LA CORTE DEI CONTI 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza n. 54/A/ORD. nel giudizio in
materia di pensione civile  iscritto  al  n.  4434  del  registro  di
segreteria  promosso  ad  istanza  di  CARTA  CERRELLA  Irene,  nella
qualita' di  procuratrice  generale  della  madre  ZERILLI  Giuseppa,
rappresentata  e  difesa  dall'avv.  Gabriele  Dara,  nei   confronti
dell'I.N.P.S. (gestione  ex  I.N.P.D.A.P.),  rappresentato  e  difeso
dagli avv.ti Maria Assumma e Tiziana Giovanna Norrito, per la riforma
della sentenza n. 2605/2012 emessa dalla Sezione Giurisdizionale  per
la Regione Siciliana. 
    Visto l'atto introduttivo del giudizio depositato  il  26  maggio
2012. 
    Visti gli atti e documenti tutti del fascicolo processuale. 
    Uditi alla pubblica udienza del 26  settembre  2013  il  relatore
Consigliere Pino Zingale, l'avv. Gabriele  Dara  per  l'appellante  e
l'avv. Sparacino, su delega dell'avv. Norrito, per l'I.N.P.S. 
 
                                Fatto 
 
    Con  sentenza  n.  2605/2012  la  Corte  dei  conti   -   Sezione
Giurisdizionale  per  la  Regione  Siciliana,  Giudice  Unico   delle
Pensioni, rigettava due ricorsi riuniti proposti da ZERILLI  Giuseppa
e finalizzati, l'uno ad ottenere la riliquidazione della pensione  di
reversibilita' del defunto coniuge CARTA CERRELLA Antonino,  deceduto
il 9 novembre 2002, in pensione dall'11  novembre  1975,  secondo  il
meccanismo di cui all'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994,
n. 724, e non, come invece  accaduto,  secondo  quello  dell'art.  1,
comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335; l'altro ad impugnare una
nota del dicembre 2006 con la quale la predetta  pensione  era  stata
rideterminata in conformita' a  quanto  previsto  dalla  tabella  "F"
allegata alla legge n. 335/95. 
    Avverso la predetta sentenza ha  interposto  appello  la  signora
Irene CARTA CERRELLA, n.q., lamentando: 
        1) violazione, per il ricorso  relativo  alla  riliquidazione
secondo il meccanismo di cui all'art. 15, comma  5,  della  legge  n.
724/94, dell'art. 6 della CEDU e dell'art. 1 del protocollo  1  della
Convenzione; 
        2) omessa pronuncia, in relazione  al  ricorso  afferente  la
tabella "F", sulla domanda di irripetibilita' delle  somme  percepite
in buona fede. 
    Ha  chiesto,  conclusivamente,   accogliersi   i   ricorsi,   con
dichiarazione del suo diritto  alla  riliquidazione  del  trattamento
pensionistico di reversibilita' secondo il meccanismo di cui all'art.
15, comma 5, della legge n. 724/94, a decorrere dalla data di decesso
del coniuge, a vita, ed in via subordinata  fino  al  dicembre  2006,
oltre accessori di legge e, per quanto riguarda il  secondo  ricorso,
dichiararsi l'irripetibilita' delle somme gia' percepite, perche'  in
buona fede. 
    Si e' costituito in giudizio l'I.N.P.S. con memoria depositata il
13 settembre 2013 ed ha chiesto il rigetto del gravame. 
    Alla pubblica udienza del 26 settembre  2013  le  parti  presenti
hanno insistito nelle rispettive domande di cui agli atti scritti. 
 
                               Diritto 
 
    La questione sottoposta al giudizio di questa Corte  riguarda  la
richiesta di una vedova di un ex dipendente pubblico,  in  quiescenza
da data antecedente al 1° gennaio 1995 e deceduto in data successiva,
di ottenere la riliquidazione della  pensione  di  reversibilita'  ai
sensi dell'art. 15, comma 5, della legge 23  dicembre  1994,  n.  724
(Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), e, dunque,  con
corresponsione dell'indennita' integrativa  speciale  (I.I.S.)  nella
misura piena in applicazione dell'art. 2 della legge 27 maggio  1959,
n. 324 (Miglioramenti economici al personale statale in attivita'  ed
in  quiescenza),  giacche',  per  l'appunto,  avente  causa   da   un
trattamento diretto liquidato in data anteriore al 1° gennaio 1995, e
non gia' nella misura del 60 per cento  del  trattamento  goduto  dal
dante causa, come aveva  invece  provveduto  a  liquidare  l'ente  di
previdenza. 
    E' noto come sul punto, a far data dalla  sentenza  n.  8/2002/QM
delle  Sezioni  Riunite  di  questa  Corte,  si   sia   formata   una
giurisprudenza pressoche' monolitica nel senso di  ritenere  che,  in
ipotesi  di  decesso  del  pensionato,  titolare  di  trattamento  di
quiescenza liquidato  prima  del  1°  gennaio  1995,  il  conseguente
trattamento di reversibilita' dovesse essere in ogni  caso  liquidato
secondo le norme di cui al  predetto  art.  15,  comma  5,  legge  n.
724/94, indipendentemente dalla data del decesso medesimo. 
    Sennonche', successivamente, con i commi 774 e  776  dell'art.  1
della legge 27 dicembre 2006, n. 296, il legislatore ha disposto  che
l'estensione della disciplina del trattamento pensionistico a  favore
dei superstiti di assicurato e  pensionato  vigente  nell'ambito  del
regime dell'assicurazione generale  obbligatoria  a  tutte  le  forme
esclusive e sostitutive di detto regime prevista dall'art.  1,  comma
42, delle legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpretasse nel senso che
per le pensioni di reversibilita' sorte a decorrere  dall'entrata  in
vigore della legge 8 agosto 1995,  n.  335,  indipendentemente  dalla
data di decorrenza della pensione diretta,  l'indennita'  integrativa
speciale gia' in godimento da parte del dante causa, parte integrante
del complessivo trattamento pensionistico percepito,  sia  attribuita
nella   misura   percentuale   prevista   per   il   trattamento   di
reversibilita', stabilendo nel contempo che sia abrogato  l'art.  15,
comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724. 
    I  giudici  di  merito   non   ritennero   di   potere   recepire
pacificamente il nuovo orientamento del legislatore  e,  intravedendo
alcuni  profili  di  incostituzionalita'  della   nuova   disciplina,
rimisero  la  questione  alla  Corte  Costituzionale  la  quale,  con
sentenza  n.74/2008,  dichiaro'   non   fondate   le   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 774,  della  legge  27
dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale  e  pluriennale  dello  Stato  -  legge  finanziaria   2007),
sollevate in riferimento all'art. 3 della Costituzione. 
    Nell'odierno atto di appello l'interessata torna ad  invocare  la
violazione dell'art. 6 e dell'art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU -  gia'
prospettata in primo grado e risolta negativamente dal  Giudice  -  e
chiede che il ricorso sia deciso in conformita' ai principi enunciati
nella sentenza emessa dalla Corte Europea  dei  Diritti  dell'Uomo  -
Sezione 2ª, nel ricorso sul caso AGRATI ed altri contro ITALIA, del 7
giugno 2011. 
    Il Collegio osserva, innanzi tutto,  che  l'unico  strumento  per
potere valorizzare la  CEDU,  cosi'  come  interpretata  dalla  Corte
Europea dei Diritti  dell'Uomo,  consiste,  in  atto,  nel  sollevare
questione di legittimita' costituzionale della norma nazionale che si
assume essere stata posta in essere  in  contrasto  con  la  predetta
Convenzione, e cio' in violazione dell'art. 117 Cost., cosi' come  ha
chiarito la Corte Costituzionale con le due importanti  sentenze  nn.
348 e 349 del 2007. 
    Nel caso richiamato dall'appellante, la Corte Europea dei Diritti
dell'Uomo ha rammentato di avere constatato una duplice violazione. 
    In  primo  luogo,  l'intervento  legislativo   controverso,   che
decideva in via definitiva, e  in  maniera  retroattiva,  sul  merito
della  controversia  pendente  davanti  ai  giudici  interni  tra   i
ricorrenti e lo Stato, non era giustificato da ragioni imperative  di
interesse generale e vi era quindi violazione  dell'articolo  6  §  1
della Convenzione. 
    In   secondo   luogo,   i   ricorrenti    beneficiavano,    prima
dell'intervento  della  legge  finanziaria  2007,  di  un   interesse
patrimoniale che costituiva, se non un credito  nei  confronti  della
parte avversa, per lo meno  una  «legittima  aspettativa»  di  potere
ottenere il pagamento delle somme controverse. 
    Ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n.  1,  tale  aspettativa
costituiva un «bene». 
    La Corte ha poi giudicato che l'adozione  dell'articolo  1  della
legge finanziaria 2007 ha imposto ai ricorrenti un «onere anomalo  ed
esorbitante» e che il pregiudizio arrecato  ai  loro  beni  e'  stato
talmente sproporzionato da  alterare  il  giusto  equilibrio  tra  le
esigenze  dell'interesse  generale  e  la  salvaguardia  dei  diritti
fondamentali degli individui. 
    La   Corte,   poi,   ha   notato   che   il   principio   sotteso
all'attribuzione dell'equa  soddisfazione  e'  ben  consolidato:  per
quanto possibile, e' necessario porre l'interessato in una situazione
corrispondente a quella in cui si troverebbe se la  violazione  della
Convenzione non fosse avvenuta (si veda, mutatis  mutandis,  Kingsley
c. Regno Unito [GC], n. 35605/97, § 40, CEDU 2002-IV; si vedano anche
Smith e Grady c. Regno Unito [equa soddisfazione], n. 33985/96  e  n.
33986/96, § 18, CEDU 2000 IX). Del resto, la condizione sine qua  non
per  l'attribuzione  del  risarcimento   del   danno   materiale   e'
l'esistenza di un nesso di causalita' tra il danno  denunciato  e  la
violazione constatata (Nikolova c. Bulgaria [GC], n. 31195/96, §  73,
CEDU 1999-II). 
    La stessa Corte ha sottolineato  come,  nel  caso  all'esame,  la
giurisprudenza della Corte di cassazione fosse,  prima  dell'adozione
della legge controversa, favorevole alla  posizione  dei  ricorrenti.
Cosi',  se  non  si  fosse  verificata   nessuna   violazione   della
Convenzione,   la   situazione   dei   ricorrenti    sarebbe    stata
verosimilmente  diversa,  dato  che  essi  avrebbero  potuto  vedersi
riconoscere l'anzianita' maturata presso gli enti  locali.  Pertanto,
Ia Corte ne deduce che la violazione della Convenzione constatata nel
caso di specie e' suscettibile di  avere  causato  ai  ricorrenti  un
danno materiale. 
    In sintesi, quindi, la Corte Europea ha  affermato  che,  benche'
non sia precluso  al  legislatore  di  disciplinare,  mediante  nuove
disposizioni retroattive, diritti derivanti da leggi  in  vigore,  il
principio di certezza del diritto  e  la  nozione  di  processo  equo
contenuti nell'articolo 6  impediscono,  tranne  che  per  impellenti
motivi di interesse generale, ogni ingerenza del  potere  legislativo
nell'amministrazione  della  giustizia  al  fine  di  influire  sulla
conclusione giudiziaria di una lite. Nel caso  di  specie,  lo  Stato
italiano aveva violato l'art. 6 par. 1 CEDU, essendo esso intervenuto
con una norma ad hoc al fine di assicurarsi un esito  favorevole  nei
giudizi di cui era parte. 
    Secondo la Corte, quindi, l'ingerenza nel diritto al rispetto dei
beni  deve  garantire  un   giusto   equilibrio   tra   le   esigenze
dell'interesse  generale  della  comunita'  e  gli  imperativi  della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo;  deve  altresi'
esistere un ragionevole rapporto  di  proporzionalita'  tra  i  mezzi
impiegati e lo scopo perseguito da qualsiasi misura  privativa  della
proprieta'.  Nel  caso  di  specie,   l'adozione   della   legge   di
interpretazione  autentica,  avendo  privato  in  via  definitiva   i
ricorrenti  della  possibilita'   di   ottenere   il   riconoscimento
dell'anzianita'  di  servizio  pregressa,  costituisce  un  attentato
sproporzionato ai loro beni, spezzando il giusto  equilibrio  tra  le
esigenze  di  interesse  generale  e  la  salvaguardia  dei   diritti
fondamentali dell'individuo. 
    Alla predetta pronuncia la Corte Europea e' pervenuta nonostante,
in quella fattispecie, la Corte costituzionale avesse gia'  esaminato
la vicenda ritenendo la norma sopravvenuta conforme a Costituzione ed
alla CEDU. 
    Orbene, la questione  sottoposta  al  giudizio  di  questa  Corte
sembra ripercorrere puntualmente la fattispecie gia' esaminata  dalla
Corte Europea con riferimento ad altra normativa. 
    Si tratta, nella fattispecie,  del  diritto  alla  riliquidazione
della pensione di reversibilita' che, a far data  dalla  sentenza  n.
8/QM/2002 delle Sezioni Riunite di questa  Corte,  avveniva,  per  le
pensioni dirette con decorrenza anteriore al 1° gennaio 1995, con  le
modalita'  di  cui  all'art.  15,   comma   5,   legge   n.   724/94,
indipendentemente dalla data del decesso del dante causa. 
    Una giurisprudenza gia' ampiamente maggioritaria che,  a  seguito
della citata pronuncia delle SS.RR.,  ebbe  a  divenire  praticamente
monolitica. 
    Sennonche', successivamente, a ben quattro anni di distanza,  con
i commi 774 e 776 dell'art.  1  della  legge  n.  296  del  2006,  il
legislatore  ha  disposto  che  l'estensione  della  disciplina   del
trattamento pensionistico a favore dei  superstiti  di  assicurato  e
pensionato vigente nell'ambito del regime dell'assicurazione generale
obbligatoria a tutte le forme esclusive e sostitutive di detto regime
prevista dall'art. 1, comma 42, delle legge 8 agosto 1995, n. 335, si
interpretasse nel senso che per le pensioni di reversibilita' sorte a
decorrere  dall'entrata  in   vigore   della   legge   n.   335/1995,
indipendentemente dalla data di decorrenza  della  pensione  diretta,
l'indennita' integrativa speciale gia'  in  godimento  da  parte  del
dante   causa,   parte   integrante   del   complessivo   trattamento
pensionistico percepito, fosse attribuita  nella  misura  percentuale
prevista  per  il  trattamento  di  reversibilita',  stabilendo   nel
contempo l'abrogazione dell'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre
1994, n. 724. 
    Qualora non ci fosse stato tale intervento  legislativo,  quindi,
tutti coloro che a quella data - come l'odierna appellante -  avevano
in corso  un  contenzioso  sul  punto,  sicuramente  avrebbero  visto
accolto il loro ricorso. 
    La normativa sopravvenuta,  invece,  ha  determinato  il  rigetto
della domanda, con  un  danno  non  trascurabile  in  relazione  alla
condizione di pensionato di tutti gli interessati. 
    L'intervento  (rectius:  ingerenza)  del  legislatore,  peraltro,
appare alieno, nel caso di specie, dal garantire un giusto equilibrio
tra  le  esigenze  dell'interesse  generale  della  comunita'  e  gli
imperativi    della    salvaguardia    dei    diritti    fondamentali
dell'individuo,    limitandosi    a    falcidiare    una    posizione
giuridico-economica che, alla luce  del  diritto  vivente  scaturente
dall'interpretazione  giurisprudenziale,  apparteneva  al  patrimonio
degli interessati,  senza  che  fossero  evidenziati  gli  ingenti  e
preminenti interessi generali da salvaguardare, anche alla  luce  del
fatto che, in ogni caso, la fattispecie era,  fino  a  quel  momento,
assai limitata dal punto di vista quantitativo e, comunque,  tale  da
non potere certamente attentare agli equilibri finanziari di bilancio
nazionali, tant'e' che il legislatore,  nonostante  ben  conscio  del
pacifico orientamento giurisprudenziale in essere fin  dal  2002,  ha
atteso fino al 2006 per operare un qualche intervento correttivo. 
    Tale intervento non appare neppure assistito  da  un  ragionevole
rapporto di  proporzionalita'  tra  i  mezzi  impiegati  e  lo  scopo
conseguito,   restando   indimostrati   gli   apprezzabili    effetti
contenitivi della spesa pubblica nel settore previdenziale  che,  per
altro  verso,  si  sarebbero  potuti  conseguire  solo   intervenendo
innovativamente  sulle  future  pensioni  di  reversibilita',   senza
intaccare le limitate  posizioni  gia'  maturate  a  quella  data  e,
quindi, senza ricorrere ad una  interpretazione  autentica  e  ad  un
correlato effetto retroattivo. 
    Nel caso di specie, come gia' in quello oggetto di esame da parte
della Corte Europea e sopra richiamato,  l'adozione  della  legge  di
interpretazione  autentica,  avendo  privato  in  via  definitiva   i
ricorrenti della  possibilita'  di  ottenere  il  riconoscimento  del
diritto  alla  piu'  favorevole  liquidazione   della   pensione   di
reversibilita', costituisce un attentato sproporzionato ai loro beni,
spezzando il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse  generale
e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo. 
    I commi 774 e 776 dell'art.  1  della  legge  n.  296  del  2006,
pertanto, nella parte in cui incidono sui giudizi pendenti alla  data
della loro entrata in vigore, sembrerebbero collidere con l'art. 117,
comma 1, Cost., per violazione dell'art. 6 della CEDU e dell'art.  1,
del protocollo 1, della Convenzione medesima. 
    Il Collegio non ignora che le suddette modifiche normative  poste
dalla legge n. 296/2006 sono state gia', in  passato,  sospettate  di
incostituzionalita' e che il Giudice delle leggi con la  sentenza  n.
74/08  ha  statuito  che  "la  norma   censurata,   ove   considerata
espressione  di  funzione  di  interpretazione  autentica,  non  puo'
considerarsi lesiva dei canoni costituzionali  di  ragionevolezza,  e
dei principi generali  di  tutela  del  legittimo  affidamento  e  di
certezza delle situazioni giuridiche, atteso che essa  si  limita  ad
assegnare alla disposizione interpretata un significato riconoscibile
come una delle possibili letture del testo originario (si veda  anche
la  sentenza  n.  274  del  2006),  senza,  peraltro,  che   siffatta
operazione debba essere necessariamente volta  a  comporre  contrasti
giurisprudenziali,  ben   potendo   il   legislatore   precisare   il
significato di norme in presenza di indirizzi omogenei  (sentenze  n.
374 del 2002, n. 29 del 2002 e a 525 del 2000)". 
    La  norma   censurata,   prosegue   la   sentenza   della   Corte
Costituzionale,  "...  pone  in  rilievo  due  dati  essenziali:   a)
l'indipendenza  del  trattamento  pensionistico   di   reversibilita'
rispetto alla data di liquidazione della pensione diretta  del  dante
causa; b) la  decorrenza  della  estensione  della  disciplina  della
pensione  di  reversibilita'  prevista  dall'assicurazione   generale
obbligatoria a tutte le forme esclusive o sostitutive di detto regime
dalla data di  entrata  in  vigore  della  legge  n.  335  del  1995,
riaffermando cosi'  il  principio  dell'autonomia  del  diritto  alla
pensione  di  reversibilita'  come  diritto   originario;   principio
ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza n.  446  del  2002
(con la quale era stata dichiarata non fondata proprio  la  questione
di costituzionalita' dell'art. 1, comma  41,  della  legge  8  agosto
1995, n. 335)". 
    Nel contesto di siffatta operazione, precisa  ancora  il  Giudice
delle  leggi,  "non  puo'   reputarsi   contraddittoria,   e   dunque
irragionevole, l'abrogazione - ad opera del  comma  776  dell'art.  1
della legge n. 296 del 2006  -  del  comma  5  dell'art.  15  citato,
giacche'  essa  risulta  rispondente  ad  una  esigenza   di   ordine
sistematico imposta proprio dalle vicende che hanno  segnato  la  sua
applicazione". 
    Del  pari,  non  ignora  il  Collegio   che   la   stessa   Corte
Costituzionale, con la sentenza n. 1/2011,  proprio  con  riferimento
alla normativa qui in discussione, abbia  evidenziato,  relativamente
all'applicazione, da parte della Corte  di  Strasburgo,  dell'art.  6
della  CEDU,  in  relazione  alle  norme   nazionali   interpretative
concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali  e'  parte
Io  Stato,  che  la  legittimita'  di  tali   interventi   e'   stata
riconosciuta: 1) in presenza di "ragioni storiche epocali", come  nel
caso della riunificazione  tedesca,  unitamente  alla  considerazione
«della sussistenza effettiva di un sistema che aveva  garantito  alle
parti, che contestavano le modalita' del riassetto, l'accesso a, e Io
svolgimento di, un processo equo e garantito» (caso Forrer-Niederthal
c. Germania, sentenza del 20  febbraio  2003);  2)  per  «ristabilire
un'interpretazione  piu'   aderente   all'originaria   volonta'   del
legislatore», al fine di «porre rimedio ad una  imperfezione  tecnica
della  legge  interpretata»  (sentenza  23  ottobre  1997,  nel  caso
National & Provincial  Building  Society,  Leeds  Permanent  Building
Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito; sentenza del  27
maggio 2004, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie  X  e  Blanche  De
Castille e altri c. Francia). 
    Alla stregua di quanto evidenziato dalla citata sentenza  n.  311
del 2009 nella  vicenda  scrutinata  dalla  Corte  Costituzionale,  i
principi in  materia  richiamati  dalla  giurisprudenza  delle  Corte
europea,   ad   avviso   della   Corte    costituzionale    medesima,
«costituiscono espressione di quegli stessi principi di  uguaglianza,
in  particolare  sotto  il  profilo  della  parita'  delle  armi  nel
processo, ragionevolezza, tutela del legittimo  affidamento  e  della
certezza delle situazioni giuridiche  che  questa  Corte  ha  escluso
siano stati vulnerati dalla norma qui censurata». 
    Peraltro,   in   quell'occasione   fu   anche    soggiunto    che
l'identificazione dei "motivi imperativi d'interesse  generale",  che
suggeriscono al legislatore nazionale interventi  interpretativi,  e'
opportuno che sia in parte lasciata  agli  stessi  Stati  contraenti,
«trattandosi,  tra  l'altro,  degli  interessi  che  sono  alla  base
dell'esercizio del potere legislativo», considerato che «le decisioni
in questo campo implicano, infatti, una  valutazione  sistematica  di
profili  costituzionali,  politici,   economici,   amministrativi   e
sociali». 
    In  tale  complessiva  cornice  cosi   tratteggiata,   la   Corte
costituzionale ritenne che le denunciate norme di cui ai  commi  774,
775 e 776 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n.  296,  fossero
effettivamente  interpretative  e  assumessero  come   referente   un
orientamento giurisprudenziale presente, seppur minoritario, cosi  da
scegliere, «in definitiva, uno dei possibili significati della  norma
interpretata». 
    Inoltre, se si tiene presente che nella  fattispecie  vengono  in
evidenza rapporti di durata, ritenne la Corte costituzionale che  non
potesse   parlarsi   di   un   legittimo   affidamento   nella   loro
immutabilita', mentre d'altro canto si deve tenere  conto  del  fatto
che le  innovazioni  che  sono  state  apportate,  e  che  non  hanno
trascurato del tutto i diritti acquisiti, hanno non irragionevolmente
mirato alla armonizzazione e  perequazione  di  tutti  i  trattamenti
pensionistici, pubblici e privati. La legge n. 335 del 1995, infatti,
avrebbe   costituito   "il   primo   approdo   di   un    progressivo
riavvicinamento  della  pluralita'  dei  sistemi  pensionistici,  con
effetti  strutturali  sulla  spesa  pubblica  e  sugli  equilibri  di
bilancio, anche ai fini del rispetto  degli  obblighi  comunitari  in
terna di patto di stabilita' economica  finanziaria  nelle  more  del
passaggio alla moneta unica europea". 
    Da qui, pertanto, la dichiarata non fondatezza  della  questione,
sotto i profili di censura che evocano la lesione  degli  artt.  117,
primo comma, Cost. e 6 CEDU. 
    Le argomentazioni seguite  dalla  Corte  costituzionale,  per  un
verso, sembrerebbero postulare che la riforma operata con la legge n.
335/95 possa qualificarsi come dettata da "ragioni storiche  epocali"
e, per altro verso, che il legislatore abbia inteso «porre rimedio ad
una imperfezione tecnica della legge interpretata». 
    Ne' l'una, ne' l'altra asserzione danno, ad avviso del  Collegio,
effettiva contezza della realta' storica e giuridica nella  quale  la
norma di interpretazione autentica e' andata ad incidere. 
    Intanto, la legge n. 335/95  e',  molto  piu'  modestamente,  una
legge di armonizzazione del sistema pensionistico che, pur nella  sua
innegabile rilevanza sotto il profilo degli equilibri finanziari  del
sistema  medesimo,  non  puo'  certo  assurgere  a  "ragione  storica
epocale". 
    In secondo luogo, come peraltro gia' chiarito, dopo  la  sentenza
n. 8/QM/2002 delle Sezioni Riunite di questa Corte, la giurisprudenza
non ebbe piu' nessun  dubbio  sulla  corretta  interpretazione  delle
norme che, pertanto, furono letteralmente sovvertite (a  distanza  di
ben quattro anni dal 2002) dall'intervento del legislatore. 
    Da  ultimo,  la  Corte  costituzionale,  nella   sentenza   sopra
richiamata, non ha potuto tenere conto  dell'ulteriore  sviluppo,  in
tema di art. 6 CEDU, della giurisprudenza della  Corte  Europea,  nei
termini sopra richiamati e  contenuti  nella  sentenza  emessa  dalla
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - Sezione  2ª,  nel  ricorso  sul
caso AGRATI ed altri contro ITALIA, del 7 giugno  2011,  specialmente
con riferimento alla qualificazione dell'aspettativa - in rapporti di
durata - come "bene", dalla cui lesione, quindi, deriva la violazione
dell'art. 6 della  CEDU  e  dell'art.  1,  del  protocollo  1,  della
Convenzione medesima. 
    Sussistono, pertanto, i necessari requisiti per  potere  ritenere
la  questione  di  legittimita'  costituzionale  non   manifestamente
infondata. 
    La questione, poi, e' rilevante ai  fini  del  decidere,  poiche'
dalla dichiarazione di incostituzionalita' della norma  in  questione
potrebbe derivare un  accoglimento  del  gravame,  in  linea  con  la
giurisprudenza favorevole all'appellante formatasi prima della  norma
di interpretazione autentica. 
    In   conclusione,   il   Collegio   ritiene   rilevante   e   non
manifestamente infondata la questione di costituzionalita' di cui  in
dispositivo, che pertanto, con la presente ordinanza, viene sollevata
e rimessa al vaglio del Giudice delle leggi. 
    Il  giudizio  e'  sospeso  fino  alla   pronuncia   della   Corte
Costituzionale.