell'esercizio della potesta' legislativa. 
    I  commi  8  e  9  -  che  non  formano  oggetto  della  presente
impugnazione - prevedono la  diretta  abrogazione  di  una  serie  di
restrizioni all'esercizio di attivita' economiche. 
    E' invece impugnato il comma 10, secondo il quale «le restrizioni
diverse da quelle elencate nel  comma  9  precedente  possono  essere
revocate con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17,  comma
2, della legge 23 agosto  1988,  n.  400,  emanato  su  proposta  del
Ministro competente». 
    Tale potere  regolamentare  risulta  illegittimo  per  le  stesse
ragioni gia' illustrate in relazione al  comma  3,  secondo  e  terzo
periodo: violazione  del  principio  di  legalita'  sostanziale,  per
assenza di qualunque criterio al cui interno il potere  regolamentare
possa dirsi meramente  esecutivo,  violazione  dell'art.  117,  sesto
comma, in quanto il regolamento possa estendersi ad oggetti ed ambiti
di competenza regionale; in subordine, violazione  del  principio  di
leale collaborazione, non prevedendosi per le materie  di  competenza
regionale l'intesa con la Conferenza Stato-Regioni. 
    Il comma 11 dispone che  «singole  attivita'  economiche  possono
essere  escluse,  in  tutto  o  in  parte,   dall'abrogazione   delle
restrizioni disposta ai sensi del comma 8» , e che «in tal  caso,  la
suddetta esclusione, riferita alle limitazioni previste dal comma  9,
puo' essere concessa, con decreto del Presidente  del  Consiglio  dei
Ministri, su proposta del Ministro  competente  di  concerto  con  il
Ministro dell'economia e delle finanze, sentita  l'Autorita'  garante
della concorrenza e del mercato, entro quattro  mesi  dalla  data  di
entrata in vigore della legge di conversione  del  presente  decreto,
qualora: a) la limitazione sia  funzionale  a  ragioni  di  interesse
pubblico, tra cui in particolare quelle connesse  alla  tutela  della
salute  umana;  b)  la  restrizione  rappresenti  un  mezzo   idoneo,
indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza  nella
liberta'  economica,  ragionevolmente   proporzionato   all'interesse
pubblico cui e'  destinata;  c)  la  restrizione  non  introduca  una
discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalita' o,  nel
caso di societa', sulla sede legale dell'impresa. 
    Anche tale disposizione appare costituzionalmente illegittima  in
primo luogo in quanto consente solo allo  Stato,  e  non  anche  alle
Regioni, di far valere, per le  materie  di  propria  competenza,  le
ragioni  di  interesse  pubblico  che  ostano  al  venir  meno  della
limitazione in questione. 
    In secondo luogo, ove per ragioni di uniformita' e sussidiarieta'
dovesse apparire legittima la esclusiva  competenza  statale,  sembra
evidente che gli interessi rappresentati dalle Regioni nelle  materie
di propria competenza dovrebbero pur sempre trovare espressione nella
necessita' dell'intesa con la Conferenza Stato-Regioni: intesa di cui
non  vi   e'   traccia   nella   disposizione   impugnata.   Di   qui
l'illegittimita'   per   violazione   del    principio    di    leale
collaborazione. 
II. Illegittimita' costituzionale dell'art. 4,  recante  «Adeguamento
della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e
alla normativa dell'Unione europea» e segnatamente, dei  commi  8,12,
13, 32, 33 e 14, per violazione degli artt. 75 e  117,  quarto  comma
Cost. 
    All'art. 4 sono introdotte innovazioni legislative  che  incidono
sulle  modalita'  di  affidamento  dei  servizi  pubblici  locali   a
rilevanza  economica,  in  una  materia  gia'  oggetto  di  pronuncia
referendaria abrogativa di disposizioni  in  buona  parte  del  tutto
analoghe a quelle oggi reintrodotte (art. 23-bis). Tali  disposizioni
intervengono in una materia - quella dei servizi  pubblici  locali  -
che in quanto tale spetta  pur  sempre  alla  competenza  legislativa
residuale regionale, ai sensi dell'art. 117, quarto comma Cost. 
    Ad avviso della ricorrente Regione, le disposizioni  statali  qui
impugnate  non  sono  giustificate  da  ragioni   di   tutela   della
concorrenza,  ma,  soprattutto,  violano  la  volonta',   manifestata
attraverso il  referendum,  di  riduzione/eliminazione  dei  vincoli,
aggiuntivi   rispetto   ai   vincoli   del    diritto    comunitario,
discrezionalmente  introdotti  dal  legislatore  statale  con  l'art.
23-bis, in ordine alle forme di gestione dei servizi pubblici locali. 
    Alle Regioni spetta, inoltre, la legittimazione ad  impugnare  le
leggi statali  in  via  diretta  non  solo  a  tutela  della  propria
legislazione, ma anche con il riferimento alla  prospettata  lesione,
da parte della legge nazionale, della autonomia  propria  degli  enti
territoriali. 
    La  Regione  Emilia  Romagna  impugna,  quindi,   l'art.   4   e,
segnatamente,  i  commi  8,  12,  13,  32,  33  e  14,   anche   come
rappresentante degli interessi del «sistema regionale delle autonomie
territoriali», su richiesta del Consiglio delle Autonomie,  formulata
ai sensi dell'art. 9, comma 2 della legge 5 giugno 2003 n.  131,  che
modifica l'art. 32, comma 2 della legge 11 marzo 1953 n. 87. 
    L'art.  4  ripropone   disposizioni   precedentemente   contenute
nell'art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge
6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 30, comma 26,  della
legge 23 luglio 2009, n. 99  e  dall'art.  15  del  decreto-legge  25
settembre 2009 n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge  20
novembre 2009, n. 166, abrogate con efficacia dal giorno successivo a
quello di pubblicazione del d.P.R. 18 luglio 2011,  n.  13  (G.U.  20
luglio 2011, n.167) e disposizioni del d.P.R. 7  settembre  2010,  n.
168, recante «Regolamento in materia di servizi  pubblici  locali  di
rilevanza economica, a  norma  dell'articolo  23-bis  comma  10,  del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito  con  modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n. 133», la cui efficacia e' venuta meno a
seguito di tale abrogazione. 
    In sede di  ammissibilita'  della  richiesta  di  referendum  per
l'abrogazione dell'art. 23-bis del  d.l.  25  giugno  2008,  n.  112,
convertito con modificazioni dalla  legge  6  agosto  2008,  n.133  e
s.m.i., nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010
di codesta ecc.ma Corte, e' stato evidenziato  che  tale  abrogazione
non ha «ad oggetto una legge a contenuto  comunitariamente  vincolato
(e, quindi, costituzionalmente vincolato, in applicazione degli artt.
11 e 117, primo comma, Cost.)» e  che  «in  particolare,  l'eventuale
abrogazione referendaria non comporterebbe alcun inadempimento  degli
obblighi comunitari», in quanto «... la sentenza n. 325 del 2010,  ha
espressamente escluso  che  l'art.  23-bis  costituisca  applicazione
necessitata del diritto dell'Unione europea»  (cfr.  Corte  cost.  n.
24/2011). 
    Del  resto,  le  disposizioni   ivi   previste   recanti   regole
concorrenziali (come quelle in tema di gara ad evidenza pubblica  per
l'affidamento della gestione  di  servizi  pubblici)  risultano  piu'
rigorose di quelle minime, richieste dal diritto dell'Unione europea,
non  essendo,  peraltro,  imposte  dall'ordinamento  comunitario,  ma
integrando solo «una delle diverse discipline possibili della materia
che il  legislatore  avrebbe  potuto  legittimamente  adottare  senza
violare» il «primo comma dell'art.117 Cost.»  (cfr.  Corte  cost.  n.
325/2010). 
    L'esito del referendum abrogativo ha  determinato  una  riduzione
dei vincoli discrezionalmente introdotti dal legislatore statale  con
l'art. 23-bis nelle forme di gestione dei servizi pubblici locali, in
particolare rendendo meno restrittivo il  modello  in  house  e  piu'
flessibile il modello misto, favorendo cosi', entro i limiti  dettati
dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria,  il  riespandersi
del potere di scelta degli enti locali, il cui ruolo  in  materia  di
organizzazione e assetto dei servizi pubblici locali e' incisivamente
evidenziato, a livello comunitario,  dagli  articoli  14  e  106  del
Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea  e   dall'allegato
Protocollo 26 che, con riguardo al settore dei servizi  di  interesse
economico  generale,  sottolinea  che  i  valori  comuni  dell'Unione
europea comprendono, in particolare, «il ruolo essenziale  e  l'ampio
potere discrezionale delle autorita' nazionali, regionali e locali di
fornire, commissionare e organizzare servizi di  interesse  economico
generale,  piu'  vicini  possibile  alle  esigenze   degli   utenti»,
riconoscendo, nel contempo, «la diversita'  tra  i  vari  servizi  di
interesse  economico  generale  e  le  differenze  delle  esigenze  e
preferenze  degli  utenti  che  possono  discendere   da   situazioni
geografiche, sociali e culturali diverse». 
    Invero, in sede di adozione dell'art. 4, il  legislatore  statale
ha inteso  riproporre  -  salvo  prevedere  la  sola  esclusione  del
servizio idrico integrato dalla relativa disciplina (comma 34) -,  in
modo quasi completo ed in forma  pressoche'  testuale,  il  contenuto
dispositivo restrittivo di molteplici norme gia' contenute  nell'art.
23-bis e nel relativo regolamento di attuazione, di cui al d.P.R.  n.
168/2010, in materia di  gestioni  in  house,  di  partecipazione  di
soggetti privati per la costituzione di  societa'  miste,  di  regime
transitorio degli  affidamenti  a  societa'  a  partecipazione  mista
pubblica e privata e a  societa'  a  partecipazione  pubblica  (anche
quotate in borsa) e di limiti alla capacita' di azione delle societa'
titolari di affidamenti diretti, ponendosi cosi' in netto e  radicale
contrasto con i limiti che il potere legislativo incontra, in seguito
alla abrogazione referendaria, nell'intervenire nella materia oggetto
di  referendum,  con  particolare  riferimento  al  «divieto  di  far
rivivere la normativa abrogata» dal referendum medesimo (Corte  cost.
n. 33/1993, 32/1993, e ord. n.9/1997). 
    Del resto, codesta ecc.ma Corte, richiamando la «peculiare natura
del referendum quale atto fonte dell'ordinamento», ha osservato  che,
a «differenza del legislatore,  che  puo'  correggere  o  addirittura
disvolvere quanto ha in precedenza statuito, il referendum  manifesta
una volonta' definitiva e  irripetibile»  (Corte  cost.  n.468/1990).
Tale principio e' stato sviluppato nella sentenza n. 32/1993, ove  la
Corte  ha  circoscritto  la  possibilita',  per  il  legislatore,  di
«correggere, modificare o integrare la disciplina  residua»  entro  i
«limiti  del  divieto  di  formale  o  sostanziale  ripristino  della
normativa abrogata dalla volonta'  popolare»,  nonche',  soprattutto,
nell'ord. n. 9/1997, che ha sancito la «possibilita' di un  controllo
di questa Corte in ordine all'osservanza, da parte  del  legislatore,
di tali limiti». Sicche', pare corretto ritenere che "la  limitazione
alla  potesta'  legislativa  delle  Camere  possa  circoscriversi  al
divieto di approvazione di una nuova legge che reintroduca i principi
ispiratori  della  disciplina  abrogata  ed  i  contenuti   normativi
essenziali dei singoli precetti,  in  analogia  con  quanto  indicato
nella sentenza n. 68/1978» (cfr. S. Bartole, R.Bin, Commentario breve
alla Costituzione, sub art. 75, CEDAM, 2008, pag. 687). 
    I commi che si intendono impugnare dell'art. 4 e che verranno  di
seguito declinati violano i  suddetti  principi,  proprio  in  quanto
ripristinano, in maniera sia formale che  sostanziale,  la  normativa
abrogata per effetto del referendum. 
    Procedendo all'esame puntuale di tali disposizioni, si  evidenzia
che: 
        il comma 8 ripropone il comma 2, lett.a), l'art.  23-bis  del
d.1. 112/2008 e s.m.i., escludendo  l'affidamento  diretto  in  house
dalle forme ordinarie di  conferimento  della  gestione  dei  servizi
pubblici, se superiore ai limiti dettati dal successivo comma 13; 
        il comma 12 ripropone il comma 2, lett. b) dell'art. 23-bis e
l'art.  3,  comma  4  del  d.P.R.   n.   168/2011,   prevedendo   che
l'affidamento del servizio a societa' a partecipazione mista pubblica
costituita con procedura avente ad oggetto,  allo  stesso  tempo,  la
selezione del socio privato, cui devono essere  attribuiti  specifici
compiti operativi e una partecipazione non inferiore al 40 per cento,
e l'affidamento del servizio, con cio' imponendo limiti che escludono
altre fattispecie  di  partenariato  istituzionale  pubblico  privato
presenti a livello comunitario (ad esempio,  le  societa'  miste  con
partecipazione privata inferiore al 40%); 
        il comma 13 introduce un limite di  valore,  non  presente  a
livello comunitario, per l'affidamento in  house.  11  servizio  puo'
essere  affidato  a  societa'  a  capitale  interamente  pubblico  in
possesso dei requisiti comunitari, ma  a  condizione  che  il  valore
economico del medesimo sia pari o inferiore alla somma complessiva di
900 mila euro annui; 
        il  comma  32  disciplina   il   regime   transitorio   degli
affidamenti,  riproponendo,  in  termini  sostanzialmente   analoghi,
limitazioni e scadenze al regime  degli  affidamenti  in  atto,  gia'
fissate dall'abrogato art. 23-bis e va, quindi, impugnato, in  quanto
consequenziale ai commi 8 e 12. Nel merito, la  disposizione  prevede
che: 
          a) la gestione affidata a societa' in house non conformi ai
requisiti richiesti dal comma 13 (limite di 900 mila euro e requisiti
comunitari),  nonche'  ad  altre  societa'  non  aventi  i  requisiti
richiesti dal medesimo comma  32,  cessa  improrogabilmente  e  senza
necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante,  alla  data
del 31 marzo 2012 (31 dicembre 2011 nella versione dell'art.23-bis); 
          b) la gestione affidata a societa' a partecipazione  mista,
il cui socio privato e' stato selezionato con procedure  competitive,
che  non  hanno  riguardato  l'attribuzione  di   specifici   compiti
operativi, cessa, improrogabilmente e senza  necessita'  di  apposita
deliberazione dell'ente affidante, alla  data  del  30  giugno  2012,
riproponendo sostanzialmente il comma 8, lett. b)  dell'art.  23-bis,
ma prolungandone la scadenza di sei mesi; 
          c) le gestioni delle  societa'  a  partecipazione  pubblica
assentite alla data del 1° ottobre 2003 e gia'  quotate  in  borsa  a
tale data e le societa' da queste controllate ai sensi dell'art. 2359
c.c.  -  qualora   la   partecipazione   pubblica   non   si   riduca
progressivamente ad una quota non superiore al 40 per cento entro  il
30 giugno 2013 e ad una quota non superiore al 30 per centro entro il
31 dicembre 2013 - cessano, improrogabilmente e senza  necessita'  di
apposita deliberazione dell'ente affidante, alla data del  30  giugno
2013 o del 31 dicembre 2015, riproponendo sostanzialmente il comma 8,
lett. d), dell'art. 23-bis; 
        il comma 33 ripropone formalmente e sostanzialmente il  comma
9 dell'art. 23-bis, confermando il divieto, per le societa'  titolari
di affidamenti  diretti  (tra  queste  anche  quelle  in  house),  di
acquisire servizi ulteriori ovvero in  ambiti  territoriali  diversi,
nonche' di svolgere servizi o attivita' per  altri  enti  pubblici  o
privati, ne' direttamente, ne' tramite societa' ad esse riferite, ne'
partecipando a gare; 
        infine, il comma 14  -  che,  per  comodita'  espositiva,  si
tratta a parte, in quanto  censurato  anche  sotto  altro  profilo  -
assoggetta le societa' in house affidatarie dirette della gestione di
servizi pubblici locali  al  patto  di  stabilita'  interno,  secondo
modalita' definite, con il concerto del Ministro per le  riforme  del
federalismo, in sede di attuazione dell'art.  18,  comma  2-bis,  del
d.l. n. 112/2008, convertito con la legge n. 133/2008 e  s.m.i.,  con
la precisazione che «gli enti  locali  vigilano  sull'osservanza,  da
parte dei soggetti indicati al periodo precedente,  al  cui  capitale
partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilita' interno». 
    Prendendo le mosse dalla disciplina dei  sistemi  di  affidamento
della gestione dei servizi pubblici locali (commi 8,  12  e  13),  si
evidenzia che essi rappresentano, appunto,  la  riproposizione  della
disciplina abrogata dal referendum e, per tale motivo,  costituiscono
una netta violazione dell'art. 75 Cost. 
    Nei suoi termini effettivi e concreti, infatti, il referendum  ha
inteso abrogare l'applicazione di nonne  che,  rendendo  estremamente
limitate le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare,  quelle
di gestione in house di quasi tutti  i  servizi  pubblici  locali  di
rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, escludevano  di
fatto la gestione in house, comunque consentita a livello comunitario
nel rispetto dei (soli) requisiti (comunitari) del controllo  analogo
e  dell'attivita'  prevalente.  Invero,   le   peculiari   condizioni
«oggettive» che, nell'impianto  normativo  delineato  dal  previgente
art. 23-bis, condizionavano la possibilita', per gli enti locali,  di
ricorrere all'autoproduzione dei servizi (in house providing),  hanno
ceduto il passo  ad  una  soglia  di  valore  (900.000  euro  annui),
arbitrariamente  fissata  dal  legislatore  nazionale  (peraltro,  in
assenza di qualsivoglia forma di previa concertazione  con  gli  enti
territoriali), al di sopra della quale e', in ogni caso,  esclusa  la
possibilita'  per  gli  enti  stessi  di  ricorrere  alla   modalita'
organizzativa dell'in house. 
    Ebbene, al di la' del fatto  che  l'introduzione  della  suddetta
soglia di valore costituisca  formalmente  una  innovazione,  occorre
considerare che, in realta', detta previsione rappresenta,  comunque,
una  forte  limitazione  della  capacita'  di   scelta   degli   enti
territoriali,   suscettibile   di   incidere   sull'autonomia    loro
riconosciuta in subiecta materia, invero ancor  piu'  restrittiva  di
quella precedentemente fissata dal comma 3 dell'art. 23-bis, con cio'
sostanzialmente  riproducendo  lo  stesso   schema   limitativo   che
caratterizzava  la  disciplina  recata  dall'art.  23-bis  e  che  il
referendum ha inteso eliminare in toto. 
    Sotto il medesimo profilo (violazione art. 75 Cost.),  si  rileva
che tali nuove disposizioni (commi 8, 12 e 13) contenute nell'art.  4
violano la ratio del referendum, in quanto contrastano con l'intento,
sotteso al quesito referendario, di rendere perfettamente equivalenti
le diverse modalita' di affidamento (gara, societa' mista,  in  house
providing) contemplate dalla  normativa  e  cio',  in  ossequio  alle
indicazioni comunitarie. Ancora una  volta,  invece,  il  legislatore
nazionale indica come alternative ed equivalenti le sole modalita' di
esternalizzazione (gara e  societa'  mista),  mentre  qualifica  come
eccezionale l'autoproduzione, introducendo,  nel  palese  intento  di
aggirare il divieto di  riproposizione  della  disciplina  formale  e
sostanziale oggetto di abrogazione referendaria, l'innovativo  limite
di valore (comma 13), di cui sopra si e' detto. Il quale limite deve,
quindi, essere censurato sia - al pari del sistema complessivo  degli
affidamenti - sotto il profilo  della  violazione  dell'art.  75,  in
quanto  contrastante  con  lo  spirito  referendario,   sia   perche'
arbitrario, con riferimento alla omessa concertazione  con  gli  enti
territoriali, ed illogico, in quanto riferito indifferentemente  alla
generalita'  dei  servizi  pubblici  locali,  a   prescindere   dalle
specificita'  che  caratterizzano  le  varie  tipologie  di   servizi
(invero, la manutenzione  delle  strade  ha  caratteristiche  diverse
dall'illuminazione votiva). 
    Coerentemente con l'impugnazione dei commi 8, 12 e 13, si censura
anche il successivo comma 32, laddove prevede un periodo  transitorio
degli affidamenti ancora una volta marcatamente caratterizzato  dalla
penalizzazione delle forme  di  autoproduzione  dei  servizi.  A  ben
vedere,  detta  disposizione  perderebbe,  comunque,  di  significato
qualora  fosse   dichiarata   l'illegittimita'   costituzionale   dei
precedenti commi  8,  12  e  13,  con  conseguente  ripristino  della
perfetta equiparazione  delle  varie  modalita'  di  affidamento  dei
servizi  pubblici  locali  ed  e'  per  queste  ragioni   di   intima
connessione con il  sistema  degli  affidamenti  che  tale  norma  va
compresa nello stesso quadro impugnatorio. 
    Quanto al successivo comma  33,  che  costituisce  la  pedissequa
trasposizione dell'abrogato comma 9 dell'art. 23-bis, si  rileva  che
esso restringe eccessivamente la capacita' di azione  delle  societa'
titolari di affidamenti diretti. Infatti,  preclude  del  tutto  alle
societa' in house e miste, titolari di affidamenti  conseguiti  senza
gara, la possibilita' di conseguire nuove commesse (da enti  pubblici
o privati), privandole completamente della capacita'  imprenditoriale
loro spettante. Invero, detta disposizione impedisce alle societa' in
house  la  facolta',  pacificamente  riconosciuta  loro  dal  diritto
comunitario  e,  peraltro,  ribadita  da  codesta  ecc.ma  Corte,  di
eseguire una parte,  seppur  marginale,  della  propria  attivita'  a
favore di altri mercati (da attivita' «prevalente» ad esclusiva). 
    Al riguardo, vale la pena di sottolineare che la stessa Autorita'
garante della  concorrenza  e  del  mercato  ha  osservato  che  tale
restrizione  rischia  di  limitare  drasticamente  il  numero   degli
operatori  ammissibili  alle  procedure  di  gara,  favorendo   cosi'
l'aggiudicazione   al   precedente   affidatario,   spesso    l'unico
partecipante alla gara (AS 864 del 26 agosto  2011).  Sul  punto,  si
segnala  la  proposta  formulata  dall'Autorita'  di  «attenuare   le
condizioni che consentono agli affidatari diretti di  partecipare  ad
altre gare, consentendo loro di farlo nel caso in cui (i) i  soggetti
in questione siano nella fase finale  (inferiore  ai  due  anni)  del
proprio affidamenti e (ii) sia gia' stata  bandita  la  gara  per  il
riaffidamento del servizio o, almeno, sia stata adottata la decisione
di procedere al nuovo affidamento attraverso  procedure  ad  evidenza
pubblica, per il servizio erogato dall'affidatario diretto». 
    Da ultimo e sotto altro  profilo  si  censura  il  comma  14  per
violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto, Cost. 
    Tale ultima disposizione  riveste  carattere  innovativo  essendo
gia' stata espunta  dall'art.  23-bis  in  un  momento  anteriore  al
referendum e, precisamente, in sede di scrutinio  della  legittimita'
costituzionale del medesimo art. 23-bis, effettuato con la  sent.  n.
325/2010. 
    La  disposizione  in  parola  prevede   l'assoggettamento   delle
societa'  in  house  al  patto  di  stabilita'  interno  «secondo  le
modalita' definite, con il concerto del Ministro per le  riforme  per
il federalismo, in sede di attuazione dell'art. 18, comma 2 bis,  del
d.l. n. 112/2008». 
    Ebbene,  il  cit.  comma  14  deve  ritenersi  costituzionalmente
illegittimo per le stesse ragioni per le quali codesta ecc.ma  Corte,
con  la  piu'   volte   cit.   sent.   n.   325/2010,   ha   ritenuto
incostituzionale il riferimento al patto di stabilita', a  suo  tempo
previsto dal comma 10, lett. a) dell'art. 23-bis, sul presupposto che
«l'ambito di applicazione del patto  di  stabilita'  interno  attiene
alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentt. nn. 284
e  237  del  2009;  n.  267  del  2006),  di  competenza  legislativa
concorrente, e non a  materie  di  competenza  legislativa  esclusiva
statale, per  le  quali  soltanto  l'art.  117,  sesto  comma,  Cost.
attribuisce allo Stato la potesta' regolamentare»  (cfr.  ivi,  punto
12.6 del diritto). 
    A  ben  vedere,  la  censure   evidenziate   risultano   vieppiu'
confermate  dalla  circostanza  secondo  cui   il   procedimento   di
approvazione del decreto attuativo dell'art.  18,  comma  2-bis,  del
d.l. n. 112/2008, richiamato dalla disposizione in  esame,  contempla
esclusivamente  una  fase  consultiva  non  vincolante  innanzi  alla
Conferenza unificata e non prevede alcun coinvolgimento diretto delle
Regioni, escludendole ancora una volta. 
III. Illegittimita' costituzionale dell'art. 11 recante  «Livelli  di
tutela  essenziali  per  l'attivazione   dei   tirocini»   Violazione
dell'art.  117,  quarto  comma  Cost.  e  del  principio   di   leale
collaborazione. 
    Dopo aver precisato che «i tirocinii formativi e di  orientamento
possono essere promossi unicamente  da  soggetti  in  possesso  degli
specifici  requisiti  preventivamente  determinati  dalle   normative
regionali, in funzione  di  idonee  garanzie  all'espletamento  delle
iniziative medesime», l'art.11 dispone che  «fatta  eccezione  per  i
disabili, gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, i  soggetti  in
trattamento psichiatrico, i  tossicodipendenti,  gli  alcolisti  e  i
condannati ammessi a misure alternative di  detenzione,  i  tirocinii
formativi e di orientamento non curricolari  non  possono  avere  una
durata superiore a sei mesi,  proroghe  comprese,  e  possono  essere
promossi unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro  e
non oltre dodici  mesi  dal  conseguimento  del  relativo  titolo  di
studio».  Viene,  poi,  precisato  che  in  assenza   di   specifiche
regolamentazioni  regionali,  trovano  applicazione  le  disposizioni
contenute nell'art. 18 della legge  24  giugno  1997  n.  196  ed  il
relativo regolamento di attuazione. Con tale norma viene dettata  una
disciplina statale dei  tirocini  formativi  e  di  orientamento  non
curriculari omogenea ed uniforme per tutto il  territorio  nazionale.
Sennonche', si tratta di una materia di sicura  competenza  residuale
regionale,  qual   e'   quella   della   «istruzione   e   formazione
professionale» nel cui ambito la disciplina del tirocinio formativo e
di orientamento pacificamente rientra. 
    La Regione Emilia-Romagna, del resto, gia' dispone di una propria
disciplina della materia, che per gli aspetti  in  questione  prevede
termini leggermente diversi. 
    Il legislatore statale ha ritenuto  di  potersi  «ritagliare»  un
importante spazio della materia, in virtu' del  titolo  competenziale
di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m) Cost.  «determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali» che, infatti, e' evocato nella  stessa  rubrica  dell'art.
11. 
    Tale qualificazione, tuttavia, e' ingannevole. Infatti, la  legge
statale, ben lungi dal fissare prestazioni  da  garantire,  ne  fissa
invece  limitazioni,  impedendo  alle   Regioni   di   garantire   le
prestazioni in termini piu'  estesi.  Si  tratta  dunque  di  «limiti
prestazionali»  e  non  della  determinazione  di   «livelli   minimi
essenziali». 
    La non riconducibilita'  della  norma  alla  indicata  competenza
statale ne comporta l'illegittimita', per difetto di competenza. 
    A parte cio', tali limitazioni,  per  quanto  bene  intenzionate,
appaiono anche irragionevoli nella  loro  uniformita'  per  tutto  il
territorio nazionale, che e' invece caratterizzato da una varieta' di
esigenze e situazioni che richiedono  risposte  diversificate,  quali
solo la competenza regionale puo' assicurare. 
    Ma, anche se l'indicato titolo di competenza potesse giustificare
un intervento statale, va comunque rilevato che tale  intervento  non
potrebbe   consistere   nella   uniforme   e    rigida    unilaterale
determinazione uguale per tutto il territorio  nazionale,  ma  semmai
nella istituzione di una procedura di collaborazione per  le  singole
determinazioni in sede locale. 
    E'  fuor  di  dubbio,  infatti,  che  laddove  si   rinvenga   un
«intreccio» tra livelli essenziali  delle  prestazioni  e  competenze
regionali, la condizione di legittimita' dell'intervento  statale  e'
data dalla «previsione di adeguate procedure di coinvolgimento  delle
Regioni nella specificazione delle prestazioni», come la stessa Corte
ha piu' volte indicato. In altri termini, quando  vi  e'  l'intreccio
delle  competenze,  derivante  dalla  sovrapposizione  di   interessi
statali e regionali convergenti, l'ente «minore» deve comunque essere
consultato, in misura graduata in base al livello di incisione  della
sua competenza ed al rilievo dell'interesse di cui e'  portatore,  in
virtu' del principio di leale collaborazione  (in  tal  senso  sentt.
88/2003;  387/2007;  134/2006,  che   ha   sanzionato   l'illegittima
riduzione della partecipazione  regionale  al  livello  del  semplice
parere, anziche' della necessaria intesa).  E  non  par  dubbio  che,
nello specifico, la Regione Emilia Romagna abbia interessi  rilevanti
nella materia della formazione che essa  ha,  peraltro,  disciplinato
con propria legge, la 1.r. n. 17/2005, il cui art. 25  riguardante  i
tirocinii di formazione ed orientamento  ha,  fra  l'altro,  previsto
termini di durata massima piu' lunghi,  dai  dodici  ai  ventiquattro
mesi, rispetto a quelli ora indicati dall'art. 11). 
    Nessuna  procedura   di   coinvolgimento   e'   contenuta   nella
disposizione in  esame,  che  si  limita  a  dettare  una  disciplina
uniforme  dell'istituto,   senza   prevedere   fasi   successive   di
specificazione ed attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni
entro cui coinvolgere le Regioni, con la conseguenza che deve esserne
dichiarata l'illegittimita'  per  violazione  dell'art.  117,  quarto
comma, Cost. e del principio di leale collaborazione. 
IV. Illegittimita' costituzionale dell'art.  14,  recante  «Riduzione
del  numero  dei  consiglieri  e  assessori  regionali   e   relative
indennita. Misure premiali», in relazione al comma 1. 
    1. Illegittimita' costituzionale  in  quanto  le  norme  limitano
l'autonomia statutaria e legislativa,  sottoponendone  l'esercizio  a
sanzione negativa. Violazione degli artt. 123 e 117,  comma  secondo,
Cost. 
    L'art. 14 (Riduzione  del  numero  dei  consiglieri  e  assessori
regionali  e  relative  indennita'.  Misure  premiali)  al  comma   1
introduce una serie di «obblighi di adeguamento»  a  cui  le  Regioni
devono ottemperare per non essere escluse dall'applicazione dell'art.
20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. 
    Questa norma si riferisce alle  Regioni  «virtuose»  che,  avendo
conseguito gli obiettivi di finanza pubblica  fissati  dal  patto  di
stabilita', non sono tenute a concorrere, a partire  dal  2013,  alla
realizzazione  degli  obiettivi  di  finanza  pubblica  attraverso  i
pesanti  «tagli»  fissati  dal  comma  5  dello  stesso  articolo   e
dall'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2010. 
    Gli obblighi posti dall'art. 14 consistono in una serie di misure
che  avrebbero  l'obiettivo  di  ridurre  i  «costi  della  politica»
regionale. Essi si concretizzano, per la parte che forma oggetto  del
presente ricorso, in una riduzione del  numero  sia  dei  consiglieri
regionali che dei componenti della Giunta regionale. 
    Precisamente, si tratta delle seguenti disposizioni: 
        «a)  previsione  che  il  numero  massimo   dei   consiglieri
regionali, ad esclusione del Presidente della Giunta  regionale,  sia
uguale o inferiore a 20 per le Regioni con  popolazione  fino  ad  un
milione di abitanti; a 30 per le Regioni con popolazione fino  a  due
milioni di abitanti; a 40 per  le  Regioni  con  popolazione  fino  a
quattro milioni di abitanti; a 50 per le Regioni con popolazione fino
a sei milioni di abitanti; a 70 per le Regioni con  popolazione  fino
ad otto milioni di abitanti; a 80  per  le  Regioni  con  popolazione
superiore ad otto milioni di abitanti. La riduzione  del  numero  dei
consiglieri regionali  rispetto  a  quello  attualmente  previsto  e'
adottata da ciascuna Regione entro sei mesi dalla data di entrata  in
vigore del presente  decreto  e  deve  essere  efficace  dalla  prima
legislatura regionale successiva a quella della data  di  entrata  in
vigore del presente decreto. Le Regioni che, alla data di entrata  in
vigore  del  presente  decreto,  abbiano  un  numero  di  consiglieri
regionali inferiore a quello previsto  nella  presente  lettera,  non
possono aumentarne il numero; 
        b) previsione che il numero massimo degli assessori regionali
sia pari o inferiore ad un  quinto  del  numero  dei  componenti  del
Consiglio regionale,  con  arrotondamento  all'unita'  superiore.  La
riduzione deve essere operata entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore del presente decreto  e  deve  essere  efficace,  in  ciascuna
regione, dalla prima legislatura regionale  successiva  a  quella  in
corso alla data di entrata in vigore del presente decreto». 
    Puo' considerarsi pacifico che la Costituzione non attribuisce al
legislatore statale poteri legislativi tali da incidere  direttamente
sulla materia, che dalla Costituzione e' gelosamente  riservata  agli
Statuti  regionali.  E'  ben   noto,   infatti,   che   l'art.   123,
discostandosi dalla precedente formulazione, assoggetta  gli  Statuti
regionali - oltre che alle specifiche disposizioni dettate in tema di
forma  di  governo  -  al  solo  criterio  della  «armonia   con   la
Costituzione», ad esclusione  di  qualunque  vincolo  disposto  dalla
legge ordinaria statale. Conformemente, la giurisprudenza di  codesta
ecc.ma Corte ha sancito che «la composizione dell'organo  legislativo
regionale rappresenta una fondamentale "scelta politica sottesa  alla
determinazione della "forma di governo-della Regione" (sentenza n.  3
del 2006)» (cosi' la sent.n. 188/2011 di codesta  Corte).  E'  dunque
escluso che la legge statale possa imporre alle Regioni un obbligo di
adeguamento, in quanto il potere statutario e'  vincolato  ad  essere
«in armonia» con la  Costituzione,  ma  non  e'  piu'  soggetto  alla
legislazione ordinaria dello Stato. 
    E' probabilmente per tale ragione che il legislatore ha  inserito
nella  rubrica  dell'articolo   l'autoqualificazione   delle   misure
introdotte come «misure premiali». Si tratterebbe, dunque, non di  un
qualcosa a cui la Regione sia costretta, ma di qualche  cosa  che  la
Regione puo' volontariamente fare per ottenere un premio,  cioe'  uno
specifico vantaggio. 
    Tuttavia non e' certo  questo  il  significato  ne'  il  modo  di
funzionamento della norma,  e  l'erronea  autoqualificazione,  mentre
rivela la consapevolezza di non disporre dei  necessari  poteri,  non
puo' occultare la reale natura dell'intervento statale. 
    E' infatti giurisprudenza costante della Corte costituzionale che
le qualificazioni di una norma, che siano contenute nel testo o nella
rubrica, non hanno alcun  valore  condizionante,  dovendosi,  invece,
tenere conto della natura oggettiva  della  norma,  che  spetta  alla
Corte stessa di valutare: diversamente,  la  rigidita'  e  lo  stesso
significato del riparto costituzionale  delle  attribuzioni  verrebbe
meno, potendo il legislatore statale disporne a piacere. 
    Occorre,  dunque,  valutare  se  il  dovere  di   modificare   la
composizione degli organi statutari, al fine di mantenere (in realta'
di  poter  mantenere,  ricorrendo  tutte  le  altre  condizioni)   la
qualifica di Regione virtuosa, sia da  considerarsi  come  una  norma
giuridica a carattere effettivamente «premiale» o meno. 
    La risposta  negativa  sembra  evidente,  ma  converra'  comunque
debitamente argomentarla. 
    Sotto un profilo di teoria  generale,  le  norme  «premiali»  non
presentano una struttura diversa da quelle «normali»:  e'  prescritto
un comportamento, assistendo questa  prescrizione  con  una  sanzione
«positiva» (il «premio») anziche' con una «negativa» (la pena). 
    Nelle relazioni con le Regioni, lo Stato e' talvolta  ricorso  al
meccanismo delle norme «premiali» o «promozionali» (si veda ad es. il
caso  del  contributo  finanziario  introdotto  per   promuovere   il
coordinamento preventivo dei programmi  relativi  all'eutrofizzazione
delle acque marine  e  lacustri,  nel  caso  deciso  dalla  sent.  n.
800/1988). 
    La distinzione tra il premio e  la  pena  non  puo'  essere  solo
lessicale, ma deve guardare alla sostanza della situazione  giuridica
che la sanzione realizza. Per decidere se una disposizione  di  legge
sia una normale  prescrizione  con  sanzione  negativa  o  una  norma
premiale e' necessario badare alla situazione  giuridica  in  cui  la
norma opera e come questa viene cambiata dalla sanzione comminata (si
veda in questo senso la sent. n. 283/2009, a proposito di  una  legge
della Regione Puglia): solo cosi' si puo' cogliere  se  la  norma  in
questione ha natura «promozionale»  o  «coattiva»  (si  veda  in  tal
senso, a proposito di una norma a favore delle c.d. «quote rosa»,  la
sent. n.  4/2010).  Ad  esempio,  prescrivere  che  «chiunque  riveli
l'identita' dei suoi collaboratori sara' mantenuto in vita»,  non  e'
diverso da minacciare i renitenti con la pena di morte. 
    In altre parole, una norma potra' dirsi premiale  quando  la  sua
osservanza comporta il prodursi di una nuova  situazione  favorevole,
prima inesistente; e sara' al contrario «penale» (in senso  generico)
o affittiva, quando la sua inosservanza comporti il prodursi  di  una
nuova situazione sfavorevole, prima inesistente. 
    Nel caso della disposizione  qui  impugnata,  e'  palese  che  il
rispetto degli obiettivi  posti  dallo  Stato  non  comporta  per  la
Regione  l'acquisizione  di  un  «di  piu'»,  ma   semplicemente   il
mantenimento di uno status che evita alla Regione  stessa  di  subire
ulteriori sanzioni negative di tipo finanziario. Se  poi  si  colloca
questo effetto nell'attuale  contesto  della  finanza  regionale,  e'
evidente che quello che alla Regione inadempiente si  minaccia  e'  a
tutti gli effetti una sanzione negativa, quantificabile in termini di
tagli di bilancio. 
    Dunque, nonostante il titolo  edulcorato,  la  Regione  e'  posta
davanti ad un obbligo  di  modificare  il  proprio  Statuto,  obbligo
fornito di una  evidente  sanzione  negativa,  con  violazione  della
autonomia statutaria garantita dall'art. 123 Cost., nonche' dell'art.
117,  comma  2,  in  cui  sono  descritti  i  limiti  della  potesta'
legislativa dello Stato. 
    Ed e' evidente che in questi termini  la  disposizione  impugnata
limita indebitamente  l'ambito  della  potesta'  statutaria  definito
dalla Costituzione. 
    Ne' l'illegittima intromissione si puo' giustificare a titolo  di
coordinamento della finanza pubblica, essendo evidente che non esiste
alcuna connessione necessaria tra il numero dei consiglieri  e  degli
assessori ed un  determinato  risultato  complessivo  della  gestione
finanziaria.  Al   contrario,   il   riferimento   al   coordinamento
finanziario  evidenzia  un  ulteriore   profilo   di   illegittimita'
costituzionale, come di seguito esposto. 
    2.  Violazione  dell'autonomia  finanziaria  regionale  garantita
dall'art. 119 Cost. 
    Infatti, una ulteriore ragione di illegittimita' della  norma  de
qua deriva dalla natura stessa degli obiettivi assegnati da essa alle
Regioni, e dei corrispondenti vincoli imposti. 
    La disciplina del patto di stabilita' introdotta dall'art. 20 del
decreto-legge n. 98/2011, come convertito dalla  legge  n.  111/2011,
fissa delle modalita' di raggiungimento degli  obiettivi  di  finanza
pubblica  da  parte  delle  singole  Regioni,  che   possono   essere
concordate tra lo Stato e le Regioni stesse attraverso una  procedura
negoziata.  In  questo  ambito  si  prevede  che  le  Regioni   siano
responsabili dei risultati conseguiti, e si fissano i criteri con cui
valutare le  loro  prestazioni.  Le  Regioni  verranno  suddivise  in
quattro classi di virtuosita', sulla base di una serie  considerevole
di «parametri di virtuosita'»  definiti  in  termini  «performativi»,
ossia fissando obiettivi di finanza pubblica, che lasciano la singola
Regione  pienamente  responsabile  di  trovare  gli   strumenti   per
conseguirli. 
    La norma ora impugnata introduce, invece, un criterio nuovo e del
tutto eterogeneo, di tipo «esigenziale». Anche se  la  Regione  sara'
stata capace di individuare gli strumenti adatti  a  raggiungere  gli
obiettivi di finanza  pubblica,  non  sara'  inserita  tra  gli  enti
virtuosi, se non avra' rispettato  l'obbligo  di  adeguamento  ad  un
criterio numerico (relativo al numero dei consiglieri e di componenti
dell'esecutivo), fissato in ragione proporzionale con la  popolazione
dell'ente.  In  questo  modo,  ad  essere  apprezzato  non  sara'  il
risultato  conseguito  usando  opportunamente  la  propria  autonomia
finanziaria, ma l'aver applicato un criterio che vincola  la  Regione
in modo tassativo, senza consentirle alternative equivalenti  per  il
risultato. 
    Appare, percio', lesa  l'autonomia  finanziaria,  garantita  alla
Regione dall'art. 119 Cost. Alla Regione e' tolta la possibilita'  di
scegliere attraverso  quale  via  raggiungere  gli  obietti  fissati,
perche' le  si  impone,  in  nome  del  coordinamento  della  finanza
pubblica, di operare in un modo rigidamente vincolato. Non  adempiere
a questo requisito esigenziale impedisce di accedere  alla  qualifica
perseguita, malgrado si siano conseguiti tutti i risultati finanziari
richiesti dagli altri requisiti, con conseguenze negative  che  hanno
un evidente carattere sanzionatorio. 
    3.   In   ogni   modo,   illegittimita'   costituzionale    delle
disposizioni,  in  quanto  disposizioni  di   dettaglio.   Violazione
dell'art. 117 comma terzo. 
    Se pure fosse giustificato il riferimento della  disciplina  alla
materia del coordinamento della  finanza  pubblica,  essa  rimarrebbe
ugualmente illegittima in quanto fondata su regole di  dettaglio,  in
violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost. Infatti, con riferimento
a  tale  profilo,  pare   evidente,   sulla   scorta   della   stessa
giurisprudenza  costituzionale,  che  la  disposizione  in  esame  ha
carattere di estremo dettaglio, che non si limita  ad  indicare  alle
Regioni  obiettivi,  standard,  tetti  da  raggiungere  con  mezzi  e
modalita' individuabili dalla stessa Regione, nell'ambito della sfera
di  discrezionalita'/autonomia   alla   medesima   costituzionalmente
garantita,  ma  fissa  direttamente  ed  obbligatoriamente  tagli   e
riduzioni degli organici  del  Consiglio,  sulla  base  di  parametri
(consistenza popolazione), che  erano  stati  superati  dalla  stessa
riforma costituzionale del 1999, allorche' era stata  demandato  alla
competenza statutaria delle  Regioni  («nuovo»  art.  123,  comma  1,
Cost.) il compito di  determinare  il  numero,  ritenuto  ottimale  e
rappresentativo, dei componenti del Consiglio regionale.  Nell'ambito
della giurisprudenza  costituzionale,  si  rinviene  un  orientamento
consolidato (Corte cost nn. 159/2008,  36/2004,  390/2004,  449/2005,
95/2007)  secondo  cui   costituiscono   principi   fondamentali   le
disposizioni che si limitano a prescrivere obiettivi  da  realizzare,
lasciando alle Regioni la scelta del modo attraverso cui perseguirli.
Mentre,  di  contro,  e'  da  escludere  la  possibilita'  di  simile
qualificazione,  nel  caso  di  disposizioni  che  impongono   misure
analitiche, di dettaglio e vincoli puntuali. Pertanto,  nella  misura
in cui la  disposizione  in  esame  non  si  limita  a  stabilire  un
obiettivo, ma indica direttamente  i  mezzi  ed  anche  il  dettaglio
minuto della relativa applicazione, non lasciando alternativa alcuna,
e' evidente che la stessa fuoriesce dalla qualificazione  in  termini
di norma di «principio». 
    Sotto altro profilo, occorre considerare  che,  pur  non  essendo
sempre chiara la ratio distinguendi fra norma di dettaglio e norma di
principio, emerge dalla giurisprudenza della Corte  e,  specialmente,
dalla dottrina, la considerazione secondo cui la norma  di  principio
puo' spingersi nel dettaglio soltanto qualora si possa dimostrare che
la  disposizione  enunciata  e'  l'unica   modalita'   possibile   di
perseguimento dell'obiettivo atteso. E' evidente che detta regola non
vale affatto a giustificare la pervasivita' dell'intervento posto con
l'art. 14, considerato che l'obiettivo perseguito  dalla  manovra  e'
sostanzialmente quello del  contenimento  dei  costi  della  politica
delle Regioni; obiettivo, in  verita',  che  puo'  essere  perseguito
mediante una pluralita' di azione diverse. 
    Per queste ragioni, ai  precedenti  motivi  di  impugnazione,  si
aggiunge anche la violazione dell'art.  117,  comma  3,  laddove,  in
materia di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della
finanza   pubblica   e   del   sistema   tributario»,   detta   norma
costituzionale assegna allo Stato potesta' legislativa concorrente, e
percio'   limitata   alla   sola   «determinazione    dei    principi
fondamentali». 
    4. In subordine. Ulteriore  illegittimita'  costituzionale  della
disposizione, in quanto sanziona la Regione per una circostanza della
quale essa stessa non dispone compiutamente. 
    Una  ulteriore  ragione  di  illegittimita'  degli  obblighi   di
adeguamento che le disposizioni  impugnate  impongono  alle  Regioni,
risulta dalla circostanza  che  la  richiesta  riduzione  del  numero
massimo dei consiglieri (e  degli  assessori)  regionali  potra'  con
certezza essere «operata entro sei mesi  dalla  data  di  entrata  in
vigore del presente decreto» solo se lo Statuto non abbisogna  a  tal
fine di una revisione, ponendo indicazioni numeriche diverse. 
    Ove invece  il  numero  dei  consiglieri  sia  determinato  dallo
Statuto, lo stesso Ente Regione non puo' essere considerato del tutto
libero di  apportare  al  suo  Statuto  le  modifiche  richieste.  La
Regione,  in  quanto  ente,  non  e'  in  grado  ne'  di  determinare
compiutamente i tempi della approvazione, ne' la stessa  approvazione
delle modifiche richieste. 
    Infatti, come prescrive la Costituzione, la  legge  di  revisione
statutaria e' potenzialmente sottoposta a ben tre altre  «autorita'»,
oltre a quella dell'Assemblea legislativa:  al  controllo  preventivo
del  Governo,   all'eventuale   giudizio   preventivo   della   Corte
costituzionale, all'eventuale referendum approvativo. Quindi,  l'art.
14 pone a carico dell'Ente Regione un  obbligo  giuridico  sanzionato
che, pero', puo' essere impedito da soggetti  che  stanno  fuori  del
novero delle istituzioni regionali politicamente responsabili. 
    Ne' si dica che i primi due eventi conseguono alla illegittimita'
delle norme eventualmente adottate: perche' il  giudizio  -  iniziato
per  ragioni  di  legittimita'  -  potra'  bene  concludersi  con  la
reiezione del ricorso, ma  intanto  i  tempi  di  approvazione  delle
modifiche saranno completamente saltati. 
    Ancor piu'  evidente  appare  la  possibilita'  che  la  modifica
statutaria  venga  sottoposta  a  referendum,  con   la   conseguente
impossibilita' di predire il risultato. 
    L'irragionevolezza  e'  palese:  la  riduzione  del  numero   dei
consiglieri regionali potra' anche essere «adottata» entro il termine
di sei mesi (pure non previsto  dalla  Costituzione)  attraverso  una
delibera dell'Assemblea legislativa, ma che essa sia «efficace  dalla
prima legislatura  regionale,  successiva  a  quella  della  data  di
entrata in vigore del presente decreto»,  e'  un  fatto  che  dipende
dalla volonta' di  altri  soggetti  (Governo,  Corte  costituzionale,
corpo elettorale). 
    E' chiaro, peraltro, che la minaccia delle gravi conseguenze  che
la norma impugnata ricollega al mancato  adempimento  degli  obblighi
previsti, si tradurrebbe in una forte pressione sul corpo elettorale,
affinche' non eserciti la sua facolta' di  promuovere  il  referendum
conformativo. L'irragionevolezza  di  questa  norma  determina  sotto
questo  profilo  anche  una   ulteriore   violazione   dell'autonomia
statutaria della Regione, alterando il ruolo che il corpo  elettorale
svolge nell'adozione e nella modifica dello Statuto in base  all'art.
123, comma 6, della Cost. Lo Statuto e' anche un atto politico  della
comunita'/popolo regionale, atto di cui, dunque,  la  Regione  «ente»
non dispone completamente. 
    5.  Illegittimita'  costituzionale  dell'obbligo  di  istituzione
Collegio dei revisori e dei poteri regolamentari affidati alla  Corte
dei conti. Violazione degli articoli 100, comma secondo,  103,  comma
secondo, 117, commi terzo e sesto, 121 della Costituzione. 
    La disposizione contenuta nella lettera e) prevede l'obbligatoria
istituzione, in ogni Regione, a decorrere dal 1 gennaio 2012,  di  un
Collegio dei revisori dei conti,  quale  organo  di  vigilanza  sulla
regolarita'  contabile,  finanziaria  ed  economica  della   gestione
dell'Ente,  il  quale,  «ai  fini  del  coordinamento  della  finanza
pubblica, opera in raccordo con le  Sezioni  regionali  di  controllo
della Corte dei conti». 
    Alla stessa Corte dei conti  e'  demandata  l'individuazione  dei
criteri  per  la  determinazione   della   specifica   qualificazione
professionale  in  materia  di  contabilita'  pubblica   e   gestione
economica  e  finanziaria  degli  enti  territoriali,  richiesta  per
l'iscrizione  nell'elenco,  dal  quale  debbono  essere  estratti   i
componenti  (oltre  a  tale  qualificazione,  per  l'iscrizione  sono
richiesti  anche  i  requisiti  previsti   dai   principi   contabili
internazionali e la qualifica di revisori legali). 
    Ad  avviso  della  ricorrente  Regione  tali  disposizioni   sono
costituzionalmente illegittime: si dispone l'istituzione di un  nuovo
organo  necessario  delle  Regioni,  in  contrasto  con  il   dettato
costituzionale e all'autonomia statutaria regionale, con in  piu'  la
singolare - ma anche illegittima - attribuzione di  poteri  normativi
alla Corte dei conti  circa  l'individuazione  dei  componenti.  Ora,
l'art. 121 Cost. individua direttamente gli  organi  necessari  delle
Regioni  (Presidente,  Giunta  e  Consiglio);  mentre,  di  converso,
l'istituzione degli organi non necessari (ossia eventuali) e' rimessa
allo Statuto o alla legge regionale, ferma restando  l'intangibilita'
delle competenze affidate dalla Costituzione agli  organi  necessari.
Pertanto, il legislatore statale ordinario  difetta  di  qualsivoglia
competenza in ordine alla  stessa  previsione/imposizione  del  nuovo
organo quale componente necessaria dell'organizzazione regionale. 
    Si noti che la norma qui censurata  entra  in  conflitto  con  le
previsioni statutarie e legislative che la Regione ha dettato proprio
allo scopo di sottoporre al controllo  «tecnico»  la  gestione  delle
finanze regionali: l'art. 72 dello Statuto  prevede  gia'  che  siano
istituite forme di collaborazione con la Corte dei conti,  mentre  la
legge regionale 23 dicembre 2010, n. 12, disciplinando  il  Patto  di
stabilita' territoriale della Regione Emilia-Romagna,  ha  introdotto
anche organi e forme per il controllo  sulla  applicazione  di  esso.
Dunque, la previsione statale verrebbe a sostituirsi alle regole  che
la Regione, nella sua autonomia, ha gia' dettato allo  stesso  scopo,
senza che vi sia alcun  titolo  che  legittimi  un  intervento  cosi'
pervasivo. Non si tratta dunque di un «principio» di coordinamento di
finanza pubblica, ma  di  una  norma  organizzativa  dettagliata  che
impone   addirittura   la    specifica    composizione/qualificazione
professionale del nuovo organo e dei suoi componenti, esorbitando dai
limiti della competenza legislativa statale, in violazione  dell'art.
117, terzo comma Cost. 
    Specificamente  ed  ulteriormente  illegittimo,  inoltre,  appare
l'affidamento alla Corte dei conti di  poteri  regolamentari  il  cui
esercizio  non  solo   interferisce   con   l'autonomia   legislativa
regionale, ma snatura la funzione stessa della Corte dei conti  quale
organo  di  controllo  e  giurisdizionale,  per  definizione  esterno
rispetto all'organizzazione degli enti in  relazione  ai  quali  essa
svolge la sua azione, in violazione degli artt. 100 e 103  Cost.  Ne'
lo Stato,  privo  esso  stesso  della  potesta'  regolamentare  nelle
materie concorrenti, puo'  demandarla  all'organo  di  controllo,  in
violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto. 
    6.  Ulteriore  specifica  illegittimita'   costituzionale   della
disposizione secondo cui le Regioni che,  alla  data  di  entrata  in
vigore  del  presente  decreto,  abbiano  un  numero  di  consiglieri
regionali inferiore a quello previsto  nella  presente  lettera,  non
possono aumentarne il numero. Violazione degli artt. 3 e 97 Cost. 
    Accanto a  quelle  sopra  lamentate,  una  specifica  ragione  di
illegittimita' costituzionale colpisce  la  disposizione  secondo  la
quale «le Regioni che, alla data di entrata in  vigore  del  presente
decreto, abbiano un  numero  di  consiglieri  regionali  inferiore  a
quello previsto nella presente lettera,  non  possono  aumentarne  il
numero». 
    Infatti, se pure in denegata  ipotesi  vi  fosse  un  potere  del
legislatore statale di determinare il numero dei consiglieri in  modo
indiretto,  impropriamente  sanzionando  la  Regione  sul  piano  dei
vincoli giuridici ed  economici  per  il  mancato  adeguamento,  tale
potere  non  potrebbe  esercitarsi  che  secondo  un   principio   di
razionalita' ed in condizioni di uguaglianza per tutte le Regioni che
si trovassero nelle medesime condizioni. 
    A tale elementare principio  contraddice  la  regola  secondo  la
quale una Regione non sarebbe neppure libera di determinare un numero
di consiglieri regionali  che  la  stessa  legge  statale  mostra  di
giudicare congruo, per la sola ragione che con precedente  scelta  la
Regione stessa aveva determinato un numero inferiore. Si  tratta,  in
definitiva, di violazione del principio di uguaglianza tra enti,  che
hanno, sotto tutti i profili rilevanti, le  medesime  caratteristiche
oggettive. 
    7.  Illegittimita'  costituzionale  per   difetto   di   urgenza.
Violazione dell'art. 77 Cost. Benche' si sia qui  preferito  dare  la
priorita' alle censure che riguardano  il  merito  dispositivo  della
norma impugnata, per completezza va aggiunto  che,  ad  avviso  della
ricorrente Regione,  essa  e'  costituzionalmente  illegittima  anche
sotto  il  diverso  profilo  della  carenza   dei   presupposti   del
decreto-legge. 
    Essa pone un termine assai stringente per la «adozione» o per  la
«operativita'» della  modifica  statutaria  (6  mesi),  senza  alcuna
esigenza di urgenza, visto che la norma stessa dispone che  le  nuove
misure saranno «efficaci» solo con la prossima legislatura regionale,
quindi non prima di maggio 2015. Risulta percio' violato anche l'art.
77 Cost., che sottopone la decretazione d'urgenza a precisi requisiti
di urgenza, oltre che di straordinarieta' e necessita'. 
    Stabilire un termine «urgente» di sei mesi per l'approvazione  di
disposizioni  destinate  ad  operare  non  prima  di   quattro   anni
dall'entrata in vigore del provvedimento, sembra un caso molto chiaro
di violazione delle condizioni poste dall'art. 77 Cost. 
    Sui presupposti a cui la giurisprudenza costituzionale  subordina
la legittimazione della Regione ad  agire  per  la  violazione  delle
norme costituzionali relative alle «forme» degli atti legislativi, si
rinvia alle motivazioni sviluppate in seguito in  relazione  all'art.
16, che qui vengono richiamate in toto. 
V. Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, recante «Riduzione dei
costi  relativi   alla   rappresentanza   politica   nei   comuni   e
razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali». 
    Si premette che la Regione Emilia Romagna impugna  l'art.  16  in
nome proprio, ma anche su richiesta del  Consiglio  delle  Autonomie,
formulata ai sensi dell'art. 9, comma 2, della legge 5  giugno  2003,
n. 131, che modifica l'art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953 n.
87, e quale portatrice dei loro interessi istituzionali. 
    1. Illegittimita' dell'art. 16 per violazione dell'art. 77, commi
primo e secondo, Cost. 
    L'intero  art.  16,  qui  impugnato,  appare   in   primo   luogo
costituzionalmente illegittimo per difetto del  requisito  dei  «casi
straordinari di necessita' e d'urgenza» richiesti dall'art. 77, commi
primo e secondo, della Costituzione. 
    Si  tratta,  invero,  di   norme   ordinamentali   che   incidono
profondamente sullo status istituzionale dei Comuni. Infatti, i commi
da 1 a 16 impongono ai  Comuni  fino  a  1000  abitanti  la  gestione
associata ed altre modalita' vincolate per l'esercizio  di  tutte  le
funzioni amministrative e la gestione di tutti i  servizi,  definendo
altresi' minutamente l'istituzione e la composizione degli organi  di
una nuova  forma  di  associazione  obbligatoria  denominata  Unione;
mentre  i  commi  da  17  a  21   innovano   nella   composizione   e
nell'articolazione degli organi dei Comuni in genere, incidendo sulla
loro autonomia organizzativa e  sul  loro  attuale  funzionamento,  e
dispongono in materia di retribuzione dei componenti degli organi  di
governo degli enti territoriali. Lo stesso  decreto-legge  stabilisce
che la disciplina varata non e' di immediata applicazione, laddove al
comma 9 pospone la sua operativita' «a  decorrere  dal  giorno  della
proclamazione degli eletti negli organi di governo  del  Comune  che,
successivamente al 13 agosto  2012,  sia  per  primo  interessato  al
rinnovo». Appare dunque di tutta evidenza  che  l'applicazione  delle
disposizioni in questione non e' destinata a compiersi, e nemmeno  ad
iniziare, nell'immediato. 
    E' altrettanto evidente che entro quel termine -  ed  anzi  molto
prima - avrebbe potuto attivarsi e compiersi l'ordinario procedimento
legislativo, e che dunque non vi era ragione alcuna per la  quale  il
Governo dovesse  sostituirsi  al  naturale  titolare  della  funzione
legislativa. 
    Ne' si potrebbe replicare che l'urgenza, se  non  era  di  queste
disposizioni, era invece di altre  contenute  nello  stesso  decreto:
perche' questo, anziche' giustificare, aggrava il vulnus inferto alle
regole sulle competenze costituzionali, avendo con  cio'  il  Governo
costretto il Parlamento a deliberare senza ragione nel breve  termine
che la conversione del decreto-legge, e la  reale  urgenza  economica
del paese, richiedevano. 
    A rendere ancor piu' evidente il gia' evidente difetto di urgenza
delle disposizioni introdotte vale  ulteriormente  la  considerazione
che esse non solo sono destinate ad attuarsi in  un  momento  lontano
nel tempo, ma neppure appaiono connesse a risparmi di  spesa  che  si
possano considerare certi e rilevanti. 
    Infatti,  i  contenuti  delle  norme   censurate   non   sembrano
rispondere adeguatamente alla finalita' del «contenimento delle spese
degli enti territoriali», perseguita in nome  del  risanamento  della
finanza pubblica, non essendo, tra l'altro,  nemmeno  quantificati  i
supposti  risparmi  di  spesa.  Sicche',  mentre   gli   effetti   di
innovazione  ordinamentale  contenuti  in  queste   norme   sono   di
grandissima rilevanza, anche sotto  il  profilo  costituzionale,  gli
effetti concreti che  queste  possono  determinare  sul  contenimento
della spesa appaiono incerti e, comunque,  solo  eventuali:  mancano,
infatti,  di  quella  precisione  ed   evidenza   che   ne   potrebbe
giustificare  l'emanazione  per  decreto-legge.  Sotto   il   profilo
economico e di contenimento della spesa  manca  ogni  quantificazione
anche nella Relazione della Ragioneria Generale che  ha  accompagnato
il provvedimento di urgenza. 
    All'opposto, sarebbero stati da tenere in  considerazione,  anche
ai fini della copertura  delle  spese,  gli  oneri  amministrativi  a
carico   delle   Amministrazioni   coinvolte,    che    deriverebbero
dall'applicazione di queste norme come conseguenza dei  mutamenti  di
organizzazione,  di  strutture  operative,   di   semplici   ma   non
irrilevanti costi di ristrutturazione degli uffici  e  del  materiale
amministrativo.  Si  tratta  di  costi  certi,   che   rendono   solo
benintenzionata, ma  non  certo  efficace,  quella  disposizione  che
legislatore ha inserito in chiusura alla nuova disciplina (comma  30)
secondo cui «dall'applicazione di ciascuna delle disposizioni di  cui
al presente articolo non devono derivare nuovi  o  maggiori  oneri  a
carico della finanza pubblica». 
    Si tratta di una clausola la cui presenza non fa  che  introdurre
un ulteriore elemento di irrazionalita' nella disciplina, perche'  le
spese sono  davvero  certe,  ove  si  consideri  che  anche  semplici
adempimenti burocratici, come il cambiamento dell'intestazione  della
carta ufficiale, dei timbri  o  degli  indirizzi  elettronici  dovra'
inevitabilmente comportare una qualche spesa a  carico  del  bilancio
pubblico. 
    Che il difetto dei requisiti  di  necessita'  ed  urgenza  generi
vizio di legittimita' costituzionale e' fuori di dubbio. 
    Gia'  con  la  «storica»  sent.  n.  29/1995,  codesta  Corte  ha
fermamente  ribadito  la   sindacabilita'   della   sussistenza   dei
presupposti   di   straordinarieta',   necessita'   e   urgenza   del
decreto-legge, i  quali  costituiscono  «un  requisito  di  validita'
costituzionale  dell'adozione  del  predetto  atto»,  di   modo   che
l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto  un
vizio di legittimita' costituzionale del decreto-legge  [...]  quanto
un  vizio  in  procedendo  della   legge   di   conversione,   avendo
quest'ultima [...] valutato erroneamente l'esistenza  di  presupposti
di validita' in realta' insussistenti e, quindi, convertito in  legge
un atto che non poteva essere legittimo  oggetto  di  conversione»  -
vizio che rimane censurabile quand'anche il  decreto  e'  gia'  stato
convertito in legge, come la stessa Corte ha ribadito nelle ben  note
sent. nn. 171/2007 e 128/2008. 
    E' vero che la Corte ha  affermato  anche  che  la  mancanza  dei
presupposti della decretazione d'urgenza puo' dar luogo ad  un  vizio
di legittimita' dell'atto «solo quando essa appaia chiara e manifesta
perche' solo in questo caso il sindacato di legittimita' della  Corte
non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunita'  politica
riservata al Parlamento» (sent. 398/1998, n.  3  del  considerato  in
diritto).  Ma  un  decreto-legge  che  pospone  l'operativita'  delle
proprie misure ad una data indefinita, ma che comunque in nessun caso
puo' cadere prima di un anno dalla sua entrata in vigore  appare  del
tutto incompatibile con quella «immediata applicazione» che la  legge
400/1988, in attuazione dell'art. 77  Cost.,  pone  come  vincolo  al
potere governativo di decretazione d'urgenza. 
    Denunciato il vizio,  che  ad  avviso  della  ricorrente  Regione
inficia l'intera disciplina dell'art. 16, occorre ora affrontare, per
i dubbi che potrebbero essere sollevati in proposito, il  tema  della
legittimazione della Regione a farlo valere. 
    Infatti, come codesta ecc.ma Corte ha piu' volte  avuto  modo  di
affermare, «le Regioni non sono legittimate a far valere nei  ricorsi
in via principale gli ipotetici vizi nella formazione  di  una  fonte
primaria statale, se non "quando essi si risolvano  in  violazioni  o
menomazioni delle competenze" regionali (in particolare  le  sentenze
n. 398 del 1998; fra le molte analoghe anche le sentenze n. 383 e  n.
50 del 2005)», perche' puo' essere fatto  valere  il  contrasto  «con
norme costituzionali diverse  da  quelle  attributive  di  competenza
legislativa  soltanto  se  esso  si  risolva  in  una  esclusione   o
limitazione dei poteri regionali, senza  che  possano  avere  rilievo
denunce di illogicita' o di violazione di principi costituzionali che
non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale (tra  le
molte, sentenze n. 383 e n. 50 del  2005;  n.  287  del  2004).»  (la
citazione e' tratta dalla sent.n. 116/2006). L'unico interesse che le
Regioni sono legittimate a  far  valere  e',  infatti,  «quello  alla
salvaguardia   del   riparto   delle   competenze   delineato   dalla
Costituzione; esse, pertanto, hanno titolo a denunciare  soltanto  le
violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, in  via
diretta  ed  immediata,   sulle   prerogative   costituzionali   loro
riconosciute dalla Costituzione» (sent. n. 216/2008). 
    Benche' questa consolidata giurisprudenza abbia  finora  impedito
alle Regioni  di  poter  far  valere  i  vizi  «formali»  degli  atti
legislativi, la Corte non ha mai dichiarato  questa  preclusione  nei
confronti del soggetto Regione in quanto tale, ma in  relazione  alla
particolare    (e    particolarmente     restrittiva)     definizione
dell'interesse ad  agire.  Come  sottolinea  la  sentenza  da  ultimo
citata, perche' tale interesse sia ritenuto ammissibile e'  richiesto
che «l'iniziativa assunta dalle Regioni ricorrenti sia oggettivamente
diretta a conseguire l'utilita' propria», in  quanto  la  sussistenza
dell'interesse ad agire puo' essere postulata «soltanto  quando  esso
presenti le  caratteristiche  della  concretezza  e  dell'attualita',
consistendo in quella utilita' diretta ed immediata che  il  soggetto
che agisce puo' ottenere con il provvedimento richiesto al giudice». 
    Tuttavia, l'«utilita' propria,  diretta  e  immediata»  non  puo'
essere fatta coincidere con la difesa  della  specifica  attribuzione
legislativa assegnata alla Regione, dal momento che la violazione  di
questa  costituirebbe  un  vulnus  al  riparto  costituzionale  delle
competenze denunciatile per se' stesso, senza che venga in rilievo la
specifica forma dell'atto legislativo che ne e' responsabile. 
    Le «prerogative costituzionali» delle  Regioni  debbono  pertanto
estendersi,  ad  avviso  della  Regione,   anche   al   loro   status
costituzionale e al ruolo ad esse assegnato nel processi decisionali.
E  lo  stesso  deve  dirsi  anche  per  i  Comuni,  quali  enti   che
primariamente «costituiscono» la Repubblica ai  sensi  dell'art.  114
della Costituzione, che ugualmente la  violazione  della  regola  del
procedimento legislativo ordinario ha privato della  possibilita'  di
far valere la propria voce. 
    Inoltre, la  questione  della  legittimita'  di  anticipare,  con
misure  di  urgenza,  interventi   di   natura   ordinamentale,   che
dovrebbero, invece, essere  affrontati  nel  quadro  di  un  riordino
organico del sistema dei livelli territoriali  di  governo,  si  pone
ormai in termini acuti, oltre  che  dal  punto  di  vista  del  «buon
governo» del sistema repubblicano, anche nell'assetto delle relazioni
costituzionali che intercorrono tra Stato e Regioni,  le  quali,  per
costante affermazione della Corte costituzionale, devono ispirarsi al
principio di leale collaborazione. 
    Ed e' evidente che, nello stesso arco temporale fissato dal comma
9 dell'art. 16, si sarebbe potuto giungere ad  un  testo  meditato  e
condiviso di riforma, dagli effetti assai piu' vasti e benefici,  sia
sotto il profilo della  funzionalita'  dell'Amministrazione  nel  suo
complesso, che del  contenimento  dei  costi  finanziari.  E'  quanto
denuncia il documento approvato il 24 giugno 2010,  dalla  Conferenza
delle  Regioni,  il  quale,  in   relazione   alla   successione   di
decreti-legge e di altri provvedimenti che si  sono  accavallati  nel
corso di quest'ultimo anno, osservava che: «Oltre alla preoccupazione
di una disarticolazione del quadro istituzionale, se non  corroborato
da un quadro strutturale organico di  riforme,  e'  anche  abbastanza
preoccupante  che  provvedimenti  di  riforma  strutturale,  come  il
disegno di legge c.d. Calderoli (C 3118) e il  disegno  di  legge  in
materia di semplificazione e carta dei doveri della P.A.  (C.  3209),
attualmente  all'esame  del  Parlamento,  risultino  progressivamente
svuotati mediante l'anticipazione di singole parti in essi  contenute
nella manovra appena approvata  dal  Governo.  Ci  si  riferisce,  in
particolare, all'art. 14, commi da 25 a 31  (contenenti  disposizioni
in materia di funzioni fondamentali dei  comuni).  Senza  considerare
quanto incida, o possa incidere, questa manovra, sulla  stessa  legge
n. 42/2009 e, soprattutto,  sulla  sua  concreta  attuazione.  Questo
approccio metodologico, anche solo da  un  punto  di  vista  tecnico,
potrebbe mettere a rischio la realizzabilita'  concreta  dei  disegni
complessivi  di  riforma,  e  sconfessa  il  metodo  che  sinora   ha
caratterizzato le relazioni istituzionali tra i  diversi  livelli  di
Governo, improntate al principio di leale collaborazione;  un  metodo
che si regge su precise fondamenta normative  (d.lgs.  n.  281/1997),
tuttora in vigore ed espressione di principi  costantemente  ribaditi
dalla Corte costituzionale.» 
    Le Regioni, alla pari dei rappresentanti delle Associazioni degli
enti  locali,  sono  state  coinvolte  in  defatiganti  procedure  di
negoziazione, che avrebbero dovuto portare ad un riassetto chiaro  ed
equilibrato, come da tutti  auspicato,  dei  poteri  locali  e  delle
relazioni,  anche  finanziarie,  tra  Stato,  Regioni   e   autonomie
territoriali. 
    E' evidente che esse sono del tutto inutili se poi al Governo  e'
consentito  di  procedere   unilateralmente   a   modificare   tratti
fondamentali del  quadro  istituzionale  con  caotici  e  unilaterali
provvedimenti ordinamentali (dalla legge finanziaria  di  fine  anno,
legge n. 191/2009 e dal decreto-legge ad essa  collegato,  convertito
con legge n. 42/2010, al successivo inserimento di molta parte  delle
residue disposizioni nella c.d. Manovra estiva 2010, ovvero nel  d.l.
n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, fino alle c.d.  Manovre
estive 2011, ossia il d.l. 98/2011 convertito con legge 111/2011 e il
d.l. 138/2011 convertito dalla  legge  148/2011)  e  soprattutto  con
quelli emanati in forma di decreti-legge, che, come si e' piu'  sopra
evidenziato, sono del tutto ingiustificabili, sia per quanto riguarda
l'urgenza del provvedere, sia per l'effettiva congruita' delle misure
rispetto al fine dichiarato. 
    Ora, ad avviso della Regione ricorrente deve essere affermato che
cio' viene a ledere non soltanto un generico quadro di buoni rapporti
tra Stato e Regioni, ma anche tutti quei vincoli procedurali  che  le
stesse leggi di delega normalmente prevedono per dare  attuazione  al
principio di leale collaborazione. 
    Per questi  motivi,  la  ricorrente  Regione  ritiene  di  essere
legittimata  a   far   valere,   in   relazione   alle   disposizioni
ordinamentali di cui all'art. 16, la violazione dell'art.  77  Cost.,
per quanto riguarda la carenza dei  presupposti  della  necessita'  e
dell'urgenza,  nonche'  per  violazione  degli   artt.   114   (ruolo
costituzionale delle Regioni) e 118, comma 1, (come  espressione  del
piu' generale principio di sussidiarieta'),  ed  infine  dell'art.  5
Cost.,  come  implicito  riconoscimento  del   principio   di   leale
collaborazione. 
    2.  Illegittimita'  costituzionale  dei  commi  da  1  a  16  per
violazione degli artt.  114,  primo  e  secondo  comma,  117,  primo,
secondo comma, lett. p), e quarto comma, 118 e  133,  secondo  comma,
Cost., nonche' per violazione del principio di  non  discriminazione,
ragionevolezza e di buon andamento, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. 
    L'art. 16, nei commi da 1 a 16, prevede che: 
        a decorrere dalla data fissata dal  comma  9,  i  Comuni  con
popolazione fino a 1000 abitanti debbano esercitare obbligatoriamente
in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi
pubblici loro spettanti tramite una Unione, disciplinata dall'art. 32
del TUEL e dalle norme puntuali, e ampiamente  innovative,  contenute
nei citati commi dell'art. 16; 
        di queste Unioni potranno far parte anche Comuni superiori  a
1000 abitanti, che possono esercitare attraverso di esse le  funzioni
fondamentali o, a loro scelta,  tutte  le  funzioni  o  servizi  loro
attribuiti; 
        a queste Unioni spetta «per conto  dei  Comuni  che  ne  sono
membri, la programmazione finanziaria e  la  gestione  contabile  con
riferimento  alle  funzioni  esercitate   per   mezzo   dell'Unione»,
disponendosi poi che «i Comuni concorrono  alla  predisposizione  del
bilancio di previsione dell'Unione» soltanto «mediante l'adozione  di
un  documento  programmatico,  nell'ambito  del  piano  generale   di
indirizzo deliberato dall'Unione» (comma 4); 
        l'Unione succede, a tutti gli effetti, nei rapporti giuridici
in essere che siano inerenti alle  funzioni  e  ai  servizi  ad  essa
affidati, nonche' nei  relativi  rapporti  finanziari  derivanti  dal
bilancio; dal  momento  dell'istituzione  dell'Unione,  per  tutti  i
Comuni (compresi  quelli  con  popolazione  superiore  che  svolgano,
mediante l'Unione, tutte le loro funzioni)  decadono  le  Giunte,  ed
unici organi  sono  il  Sindaco  e  il  Consiglio,  a  cui  residuano
«esclusivamente i poteri di indirizzo»; 
        l'Unione e' dotata di propri organi ed, in particolare, di un
Consiglio composto dai Sindaci e da un certo numero  dei  Consiglieri
dei Comuni membri, i quali eleggono il Presidente che, a  sua  volta,
nomina la Giunta (in seguito il legislatore statale potra'  prevedere
l'elezione a suffragio universale e diretto di questi  organi:  commi
10 e 11). I commi 12, 13, 14,  15  inoltre  disciplinano  minutamente
composizione, funzioni, durata in carica ed emolumenti  degli  organi
delle Unioni; i Comuni inferiori a  1000  abitanti  possono  derogare
all'obbligo di esercitare, tramite l'Unione, tutte le loro funzioni e
i loro servizi, solo se adottano altra forma  associativa,  quale  la
convenzione di cui all'art. 30 TUEL,  fermo  restando  che  anche  in
questo caso devono gestire tutte le funzioni  e  i  servizi  ad  essi
attribuiti tramite la convenzione. 
    Ad avviso della ricorrente  Regione,  l'intera  disciplina  sopra
sintetizzata, risulta viziata da  illegittimita'  costituzionale  per
violazione degli artt. 114,  primo  e  secondo  comma,  117,  secondo
comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133,  secondo  comma,  Cost.
nonche' per violazione del principio  di  ragionevolezza  e  di  buon
andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost.. 
    Conviene  qui  in  primo   luogo   riassumere   le   disposizioni
costituzionali che riguardano  i  Comuni,  e  le  competenze  che  in
relazione ad essi spettano allo Stato e  alle  Regioni.  Non  occorre
ricordare che secondo l'art. 114, primo comma, della  Costituzione  i
Comuni,  insieme  alle  Province,  alle  Citta'  metropolitane,  alle
Regioni ed allo Stato costituiscono la Repubblica. Inoltre, ai  sensi
del secondo comma, essi  «sono  enti  autonomi  con  propri  statuti,
poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione». 
    Secondo l'art. 118, comma primo, ai Comuni spettano  le  funzioni
amministrative, nel quadro del principio di sussidiarieta', e secondo
il comma terzo essi hanno funzioni proprie, oltre a quelle  conferite
ad essi dalla Regione e dallo Stato. 
    Secondo l'art. 117, comma secondo, lett. p),  spetta  alla  legge
statale definire le funzioni  fondamentali  dei  Comuni,  ed  inoltre
spetta ad essa la competenza in materia di legislazione elettorale  e
organi di governo. 
    Invece, spetta alle Regione, ai sensi dell'art. 133, primo comma,
della Costituzione, «istituire nel proprio territorio nuovi Comuni  e
modificare  le  loro  circoscrizioni  e  denominazioni»,  sentite  le
popolazioni interessate. E pure alla competenza regionale spetta,  ai
sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., la disciplina di ogni altro
aspetti delle istituzioni  comunali,  in  quanto  non  si  tratti  di
aspetti riservati alla loro stessa autonomia. 
    Questo quadro di garanzie costituzionali delle autonomie locali e
questo riparto di competenze  va  ovviamente  tenuto  presente  anche
nell'affrontare il problema - che certo la Regione non ignora (avendo
intrapreso essa stessa,  sempre  in  accordo  con  gli  enti  locali,
rilevanti  iniziative  istituzionali  rivolte  a  risolverlo)   della
insufficiente dimensione di molti dei Comuni italiani. 
    Si tratta di un problema complesso, che non puo'  essere  risolto
in modo sbrigativo e per via traversa - come  fa  la  disciplina  qui
impugnata (si conferma qui la gia' lamentata drammatica inadeguatezza
dello  strumento   della   decretazione   d'urgenza),   mediante   lo
svuotamento istituzionale dei comuni con popolazione inferiore a 1000
abitanti, privandoli delle funzioni, strutture e risorse  finanziarie
e  disponendo  la  loro  pratica  sostituzione  con  un  ente  nuovo,
l'Unione, nella quale finisce per «sciogliersi» ogni  comune  la  cui
popolazione non superi la soglia indicata: un ente che ovviamente non
compare nella tipologia costituzionale degli  enti  costituivi  della
Repubblica e privo di legittimazione  democratica  diretta,  come  e'
stato  rilevato,  nel  corso  dei  lavori  preparatori,   sia   dalla
Commissione Affari Costituzionali del Senato, che  dalla  Commissione
parlamentare per le Questioni Regionali  che,  nel  parere  reso  sul
disegno  di  legge  di  conversione  del  d.l.  138/2011,   suggeriva
«l'opportunita' di sopprimere l'articolo 16». 
    In effetti, altro e' promuovere entita' associative attraverso le
quali i Comuni  associati  possano  meglio  esercitare  alcune  delle
proprie funzioni,  fermo  restando  il  nucleo  centrale  della  loro
consistenza funzionale e strutturale di Comuni, altro  e'  ridurre  i
Comuni a mere strutture di rappresentanza, da aggregare in altro ente
che  -  senza  essere  esso   stesso   «Comune»,   con   le   proprie
caratteristiche di immediata espressione della democrazia al  livello
locale - dei Comuni originari  assorbe  pressoche'  integralmente  le
funzioni, le strutture e le risorse. 
    Quanto alle funzioni,  infatti,  la  disposizione  qui  censurata
priva i Comuni interessati di tutte le funzioni amministrative  e  di
gestione dei servizi pubblici. Quanto all'organizzazione, se e'  vero
che la legge di conversione ha evitato la drastica soppressione dello
stesso consiglio comunale accanto a quella mantenuta della Giunta, e'
anche vero che tali consigli comunali restano  come  semplici  organi
d'indirizzo ai quali «competono esclusivamente  poteri  di  indirizzo
nei confronti del consiglio  dell'Unione»  (  comma  9).  Gli  stessi
sindaci dei Comuni diventano semplici  rappresentanti  nel  consiglio
dell'Unione, mentre le funzioni di Sindaco vengono assunte, a termini
del comma 12, dal presidente  dell'Unione.  Paradossalmente,  privati
delle funzioni di vertice del Comune,  i  Sindaci  si  caratterizzano
ormai soprattutto per l'esercizio delle funzioni relative ai  servizi
statali di cui all'art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000. 
    Insomma, e' palese che  il  disegno  proprio  delle  disposizioni
dell'art. 16, nei commi da 1 a 16, e' di sostituire nella sostanza  i
Comuni di piccola dimensione con le Unioni. Questo disegno, tuttavia,
contrasta con le garanzie che la Costituzione offre a tutti i Comuni,
e costituisce un aggiramento delle apposite  procedure  e  competenze
che essa stabilisce per  la  creazione  di  nuovi  comuni  e  per  il
mutamento delle circoscrizioni comunali. 
    In altre parole, le disposizioni impugnate costituiscono non solo
superamento dei poteri statali previsti dall'art. 117, comma secondo,
ma anche e prima di tutto violazione dell'art. 133 Cost. 
    Solo in apparenza il legislatore  statale  dispone  di  organi  e
funzioni degli enti locali, perche', in realta', quello che ne  viene
alterata  e'  la  stessa  mappa  dell'autonomia  comunale,   che   e'
costituzionalmente garantita dalle peculiari procedure  appositamente
apprestate dall'art. 133. Infatti, i Comuni  sotto  i  1000  abitanti
vengono svuotati di ogni loro attribuzione e delle  risorse  umane  e
strumentali, e  persino  della  titolarita'  dei  rapporti  giuridici
relativi alle funzioni amministrative, tutte  trasferite  all'Unione.
Cio' significa che dei  vecchi  comuni  resta  solo  l'involucro;  di
fatto, essi sono svuotati e ridotti a poco  piu'  che  circoscrizioni
elettorali dell'Unione di cui fanno parte. 
    Come codesta Corte ha osservato nella sent. n. 2/2004 a proposito
degli  Statuti  regionali,  le  disposizioni   costituzionali   vanno
interpretate rispettandone lo  spirito,  oltre  che  la  lettera:  se
questo fondamentale principio vale per gli Statuti regionali, vale di
certo anche per il legislatore ordinario.  Mal  si  concilia  con  lo
«spirito»  dell'art.  133   Cost.   una   legge   che   lasci   delle
circoscrizioni comunali soltanto le indicazioni segnaletiche, perche'
l'esercizio  delle  funzioni  amministrative  e'  stato,   d'imperio,
traslocato altrove. 
    Come sopra accennato, non si vuole certo negare che un  riassetto
delle autonomie locali sia necessario, ma non lo si puo' operare  con
strumenti  impropri  e  improvvisati  nella   fretta,   paralizzando,
oltretutto, il lavoro di elaborazione condivisa che da tempo si stava
sviluppando nelle sedi istituzionali disponibili. 
    Il complesso normativo costituito dall'art. 16, commi da 1 a  16,
non  e'  dunque  compatibile  con  i  principi  costituzionali  sopra
esposti: ne' con il riconoscimento, che e' espressamente fatto, della
natura costitutiva dei Comuni nella costruzione della Repubblica, ne'
con i principi di autonomia statutaria, organizzativo-regolamentare e
finanziaria, ne' con i principi piu' specifici dell'art.  118  Cost.,
per quanto riguarda le funzioni fondamentali e  le  funzioni  proprie
dei Comuni, che - come insegna codesta Corte  (sent.  n.  43/2004)  -
sono «definite dalla legge, sulla base di criteri oggi  assistiti  da
garanzia  costituzionale».  Lo  stesso  principio  di  sussidiarieta'
subisce una violazione, in quanto la «differenziazione» dei Comuni  e
delle loro funzioni non puo' essere disgiunta da una  considerazione,
in  concreto,  della  capacita'  amministrativa  e  di  gestione  che
distingue gli enti minori in ogni diversa realta' del  Paese,  e  non
puo' ridursi alla privazione delle funzioni dei Comuni minori. 
    Inoltre, risulta violata la Carta europea delle autonomie locali,
ratificata dall'Italia con la legge 30  dicembre  1989,  n.  439.  11
contrasto e' evidente, in particolare, con l'art. 3, che nel definire
il Concetto di autonomia locale non solo precisa che  «per  autonomia
locale, s'intende  il  diritto  e  la  capacita'  effettiva,  per  le
collettivita' locali, di regolamentare  ed  amministrare  nell'ambito
della  legge,  sotto  la  loro  responsabilita',  e  a  favore  delle
popolazioni, una parte importante di affari pubblici» (comma  1),  ma
sottolinea anche che  «tale  diritto  e'  esercitato  da  Consigli  e
Assemblee costituiti da membri eletti a  suffragio  libero,  segreto,
paritario, diretto ed universale, in  grado  di  disporre  di  organi
esecutivi responsabili nei loro confronti». 
    Dunque, il trasferimento coattivo  delle  funzioni,  strutture  e
risorse relative a tutte le funzioni amministrative e di gestione dei
pubblici servizi dei Comuni  minori  ad  amministrazioni  di  secondo
grado viola anche gli impegni  liberamente  assunti  dall'Italia  nel
quadro  europeo,  e  con  cio'  l'art.  117,   primo   comma,   della
Costituzione. Si noti, tra l'altro, che in concreto  molto  spesso  i
comuni con  popolazione  non  superiore  a  1000  abitanti  non  sono
contigui, sicche' essi debbono partecipare ad Unioni che  comprendono
Comuni che affidano all'Unione solo alcune  delle  proprie  funzioni,
mantenendo per il resto (ed ovviamente)  la  pienezza  della  propria
natura di Comuni: sicche' la situazione istituzionale  risulta  anche
fortemente asimmetrica e diseguale, con il  solo  comune  minore  che
perde nella sostanza la propria natura di vero Comune,  a  favore  di
una Unione che per tutti gli altri  comuni  rimane  un'organizzazione
settoriale. In altre parole la stessa Unione non ha la stessa  natura
per tutti i comuni componenti, dato che per  la  maggior  parte  essa
resta una organizzazione funzionale di servizio, mentre per il Comune
fino a 1000 abitanti essa in  realta'  subentra  nel  ruolo  di  vero
Comune. 
    Ad avviso della Regione sotto questo profilo  risultano  violati,
oltre che l'art. 114, anche  gli  artt.  3  e  97  Cost.,  in  quanto
soluzione discriminatrice, priva di ragionevolezza  ed  in  contrasto
con il principio di buon andamento dell'amministrazione. 
    Oltre  alle  regole  costituzionali  in  materia   di   autonomia
comunale, le disposizioni impugnate violano le  competenze  residuali
delle Regioni in materia di associazionismo tra enti locali. 
    Infatti, come confermato da codesta  Corte  costituzionale  nella
sent. n. 456/2005 (ivi il riferimento specifico era  alla  disciplina
delle Comunita' montane),  nello  stabilire  la  competenza  statale,
l'art. 117, secondo comma, lettera p), «fa  espresso  riferimento  ai
Comuni, alle Province e alle  Citta'  metropolitane  e  l'indicazione
deve ritenersi tassativa».  Dunque,  la  potesta'  legislativa  dello
Stato si ferma all'ordinamento degli enti locali, e  non  si  estende
alle loro forme associative (cfr. anche la sent. n. 27/2010),  ne'  a
quel «caso speciale  di  Unioni  di  Comuni»  (cfr.  Corte  cost.  n.
456/2005) quali sono, appunto, le Comunita' montane, enti non  dotati
di «autonomia costituzionalmente garantita» (sent. n.  397/2006).  In
effetti, la giurisprudenza costituzionale  ha  in  diverse  occasioni
confermato l'incompetenza del legislatore statale ad  intervenire  in
un  ambito,  quello  delle  forme  associative,  riconducibile   alla
potesta' legislativa regionale residuale (sentenze nn. 244 e 456  del
2005, n. 387 del 2006, n. 237/2009, n. 27/2010 e n. 326/2010). 
    Di  conseguenza,  l'intera  disciplina  della   speciale   Unione
prevista dai commi da I a 16, a maggiore ragione per il suo carattere
dettagliato e minuzioso, appare  costituzionalmente  illegittima  per
lesione della  competenze  residuale  delle  Regioni  in  materia  di
associazionismo tra enti locali. 
    Questo  profilo  e'  particolarmente  rilevante   nella   Regione
Emilia-Romagna, che a favore dell'associazionismo ha svolto una forte
azione di incentivazione, adottando specifiche norme legislative  che
in  questi  anni   hanno   accompagnato   un   esteso   fenomeno   di
associazionismo  intercomunale,  ottenendo  risultati  considerevoli.
L'obiettivo  perseguito   con   un'intensa   attivita'   legislativa,
amministrativa, finanziaria e  politica  nel  corso  di  piu'  di  un
decennio  e'  stato  finalizzata  a  promuovere  proprio  l'esercizio
associato  di  dette  funzioni/servizi,  in  virtu'  della   maggiore
efficienza ed ottimizzazione delle risorse assicurate da tali formule
organizzative; cioe' per conseguire quegli stessi obiettivi  che  ora
il decreto-legge pretende di ottenere con un tratto di penna. 
    Da  ultimo,  e  in   subordine,   va   censurata   la   specifica
incostituzionalita' di talune disposizioni dell'art. 16 che prevedono
poteri regolativi e amministrativi statali nella  applicazione  della
normativa impugnata. 
    Cosi' il comma 4 dispone, tra l'altro, che «con  regolamento»  da
adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della  legge  23  agosto
1988, n. 400 «su proposta del Ministro dell'interno, di concerto  con
il Ministro per le riforme per il federalismo, sono  disciplinati  il
procedimento amministrativo-contabile di formazione e  di  variazione
del  documento  programmatico,  i  poteri  di  vigilanza  sulla   sua
attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra
ciascun comune e l'unione». 
    Ad avviso della ricorrente Regione, si tratta di un potere che in
nessun modo e' riconducibile alla competenza legislativa  statale  in
materia di individuazione della funzioni fondamentali,  o  ad  alcuna
altra  materia  di  competenza  statale.  Si  tratta   invece   della
disciplina  dei  rapporti  tra  i  Comuni  e  l'entita'  associativa,
rapporti che - per la parte che non  ricade  nella  stessa  autonomia
comunale - compete alla Regione ai sensi dell'art. 117, quarto comma,
Cost. 
    Di conseguenza, non vi e' potere regolamentare statale, a termini
dell'art. 117, comma sesto, Cost. 
    In ulteriore subordine, ove  dovesse  ammettersi  una  competenza
statale, risulta violato il principio di  leale  collaborazione,  non
essendo prevista ne' l'intesa con la Regione interessata ne' l'intesa
con la Conferenza unificata. 
    Ugualmente, risulta illegittimo il comma 16, per  violazione  del
principio di leale collaborazione, per avere il  legislatore  statale
completamente pretermesso le Regioni nella valutazione - demandata in
via esclusiva al Ministro degli Interni - in ordine al conseguimento,
da parte dei Comuni  gia'  coinvolti  in  forme  associative  di  cui
all'art. 30 del T.U.E.L., dei «significativi livelli di efficacia  ed
efficienza nella gestione,  mediante  convenzione,  delle  rispettive
attribuzioni». E' eclatante la  circostanza  che  gli  effetti  delle
leggi regionali  sull'associazionismo  vengano  a  dipendere  da  una
valutazione unilaterale e centralizzata del Ministero degli  Interni,
senza  alcun  coinvolgimento  delle  Regioni  stesse,  in  violazione
dell'art.  117,  comma  4.  E'  evidente,  altresi',  la   violazione
dell'art. 114, in quanto detta disposizione  introduce  un  controllo
statale sulla efficacia ed  efficienza  della  gestione  delle  forme
associative  diverse  dalle  unioni,  in  violazione   dell'autonomia
riconosciuta agli enti territoriali dall'attuale testo dell'art. 114,
come modificato dalla riforma del titolo V.