Ricorso della Regione Liguria, in persona del Presidente della Giunta regionale pro-tempore Claudio Burlando, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale dell'11 novembre 2011, n. 1332 (doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine del presente atto, dall'avv. Barbara Baroli dell'Avvocatura regionale, dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova dall'avv. prof. Franco Mastragostino di Bologna, e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma nello studio di quest'ultimo in via Confalonieri n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, in quanto convertito, con modificazioni, nella legge n. 148 del 2011, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 16 settembre 2011, con riferimento alle seguenti disposizioni: articolo 11; articolo 16, per violazione: degli articoli 3, 5, 77, 97, 114, 117, 118 e 133 della Costituzione; del principi di non discriminazione e ragionevolezza e di leale collaborazione; nei modi e per i profili di seguito illustrati. F a t t o Il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 ha introdotto Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Esso e' stato poi convertito, con modificazioni, nella legge n. 148 del 2011. La presente impugnazione si rivolge dunque a talune disposizioni del decreto-legge, in quanto esse sono state convertite dalla citata legge e nella forma che con essa hanno assunto. Naturalmente la Regione Liguria e' ben consapevole delle gravi ragioni, legate alla situazione della finanza pubblica, che hanno fornito la motivazione per le diverse disposizioni del decreto. Ritiene pero' che anche le misure restrittive debbano muoversi nel quadro delle regole costituzionali dei rapporti tra lo Stato, le regioni e le autonomie locali, e che anzi il rispetto di tali regole sia necessario sempre, ma lo sia ancor piu' quando la loro applicazione comporta sacrifici per le comunita' territoriali coinvolte e per le persone che di esse fanno parte. Cio' premesso, la ricorrente Regione Liguria ritiene che le disposizioni sopra indicate siano lesive della sua autonomia regionale costituzionalmente garantita, nonche' in parte dell'autonomia garantita agli enti locali della regioni, e che dunque esse risultino costituzionalmente illegittime per le seguenti ragioni; D i r i t t o I. Illegittimita' costituzionale dell'art. 11 recante «Livelli di tutela essenziali per l'attivazione dei tirocinii». Violazione dell'art.117, quarto comma Cost. e del principio di leale collaborazione. Dopo aver precisato che «i tirocinii formativi e di orientamento possono essere promossi unicamente da soggetti in possesso degli specifici requisiti preventivamente determinati dalle normative regionali, in funzione di idonee garanzie all'espletamento delle iniziative medesime», l'art. 11 dispone che «fatta eccezione per i disabili, gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti e i condannati ammessi a misure alternative di detenzione, i tirocinii formativi e di orientamento non curricolari non possono avere una durata superiore e sei mesi, proroghe comprese, e possono essere promossi unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento del relativo titolo di studio». Viene, poi, precisato che in assenza di specifiche regolamentazioni regionali, trovano applicazione le disposizioni contenute nell'art. 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196 ed il relativo regolamento di attuazione. Con tale norma viene dettata una disciplina statale dei tirocini formativi e di orientamento non curriculari omogenea ed uniforme per tutto il territorio nazionale. Sennonche', si tratta di una materia di sicura competenza residuale regionale, qual e' quella della «istruzione e formazione professionale» nel cui ambito la disciplina del tirocinio formativo e di orientamento pacificamente rientra. Il legislatore statale ha ritenuto di potersi «ritagliare» un importante spazio della materia, in virtu' del titolo competenziale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m) Cost. «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» che, infatti, e' evocato nella stessa rubrica dell'art. 11. Tale qualificazione, tuttavia, e' ingannevole. Infatti, la legge statale, ben lungi dal fissare prestazioni da garantire, ne fissa invece limitazioni, impedendo alle regioni di garantire le prestazioni in termini piu' estesi. Si tratta dunque di «limiti prestazionali» e non della determinazione di «livelli minimi essenziali». La non riconducibilita' della norma alla indicata competenza statale ne comporta l'illegittimita', per difetto di competenza. A parte cio', tali limitazioni, per quanto bene intenzionate, appaiono anche irragionevoli nella loro uniformita' per tutto il territorio nazionale, che e' invece caratterizzato da una varieta' di esigenze e situazioni che richiedono risposte diversificate, quali solo la competenza regionale puo' assicurare. Ma, anche se l'indicato titolo di competenza potesse giustificare un intervento statale, va comunque rilevato che tale intervento non potrebbe consistere nella uniforme e rigida unilaterale determinazione uguale per tutto il territorio nazionale, ma semmai nella istituzione di una procedura di collaborazione per le singole determinazioni in sede locale. E' fuor di dubbio, infatti, che laddove si rinvenga un «intreccio» tra lep e competenze regionali, la condizione di legittimita' dell'intervento statale e' data dalla «previsione di adeguate procedure di coinvolgimento delle regioni nella specificazione delle prestazioni», come la stessa Corte ha piu' volte indicato. In altri termini, quando vi e' l'intreccio delle competenze, derivante dalla sovrapposizione di interessi statali e regionali convergenti, l'ente «minore» deve comunque essere consultato, in misura graduata in base al livello di incisione della sua competenza ed al rilievo dell'interesse di cui e' portatore, in virtu' del principio di leale collaborazione (in tal senso sent. 88/2003; 387/2007; 134/2006, che ha sanzionato l'illegittima riduzione della partecipazione regionale al livello del semplice parere, anziche' della necessaria intesa). E non par dubbio che, nello specifico, la Regione Liguria abbia interessi rilevanti nella materia della formazione. Nessuna procedura di coinvolgimento e' contenuta nella disposizione in esame, che si limita a dettare una disciplina uniforme dell'istituto, senza prevedere fasi successive di specificazione ed attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni entro cui coinvolgere le regioni, con la conseguenza che deve esserne dichiarata l'illegittimita' per violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost. e del principio di leale collaborazione. II. Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, recante «Riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni e razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali». Si premette che la Regione Liguria impugna l'art. 16 in nome proprio, ma anche su richiesta del Consiglio delle Autonomie, formulata ai sensi dell'art. 9, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131, che modifica l'art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e quale portatrice dei loro interessi istituzionali (cfr. delibera n. 128 del 3 novembre 2011, allegato doc. 2). 1. Illegittimita' dell'art. 16 per violazione dell'art. 77, commi primo e secondo, Cost. L'intero art. 16, qui impugnato, appare in primo luogo costituzionalmente illegittimo per difetto del requisito dei «casi straordinari di necessita' e d'urgenza» richiesti dall'art. 77, commi primo e secondo, della Costituzione. Si tratta, invero, di norme ordinamentali che incidono profondamente sullo status istituzionale dei comuni. Infatti, i commi da 1 a 16 impongono ai comuni fino a 1.000 abitanti la gestione associata ed altre modalita' vincolate per l'esercizio di tutte le funzioni amministrative e la gestione di tutti i servizi, definendo altresi' minutamente l'istituzione e la composizione degli organi di una nuova forma di associazione obbligatoria denominata Unione; mentre i commi da 17 a 21 innovano nella composizione e nell'articolazione degli organi dei comuni in genere, incidendo sulla loro autonomia organizzativa e sul loro attuale funzionamento, e dispongono in materia di retribuzione dei componenti degli organi di governo degli enti territoriali. Lo stesso decreto-legge stabilisce che la disciplina varata non e' di immediata applicazione, laddove al comma 9 pospone la sua operativita' «a decorrere dal giorno della proclamazione degli eletti negli organi di governo del comune che, successivamente al 13 agosto 2012, sia per primo interessato al rinnovo». Appare dunque di tutta evidenza che l'applicazione delle disposizioni in questione non e' destinata a compiersi, e nemmeno ad iniziare, nell'immediato. E' altrettanto evidente che entro quel termine - ed anzi molto prima - avrebbe potuto attivarsi e compiersi l'ordinario procedimento legislativo, e che dunque non vi era ragione alcuna per la quale il Governo dovesse sostituirsi al naturale titolare della funzione legislativa. Ne' si potrebbe replicare che l'urgenza, se non era di queste disposizioni, era invece di altre contenute nello stesso decreto: perche' questo, anziche' giustificare, aggrava il vulnus inferto alle regole sulle competenze costituzionali, avendo con cio' il Governo costretto il Parlamento a deliberare senza ragione nel breve termine che la conversione del decreto-legge, e la reale urgenza economica del paese, richiedevano. A rendere ancor piu' evidente il gia' evidente difetto di urgenza delle disposizioni introdotte vale ulteriormente la considerazione che esse non solo sono destinate ad attuarsi in un momento lontano nel tempo, ma neppure appaiono connesse a risparmi di spesa che si possano considerare certi e rilevanti. Infatti, i contenuti delle norme censurate non sembrano rispondere adeguatamente alla finalita' del «contenimento delle spese degli enti territoriali», perseguita in nome del risanamento della finanza pubblica, non essendo, tra l'altro, nemmeno quantificati i supposti risparmi di spesa. Sicche', mentre gli effetti di innovazione ordinamentale contenuti in queste norme sono di grandissima rilevanza, anche sotto il profilo costituzionale, gli effetti concreti che queste possono determinare sul contenimento della spesa appaiono incerti e, comunque, solo eventuali: mancano, infatti, di quella precisione ed evidenza che ne potrebbe giustificare l'emanazione per decreto-legge. Sotto il profilo economico e di contenimento della spesa manca ogni quantificazione anche nella Relazione della Ragioneria Generale che ha accompagnato il provvedimento di urgenza. All'opposto, sarebbero stati da tenere in considerazione, anche ai fini della copertura delle spese, gli oneri amministrativi a carico delle amministrazioni coinvolte, che deriverebbero dall'applicazione di queste norme come conseguenza dei mutamenti di organizzazione, di strutture operative, di semplici ma non irrilevanti costi di ristrutturazione degli uffici e del materiale amministrativo. Si tratta di costi certi, che rendono solo benintenzionata, ma non certo efficace, quella disposizione che legislatore ha inserito in chiusura alla nuova disciplina (comma 30) secondo cui «dall'applicazione di ciascuna delle disposizioni di cui al presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Si tratta di una clausola la cui presenza non fa che introdurre un ulteriore elemento di irrazionalita' nella disciplina, perche' le spese sono davvero certe, ove si consideri che anche semplici adempimenti burocratici, come il cambiamento dell'intestazione della carta ufficiale, dei timbri o degli indirizzi elettronici dovra' inevitabilmente comportare una qualche spesa a carico del bilancio pubblico. Che il difetto dei requisiti di necessita' ed urgenza generi vizio di legittimita' costituzionale e' fuori di dubbio. Gia' con la «storica» sent. n. 29/1995, codesta Corte ha fermamente ribadito la sindacabilita' della sussistenza dei presupposti di straordinarieta', necessita' e urgenza del decreto-legge, i quali costituiscono «un requisito di validita' costituzionale dell'adozione del predetto atto», di modo che l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimita' costituzionale del decreto-legge [...] quanto un vizio in procedendo della legge di conversione, avendo quest'ultima [...] valutato erroneamente l'esistenza di presupposti di validita' in realta' insussistenti e, quindi, «convertito in legge un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione», vizio che rimane censurabile quand'anche il decreto e' gia' stato convertito in legge, come la stessa Corte ha ribadito nelle ben note sent. nn. 171/2007 e 128/2008. E' vero che la Corte ha affermato anche che la mancanza dei presupposti della decretazione d'urgenza puo' dar luogo ad un vizio di legittimita' dell'atto «solo quando essa appaia chiara e manifesta perche' solo in questo caso il sindacato di legittimita' della Corte non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunita' politica riservata al Parlamento» (sent. n. 398/1998, n. 3 del considerato in diritto). Ma un decreto-legge che pospone l'operativita' delle proprie misure ad una data indefinita, ma che comunque in nessun caso puo' cadere prima di un anno dalla sua entrata in vigore appare del tutto incompatibile con quella «immediata applicazione» che la legge n. 400/1988, in attuazione dell'art. 77 Cost., pone come vincolo al potere governativo di decretazione d'urgenza. Denunciato il vizio, che ad avviso della ricorrente regione inficia l'intera disciplina dell'art. 16, occorre ora affrontare, per i dubbi che potrebbero essere sollevati in proposito, il tema della legittimazione della regione a farlo valere. Infatti, come codesta Ecc.ma Corte ha piu' volte avuto modo di affermare, «le regioni non sono legittimate a far valere nei ricorsi in via principale gli ipotetici vizi nella formazione di una fonte primaria statale, se non "quando essi si risolvano in violazioni o menomazioni delle competenze'' regionali (in particolare le sentenze n. 398 del 1998; fra le molte analoghe anche le sentenze n. 383 e n. 50 del 2005)», perche' puo' essere fatto valere il contrasto «con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza legislativa soltanto se esso si risolva in una esclusione o limitazione dei poteri regionali, senza che possano avere rilievo denunce di illogicita' o di violazione di principi costituzionali che non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale (tra le molte, sentenze n. 383 e n. 50 del 2005; n. 287 del 2004)» (la citazione e' tratta dalla sent. n. 116/2006). L'unico interesse che le regioni sono legittimate a far valere e', infatti, «quello alla salvaguardia del riparto delle competenze delineato dalla Costituzione; esse, pertanto, hanno titolo a denunciare soltanto le violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, in via diretta ed immediata, sulle prerogative costituzionali loro riconosciute dalla Costituzione» (sent. n. 216/2008). Benche' questa consolidata giurisprudenza abbia finora impedito alle regioni di poter far valere i vizi «formali» degli atti legislativi, la Corte non ha mai dichiarato questa preclusione nei confronti del soggetto regione in quanto tale, ma in relazione alla particolare (e particolarmente restrittiva) definizione dell'interesse ad agire. Come sottolinea la sentenza da ultimo citata, perche' tale interesse sia ritenuto ammissibile e' richiesto che «l'iniziativa assunta dalle regioni ricorrenti sia oggettivamente diretta a conseguire l'utilita' propria», in quanto la sussistenza dell'interesse ad agire puo' essere postulata «soltanto quando esso presenti le caratteristiche della concretezza e dell'attualita', consistendo in quella utilita' diretta ed immediata che il soggetto che agisce puo' ottenere con il provvedimento richiesto al giudice». Tuttavia, l'«utilita' propria, diretta e immediata» non puo' essere fatta coincidere con la difesa della specifica attribuzione legislativa assegnata alla regione, dal momento che la violazione di questa costituirebbe un vulnus al riparto costituzionale delle competenze denunciatile per se' stesso, senza che venga in rilievo la specifica forma dell'atto legislativo che ne e' responsabile. Le «prerogative costituzionali» delle regioni debbono pertanto estendersi, ad avviso della regione, anche al loro status costituzionale e al ruolo ad esse assegnato nel processi decisionali. E lo stesso deve dirsi anche per i comuni, quali enti che primariamente «costituiscono» la Repubblica ai sensi dell'art. 114 della Costituzione, che ugualmente la violazione della regola del procedimento legislativo ordinario ha privato della possibilita' di far valere la propria voce. Inoltre, la questione della legittimita' di anticipare, con misure di urgenza, interventi di natura ordinamentale, che dovrebbero, invece, essere affrontati nel quadro di un riordino organico del sistema dei livelli territoriali di governo, si pone ormai in termini acuti, oltre che dal punto di vista del «buon governo» del sistema repubblicano, anche nell'assetto delle relazioni costituzionali che intercorrono tra Stato e regioni, le quali, per costante affermazione della Corte costituzionale, devono ispirarsi al principio di leale collaborazione. Ed e' evidente che, nello stesso arco temporale fissato dal comma 9 dell'art. 16, si sarebbe potuto giungere ad un testo meditato e condiviso di riforma, dagli effetti assai piu' vasti e benefici, sia sotto il profilo della funzionalita' dell'Amministrazione nel suo complesso, che del contenimento dei costi finanziari. E' quanto denuncia il documento approvato il 24 giugno 2010, dalla Conferenza delle regioni, il quale, in relazione alla successione di decreti-legge e di altri provvedimenti che si sono accavallati nel corso di quest'ultimo anno, osservava che: «Oltre alla preoccupazione di una disarticolazione del quadro istituzionale, se non corroborato da un quadro strutturale organico di riforme, e' anche abbastanza preoccupante che provvedimenti di riforma strutturale, come il disegno di legge c.d. Calderoli (C 3118) e il disegno di legge in materia di semplificazione e carta dei doveri della P.A. (C. 3209), attualmente all'esame del Parlamento, risultino progressivamente svuotati mediante l'anticipazione di singole parti in essi contenute nella manovra appena approvata dal Governo. Ci si riferisce, in particolare, all'art. 14, commi da 25 a 31 (contenenti disposizioni in materia di funzioni fondamentali dei comuni). Senza considerare quanto incida, o possa incidere, questa manovra, sulla stessa legge n. 42/2009 e, soprattutto, sulla sua concreta attuazione. Questo approccio metodologico, anche solo da un punto di vista tecnico, potrebbe mettere a rischio la realizzabilita' concreta dei disegni complessivi di riforma, e sconfessa il metodo che sinora ha caratterizzato le relazioni istituzionali tra i diversi livelli di Governo, improntate al principio di leale collaborazione; un metodo che si regge su precise fondamenta normative (d.lgs. n. 281/1997), tuttora in vigore ed espressione di principi costantemente ribaditi dalla Corte costituzionale». Le regioni, alla pari dei rappresentanti delle associazioni degli enti locali, sono state coinvolte in defatiganti procedure di negoziazione, che avrebbero dovuto portare ad un riassetto chiaro ed equilibrato, come da tutti auspicato, dei poteri locali e delle relazioni, anche finanziarie, tra Stato, regioni e autonomie territoriali. E' evidente che esse sono del tutto inutili se poi al Governo e' consentito di procedere unilateralmente a modificare tratti fondamentali del quadro istituzionale con caotici e unilaterali provvedimenti ordinamentali (dalla legge finanziaria di fine anno, legge n. 191/2009 e dal decreto-legge ad essa collegato, convertito con legge n. 42/2010, al successivo inserimento di molta parte delle residue disposizioni nella c.d. Manovra estiva 2010, ovvero nel d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, fino alle c.d. Manovre estive 2011, ossia il d.l. n. 98/2011 convertito con legge n. 111/2011 e il d.l. n. 138/2011 convertito dalla legge n. 148/2011) e soprattutto con quelli emanati in forma di decreti-legge, che, come si e' piu' sopra evidenziato, sono del tutto ingiustificabili, sia per quanto riguarda l'urgenza del provvedere, sia per l'effettiva congruita' delle misure rispetto al fine dichiarato. Ora, ad avviso della regione ricorrente deve essere affermato che cio' viene a ledere non soltanto un generico quadro di buoni rapporti tra Stato e regioni, ma anche tutti quei vincoli procedurali che le stesse leggi di delega normalmente prevedono per dare attuazione al principio di leale collaborazione. Per questi motivi, la ricorrente regione ritiene di essere legittimata a far valere, in relazione alle disposizioni ordinamentali di cui all'art. 16, la violazione dell'art. 77 Cost., per quanto riguarda la carenza dei presupposti della necessita' e dell'urgenza, nonche' per violazione degli artt. 114 (ruolo costituzionale delle regioni) e 118, comma 1, (come espressione del piu' generale principio di sussidiarieta'), ed infine dell'art. 5 Cost., come implicito riconoscimento del principio di leale collaborazione. 2. Illegittimita' costituzionale dei commi da 1 a 16 per violazione degli artt. 114, primo e secondo comma, 117, primo, secondo comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, Cost., nonche' per violazione del principio di non discriminazione, ragionevolezza e di buon andamento, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. L'art. 16, nei commi da 1 a 16, prevede che: a decorrere dalla data fissata dal comma 9, i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti debbano esercitare obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti tramite una Unione, disciplinata dall'art. 32 del TUEL e dalle norme puntuali, e ampiamente innovative, contenute nei citati commi dell'art. 16; di queste Unioni potranno far parte anche comuni superiori a 1.000 abitanti, che possono esercitare attraverso di esse le funzioni fondamentali o, a loro scelta, tutte le funzioni o servizi loro attribuiti; a queste Unioni spetta «per conto dei comuni che ne sono membri, la programmazione finanziaria e la gestione contabile con riferimento alle funzioni esercitate per mezzo dell'Unione», disponendosi poi che «i comuni concorrono alla predisposizione del bilancio di previsione dell'Unione» soltanto «mediante l'adozione di un documento programmatico, nell'ambito del piano generale di indirizzo deliberato dall'Unione» (comma 4); l'Unione succede, a tutti gli effetti, nei rapporti giuridici in essere che siano inerenti alle funzioni e ai servizi ad essa affidati, nonche' nei relativi rapporti finanziari derivanti dal bilancio; dal momento dell'istituzione dell'Unione, per tutti i comuni (compresi quelli con popolazione superiore che svolgano, mediante l'Unione, tutte le loro funzioni) decadono le giunte, ed unici organi sono il sindaco e il consiglio, a cui residuano «esclusivamente i poteri di indirizzo»; l'Unione e' dotata di propri organi ed, in particolare, di un consiglio composto dai sindaci e da un certo numero dei consiglieri dei comuni membri, i quali eleggono il presidente che, a sua volta, nomina la giunta (in seguito il legislatore statale potra' prevedere l'elezione a suffragio universale e diretto di questi organi: commi 10 e 11). I commi 12, 13, 14, 15 inoltre disciplinano minutamente composizione, funzioni, durata in carica ed emolumenti degli organi delle Unioni; i comuni inferiori a 1.000 abitanti possono derogare all'obbligo di esercitare, tramite l'Unione, tutte le loro funzioni e i loro servizi, solo se adottano altra forma associativa, quale la convenzione di cui all'art. 30 TUEL, fermo restando che anche in questo caso devono gestire tutte le funzioni e i servizi ad essi attribuiti tramite la convenzione. Ad avviso della ricorrente regione, l'intera disciplina sopra sintetizzata, risulta viziata da illegittimita' costituzionale per violazione degli artt. 114, primo e secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, Cost. nonche' per violazione del principio di ragionevolezza e di buon andamento di cui agli art. 3 e 97 Cost. Conviene qui in primo luogo riassumere le disposizioni costituzionali che riguardano i comuni, e le competenze che in relazione ad essi spettano allo Stato e alle regioni. Non occorre ricordare che secondo l'art. 114, primo comma, della Costituzione i comuni, insieme alle province, alle citta' metropolitane, alle regioni ed allo Stato costituiscono la Repubblica. Inoltre, ai sensi del secondo comma, essi «sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione». Secondo l'art. 118, comma primo, ai comuni spettano le funzioni amministrative, nel quadro del principio di sussidiarieta', e secondo il comma terzo essi hanno funzioni proprie, oltre a quelle conferite ad essi dalla regione e dallo Stato. Secondo l'art. 117, comma secondo, lettera p), spetta alla legge statale definire le funzioni fondamentali dei comuni, ed inoltre spetta ad essa la competenza in materia di legislazione elettorale e organi di governo. Invece, spetta alle regione, ai sensi dell'art. 133, primo comma, della Costituzione, «istituire nel proprio territorio nuovi comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni», sentite le popolazioni interessate. E pure alla competenza regionale spetta, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., la disciplina di ogni altro aspetti delle istituzioni comunali, in quanto non si tratti di aspetti riservati alla loro stessa autonomia. Questo quadro di garanzie costituzionali delle autonomie locali e questo riparto di competenze va ovviamente tenuto presente anche nell'affrontare il problema, che certo la regione non ignora (avendo intrapreso essa stessa, sempre in accordo con gli enti locali, rilevanti iniziative istituzionali rivolte a risolverlo) della insufficiente dimensione di molti dei comuni italiani. Si tratta di un problema complesso, che non puo' essere risolto in modo sbrigativo e per via traversa, come fa la disciplina qui impugnata (si conferma qui la gia' lamentata drammatica inadeguatezza dello strumento della decretazione d'urgenza), mediante lo svuotamento istituzionale dei comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, privandoli delle funzioni, strutture e risorse finanziarie e disponendo la loro pratica sostituzione con un ente nuovo, l'Unione, nella quale finisce per «sciogliersi» ogni comune la cui popolazione non superi la soglia indicata: un ente che ovviamente non compare nella tipologia costituzionale degli enti costituivi della Repubblica e privo di legittimazione democratica diretta, come e' stato rilevato, nel corso dei lavori preparatori, sia dalla Commissione affari costituzionali del Senato, che dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali che, nel parere reso sul disegno di legge di conversione del d.l. n. 138/2011, suggeriva «l'opportunita' di sopprimere l'articolo 16». In effetti, altro e' promuovere entita' associative attraverso le quali i comuni associati possano meglio esercitare alcune delle proprie funzioni, fermo restando il nucleo centrale della loro consistenza funzionale e strutturale di comuni, altro e' ridurre i comuni a mere strutture di rappresentanza, da aggregare in altro ente che - senza essere esso stesso «Comune», con le proprie caratteristiche di immediata espressione della democrazia al livello locale - dei comuni originari assorbe pressoche' integralmente le funzioni, le strutture e le risorse. Quanto alle funzioni, infatti, la disposizione qui censurata priva i comuni interessati di tutte le funzioni amministrative e di gestione dei servizi pubblici. Quanto all'organizzazione, se e' vero che la legge di conversione ha evitato la drastica soppressione dello stesso consiglio comunale accanto a quella mantenuta della Giunta, e' anche vero che tali consigli comunali restano come semplici organi d'indirizzo ai quali «competono esclusivamente poteri di indirizzo nei confronti del consiglio dell'Unione» (comma 9). Gli stessi sindaci dei comuni diventano semplici rappresentanti nel consiglio dell'Unione, mentre le funzioni di Sindaco vengono assunte, a termini del comma 12, dal presidente dell'Unione. Paradossalmente, privati delle funzioni di vertice del comune, i sindaci si caratterizzano ormai soprattutto per l'esercizio delle funzioni relative ai servizi statali di cui all'art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000. Insomma, e' palese che il disegno proprio delle disposizioni dell'art. 16, nei commi da 1 a 16, e' di sostituire nella sostanza i comuni di piccola dimensione con le Unioni. Questo disegno, tuttavia, contrasta con le garanzie che la Costituzione offre a tutti i comuni, e costituisce un aggiramento delle apposite procedure e competenze che essa stabilisce per la creazione di nuovi comuni e per il mutamento delle circoscrizioni comunali. In altre parole, le disposizioni impugnate costituiscono non solo superamento dei poteri statali previsti dall'art. 117, comma secondo, ma anche e prima di tutto violazione dell'art. 133 Cost. Solo in apparenza il legislatore statale dispone di organi e funzioni degli enti locali, perche', in realta', quello che ne viene alterata e' la stessa mappa dell'autonomia comunale, che e' costituzionalmente garantita dalle peculiari procedure appositamente apprestate dall'art. 133. Infatti, i comuni sotto i 1.000 abitanti vengono svuotati di ogni loro attribuzione e delle risorse umane e strumentali, e persino della titolarita' dei rapporti giuridici relativi alle funzioni amministrative, tutte trasferite all'Unione. Cio' significa che dei vecchi comuni resta solo l'involucro; di fatto, essi sono svuotati e ridotti a poco piu' che circoscrizioni elettorali dell'Unione di cui fanno parte. Come codesta Corte ha osservato nella sent. n. 2/2004 a proposito degli statuti regionali, le disposizioni costituzionali vanno interpretate rispettandone lo spirito, oltre che la lettera: se questo fondamentale principio vale per gli statuti regionali, vale di certo anche per il legislatore ordinario. Mal si concilia con lo «spirito» dell'art. 133 Cost. una legge che lasci delle circoscrizioni comunali soltanto le indicazioni segnaletiche, perche' l'esercizio delle funzioni amministrative e' stato, d'imperio, traslocato altrove. Come sopra accennato, non si vuole certo negare che un riassetto delle autonomie locali sia necessario, ma non lo si puo' operare con strumenti impropri e improvvisati nella fretta, paralizzando, oltretutto, il lavoro di elaborazione condivisa che da tempo si stava sviluppando nelle sedi istituzionali disponibili. Il complesso normativo costituito dall'art. 16, commi da 1 a 16, non e' dunque compatibile con i principi costituzionali sopra esposti: ne' con il riconoscimento, che e' espressamente fatto, della natura costitutiva dei comuni nella costruzione della Repubblica, ne' con i principi di autonomia statutaria, organizzativo-regolamentare e finanziaria, ne' con i principi piu' specifici dell'art. 118 Cost., per quanto riguarda le funzioni fondamentali e le funzioni proprie dei comuni, che - come insegna codesta Corte (sent. n. 43/2004) - sono «definite dalla legge, sulla base di criteri oggi assistiti da garanzia costituzionale». Lo stesso principio di sussidiarieta' subisce una violazione, in quanto la «differenziazione» dei comuni e delle loro funzioni non puo' essere disgiunta da una considerazione, in concreto, della capacita' amministrativa e di gestione che distingue gli enti minori in ogni diversa realta' del Paese, e non puo' ridursi alla privazione delle funzioni dei comuni minori. Inoltre, risulta violata la Carta europea delle autonomie locali, ratificata dall'Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439. Il contrasto e' evidente, in particolare, con l'art. 3, che nel definire il Concetto di autonomia locale non solo precisa che «per autonomia locale, s'intende il diritto e la capacita' effettiva, per le collettivita' locali, di regolamentare ed amministrare nell'ambito della legge, sotto la loro responsabilita', e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici» (comma 1), ma sottolinea anche che «tale diritto e' esercitato da consigli e assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti». Dunque, il trasferimento coattivo delle funzioni, strutture e risorse relative a tutte le funzioni amministrative e di gestione dei pubblici servizi dei comuni minori ad amministrazioni di secondo grado viola anche gli impegni liberamente assunti dall'Italia nel quadro europeo, e con cio' l'art. 117, primo comma, della Costituzione. Si noti, tra l'altro, che in concreto molto spesso i comuni con popolazione non superiore a 1.000 abitanti non sono contigui, sicche' essi debbono partecipare ad Unioni che comprendono comuni che affidano all'Unione solo alcune delle proprie funzioni, mantenendo per il resto (ed ovviamente) la pienezza della propria natura di comuni: sicche' la situazione istituzionale risulta anche fortemente asimmetrica e diseguale, con il solo comune minore che perde nella sostanza la propria natura di vero comune, a favore di una Unione che per tutti gli altri comuni rimane un'organizzazione settoriale. In altre parole la stessa Unione non ha la stessa natura per tutti i comuni componenti, dato che per la maggior parte essa resta una organizzazione funzionale di servizio, mentre per il comune fino a 1.000 abitanti essa in realta' subentra nel ruolo di vero comune. Ad avviso della regione sotto questo profilo risultano violati, oltre che l'art. 114, anche gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto soluzione discriminatrice, priva di ragionevolezza ed in contrasto con il principio di buon andamento dell'amministrazione. Oltre alle regole costituzionali in materia di autonomia comunale, le disposizioni impugnate violano le competenze residuali delle regioni in materia di associazionismo tra enti locali. Infatti, come confermato da codesta Corte costituzionale nella sent. n. 456/2005 (ivi il riferimento specifico era alla disciplina delle Comunita' montane), nello stabilire la competenza statale, l'art. 117, secondo comma, lettera p), «fa espresso riferimento ai comuni, alle province e alle citta' metropolitane e l'indicazione deve ritenersi tassativa». Dunque, la potesta' legislativa dello Stato si ferma all'ordinamento degli enti locali, e non si estende alle loro forme associative (cfr. anche la sent. n. 27/2010), ne' a quel «caso speciale di unioni di comuni» (cfr. Corte cost. n. 456/2005) quali sono, appunto, le comunita' montane, enti non dotati di «autonomia costituzionalmente garantita» (sent. n. 397/2006). In effetti, la giurisprudenza costituzionale ha in diverse occasioni confermato l'incompetenza del legislatore statale ad intervenire in un ambito, quello delle forme associative, riconducibile alla potesta' legislativa regionale residuale (sentenze nn. 244 e 456 del 2005, n. 387 del 2006, n. 237/2009, n. 27/2010 e n. 326/2010). Di conseguenza, l'intera disciplina della speciale Unione prevista dai commi da 1 a 16, a maggiore ragione per il suo carattere dettagliato e minuzioso, appare costituzionalmente illegittima per lesione della competenze residuale delle regioni in materia di associazionismo tra enti locali. Da ultimo, e in subordine, va censurata la specifica incostituzionalita' di talune disposizioni dell'art. 16 che prevedono poteri regolativi e amministrativi statali nella applicazione della normativa impugnata. Cosi' il comma 4 dispone, tra l'altro, che «con regolamento» da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400 «su proposta del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro per le riforme per il federalismo, sono disciplinati il procedimento amministrativo-contabile di formazione e di variazione del documento programmatico, i poteri di vigilanza sulla sua attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra ciascun comune e l'unione». Ad avviso della ricorrente regione, si tratta di un potere che in nessun modo e' riconducibile alla competenza legislativa statale in materia di individuazione della funzioni fondamentali, o ad alcuna altra materia di competenza statale. Si tratta invece della disciplina dei rapporti tra i comuni e l'entita' associativa, rapporti che - per la parte che non ricade nella stessa autonomia comunale - compete alla regione ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost. Di conseguenza, non vi e' potere regolamentare statale, a termini dell'art. 117, comma sesto, Cost. In ulteriore subordine, ove dovesse ammettersi una competenza statale, risulta violato il principio di leale collaborazione, non essendo prevista ne' l'intesa con la regione interessata ne' l'intesa con la Conferenza unificata. Ugualmente, risulta illegittimo il comma 16, per violazione del principio di leale collaborazione, per avere il legislatore statale completamente pretermesso le regioni nella valutazione - demandata in via esclusiva al Ministro degli interni - in ordine al conseguimento, da parte dei comuni gia' coinvolti in forme associative di cui all'art. 30 del T.U.E.L., dei «significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive attribuzioni». E' eclatante la circostanza che gli effetti delle leggi regionali sull'associazionismo vengano a dipendere da una valutazione unilaterale e centralizzata del Ministero degli interni, senza alcun coinvolgimento delle regioni stesse, in violazione dell'art. 117, comma 4. E' evidente, altresi', la violazione dell'art. 114, in quanto detta disposizione introduce un controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle unioni, in violazione dell'autonomia riconosciuta agli enti territoriali dall'attuale testo dell'art. 114, come modificato dalla riforma del titolo V.