Ricorso della Regione Liguria, in persona del Presidente della Giunta
regionale pro-tempore Claudio Burlando, autorizzato con deliberazione
della Giunta regionale dell'11  novembre  2011,  n.  1332  (doc.  1),
rappresentata e difesa,  come  da  procura  speciale  a  margine  del
presente atto, dall'avv. Barbara  Baroli  dell'Avvocatura  regionale,
dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova dall'avv. prof.  Franco
Mastragostino di Bologna,  e  dall'avv.  Luigi  Manzi  di  Roma,  con
domicilio  eletto  in  Roma  nello  studio  di  quest'ultimo  in  via
                         Confalonieri n. 5; 
 
    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri   per   la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale del  decreto-legge  13
agosto  2011,  n.  138,  recante  Ulteriori  misure  urgenti  per  la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, in quanto  convertito,
con modificazioni, nella legge n.  148  del  2011,  pubblicata  nella
Gazzetta  Ufficiale del  16  settembre  2011,  con  riferimento  alle
seguenti disposizioni: 
    articolo 11; 
    articolo 16, 
    per violazione: 
    degli  articoli  3,  5,  77,  97,  114,  117,  118  e  133  della
Costituzione; 
    del principi di non discriminazione e ragionevolezza e  di  leale
collaborazione; 
    nei modi e per i profili di seguito illustrati. 
 
                              F a t t o 
 
    Il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 ha  introdotto  Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo  sviluppo.
Esso e' stato poi convertito, con modificazioni, nella legge  n.  148
del 2011.  La  presente  impugnazione  si  rivolge  dunque  a  talune
disposizioni del decreto-legge, in quanto esse sono state  convertite
dalla citata legge e nella forma che con essa hanno assunto. 
    Naturalmente la Regione Liguria e' ben  consapevole  delle  gravi
ragioni, legate alla situazione della  finanza  pubblica,  che  hanno
fornito la motivazione  per  le  diverse  disposizioni  del  decreto.
Ritiene pero' che anche le misure restrittive  debbano  muoversi  nel
quadro delle regole costituzionali dei  rapporti  tra  lo  Stato,  le
regioni e le autonomie locali, e che anzi il rispetto di tali  regole
sia  necessario  sempre,  ma  lo  sia  ancor  piu'  quando  la   loro
applicazione  comporta  sacrifici  per  le   comunita'   territoriali
coinvolte e per le persone che di esse fanno parte. 
    Cio' premesso, la  ricorrente  Regione  Liguria  ritiene  che  le
disposizioni  sopra  indicate  siano  lesive  della   sua   autonomia
regionale   costituzionalmente   garantita,    nonche'    in    parte
dell'autonomia garantita agli enti locali della regioni, e che dunque
esse  risultino  costituzionalmente  illegittime  per   le   seguenti
ragioni; 
 
                            D i r i t t o 
 
    I. Illegittimita' costituzionale dell'art. 11 recante «Livelli di
tutela  essenziali  per  l'attivazione  dei  tirocinii».   Violazione
dell'art.117,  quarto  comma  Cost.  e   del   principio   di   leale
collaborazione. 
    Dopo aver precisato che «i tirocinii formativi e di  orientamento
possono essere promossi unicamente  da  soggetti  in  possesso  degli
specifici  requisiti  preventivamente  determinati  dalle   normative
regionali, in funzione  di  idonee  garanzie  all'espletamento  delle
iniziative medesime», l'art. 11 dispone che «fatta  eccezione  per  i
disabili, gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, i  soggetti  in
trattamento psichiatrico, i  tossicodipendenti,  gli  alcolisti  e  i
condannati ammessi a misure alternative di  detenzione,  i  tirocinii
formativi e di orientamento non curricolari  non  possono  avere  una
durata superiore e sei mesi,  proroghe  comprese,  e  possono  essere
promossi unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro  e
non oltre dodici  mesi  dal  conseguimento  del  relativo  titolo  di
studio».  Viene,  poi,  precisato  che  in  assenza   di   specifiche
regolamentazioni  regionali,  trovano  applicazione  le  disposizioni
contenute nell'art. 18 della legge 24  giugno  1997,  n.  196  ed  il
relativo regolamento di attuazione. 
    Con tale norma viene dettata una disciplina statale dei  tirocini
formativi e di orientamento non curriculari omogenea ed uniforme  per
tutto il territorio nazionale. Sennonche', si tratta di  una  materia
di sicura  competenza  residuale  regionale,  qual  e'  quella  della
«istruzione e formazione professionale» nel cui ambito la  disciplina
del tirocinio formativo e di orientamento pacificamente rientra. 
    Il legislatore statale ha ritenuto  di  potersi  «ritagliare»  un
importante spazio della materia, in virtu' del  titolo  competenziale
di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m) Cost.  «determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali» che, infatti, e' evocato nella  stessa  rubrica  dell'art.
11. 
    Tale qualificazione, tuttavia, e' ingannevole. Infatti, la  legge
statale, ben lungi dal fissare prestazioni  da  garantire,  ne  fissa
invece  limitazioni,  impedendo  alle   regioni   di   garantire   le
prestazioni in termini piu'  estesi.  Si  tratta  dunque  di  «limiti
prestazionali»  e  non  della  determinazione  di   «livelli   minimi
essenziali». 
    La non riconducibilita'  della  norma  alla  indicata  competenza
statale ne comporta l'illegittimita', per difetto di competenza. 
    A parte cio', tali limitazioni,  per  quanto  bene  intenzionate,
appaiono anche irragionevoli nella  loro  uniformita'  per  tutto  il
territorio nazionale, che e' invece caratterizzato da una varieta' di
esigenze e situazioni che richiedono  risposte  diversificate,  quali
solo la competenza regionale puo' assicurare. 
    Ma, anche se l'indicato titolo di competenza potesse giustificare
un intervento statale, va comunque rilevato che tale  intervento  non
potrebbe   consistere   nella   uniforme   e    rigida    unilaterale
determinazione uguale per tutto il territorio  nazionale,  ma  semmai
nella istituzione di una procedura di collaborazione per  le  singole
determinazioni in sede locale. 
    E'  fuor  di  dubbio,  infatti,  che  laddove  si   rinvenga   un
«intreccio»  tra  lep  e  competenze  regionali,  la  condizione   di
legittimita' dell'intervento statale e'  data  dalla  «previsione  di
adeguate   procedure   di   coinvolgimento   delle   regioni    nella
specificazione delle prestazioni», come la stessa Corte ha piu' volte
indicato.  In  altri  termini,  quando  vi   e'   l'intreccio   delle
competenze, derivante dalla sovrapposizione di  interessi  statali  e
regionali  convergenti,  l'ente   «minore»   deve   comunque   essere
consultato, in misura graduata in base al livello di incisione  della
sua competenza ed al rilievo dell'interesse di cui e'  portatore,  in
virtu' del principio di leale  collaborazione  (in  tal  senso  sent.
88/2003;  387/2007;  134/2006,  che   ha   sanzionato   l'illegittima
riduzione della partecipazione  regionale  al  livello  del  semplice
parere, anziche' della necessaria intesa).  E  non  par  dubbio  che,
nello specifico, la Regione Liguria abbia interessi  rilevanti  nella
materia della formazione. 
    Nessuna  procedura   di   coinvolgimento   e'   contenuta   nella
disposizione in  esame,  che  si  limita  a  dettare  una  disciplina
uniforme  dell'istituto,   senza   prevedere   fasi   successive   di
specificazione ed attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni
entro cui coinvolgere le regioni, con la conseguenza che deve esserne
dichiarata l'illegittimita'  per  violazione  dell'art.  117,  quarto
comma, Cost. e del principio di leale collaborazione. 
    II.   Illegittimita'   costituzionale   dell'art.   16,   recante
«Riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni
e razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali». 
    Si premette che la Regione Liguria  impugna  l'art.  16  in  nome
proprio,  ma  anche  su  richiesta  del  Consiglio  delle  Autonomie,
formulata ai sensi dell'art. 9, comma 2, della legge 5  giugno  2003,
n. 131, che modifica l'art. 32, comma 2, della legge 11  marzo  1953,
n. 87, e quale portatrice  dei  loro  interessi  istituzionali  (cfr.
delibera n. 128 del 3 novembre 2011, allegato doc. 2). 
    1. Illegittimita' dell'art. 16 per violazione dell'art. 77, commi
primo e secondo, Cost. 
    L'intero  art.  16,  qui  impugnato,  appare   in   primo   luogo
costituzionalmente illegittimo per difetto del  requisito  dei  «casi
straordinari di necessita' e d'urgenza» richiesti dall'art. 77, commi
primo e secondo, della Costituzione. 
    Si  tratta,  invero,  di   norme   ordinamentali   che   incidono
profondamente sullo status istituzionale dei comuni. Infatti, i commi
da 1 a 16 impongono ai comuni  fino  a  1.000  abitanti  la  gestione
associata ed altre modalita' vincolate per l'esercizio  di  tutte  le
funzioni amministrative e la gestione di tutti i  servizi,  definendo
altresi' minutamente l'istituzione e la composizione degli organi  di
una nuova  forma  di  associazione  obbligatoria  denominata  Unione;
mentre  i  commi  da  17  a  21   innovano   nella   composizione   e
nell'articolazione degli organi dei comuni in genere, incidendo sulla
loro autonomia organizzativa e  sul  loro  attuale  funzionamento,  e
dispongono in materia di retribuzione dei componenti degli organi  di
governo degli enti territoriali. 
    Lo stesso decreto-legge stabilisce che la disciplina  varata  non
e' di immediata applicazione, laddove  al  comma  9  pospone  la  sua
operativita' «a decorrere dal giorno della proclamazione degli eletti
negli organi di governo del comune che, successivamente al 13  agosto
2012, sia per primo interessato al rinnovo». Appare dunque  di  tutta
evidenza che l'applicazione delle disposizioni in  questione  non  e'
destinata a compiersi, e  nemmeno  ad  iniziare,  nell'immediato.  E'
altrettanto evidente che entro quel termine - ed anzi molto  prima  -
avrebbe  potuto  attivarsi  e  compiersi   l'ordinario   procedimento
legislativo, e che dunque non vi era ragione alcuna per la  quale  il
Governo dovesse  sostituirsi  al  naturale  titolare  della  funzione
legislativa. 
    Ne' si potrebbe replicare che l'urgenza, se  non  era  di  queste
disposizioni, era invece di altre  contenute  nello  stesso  decreto:
perche' questo, anziche' giustificare, aggrava il vulnus inferto alle
regole sulle competenze costituzionali, avendo con  cio'  il  Governo
costretto il Parlamento a deliberare senza ragione nel breve  termine
che la conversione del decreto-legge, e la  reale  urgenza  economica
del paese, richiedevano. 
    A rendere ancor piu' evidente il gia' evidente difetto di urgenza
delle disposizioni introdotte vale  ulteriormente  la  considerazione
che esse non solo sono destinate ad attuarsi in  un  momento  lontano
nel tempo, ma neppure appaiono connesse a risparmi di  spesa  che  si
possano considerare certi e rilevanti. 
    Infatti,  i  contenuti  delle  norme   censurate   non   sembrano
rispondere adeguatamente alla finalita' del «contenimento delle spese
degli enti territoriali», perseguita in nome  del  risanamento  della
finanza pubblica, non essendo, tra l'altro,  nemmeno  quantificati  i
supposti  risparmi  di  spesa.  Sicche',  mentre   gli   effetti   di
innovazione  ordinamentale  contenuti  in  queste   norme   sono   di
grandissima rilevanza, anche sotto  il  profilo  costituzionale,  gli
effetti concreti che  queste  possono  determinare  sul  contenimento
della spesa appaiono incerti e, comunque,  solo  eventuali:  mancano,
infatti,  di  quella  precisione  ed   evidenza   che   ne   potrebbe
giustificare  l'emanazione  per  decreto-legge.  Sotto   il   profilo
economico e di contenimento della spesa  manca  ogni  quantificazione
anche nella Relazione della Ragioneria Generale che  ha  accompagnato
il provvedimento di urgenza. 
    All'opposto, sarebbero stati da tenere in  considerazione,  anche
ai fini della copertura  delle  spese,  gli  oneri  amministrativi  a
carico   delle   amministrazioni   coinvolte,    che    deriverebbero
dall'applicazione di queste norme come conseguenza dei  mutamenti  di
organizzazione,  di  strutture  operative,   di   semplici   ma   non
irrilevanti costi di ristrutturazione degli uffici  e  del  materiale
amministrativo.  Si  tratta  di  costi  certi,   che   rendono   solo
benintenzionata, ma  non  certo  efficace,  quella  disposizione  che
legislatore ha inserito in chiusura alla nuova disciplina (comma  30)
secondo cui «dall'applicazione di ciascuna delle disposizioni di  cui
al presente articolo non devono derivare nuovi  o  maggiori  oneri  a
carico della finanza pubblica». 
    Si tratta di una clausola la cui presenza non fa  che  introdurre
un ulteriore elemento di irrazionalita' nella disciplina, perche'  le
spese sono  davvero  certe,  ove  si  consideri  che  anche  semplici
adempimenti burocratici, come il cambiamento dell'intestazione  della
carta ufficiale, dei timbri  o  degli  indirizzi  elettronici  dovra'
inevitabilmente comportare una qualche spesa a  carico  del  bilancio
pubblico. 
    Che il difetto dei requisiti  di  necessita'  ed  urgenza  generi
vizio di legittimita' costituzionale e' fuori di dubbio. 
    Gia'  con  la  «storica»  sent.  n.  29/1995,  codesta  Corte  ha
fermamente  ribadito  la   sindacabilita'   della   sussistenza   dei
presupposti   di   straordinarieta',   necessita'   e   urgenza   del
decreto-legge, i  quali  costituiscono  «un  requisito  di  validita'
costituzionale  dell'adozione  del  predetto  atto»,  di   modo   che
l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto  un
vizio di legittimita' costituzionale del decreto-legge  [...]  quanto
un  vizio  in  procedendo  della   legge   di   conversione,   avendo
quest'ultima [...] valutato erroneamente l'esistenza  di  presupposti
di validita' in realta' insussistenti e, quindi, «convertito in legge
un atto che non poteva  essere  legittimo  oggetto  di  conversione»,
vizio che rimane censurabile quand'anche il  decreto  e'  gia'  stato
convertito in legge, come la stessa Corte ha ribadito nelle ben  note
sent. nn. 171/2007 e 128/2008. 
    E' vero che la Corte ha  affermato  anche  che  la  mancanza  dei
presupposti della decretazione d'urgenza puo' dar luogo ad  un  vizio
di legittimita' dell'atto «solo quando essa appaia chiara e manifesta
perche' solo in questo caso il sindacato di legittimita' della  Corte
non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunita'  politica
riservata al Parlamento» (sent. n. 398/1998, n. 3 del considerato  in
diritto).  Ma  un  decreto-legge  che  pospone  l'operativita'  delle
proprie misure ad una data indefinita, ma che comunque in nessun caso
puo' cadere prima di un anno dalla sua entrata in vigore  appare  del
tutto incompatibile con quella «immediata applicazione» che la  legge
n. 400/1988, in attuazione dell'art. 77 Cost., pone come  vincolo  al
potere governativo di decretazione d'urgenza. 
    Denunciato il vizio,  che  ad  avviso  della  ricorrente  regione
inficia l'intera disciplina dell'art. 16, occorre ora affrontare, per
i dubbi che potrebbero essere sollevati in proposito, il  tema  della
legittimazione della regione a farlo valere. 
    Infatti, come codesta Ecc.ma Corte ha piu' volte  avuto  modo  di
affermare, «le regioni non sono legittimate a far valere nei  ricorsi
in via principale gli ipotetici vizi nella formazione  di  una  fonte
primaria statale, se non "quando essi si risolvano  in  violazioni  o
menomazioni delle competenze'' regionali (in particolare le  sentenze
n. 398 del 1998; fra le molte analoghe anche le sentenze n. 383 e  n.
50 del 2005)», perche' puo' essere fatto  valere  il  contrasto  «con
norme costituzionali diverse  da  quelle  attributive  di  competenza
legislativa  soltanto  se  esso  si  risolva  in  una  esclusione   o
limitazione dei poteri regionali, senza  che  possano  avere  rilievo
denunce di illogicita' o di violazione di principi costituzionali che
non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale (tra  le
molte, sentenze n. 383 e n. 50  del  2005;  n.  287  del  2004)»  (la
citazione e' tratta dalla sent. n. 116/2006). L'unico  interesse  che
le regioni sono legittimate a far valere e',  infatti,  «quello  alla
salvaguardia   del   riparto   delle   competenze   delineato   dalla
Costituzione; esse, pertanto, hanno titolo a denunciare  soltanto  le
violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, in  via
diretta  ed  immediata,   sulle   prerogative   costituzionali   loro
riconosciute dalla Costituzione» (sent. n. 216/2008). 
    Benche' questa consolidata giurisprudenza abbia  finora  impedito
alle regioni  di  poter  far  valere  i  vizi  «formali»  degli  atti
legislativi, la Corte non ha mai dichiarato  questa  preclusione  nei
confronti del soggetto regione in quanto tale, ma in  relazione  alla
particolare    (e    particolarmente     restrittiva)     definizione
dell'interesse ad  agire.  Come  sottolinea  la  sentenza  da  ultimo
citata, perche' tale interesse sia ritenuto ammissibile e'  richiesto
che «l'iniziativa assunta dalle regioni ricorrenti sia oggettivamente
diretta a conseguire l'utilita' propria», in  quanto  la  sussistenza
dell'interesse ad agire puo' essere postulata «soltanto  quando  esso
presenti le  caratteristiche  della  concretezza  e  dell'attualita',
consistendo in quella utilita' diretta ed immediata che  il  soggetto
che agisce puo' ottenere con il provvedimento richiesto al giudice». 
    Tuttavia, l'«utilita' propria,  diretta  e  immediata»  non  puo'
essere fatta coincidere con la difesa  della  specifica  attribuzione
legislativa assegnata alla regione, dal momento che la violazione  di
questa  costituirebbe  un  vulnus  al  riparto  costituzionale  delle
competenze denunciatile per se' stesso, senza che venga in rilievo la
specifica forma dell'atto legislativo che ne e' responsabile. 
    Le «prerogative costituzionali» delle  regioni  debbono  pertanto
estendersi,  ad  avviso  della  regione,   anche   al   loro   status
costituzionale e al ruolo ad esse assegnato nel processi decisionali.
E  lo  stesso  deve  dirsi  anche  per  i  comuni,  quali  enti   che
primariamente «costituiscono» la Repubblica ai  sensi  dell'art.  114
della Costituzione, che ugualmente la  violazione  della  regola  del
procedimento legislativo ordinario ha privato della  possibilita'  di
far valere la propria voce. 
    Inoltre, la  questione  della  legittimita'  di  anticipare,  con
misure  di  urgenza,  interventi   di   natura   ordinamentale,   che
dovrebbero, invece, essere  affrontati  nel  quadro  di  un  riordino
organico del sistema dei livelli territoriali  di  governo,  si  pone
ormai in termini acuti, oltre  che  dal  punto  di  vista  del  «buon
governo» del sistema repubblicano, anche nell'assetto delle relazioni
costituzionali che intercorrono tra Stato e regioni,  le  quali,  per
costante affermazione della Corte costituzionale, devono ispirarsi al
principio di leale collaborazione. 
    Ed e' evidente che, nello stesso arco temporale fissato dal comma
9 dell'art. 16, si sarebbe potuto giungere ad  un  testo  meditato  e
condiviso di riforma, dagli effetti assai piu' vasti e benefici,  sia
sotto il profilo della  funzionalita'  dell'Amministrazione  nel  suo
complesso, che del  contenimento  dei  costi  finanziari.  E'  quanto
denuncia il documento approvato il 24 giugno 2010,  dalla  Conferenza
delle  regioni,  il  quale,  in   relazione   alla   successione   di
decreti-legge e di altri provvedimenti che si  sono  accavallati  nel
corso di quest'ultimo anno, osservava che: «Oltre alla preoccupazione
di una disarticolazione del quadro istituzionale, se non  corroborato
da un quadro strutturale organico di  riforme,  e'  anche  abbastanza
preoccupante  che  provvedimenti  di  riforma  strutturale,  come  il
disegno di legge c.d. Calderoli (C 3118) e il  disegno  di  legge  in
materia di semplificazione e carta dei doveri della P.A.  (C.  3209),
attualmente  all'esame  del  Parlamento,  risultino  progressivamente
svuotati mediante l'anticipazione di singole parti in essi  contenute
nella manovra appena approvata  dal  Governo.  Ci  si  riferisce,  in
particolare, all'art. 14, commi da 25 a 31  (contenenti  disposizioni
in materia di funzioni fondamentali dei  comuni).  Senza  considerare
quanto incida, o possa incidere, questa manovra, sulla  stessa  legge
n. 42/2009 e, soprattutto,  sulla  sua  concreta  attuazione.  Questo
approccio metodologico, anche solo da  un  punto  di  vista  tecnico,
potrebbe mettere a rischio la realizzabilita'  concreta  dei  disegni
complessivi  di  riforma,  e  sconfessa  il  metodo  che  sinora   ha
caratterizzato le relazioni istituzionali tra i  diversi  livelli  di
Governo, improntate al principio di leale collaborazione;  un  metodo
che si regge su precise fondamenta normative  (d.lgs.  n.  281/1997),
tuttora in vigore ed espressione di principi  costantemente  ribaditi
dalla Corte costituzionale». 
    Le regioni, alla pari dei rappresentanti delle associazioni degli
enti  locali,  sono  state  coinvolte  in  defatiganti  procedure  di
negoziazione, che avrebbero dovuto portare ad un riassetto chiaro  ed
equilibrato, come da tutti  auspicato,  dei  poteri  locali  e  delle
relazioni,  anche  finanziarie,  tra  Stato,  regioni   e   autonomie
territoriali. 
    E' evidente che esse sono del tutto inutili se poi al Governo  e'
consentito  di  procedere   unilateralmente   a   modificare   tratti
fondamentali del  quadro  istituzionale  con  caotici  e  unilaterali
provvedimenti ordinamentali (dalla legge finanziaria  di  fine  anno,
legge n. 191/2009 e dal decreto-legge ad essa  collegato,  convertito
con legge n. 42/2010, al successivo inserimento di molta parte  delle
residue disposizioni nella c.d. Manovra estiva 2010, ovvero nel  d.l.
n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, fino alle c.d.  Manovre
estive 2011, ossia  il  d.l.  n.  98/2011  convertito  con  legge  n.
111/2011 e il d.l. n. 138/2011 convertito dalla legge n. 148/2011)  e
soprattutto con quelli emanati in forma di decreti-legge,  che,  come
si e' piu' sopra evidenziato, sono del  tutto  ingiustificabili,  sia
per quanto riguarda l'urgenza del  provvedere,  sia  per  l'effettiva
congruita' delle misure rispetto al fine dichiarato. 
    Ora, ad avviso della regione ricorrente deve essere affermato che
cio' viene a ledere non soltanto un generico quadro di buoni rapporti
tra Stato e regioni, ma anche tutti quei vincoli procedurali  che  le
stesse leggi di delega normalmente prevedono per dare  attuazione  al
principio di leale collaborazione. 
    Per questi  motivi,  la  ricorrente  regione  ritiene  di  essere
legittimata  a   far   valere,   in   relazione   alle   disposizioni
ordinamentali di cui all'art. 16, la violazione dell'art.  77  Cost.,
per quanto riguarda la carenza dei  presupposti  della  necessita'  e
dell'urgenza,  nonche'  per  violazione  degli   artt.   114   (ruolo
costituzionale delle regioni) e 118, comma 1, (come  espressione  del
piu' generale principio di sussidiarieta'),  ed  infine  dell'art.  5
Cost.,  come  implicito  riconoscimento  del   principio   di   leale
collaborazione. 
    2.  Illegittimita'  costituzionale  dei  commi  da  1  a  16  per
violazione degli artt.  114,  primo  e  secondo  comma,  117,  primo,
secondo comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133, secondo  comma,
Cost., nonche' per violazione del principio di  non  discriminazione,
ragionevolezza e di buon andamento, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. 
    L'art. 16, nei commi da 1 a 16, prevede che: 
        a decorrere dalla data fissata dal  comma  9,  i  comuni  con
popolazione   fino    a    1.000    abitanti    debbano    esercitare
obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative
e tutti  i  servizi  pubblici  loro  spettanti  tramite  una  Unione,
disciplinata  dall'art.  32  del  TUEL  e  dalle  norme  puntuali,  e
ampiamente innovative, contenute nei citati commi dell'art. 16; 
        di queste Unioni potranno far parte anche comuni superiori  a
1.000 abitanti, che possono esercitare attraverso di esse le funzioni
fondamentali o, a loro scelta,  tutte  le  funzioni  o  servizi  loro
attribuiti; 
        a queste Unioni spetta «per conto  dei  comuni  che  ne  sono
membri, la programmazione finanziaria e  la  gestione  contabile  con
riferimento  alle  funzioni  esercitate   per   mezzo   dell'Unione»,
disponendosi poi che «i comuni concorrono  alla  predisposizione  del
bilancio di previsione dell'Unione» soltanto «mediante l'adozione  di
un  documento  programmatico,  nell'ambito  del  piano  generale   di
indirizzo deliberato dall'Unione» (comma 4); 
        l'Unione succede, a tutti gli effetti, nei rapporti giuridici
in essere che siano inerenti alle  funzioni  e  ai  servizi  ad  essa
affidati, nonche' nei  relativi  rapporti  finanziari  derivanti  dal
bilancio; dal  momento  dell'istituzione  dell'Unione,  per  tutti  i
comuni (compresi  quelli  con  popolazione  superiore  che  svolgano,
mediante l'Unione, tutte le loro funzioni)  decadono  le  giunte,  ed
unici organi  sono  il  sindaco  e  il  consiglio,  a  cui  residuano
«esclusivamente i poteri di indirizzo»; 
        l'Unione e' dotata di propri organi ed, in particolare, di un
consiglio composto dai sindaci e da un certo numero  dei  consiglieri
dei comuni membri, i quali eleggono il presidente che, a  sua  volta,
nomina la giunta (in seguito il legislatore statale potra'  prevedere
l'elezione a suffragio universale e diretto di questi  organi:  commi
10 e 11). 
    I  commi  12,  13,  14,  15  inoltre   disciplinano   minutamente
composizione, funzioni, durata in carica ed emolumenti  degli  organi
delle Unioni; i comuni inferiori a 1.000  abitanti  possono  derogare
all'obbligo di esercitare, tramite l'Unione, tutte le loro funzioni e
i loro servizi, solo se adottano altra forma  associativa,  quale  la
convenzione di cui all'art. 30 TUEL,  fermo  restando  che  anche  in
questo caso devono gestire tutte le funzioni  e  i  servizi  ad  essi
attribuiti tramite la convenzione. 
    Ad avviso della ricorrente  regione,  l'intera  disciplina  sopra
sintetizzata, risulta viziata da  illegittimita'  costituzionale  per
violazione degli artt. 114,  primo  e  secondo  comma,  117,  secondo
comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133,  secondo  comma,  Cost.
nonche' per violazione del principio  di  ragionevolezza  e  di  buon
andamento di cui agli art. 3 e 97 Cost. 
    Conviene  qui  in  primo   luogo   riassumere   le   disposizioni
costituzionali che riguardano  i  comuni,  e  le  competenze  che  in
relazione ad essi spettano allo Stato e alle regioni. 
    Non occorre ricordare che secondo l'art. 114, primo comma,  della
Costituzione  i  comuni,   insieme   alle   province,   alle   citta'
metropolitane,  alle  regioni  ed   allo   Stato   costituiscono   la
Repubblica. Inoltre, ai sensi del  secondo  comma,  essi  «sono  enti
autonomi con propri statuti, poteri e  funzioni  secondo  i  principi
fissati dalla Costituzione». 
    Secondo l'art. 118, comma primo, ai comuni spettano  le  funzioni
amministrative, nel quadro del principio di sussidiarieta', e secondo
il comma terzo essi hanno funzioni proprie, oltre a quelle  conferite
ad essi dalla regione e dallo Stato. 
    Secondo l'art. 117, comma secondo, lettera p), spetta alla  legge
statale definire le funzioni  fondamentali  dei  comuni,  ed  inoltre
spetta ad essa la competenza in materia di legislazione elettorale  e
organi di governo. 
    Invece, spetta alle regione, ai sensi dell'art. 133, primo comma,
della Costituzione, «istituire nel proprio territorio nuovi comuni  e
modificare  le  loro  circoscrizioni  e  denominazioni»,  sentite  le
popolazioni interessate. E pure alla competenza regionale spetta,  ai
sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., la disciplina di ogni altro
aspetti delle istituzioni  comunali,  in  quanto  non  si  tratti  di
aspetti riservati alla loro stessa autonomia. 
    Questo quadro di garanzie costituzionali delle autonomie locali e
questo riparto di competenze  va  ovviamente  tenuto  presente  anche
nell'affrontare il problema, che certo la regione non ignora  (avendo
intrapreso essa stessa,  sempre  in  accordo  con  gli  enti  locali,
rilevanti  iniziative  istituzionali  rivolte  a  risolverlo)   della
insufficiente dimensione di molti dei comuni italiani. 
    Si tratta di un problema complesso, che non puo'  essere  risolto
in modo sbrigativo e per via traversa,  come  fa  la  disciplina  qui
impugnata (si conferma qui la gia' lamentata drammatica inadeguatezza
dello  strumento   della   decretazione   d'urgenza),   mediante   lo
svuotamento istituzionale dei  comuni  con  popolazione  inferiore  a
1.000  abitanti,  privandoli  delle  funzioni,  strutture  e  risorse
finanziarie e disponendo la loro pratica  sostituzione  con  un  ente
nuovo, l'Unione, nella quale finisce per «sciogliersi» ogni comune la
cui popolazione non superi la soglia indicata: un ente che ovviamente
non compare nella  tipologia  costituzionale  degli  enti  costituivi
della Repubblica e privo di legittimazione democratica diretta,  come
e' stato rilevato,  nel  corso  dei  lavori  preparatori,  sia  dalla
Commissione affari costituzionali del Senato, che  dalla  Commissione
parlamentare per le questioni regionali  che,  nel  parere  reso  sul
disegno di legge di  conversione  del  d.l.  n.  138/2011,  suggeriva
«l'opportunita' di sopprimere l'articolo 16». 
    In effetti, altro e' promuovere entita' associative attraverso le
quali i comuni  associati  possano  meglio  esercitare  alcune  delle
proprie funzioni,  fermo  restando  il  nucleo  centrale  della  loro
consistenza funzionale e strutturale di comuni, altro  e'  ridurre  i
comuni a mere strutture di rappresentanza, da aggregare in altro ente
che  -  senza  essere  esso   stesso   «Comune»,   con   le   proprie
caratteristiche di immediata espressione della democrazia al  livello
locale - dei comuni originari  assorbe  pressoche'  integralmente  le
funzioni, le strutture e le risorse. 
    Quanto alle funzioni,  infatti,  la  disposizione  qui  censurata
priva i comuni interessati di tutte le funzioni amministrative  e  di
gestione dei servizi pubblici. Quanto all'organizzazione, se e'  vero
che la legge di conversione ha evitato la drastica soppressione dello
stesso consiglio comunale accanto a quella mantenuta della Giunta, e'
anche vero che tali consigli comunali restano  come  semplici  organi
d'indirizzo ai quali «competono esclusivamente  poteri  di  indirizzo
nei confronti  del  consiglio  dell'Unione»  (comma  9).  Gli  stessi
sindaci dei comuni diventano semplici  rappresentanti  nel  consiglio
dell'Unione, mentre le funzioni di Sindaco vengono assunte, a termini
del comma 12, dal presidente  dell'Unione.  Paradossalmente,  privati
delle funzioni di vertice del comune,  i  sindaci  si  caratterizzano
ormai soprattutto per l'esercizio delle funzioni relative ai  servizi
statali di cui all'art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000. 
    Insomma, e' palese che  il  disegno  proprio  delle  disposizioni
dell'art. 16, nei commi da 1 a 16, e' di sostituire nella sostanza  i
comuni di piccola dimensione con le Unioni. Questo disegno, tuttavia,
contrasta con le garanzie che la Costituzione offre a tutti i comuni,
e costituisce un aggiramento delle apposite  procedure  e  competenze
che essa stabilisce per  la  creazione  di  nuovi  comuni  e  per  il
mutamento delle circoscrizioni comunali. 
    In altre parole, le disposizioni impugnate costituiscono non solo
superamento dei poteri statali previsti dall'art. 117, comma secondo,
ma anche e prima di tutto violazione dell'art. 133 Cost. 
    Solo in apparenza il legislatore  statale  dispone  di  organi  e
funzioni degli enti locali, perche', in realta', quello che ne  viene
alterata  e'  la  stessa  mappa  dell'autonomia  comunale,   che   e'
costituzionalmente garantita dalle peculiari procedure  appositamente
apprestate dall'art. 133. Infatti, i comuni sotto  i  1.000  abitanti
vengono svuotati di ogni loro attribuzione e delle  risorse  umane  e
strumentali, e  persino  della  titolarita'  dei  rapporti  giuridici
relativi alle funzioni amministrative, tutte  trasferite  all'Unione.
Cio' significa che dei  vecchi  comuni  resta  solo  l'involucro;  di
fatto, essi sono svuotati e ridotti a poco  piu'  che  circoscrizioni
elettorali dell'Unione di cui fanno parte. 
    Come codesta Corte ha osservato nella sent. n. 2/2004 a proposito
degli  statuti  regionali,  le  disposizioni   costituzionali   vanno
interpretate rispettandone lo  spirito,  oltre  che  la  lettera:  se
questo fondamentale principio vale per gli statuti regionali, vale di
certo anche per il legislatore ordinario.  Mal  si  concilia  con  lo
«spirito»  dell'art.  133   Cost.   una   legge   che   lasci   delle
circoscrizioni comunali soltanto le indicazioni segnaletiche, perche'
l'esercizio  delle  funzioni  amministrative  e'  stato,   d'imperio,
traslocato altrove. 
    Come sopra accennato, non si vuole certo negare che un  riassetto
delle autonomie locali sia necessario, ma non lo si puo' operare  con
strumenti  impropri  e  improvvisati  nella   fretta,   paralizzando,
oltretutto, il lavoro di elaborazione condivisa che da tempo si stava
sviluppando nelle sedi istituzionali disponibili. 
    Il complesso normativo costituito dall'art. 16, commi da 1 a  16,
non  e'  dunque  compatibile  con  i  principi  costituzionali  sopra
esposti: ne' con il riconoscimento, che e' espressamente fatto, della
natura costitutiva dei comuni nella costruzione della Repubblica, ne'
con i principi di autonomia statutaria, organizzativo-regolamentare e
finanziaria, ne' con i principi piu' specifici dell'art.  118  Cost.,
per quanto riguarda le funzioni fondamentali e  le  funzioni  proprie
dei comuni, che - come insegna codesta Corte  (sent.  n.  43/2004)  -
sono «definite dalla legge, sulla base di criteri oggi  assistiti  da
garanzia  costituzionale».  Lo  stesso  principio  di  sussidiarieta'
subisce una violazione, in quanto la «differenziazione» dei comuni  e
delle loro funzioni non puo' essere disgiunta da una  considerazione,
in  concreto,  della  capacita'  amministrativa  e  di  gestione  che
distingue gli enti minori in ogni diversa realta' del  Paese,  e  non
puo' ridursi alla privazione delle funzioni dei comuni minori. 
    Inoltre, risulta violata la Carta europea delle autonomie locali,
ratificata dall'Italia con la legge 30  dicembre  1989,  n.  439.  Il
contrasto e' evidente, in particolare, con l'art. 3, che nel definire
il Concetto di autonomia locale non solo precisa che  «per  autonomia
locale, s'intende  il  diritto  e  la  capacita'  effettiva,  per  le
collettivita' locali, di regolamentare  ed  amministrare  nell'ambito
della  legge,  sotto  la  loro  responsabilita',  e  a  favore  delle
popolazioni, una parte importante di affari pubblici» (comma  1),  ma
sottolinea anche che  «tale  diritto  e'  esercitato  da  consigli  e
assemblee costituiti da membri eletti a  suffragio  libero,  segreto,
paritario, diretto ed universale, in  grado  di  disporre  di  organi
esecutivi responsabili nei loro confronti». 
    Dunque, il trasferimento coattivo  delle  funzioni,  strutture  e
risorse relative a tutte le funzioni amministrative e di gestione dei
pubblici servizi dei comuni  minori  ad  amministrazioni  di  secondo
grado viola anche gli impegni  liberamente  assunti  dall'Italia  nel
quadro  europeo,  e  con  cio'  l'art.  117,   primo   comma,   della
Costituzione. 
    Si noti, tra l'altro, che in concreto molto spesso i  comuni  con
popolazione non superiore a 1.000 abitanti non sono contigui, sicche'
essi  debbono  partecipare  ad  Unioni  che  comprendono  comuni  che
affidano all'Unione solo alcune delle  proprie  funzioni,  mantenendo
per il resto (ed ovviamente) la  pienezza  della  propria  natura  di
comuni: sicche' la situazione istituzionale risulta anche  fortemente
asimmetrica e diseguale, con il solo comune minore  che  perde  nella
sostanza la propria natura di vero comune, a favore di una Unione che
per tutti gli altri comuni rimane un'organizzazione settoriale. 
    In altre parole la stessa Unione non  ha  la  stessa  natura  per
tutti i comuni componenti, dato che per la maggior parte  essa  resta
una organizzazione funzionale di servizio, mentre per il comune  fino
a 1.000 abitanti essa in realta' subentra nel ruolo di vero comune. 
    Ad avviso della regione sotto questo profilo  risultano  violati,
oltre che l'art. 114, anche  gli  artt.  3  e  97  Cost.,  in  quanto
soluzione discriminatrice, priva di ragionevolezza  ed  in  contrasto
con il principio di buon andamento dell'amministrazione. 
    Oltre  alle  regole  costituzionali  in  materia   di   autonomia
comunale, le disposizioni impugnate violano le  competenze  residuali
delle regioni in materia di associazionismo tra enti locali. 
    Infatti, come confermato da codesta  Corte  costituzionale  nella
sent. n. 456/2005 (ivi il riferimento specifico era  alla  disciplina
delle Comunita' montane),  nello  stabilire  la  competenza  statale,
l'art. 117, secondo comma, lettera p), «fa  espresso  riferimento  ai
comuni, alle province e alle  citta'  metropolitane  e  l'indicazione
deve ritenersi tassativa».  Dunque,  la  potesta'  legislativa  dello
Stato si ferma all'ordinamento degli enti locali, e  non  si  estende
alle loro forme associative (cfr. anche la sent. n. 27/2010),  ne'  a
quel «caso speciale  di  unioni  di  comuni»  (cfr.  Corte  cost.  n.
456/2005) quali sono, appunto, le comunita' montane, enti non  dotati
di «autonomia costituzionalmente garantita» (sent. n.  397/2006).  In
effetti, la giurisprudenza costituzionale  ha  in  diverse  occasioni
confermato l'incompetenza del legislatore statale ad  intervenire  in
un  ambito,  quello  delle  forme  associative,  riconducibile   alla
potesta' legislativa regionale residuale (sentenze nn. 244 e 456  del
2005, n. 387 del 2006, n. 237/2009, n. 27/2010 e n. 326/2010). 
    Di  conseguenza,  l'intera  disciplina  della   speciale   Unione
prevista dai commi da 1 a 16, a maggiore ragione per il suo carattere
dettagliato e minuzioso, appare  costituzionalmente  illegittima  per
lesione della  competenze  residuale  delle  regioni  in  materia  di
associazionismo tra enti locali. 
    Da  ultimo,  e  in   subordine,   va   censurata   la   specifica
incostituzionalita' di talune disposizioni dell'art. 16 che prevedono
poteri regolativi e amministrativi statali nella  applicazione  della
normativa impugnata. 
    Cosi' il comma 4 dispone, tra l'altro, che «con  regolamento»  da
adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della  legge  23  agosto
1988, n. 400 «su proposta del Ministro dell'interno, di concerto  con
il Ministro per le riforme per il federalismo, sono  disciplinati  il
procedimento amministrativo-contabile di formazione e  di  variazione
del  documento  programmatico,  i  poteri  di  vigilanza  sulla   sua
attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra
ciascun comune e l'unione». 
    Ad avviso della ricorrente regione, si tratta di un potere che in
nessun modo e' riconducibile alla competenza legislativa  statale  in
materia di individuazione della funzioni fondamentali,  o  ad  alcuna
altra  materia  di  competenza  statale.  Si  tratta   invece   della
disciplina  dei  rapporti  tra  i  comuni  e  l'entita'  associativa,
rapporti che - per la parte che non  ricade  nella  stessa  autonomia
comunale - compete alla regione ai sensi dell'art. 117, quarto comma,
Cost. 
    Di conseguenza, non vi e' potere regolamentare statale, a termini
dell'art. 117, comma sesto, Cost. 
    In ulteriore subordine, ove  dovesse  ammettersi  una  competenza
statale, risulta violato il principio di  leale  collaborazione,  non
essendo prevista ne' l'intesa con la regione interessata ne' l'intesa
con la Conferenza unificata. 
    Ugualmente, risulta illegittimo il comma 16, per  violazione  del
principio di leale collaborazione, per avere il  legislatore  statale
completamente pretermesso le regioni nella valutazione - demandata in
via esclusiva al Ministro degli interni - in ordine al conseguimento,
da parte dei comuni  gia'  coinvolti  in  forme  associative  di  cui
all'art. 30 del T.U.E.L., dei «significativi livelli di efficacia  ed
efficienza nella gestione,  mediante  convenzione,  delle  rispettive
attribuzioni». E' eclatante la  circostanza  che  gli  effetti  delle
leggi regionali  sull'associazionismo  vengano  a  dipendere  da  una
valutazione unilaterale e centralizzata del Ministero degli  interni,
senza  alcun  coinvolgimento  delle  regioni  stesse,  in  violazione
dell'art.  117,  comma  4.  E'  evidente,  altresi',  la   violazione
dell'art. 114, in quanto detta disposizione  introduce  un  controllo
statale sulla efficacia ed  efficienza  della  gestione  delle  forme
associative  diverse  dalle  unioni,  in  violazione   dell'autonomia
riconosciuta agli enti territoriali dall'attuale testo dell'art. 114,
come modificato dalla riforma del titolo V.