LA CORTE DEI CONTI 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza sull'appello in  materia  di
pensioni proposto avverso la sentenza 24 maggio 2007,  n.  328  della
Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la  regione  Friuli
Venezia Giulia Liguria dal  sig.  Giovanni  Pisani,  rappresentato  e
difeso dall'avv. Fabio Lorenzoni, 
    Contro  l'Istituto  Nazionale  di  Previdenza  per  i  Dipendenti
dell'Amministrazione Pubblica (INPDAP), il Ministero  dell'interno  e
la Prefettura di Gorizia. 
    Visto l'atto di appello, iscritto al n.  32150  del  registro  di
segreteria; 
    Esaminati tutti gli altri atti e documenti della causa; 
    Uditi alla pubblica udienza del 28 ottobre 2011, con l'assistenza
della segretaria Lucia  Bianco,  il  Giudice  relatore,  dott.  Bruno
Tridico, l'avv. Fabio Lorenzoni per l'appellante e la dott.ssa  Maria
Carmela Viola per l'INPDAP, non costituiti il Ministero  dell'interno
e la Prefettura di Gorizia. 
 
                        Esposizione del fatto 
 
    1. Con decreto del Ministero dell'interno - Prefettura di Gorizia
n. 1274 del 27 maggio 1999 veniva riliquidato in  senso  peggiorativo
il  trattamento  pensionistico  ordinario  gia'  attribuito  in   via
definitiva, con precedente decreto  n.  1266  del  4  febbraio  1998,
all'appellante sig. Giovanni Pisani,  ex  dirigente  superiore  della
Polizia di Stato collocato a riposo dal 1° luglio 1995. 
    Il primo decreto, registrato alla Corte dei  conti  il  3  agosto
1998, liquidava  trattamento  definitivo  di  pensione  nei  seguenti
importi: 
        lire 76.740.700 dal 1° luglio 1995; 
        lire 77.099.700 dal 1° novembre 1995; 
        lire 80.114.100 dal 31 dicembre 1995. 
    Con il secondo decreto del 1999, anch'esso registrato alla  Corte
dei  conti  in  data  22  febbraio  2001,  veniva  rideterminato   il
trattamento definitivo di pensione in lire 76.740.700 a vita. 
    Il sig. Pisani,  in  primo  grado,  rilevava  che  l'adozione  di
quest'ultimo decreto si basava su una nuova e diversa interpretazione
dell'art. 4, comma 1, del d.l. 29 giugno 1996, n. 341, convertito  in
legge 8  agosto  1996,  n.  427,  in  base  alla  quale  l'incremento
dell'indennita' pensionabile ivi previsto, per i dirigenti  collocati
in quiescenza dopo il 1° gennaio 1994,  operava  fino  alla  data  di
cessazione  dal  servizio,  con  esclusione  quindi   di   successive
riliquidazioni. Pertanto, non  contestata  la  nuova  interpretazione
normativa accolta dall'Amministrazione,  chiedeva  al  Giudice  delle
pensioni declaratoria di irripetibilita'  delle  somme  percepite  in
piu' sulla pensione erogata e l'annullamento del secondo decreto, con
riconoscimento  quindi  anche  per  il  futuro  del  piu'  favorevole
trattamento pensionistico gia' liquidato con  il  decreto  del  1998.
Cio' in quanto  l'art.  204  del  T.U.  29  dicembre  1973,  n.  1092
ammetterebbe la revoca o modifica  del  provvedimento  definitivo  di
pensione nei  soli  casi  ivi  previsti,  tra  i  quali  non  sarebbe
contemplato l'errore di diritto. 
    2. La Sezione  giurisdizionale  per  la  regione  Friuli  Venezia
Giulia, con l'impugnata sentenza, accoglieva parzialmente il  ricorso
giurisdizionale, dichiarando irripetibile l'indebito gia'  erogato  e
percepito dall'interessato,  ma  ritenendo  pienamente  legittimo  il
decreto n. 1274 del 1999, adottabile in virtu' del generale potere di
annullamento   d'ufficio   normalmente   spettante   alla    pubblica
amministrazione pur in assenza di una specifica norma di legge. 
    3. Con il proposto  appello  il  sig.  Pisani  lamenta  l'erronea
interpretazione dell'art. 204 citato da parte del  giudice  di  prime
cure, non ricorrendo alcuna  delle  ipotesi  ivi  previste  che  sole
consentono la revoca  o  modifica  del  provvedimento  definitivo  di
pensione.  Tra  queste,  afferma   l'appellante,   non   ricorre   la
fattispecie dell'errore di diritto. Peraltro, si aggiunge, il decreto
in contestazione non  sarebbe  neanche  qualificabile  come  atto  di
annullamento  d'ufficio,  posto  che   riguarda   espressamente   una
"riliquidazione" e non una "liquidazione", ed  inoltre  non  si  dice
affatto nel corpo del decreto che lo stesso annulla e sostituisce  il
precedente. 
    Parte appellante richiama anche favorevole  giurisprudenza  della
Corte dei conti  a  sostegno  delle  proprie  tesi  (Sezione  seconda
giurisdizionale   centrale   13   marzo   2001,   n.   113;   Sezione
giurisdizionale  Sicilia  17  febbraio  2005,  n.  287)  e   conclude
chiedendo  la  parziale  riforma  della   sentenza   impugnata,   con
l'annullamento del decreto n. 1274  del  1999  e  il  ripristino  del
trattamento di quiescenza, di cui al decreto n. 1266 del 1998. 
    4. Si e' costituito in  giudizio  l'INPDAP,  non  contestando  il
fatto che si verte in ipotesi di errore di diritto e che  questo  non
risulta indicato tra i casi contemplati dal menzionato art.  204.  Ha
pero' eccepito la  piena  legittimita'  dell'esercizio  del  generale
potere  di  annullamento  d'ufficio,  non  essendo  ammissibile   che
l'ordinamento giuridico possa far salvo un  rapporto  illegittimo  in
modo costante e continuo. L'Istituto ha chiesto, in conclusione,  che
l'appello venga respinto. 
    5. All'odierna udienza il difensore  di  parte  appellante  e  il
rappresentante dell'INPDAP hanno ribadito  quanto  in  atti  scritti,
confermandone i contenuti e le  relative  conclusioni.  La  causa  e'
quindi passata in decisione. 
 
                       Motivi della decisione 
 
    1. E' del tutto pacifico, e peraltro non contestato dalle  parti,
che  l'avvenuta  riliquidazione  del  trattamento  pensionistico   e'
derivata da un errore interpretativo dell'art. 4, comma 1,  del  d.l.
29 giugno 1996, n. 341, convertito in legge 8 agosto 1996, n. 427,  e
quindi da un errore vizio qualificabile come "errore di diritto". 
    La questione dedotta nel presente grado di giudizio,  cosi'  come
nel precedente svoltosi dinanzi alla Sezione  territoriale,  concerne
la modificabilita' di un provvedimento definitivo di liquidazione del
trattamento di quiescenza nel caso in cui  l'Amministrazione  incorra
in errore di diritto. 
    2. La disciplina  normativa  dalla  quale  muovere  ai  fini  del
decidere e' indubbiamente quella recata dagli artt.  203  e  ss.  del
testo unico approvato con d.P.R. 29  dicembre  1973,  n.  1092.  Essa
trova la sua ragion d'essere nell'esigenza di individuare un punto di
equilibrio tra due esigenze contrapposte: da un lato, la  necessita',
in ossequio ai principi riconducibili all'art. 97 della Costituzione,
di  porre  rimedio  a  una  situazione  viziata  che  ha  dato  luogo
all'erogazione del trattamento di quiescenza in  misura  difforme  da
quella dovuta (con conseguente aggravio del  pagamento  astrattamente
indebito sulla generalita' degli iscritti all'ente  previdenziale  e,
in ultima analisi, sulla collettivita'); dall'altro,  la  tutela  del
pensionato, il quale destina le prestazioni pensionistiche, sia  pure
in parte indebite, al soddisfacimento di bisogni alimentari propri  e
della famiglia. 
    Il quadro normativo in merito si e'  sviluppato  muovendo  da  un
contesto nel quale la Corte dei conti,  pur  organo  giurisdizionale,
provvedeva essa stessa  alla  liquidazione  della  pensione.  Invero,
l'art. 11 della legge 14 agosto 1862, n. 800,  intestava  alla  Corte
dei conti le funzioni di liquidazione e giurisdizione in  materia  di
pensioni,  e  la  liquidazione  avveniva,  dopo  il  deposito   delle
conclusioni  del  Procuratore  generale,  attraverso  una   pronuncia
collegiale in Camera di  consiglio.  E'  evidente  quindi  la  natura
giurisdizionale o quantomeno "paragiurisdizionale"  del  procedimento
di  liquidazione,  che  quindi  giustificava  una  disciplina   della
revocazione  delle  deliberazioni  adottate  (art.  132  del  r.d.  5
settembre 1895, n. 603, sostituito dall'art.  24  del  Regolamento  7
giugno 1920, n. 835) evocante l'art. 44 della citata legge n. 800 del
1862, il quale elencava i motivi che consentivano, entro  il  termine
di tre anni, il ricorso alla Corte per revocazione (errore di fatto o
di calcolo;  riscontro  di  omissione  o  doppio  impiego  a  seguito
dell'esame  di  altri  conti;  nuovi  documenti  rinvenuti  dopo   la
decisione; giudizio pronunziato sopra documenti falsi). 
    Con il trasferimento all'Amministrazione, attuato  con  l'art.  1
del r.d. 27 giugno 1933, n.  703,  delle  competenze  in  materia  di
liquidazione delle pensioni (e,  quindi,  con  la  trasformazione  in
attivita' amministrativa del  relativo  procedimento),  i  motivi  di
revoca o modifica rimasero sostanzialmente  identici.  L'art.  9  del
menzionato r.d. n. 703 disponeva infatti quanto segue: 
        "...il decreto e' revocato o modificato quando: 
          a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener
conto di elementi risultanti dallo stato di servizio; 
          b) vi sia stato errore  nel  computo  del  servizio  o  nel
calcolo del prezzo del riscatto, nel calcolo della pensione,  assegno
o indennita' o nell'applicazione delle tabelle  che  stabiliscono  le
aliquote o l'ammontare delle pensioni, assegni o indennita'; 
          c) siano stati rinvenuti documenti nuovi  dopo  l'emissione
del decreto; 
          d) la liquidazione sia stata effettuata o il decreto emesso
sopra documenti falsi". 
    Non era compreso quindi l'errore di diritto, e  cio'  costituiva,
ad avviso di questa Sezione, grave lacuna, posto che  tale  attivita'
veniva  ora  svolta  non  piu'  da  un  organo  giurisdizionale,   ma
dall'Amministrazione. 
    Tale omissione si e' poi trasferita nell'art. 204 del  d.P.R.  n.
1092 del 1973 (con formulazione pressoche' identica all'art. 9  sopra
riportato), il quale prevede i casi, pacificamente ritenuti tassativi
e  non  meramente  esemplificativi,  di   revoca   o   modifica   del
provvedimento definitivo di pensione, da attuarsi entro i termini ben
definiti di cui all'art. 205, mentre l'art. 206  tutela  comunque  la
posizione  del   percettore   di   ratei   non   dovuti,   sancendone
l'irripetibilita', salvo il fatto doloso dell'interessato. 
    Segnatamente, ai sensi dell'art. 204, l'ufficio puo' procedere  a
revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione quando: 
        "a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di  tener
conto di elementi risultanti dagli atti; 
        b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel  calcolo
del contributo del riscatto, nel calcolo della  pensione,  assegno  o
indennita' o nell'applicazione  delle  tabelle  che  stabiliscono  le
aliquote o l'ammontare della pensione, assegno o indennita'; 
        c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l'emissione del
provvedimento; 
        d) il provvedimento sia stato  emesso  in  base  a  documenti
riconosciuti o dichiarati falsi". 
    Non  e'  quindi   contemplato,   tra   i   casi   per   i   quali
l'Amministrazione puo' intervenire sul  provvedimento  definitivo  di
pensione, l'errore di diritto. 
    3. Gia' parte della giurisprudenza  della  Corte  (Sezione  terza
giurisdizionale centrale d'appello 23 marzo  2009,  n.  115;  Sezione
giurisdizionale  Lazio  25  marzo  2011,  n.  505)  ha   riconosciuto
all'Amministrazione il potere  di  annullamento  d'ufficio  dell'atto
qualora  l'illegittimita'  sia  rilevata  dalla   Corte   dei   conti
nell'esercizio del controllo successivo ex art. 106  della  legge  11
luglio 1980,  n.  312;  sicche'  la  modifica,  attraverso  il  nuovo
provvedimento di liquidazione, costituisce  nei  fatti  l'adeguamento
alle censure dell'organo di  controllo.  Diversamente,  il  controllo
consisterebbe in un mero flatus  vocis  e  non  avrebbe  avuto  alcun
significato la  sua  conferma,  da  parte  del  legislatore,  pur  se
trasformato da preventivo in successivo. Si nega, pertanto, carattere
di definitivita' al provvedimento non ancora assoggettato a controllo
successivo. 
    La questione sulla correttezza o meno di tale interpretazione non
si pone nel presente giudizio, posto che la  fattispecie  concreta  -
all'esame di questo Giudice - si differenzia da quella appena esposta
poiche' il provvedimento poi modificato (cosi' come, peraltro,  anche
il  secondo   provvedimento   di   riliquidazione)   aveva   superato
positivamente il vaglio della Corte dei conti in sede di controllo. 
    4. Se il quadro che emerge dalla giurisprudenza delle Sezioni  di
primo grado risulta alquanto variegato (talune riconoscono il  potere
di modifica, in virtu' del generale potere di annullamento d'ufficio;
altre, al contrario,  negano  la  modificabilita'  del  provvedimento
definitivo in presenza di errore di diritto),  le  Sezioni  d'appello
ritengono uniformemente che il provvedimento definitivo  di  pensione
sia sottratto al normale regime di annullamento (cfr. questa Sezione,
sentenza 5 maggio 2003, n. 189, 3 ottobre 2008, n. 299,  e,  piu'  di
recente: Sezione giurisdizionale d'appello per la regione  Sicilia  3
ottobre 2011, n. 267, 29 aprile 2011, n. 117, 12 luglio 2010, n. 177;
Sezione seconda giurisdizionale centrale d'appello 8 aprile 2011,  n.
176,) in virtu'  del  principio  di  prevalenza  dell'interesse  alla
stabilita' e certezza del rapporto pensionistico. 
    In particolare, poi, le Sezioni riunite della  Corte  dei  conti,
con la recentissima sentenza 21 novembre 2011, n. 15,  nell'esercizio
della funzione nomofilattica loro attribuita e  potenziata  dall'art.
1, comma settimo, del  d.l.  15  novembre  1993,  n.  453  (novellato
dall'art. 42, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n.  69),  si  sono
pronunciate sul tema, sia pure per l'analoga disciplina pensionistica
di guerra. Piu' precisamente, nel negare, in materia di  pensioni  di
guerra, l'esistenza di un generale potere di annullamento  d'ufficio,
in via di autotutela, di provvedimenti viziati da errori di  diritto,
le SS.RR. hanno qualificato,  in  via  incidentale  per  le  pensioni
ordinarie, «disciplina speciale dei casi di annullamento d'ufficio di
atti illegittimi, diversa  e  alternativa  rispetto  ai  principi  di
carattere generale definiti  dalla  giurisprudenza»,  quella  che  si
rinviene nel d.P.R. n. 1092 del 1973, rimarcando il  piu'  accentuato
favor legislativo per il pensionato civile. Le Sezioni riunite  hanno
quindi escluso l'applicabilita', per  le  pensioni  di  guerra  e  le
pensioni ordinarie, dei principi e norme di carattere  «generale»  in
materia di annullamento d'ufficio di atti amministrativi  illegittimi
(art. 1, comma 136, della legge 30  dicembre  2004,  n.  311  e  art.
21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241, aggiunto dalla legge  11
febbraio 2005, n. 15). 
    Inoltre, la Corte costituzionale ha gia' dichiarato  non  fondata
la questio legitimatis dei sopra menzionati  artt.  203,  204  e  205
d.P.R. n. 1092 del 1973, ritenuti compatibili con gli artt. 3,  36  e
76 della Costituzione (sentenza 3 aprile 1984, n. 91). 
    5.  Nondimeno,  questa  Sezione  Ritiene   di   dover   sollevare
nuovamente  d'ufficio  questione  di   legittimita'   costituzionale,
ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, dell'art. 204  del
d.P.R. n. 1092 del 1973, per contrasto con  gli  artt.  3,  36  primo
comma, 38 secondo comma e 97 della Costituzione nella  parte  in  cui
non dispone la revoca  o  modifica  anche  nel  caso  di  «errore  di
diritto». 
    5.1. La questione presenta il carattere della rilevanza  ai  fini
del decidere in quanto la mancata previsione dell'errore di  diritto,
nel novero dei motivi di  cui  all'art.  204  citato,  determinerebbe
nella specie l'illegittimita' del decreto del Ministero  dell'interno
- Prefettura di Gorizia n. 1274 del 27 maggio 1999, di riliquidazione
in senso peggiorativo del trattamento  pensionistico  ordinario,  con
l'accoglimento dell'appello proposto  e  conseguente  ripristino  del
trattamento pensionistico nella misura originaria. 
    5.2. La questione e' anche non manifestamente  infondata  per  le
ragioni che seguono. 
    Ovviamente  costituisce  dovere  di  questo  Giudice,  prima   di
sollevare  la  questione,  valutare  se  sia  possibile  pervenire  a
un'interpretazione   costituzionalmente   orientata    della    norma
sospettata di incostituzionalita'. Invero, la palese,  ad  avviso  di
questa  Sezione,  disparita'  di  trattamento   tra   la   disciplina
dell'errore di fatto o di  calcolo  (che  ammettono  la  modifica)  e
quella  dell'errore  di  diritto  (che  la  esclude)   indurrebbe   a
interpretare l'elenco di cui all'art. 204 come avente  carattere  non
tassativo. Cio' anche in considerazione del fatto  che  l'elencazione
non comprende casi ben piu' gravi e  per  i  quali  sembrerebbe  piu'
pressante   e   assolutamente   doveroso   l'intervento    correttivo
dell'Amministrazione in autotutela,  come  nell'ipotesi  di  illecito
penalmente rilevante del funzionario infedele che, senza che vi siano
documenti falsi (nel qual caso ricorrerebbe l'espressa previsione  di
cui alla lettera d) della norma) incrementi con artifici contabili  o
in qualsiasi altro modo l'importo del trattamento erogato. 
    L'effetto dell'interpretazione ora accolta  dalla  giurisprudenza
sarebbe  quello  di  impedire  comunque,  anche   in   questi   casi,
l'eliminazione del provvedimento viziato (non  versandosi  in  alcuna
delle  ipotesi  previste  dall'art.  204)  e  di  cristallizzare   un
trattamento  di  quiescenza  maggiorato,  peraltro   attraverso   una
condotta costituente reato, rispetto al dovuto. 
    Ancora, identica conseguenza avrebbe il riconoscimento  di  somme
in misura  di  gran  lunga  superiori  a  quelle  spettanti,  la  cui
sproporzione sarebbe agevolmente riconoscibile dal  percipiente;  con
esclusione, quindi, della sua buona fede (essendo questi  consapevole
che  l'amministrazione  non  ha  correttamente  applicato  una  norma
giuridica o ha  disatteso  una  circolare  o  direttiva  interna  nel
quantificare l'importo da corrispondere). Se  inquadrate  nell'errore
di diritto, ovvero se neanche riconducibili a un  «errore»  (perche',
ad esempio, v'e' piena volonta' e consapevolezza di erogare somme  in
misura  superiore  al  dovuto),  non  vi  sarebbe   possibilita'   di
intervenire sul provvedimento oramai adottato. Peraltro,  la  stretta
tassativita' sembrerebbe esclusa dalla formulazione dell'art. 206 che
espressamente prevede la revoca disposta a seguito  dell'accertamento
del fatto doloso dell'interessato, ammettendo anche  il  recupero  di
quanto gia' corrisposto.  E  il  fatto  doloso  dell'interessato  non
risulta elencato tra i motivi ex art. 204, cosi'  generando  una  non
trascurabile aporia logico-giuridica. 
    Ma la reductio ad absurdum,  esposta  al  fine  di  escludere  la
tassativita' delle ipotesi indicate nell'art.  204  e  di  ammettere,
quindi,  la  facolta'  di  revocare  o  modificare  il  provvedimento
definitivo anche per altri motivi non  espressamente  indicati  nella
norma, trova un evidente limite, oltre che nel «diritto vivente»  (si
rammenta, in proposito, anche la citata sentenza n. 15 del 2011 delle
Sezioni   riunite),   nel   tenore   letterale   della   disposizione
legislativa, che non consente  un'interpretazione  adeguatrice,  come
dimostra anche la sentenza n. 91 del 1984 della Corte costituzionale.
Questa Sezione ritiene, quindi, che l'art. 204 non possa  non  essere
interpretato come recante un elenco tassativo di  motivi  che,  soli,
consentono la modifica o  la  revoca  del  provvedimento  definitivo.
Stante la specialita' della disciplina, al  di  fuori  dei  casi  ivi
indicati, tale atto amministrativo, pur se illegittimo  (e  anche  se
posto in essere in esecuzione di una condotta penalmente  rilevante),
non e' annullabile d'ufficio in applicazione dell'art.  1  comma  136
della legge n. 311 del 2004, ne' opera la generale previsione di  cui
all'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990. 
    6. Considerato che la ratio  della  limitazione  della  revoca  o
modifica ai soli casi indicati nel piu'  volte  citato  art.  204  e'
quella di limitare l'esercizio del  diritto  dell'Amministrazione  ad
intervenire su un provvedimento, qualificato come  «definitivo»,  che
definisce il quantum da erogare al pensionato, non  si  comprende  il
motivo per il quale la limitazione sia operante per l'errore di fatto
e non per l'errore di diritto, cosi' risultando premiante, senza  una
ragionevole giustificazione ed in apparente violazione  delle  regole
della logica di una situazione che, al  contrario,  sembrerebbe  meno
meritevole di tutela giuridica. Al riguardo, questo  Giudice  ritiene
che,  se  l'ordinamento  prevede  un  rimedio  ad  un   provvedimento
nell'adozione del quale l'Amministrazione ha  percepito  erroneamente
un dato di fatto della realta'  ovvero  ha  errato  nel  calcolo  del
trattamento spettante, a fortiori dovrebbe essere previsto un analogo
rimedio nel caso l'errore cada sulla norma giuridica da  applicare  o
sulla sua interpretazione,  posto  che  costituisce  valore  precipuo
dell'ordinamento giuridico  un'azione  amministrativa  non  solo  non
erronea e conforme al canone del buon andamento (art.  97  Cost.)  ma
anche, e soprattutto, conforme a legge. 
    La  tutela  del  pensionato  sembrerebbe  gia'   sufficientemente
assicurata dalla prevista irripetibilita' delle  somme  indebitamente
percepite, nei termini sanciti dall'art. 206 del d.P.R. n.  1092  del
1973. Ma  la  questione  del  recupero  di  somme  oramai  erogate  e
utilizzate per il soddisfacimento dei bisogni propri e della famiglia
e' cosa ben diversa dall'irrevocabilita', per il futuro, di una somma
illegittimamente riconosciuta ma ancora non percepita. 
    Le situazioni comparate,  dell'errore  di  fatto  e  di  diritto,
sembrano richiedere uniforme disciplina anche alla luce  dell'entrata
in vigore dell'art. 166 della legge 11 luglio 1980, n. 312, il  quale
dispone che «I decreti di cui al titolo II, parte II, del decreto del
Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092,  e  successive
modificazioni ed integrazioni, acquistano immediata efficacia ai fini
della corresponsione delle prestazioni dovute; i  decreti  concessivi
sono, trasmessi  alla  Corte  dei  conti  per  il  riscontro  in  via
successiva». Invero, venuto meno il controllo preventivo della  Corte
dei conti sui provvedimenti definitivi di pensione -  e,  quindi,  la
verifica anticipata dell'atto, da parte di un  organo  magistratuale,
prima che questo possa produrre effetti - sembra  venuto  meno  anche
ogni motivo residuale per l'assimilazione dell'istituto della revoca,
prevista dall'art. 204, al rimedio della revocazione delle  decisioni
e delle sentenze emesse in sede giurisdizionale, come si  desume  dal
confronto degli artt. 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del  1973  con  le
disposizioni del sopra menzionato r.d. n. 703 del 1933, dell'art.  68
del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 e dell'art. 395 c.p.c. (in terminis,
Sezione controllo Stato di questa Corte,  n.  1707  del  27  novembre
1986). E' evidente che, per una sentenza oggetto di revocazione,  non
ha senso parlare di errore di diritto, poiche' la  sede  propria  per
dedurre tali errori e' proprio quella dei  vari  gradi  di  giudizio,
sicche' con la revocazione  non  si  possono  reintrodurre  tematiche
proprie  del  giudizio  gia'  svolto,  tant'e'  che  il  ricorso  per
revocazione e' inammissibile qualora si deduca un errore di  diritto.
Ma cio' non  puo'  valere  per  il  diverso  caso  del  provvedimento
amministrativo, sia pure sui generis e non piu' soggetto  (oramai)  a
controllo preventivo, il quale ben puo' essere affetto da  errore  di
diritto:  qualora  cio'  accada,  in  disparte   e   ferma   restando
l'irripetibilita' delle somme oramai erogate  e  percepite  in  buona
fede, deve comunque garantirsi all'amministrazione la possibilita' di
porre rimedio ai propri errori, specie ove si consideri che  cio'  e'
gia' possibile per gli errori di fatto e di calcolo. 
    Per i suddetti motivi l'art. 204 del  d.P.R.  n.  1092  del  1973
appare in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 
    7.   Questo   Collegio   rimettente   ritiene,    inoltre,    non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
del citato art. 204 in riferimento all'art. 97 della Costituzione. La
norma infatti impedisce  all'Amministrazione  di  intervenire  su  un
provvedimento illegittimo al fine di eliminare il vizio e di  operare
la reductio ad legitimitatem, regolando  nuovamente  il  rapporto  in
maniera  conforme  a  legge.  Essa  produce   quindi   l'effetto   di
consolidare   l'intangibilita',   de   futuro   ed    in    perpetuo,
dell'arricchimento del percipiente pur se fondato su un provvedimento
viziato da errore di diritto. 
    Tali effetti contrastano, ad avviso di  questa  Sezione,  con  il
principio   di   buon   andamento   e   di   legalita'    dell'azione
amministrativa. Gia' la Corte  costituzionale  aveva  affermato,  con
sentenza 4 dicembre 1968, n. 124, che «la disciplina del  trattamento
pensionistico non deve esser tale da turbare il buon andamento  della
pubblica amministrazione». E non pare possa revocarsi in  dubbio  che
la disciplina recata dall'art. 204, nella sua valenza  impeditivi  di
un'azione volta a ripristinare la  legittimita'  di  un  atto,  rechi
«turbamento» al buon andamento e alla legalita' dell'amministrazione.
Peraltro, con sentenza 19 luglio  1994,  n.  1241,  il  Consiglio  di
Stato,  per  l'analoga  materia  dell'indennita'  di  buonuscita,  ha
riconosciuto che l'art. 30 del t.u. 29 dicembre 1973, n. 1032  (norma
di identico tenore all'art. 204 del d.P.R. n. 1092  del  1973)  -  il
quale  prevede  la  facolta'  della  amministrazione  del  fondo   di
previdenza di revocare, modificare o rettificare il provvedimento  di
liquidazione  della  indennita'  di  buonuscita  entro   il   termine
decadenziale di un anno - non  incide  in  alcun  modo  sul  generale
potere di annullamento d'ufficio spettante a tale amministrazione  in
caso di illegittimita' del provvedimento liquidatorio. 
    8. Si ravvisa altresi' contrasto  del  menzionato  art.  204  con
l'art. 36, primo comma,  e  38,  secondo  comma  della  Costituzione.
Invero, il trattamento di  quiescenza  del  lavoratore  (retribuzione
differita), deve essere proporzionato alla quantita' e  qualita'  del
lavoro prestato. Ma l'esclusione dell'errore di diritto tra i  motivi
che consentono la modifica del provvedimento definitivo di  pensione,
nel sancire  la  sostanziale  intangibilita'  di  questo  pur  se  in
contrasto con una norma di legge, altera il rapporto  con  il  lavoro
prestato, non essendo piu' proporzionale e  adeguato  a  questo.  Ne'
pare coerente con i principi enunciati  dall'art.  1  della  legge  8
agosto  1995,  n.  335,  che,  nell'enunciare  canoni   espressamente
qualificati come «principi fondamentali di riforma  economico-sociale
della  Repubblica»,  ridefinisce  il   sistema   previdenziale   «...
definendo  i  criteri  di  calcolo  dei   trattamenti   pensionistici
attraverso la commisurazione dei trattamenti alla contribuzione  ...»
nonche'  «...  la  stabilizzazione  della  spesa  pensionistica   nel
rapporto con il prodotto interno lordo  e  lo  sviluppo  del  sistema
previdenziale medesimo».