IL TRIBUNALE ORDINARIO 
 
    Il Tribunale in composizione collegiale,  riunito  in  camera  di
consiglio e cosi' costituito: dott.  Rocco  De  Giacomo,  presidente;
dott.ssa Mdria  Luisa  De  Rosa,  giudice;  dott.  Bartolomeo  Ietto,
giudice relatore, sciogliendo la riserva precedentemente formulata  e
pronunciandosi sul reclamo proposto ex art. 669-terdecies c.p.c.  dal
dott. Rossi Cosimo avverso l'ordinanza emessa il 13 agosto  2009  dal
giudice del lavoro e con il quale e' stato rigettato  il  ricorso  ex
art. 700 c.p.c. presentato  l'11  giugno  2009  nell'interesse  dello
stesso dott. Rossi Cosimo; 
    Esaminati gli atti e sentite le deduzioni articolate dalle parti; 
 
                              Osserva: 
 
    Dalla documentazione allegata  al  fascicolo  processuale  emerge
pacificamente il seguente «iter» della vicenda in oggetto: 
        con l'istanza del 19 dicembre 2001,  n.  18154  di  prot.  il
predetto dott. Rossi ha chiesto al Ministero  della  giustizia  -  ai
sensi dell'art. 1, commi 56, 56-bis, 57 e 58 della legge n.  662/1996
e succ. mod. ed integrazioni, della circolare  della  Presidenza  del
Consiglio dei ministri n. 6 del 18 luglio 1997,  del  d.m.  6  luglio
1998, degli artt. 21  e  ss.  del  C.C.N.L.  e  della  circolare  del
Ministero della giustizia n. 207 del 12  novembre  1999  -  di  poter
trasformare il proprio rapporto di lavoro  da  tempo  pieno  a  tempo
parziale, riducendo l'orario di servizio  a  18  ore  settimanali  da
prestare il martedi' ed il giovedi' con rientro pomeridiano,  nonche'
di essere autorizzato all'iscrizione all'albo  professionale  forense
ed  all'esercizio  della   professione   di   avvocato   secondo   le
compatibilita' indicate dallo stesso Ministero della giustizia; 
        quest'ultimo, in data 23 gennaio 2002 e con decorrenza dal 1°
febbraio 2002, ha rilasciato al citato dipendente l'autorizzazione al
rapporto  di  lavoro  a  tempo  parziale  al  50%  e,  quindi,   allo
svolgimento della professione di avvocato, legittimando il dipendente
medesimo ad iscriversi il 15  marzo  2002  al  Consiglio  dell'Ordine
degli avvocati di Benevento, e cio' sebbene - in ragione  del  limite
territoriale di cui al d.m. 6 luglio 1998 - sempre il dott. Rossi sia
stato   contestualmente   costretto   a   sollecitare   il    proprio
trasferimento al Tribunale di Nocera Inferiore, ove attualmente e' in
servizio presso la Sezione esecuzioni mobiliari; 
        all'indomani dell'approvazione della legge 25 novembre  2003,
n. 339 - che ha modificato la precisata legge n. 662/1996, statuendo,
in special modo, all'art. 2, che tutti  coloro  che,  come  l'odierno
reclamante, avevano «ottenuto l'iscrizione  all'albo  degli  avvocati
successivamente alla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge  23
dicembre 1996, n. 662» e  risultavano  «ancora  iscritti»,  potessero
«optare  per  il  mantenimento  del  rapporto  di  impiego,   dandone
comunicazione al consiglio dell'ordine ... entro trentasei mesi dalla
"stessa'' entrata in vigore», comunicazione in mancanza  della  quale
il  medesimo   consiglio   dell'ordine   avrebbe   «provveduto   alla
cancellazione di ufficio dell'iscritto dal  proprio  albo»  il  dott.
Rossi, con la missiva del 1° dicembre  2006,  n.  466  di  prot.,  ha
fatto, in ogni caso, presente al Consiglio dell'Ordine degli avvocati
di Benevento la propria scelta di conservare il  rapporto  di  lavoro
pubblico in  «part-time»  ridotto  al  50%:  una  scelta  di  cui  il
Presidente dello stesso Consiglio dell'Ordine di Benevento  ha  messo
al  corrente  la  Corte  di  Appello  di  Napoli   con   un'ulteriore
comunicazione trasmessa dalla medesima Corte di Appello, con la  nota
del 15 gennaio 2007,  n.  1129/2007  di  prot.,  al  Ministero  della
giustizia, il quale, a sua  volta,  con  l'atto  di  diffida  del  12
settembre 2007, ha intimato l'originario  ricorrente  a  documentare,
entro quindici giorni e proprio alla luce del richiamato art. 2 della
legge  n.  339/2003,   l'avvenuta   presentazione   dell'istanza   di
cancellazione dall'Albo degli avvocati; 
        con  la  delibera  del  27  settembre   2007   il   Consiglio
dell'Ordine di Benevento - al quale, gia' con nota del 20 marzo 2007,
la Corte di Appello di Napoli aveva fatto presente che il  ricorrente
medesimo continuava a prestare servizio li -  ha  ordinato  al  dott.
Rossi la cancellazione dall'albo: una delibera che  lo  stesso  dott.
Rossi ha impugnato dinanzi al Consiglio nazionale forense nell'ambito
di un procedimento sospeso per l'opportunita'  di  attendere  che  la
Corte costituzionale,  essendone  stata  investita,  si  pronunciasse
sulla materia oggetto del procedimento medesimo, impugnazione  che  -
come chiarito proprio dal Consiglio nazionale forense con la nota del
27 gennaio 2009 caratterizzata dal n. 21/2009 di prot. - ha  prodotto
l'effetto sospensivo ex art. 37, comma 5 del r.d.l. 27 novembre 1993,
n. 1578 ed ha,  dunque,  legittimato  il  reclamante  a  svolgere  la
professione forense; 
        con la nota prot. n. 2/02-09/FC del 21 aprile 2009 -  inviata
dalla Corte di Appello di  Napoli  al  Presidente  del  Tribunale  di
Nocera Inferiore perche' la  notificasse  al  reclamante  medesimo  -
quest'ultimo  e'  stato,  infine,  avvisato  dal  direttore  generale
«pro-tempore» del Ministero della giustizia del fatto che, «dovendosi
considerare rara della legge n. 339/2003 allo stato vigente  a  tutti
gli effetti, ... l'autorizzazione a  suo  tempo  rilasciata»  dovesse
«intendersi revocata». 
    Di qui la proposizione del richiamato ricorso ex art. 700  c.p.c.
dell'11 giugno  2009  finalizzato  ad  ottenere  la  declaratoria  di
nullita'  e/o  illegittimita'  del   provvedimento   della   pubblica
amministrazione che  ha  revocato  al  dott.  Rossi  l'autorizzazione
all'esercizio della professione forense, in subordine a  causa  della
disapplicazione della legge n. 339/2003 perche' contraria alle  norme
comunitarie, nonche', in via ancora piu' gradata, la sospensione  del
medesimo  provvedimento  ed  il  contestuale   riconoscimento   della
riviviscenza dell'atto autorizzativo all'esercizio della professione,
fino all'esito del giudizio dinanzi alla Corte  Europea  dei  Diritti
dell'Uomo cui hanno dato impulso le statuizioni all'uopo adottate nel
2009 dal Giudice di  Pace  di  Cortona:  un  ricorso  che  -  con  il
provvedimento giurisdizionale del 13 agosto 2009 oggetto del  reclamo
sottoposto alla cognizione del collegio  -  e'  stato  rigettato  per
l'insussistenza del fondamentale requisito del  «fumus  boni  iuris»,
quale ritenuta proprio ai sensi dell'art. 2 della legge n. 339/2003. 
    Cio' posto, ritiene il collegio di dover condividere i  dubbi  di
costituzionalita' della stessa legge n. 339/2003 sollevati dal  dott.
Rossi sia nell'originario ricorso che nel reclamo or ora indicati. 
    Si   tratta,   in   buona    sostanza,    dell'annoso    problema
dell'intangibilita' dei cosiddetti diritti quesiti costituzionalmente
garantiti. 
    Ed, in una simile prospettiva, va innanzitutto sottolineato che -
come  gia'   osservato   dalle   Sezioni   unite   della   Cassazione
nell'ordinanza 6 dicembre 2010, n.  24689,  la  quale  ha  dichiarato
«rilevante  e  non   manifestamente   infondata   la   questione   di
legittimita' costituzionale della legge n. 339 del 2003, artt. 1 e 2,
nella parte in cui non prevedono che il  regime  di  incompatibilita'
stabilito nell'art. 1 non si applichi ai dipendenti pubblici a  tempo
parziale ridotto non superiore al 50 per cento del tempo pieno,  gia'
iscritti negli albi degli avvocati alla data  di  entrata  in  vigore
della medesima legge n. 339 del 2003, prevedendo, invece, all'art. 2,
solo un breve periodo  di  "moratoria''  per  l'opzione  imposta  fra
impiego ed esercizio della professione, per contrasto, nei  sensi  di
cui in motivazione, con gli artt. 3, 4, 35 e 41  Cost.»  -  la  Corte
costituzionale, pur essendosi effettivamente occupata del piu'  volte
richiamato intervento legislativo del 2003 con la sentenza n. 390 del
21 novembre 2006, con  l'ordinanza  n.  210/2008  e  con  l'ulteriore
ordinanza n. 91 dell'11 marzo 2009, non ha, comunque,  specificamente
affrontato,  con  le  decisioni  teste'   elencate,   due   questioni
essenziali per la definizione del procedimento  ex  art.  700  c.p.c.
instaurato dal dott. Rossi e oggi pervenuto  alla  presente  fase  di
reclamo: 
        a) il problema della legittimita' della legge n. 339 del 2003
nella parte in cui estende i suoi  effetti  circa  l'incompatibilita'
tra la professione forense ed  il  rapporto  di  pubblico  impiego  a
part-time ridotto al 50%, anche a  coloro  che  erano  gia'  iscritti
negli albi degli  avvocati  ed  esercitavano  la  stessa  professione
forense,  sulla  base  della  disciplina  preesistente,  al   momento
dell'entrata in vigore della medesima legge n. 339 del 2003; 
        b) la tematica della legittimita' del divieto, sopravvenuto a
carico  di  costoro,   di   continuare   l'esercizio   dell'attivita'
professionale gia' ritualmente intrapresa. 
    Di  qui  la   non   indifferente   rilevanza   dei   profili   di
illegittimita'  costituzionale  della  legge   n.   339/2003   appena
accennati, i  quali  sono  anche  non  manifestamente  infondati  con
riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost. 
    A questo proposito va, infatti, preliminarmente chiarito che - se
e' vero che il legislatore ben  puo'  introdurre  nuove  disposizioni
contrastanti con quelle in vigore -  e'  altrettanto  innegabile  che
queste stesse nuove disposizioni debbano, comunque, tener conto delle
situazioni esistenti e  dei  rapporti  giuridici  in  atto  sorti  in
presenza del precedente quadro normativo. 
    Ne consegue che - come messo in risalto dalle Sezioni unite della
Cassazione nella gia' specificata ordinanza n. 24689 del  6  dicembre
2010 - esse devono  essere  «non  irragionevoli»,  ossia  dettate  da
sopravvenute ragioni e/o esigenze, e «non  possono  violare  norme  e
principi costituzionali o valori di rilievo costituzionale  quali  la
"certezza del diritto''»; cio' sia  che  si  tratti  di  disposizioni
propriamente retroattive, cioe' incidenti  direttamente  su  fatti  e
rapporti sorti in  passato  e  modificati  «ex  post»  negli  effetti
giuridici ad essi riconducibili, sia che, pur  operando  tecnicamente
solo per  il  futuro,  influiscano,  comunque,  su  rapporti  che  si
protraggono nel tempo (i cosiddetti rapporti  «di  durata»,  n.d.r.),
alterando gli equilibri preesistenti e facendo venir meno, o  mutando
profondamente, situazioni giuridiche gia' acquisite. 
    In altre parole, la liberta' o discrezionalita'  del  legislatore
deve incontrare il limite  derivante  dall'esigenza  di  tener  conto
delle situazioni giuridiche soggettive  di  coloro  che  hanno  agito
facendo affidamento sul  quadro  normativo  in  vigore,  su  di  esso
misurando portata, effetti e prospettive del loro agire  e  del  loro
scegliere, in quanto la «certezza del diritto» non consiste solo  nel
poter stabilire con sicurezza, in ogni momento, quale e' la normativa
vigente e quali ne sono gli effetti, ma  anche  nel  poter  confidare
ragionevolmente nella stabilita' dell'ordinamento, e cioe' nel  fatto
che ogni cambiamento  di  regole  abbia  una  sua  oggettiva  ragione
giustificatrice e rispetti  le  legittime  aspettative  consolidatesi
sulla base delle regole preesistenti. 
    Tali principi della «tutela dell'affidamento» e  della  «certezza
del  diritta»  sono  stati,  d'altro  canto,  gia'  affermati   dalla
giurisprudenza costituzionale in tutta una serie di decisioni. 
    A partire da alcune su tematiche pensionistiche (la  n.  349  del
1985, la n. 822 del 1988, la n. 573 del 1990 e la n.  390  del  1995,
n.d.r.), le quali hanno sostenuto che - sebbene non sia  preclusa  al
legislatore   l'emanazione   di   disposizioni    che    «modifichino
sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche  in  tema
di diritti soggettivi perfetti», fatto  «salvo»,  in  caso  di  norme
propriamente retroattive, «il  limite  costituzionale  della  materia
penale» ex art. 25, comma 2 Cost. - queste medesime disposizioni  non
possono «trasmodare in un regolamento irrazionale ed  arbitrariamente
incidere sulle  situazioni  sostanziali  poste  in  essere  da  leggi
preesistenti, frustrando  cosi'  anche  l'affidamento  del  cittadino
nella sicurezza giuridica, che costituisce  elemento  fondamentale  e
indispensabile dello Stato di diritto». 
    Allo stesso modo  l'irretroattivita',  anche  fuori  del  settore
penale, e' stata reputata «una regola essenziale del sistema  a  cui,
salva  un'effettiva  causa  giustificatrice,  il   legislatore   deve
ragionevolmente  attenersi,  in  quanto  la  certezza  dei   rapporti
preteriti costituisce un indubbio cardine della civile  convivenza  e
della tranquillita' dei cittadini» (vedi le sentenze n. 155 del 1990,
n. 573 del 1990 e n. 390 del 1995). 
    Si aggiunga, poi, il contenuto della sentenza n.  211  del  1997,
secondo la quale i mutamenti  normativi  peggiorativi  di  situazioni
soggettive inerenti ai rapporti di durata - qualora dovessero ledere,
senza  alcuna  fondata  motivazione,   l'affidamento   degli   stessi
cittadini basato sul quadro legislativo preesistente - si pongono  in
contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.,
nonche', in virtu' degli interessi nella specie  coinvolti,  con  gli
artt. 4, 35 e 41 Cost., relativi alle garanzie  del  lavoro  e  della
liberta' di  iniziativa  economica,  anche  sotto  il  profilo  della
concorrenza. 
    Senza dimenticare, infine, tutte quelle ulteriori statuizioni del
giudice delle leggi  che  -  soffermandosi  sempre  sugli  interventi
normativi di carattere retroattivo,  o,  comunque,  tesi  a  regolare
situazioni pregresse - hanno ribadito la necessita' di  osservare  il
canone costituzionale della ragionevolezza ed i principi generali  di
tutela del legittimo affidamento e della  certezza  delle  situazioni
giuridiche (cfr. le sentenze n. 24 del 2009, n. 74 del 2008 e n.  376
del 1995),  l'esigenza  di  non  tradire  l'affidamento  del  privato
sull'avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali  (cfr.  ancora
la n. 24 del 2009, oltre alla n. 156  del  2007),  l'obbligo  di  non
superare quei limiti che  attengono,  tra  l'altro,  al  rispetto  di
fondamentali valori di civilta' giuridica  come,  per  l'appunto,  il
principio generale di ragionevolezza e quella tutela dell'affidamento
nelle situazioni giuridiche  legittimamente  sorto,  che  e',  a  sua
volta, connaturata allo Stato di diritto  (cfr.,  «ex  multis»  ,  le
sentenze n. 525 del 2000 e n. 416 del 1999). 
    Ed, invero, - tornando alla  fattispecie  concreta  in  esame  ed
operando il necessario bilanciamento tra le finalita' della legge  n.
339/2003 (la tutela dell'indipendenza della figura  del  difensore  e
del prestigio dello stesso difensore, secondo quando  sembra  potersi
ricavare dai relativi lavori parlamentari, n.d.r.)  e  «l'ineludibile
esigenza» di salvaguardare il legittimo affidamento del dott.  Rossi,
ed, in generale, di tutti gli altri dipendenti pubblici che  si  sono
avvalsi della legge n. 662/1996, nella possibilita' di mantenere  nel
tempo lo stato di avvocati part-time gia' assunto da diversi  anni  -
non si puo' che dubitare della ragionevolezza del sacrificio imposto,
con la  stessa  legge  n.  339/2003,  a  questi  medesimi  dipendenti
pubblici. 
    Costoro, infatti, hanno scelto  di  chiedere  ed  hanno  ottenuto
l'autorizzazione al rapporto di lavoro a tempo  ridotto  al  50%,  e,
quindi, allo svolgimento della professione di avvocato, sulla base di
una precisa previsione normativa contemplata dalla legge n.  662/1996
e ritenuta anche legittima dalla Corte costituzionale con le sentenze
n. 171 del 1999 e n,189 del 2001: due pronunce che hanno senza dubbio
alimentato ulteriormente la loro aspettativa alla  conservazione  del
duplice  «status»  di  dipendenti  pubblici  e  di  avvocati  per  un
prolungato   arco   cronologico,    determinando    indiscutibilmente
quell'affidamento al quale il giudice delle leggi  ha  attribuito  la
natura di valore costituzionalmente  protetto,  peraltro  in  settori
dalla peculiare rilevanza costituzionale come  quelli  del  lavoro  e
della libera iniziativa economica (cfr. gli artt. 4, 35 e 41 Cost.). 
    E',  d'altro  canto,  innegabile  che   la   modifica   normativa
introdotta dalla legge n. 339/2003  abbia  addirittura  sconvolto  la
consolidata  situazione  giuridica  maturata,  sulla   scorta   della
preesistente legge n. 662/1996 reputata costituzionalmente legittima,
in capo al dott. Rossi ed agli altri soggetti che avevano optato  per
il «part-time» e, dunque, per l'esercizio della professione  forense,
i  quali  -  oltre  ad  aver  fatto,  per  l'appunto,  un  sicuro   e
giustificato affidamento di mantenere in futuro  tale  opzione  -  si
sono evidentemente  resi  protagonisti,  in  una  simile  ottica,  di
investimenti intellettuali ed economici finalizzati  all'avvio  della
nuova attivita' professionale, di pregnanti mutamenti  della  propria
impostazione di vita, di inevitabili rinunce a  migliori  prospettive
di carriera nell'ambito della pubblica amministrazione (si consideri,
ad esempio, in relazione a quest'ultimo aspetto, che il  dott.  Rossi
ha dovuto lasciare la Corte di Appello di Napoli, dove, sulla  scorta
dell'allegato ordine di servizio n. 43/1993, gli era stata attribuita
la direzione del Ruolo generale civile, e si e' trasferito presso  il
Tribunale di Nocera Inferiore, n.d.r.). 
    Di qui la probabile lesione di tutta  una  serie  di  consolidate
aspettative, nonche' di un legittimo affidamento nella  certezza  del
diritto e nella sicurezza giuridica: una lesione  che  sembra  chiaro
non  possa  essere  esclusa  solo  in  virtu'  della  gia'  segnalata
concessione del termine di tre anni per esercitare l'imposta  opzione
tra pubblico impiego e professione forense,  nonche'  della  prevista
possibilita' di essere riammessi in servizio  nei  successivi  cinque
anni (cfr. sempre l'art. 2 della legge n. 339/2003),  atteso  che  si
tratta di misure limitate nel tempo e, dunque, palesemente inidonee a
salvaguardare gli illustrati principi costituzionali. 
    Occorre, dunque, concludere,  cosi'  come  hanno  gia'  fatto  le
Sezioni unite della Cassazione con la piu' volte ricordata  ordinanza
n. 24689 del 6 dicembre 2010, per la rilevanza e per la non manifesta
infondatezza della questione  di  legittimita'  costituzionale  degli
artt. 1 e 2 della legge n. 339/2003, nella parte in cui non prevedono
che il regime  di  incompatibilita'  stabilito  nell'art.  1  non  si
applichi  ai  dipendenti  pubblici  a  tempo  parziale  ridotto   non
superiore al 50 per cento del tempo pieno, gia' iscritti  negli  albi
degli avvocati alla data di entrata in vigore della medesima legge n.
339/2003, contemplando, invece, all'art. 2, solo un breve periodo  di
«moratoria» per l'opzione imposta  fra  impiego  ed  esercizio  della
professione, e cio' sia in relazione ai parametri di cui  agli  artt.
3, 4, 35 e 41 della Cost., sia in riferimento  a  quel  canone  della
ragionevolezza intrinseca della legge riconducibile all'art. 3, comma
2 Cost. 
    Va, infine, conseguentemente  accolta  la  formulata  istanza  di
sospensione  dell'esecuzione   del   provvedimento   della   pubblica
amministrazione che  ha  revocato  al  dott.  Rossi  l'autorizzazione
all'esercizio della professione forense, essendo  evidente  il  danno
grave che deriverebbe allo  stesso  dott.  Rossi  dall'efficacia  del
provvedimento medesimo, assunto in applicazione di  una  disposizione
normativa la cui conformita'  ai  principi  costituzionali  e'  stata
rimessa al giudice delle leggi.