LA CORTE DEI CONTI Ha pronunciato la seguente ordinanza n. 54/A/ORD. nel giudizio in materia di pensione civile iscritto al n. 4434 del registro di segreteria promosso ad istanza di CARTA CERRELLA Irene, nella qualita' di procuratrice generale della madre ZERILLI Giuseppa, rappresentata e difesa dall'avv. Gabriele Dara, nei confronti dell'I.N.P.S. (gestione ex I.N.P.D.A.P.), rappresentato e difeso dagli avv.ti Maria Assumma e Tiziana Giovanna Norrito, per la riforma della sentenza n. 2605/2012 emessa dalla Sezione Giurisdizionale per la Regione Siciliana. Visto l'atto introduttivo del giudizio depositato il 26 maggio 2012. Visti gli atti e documenti tutti del fascicolo processuale. Uditi alla pubblica udienza del 26 settembre 2013 il relatore Consigliere Pino Zingale, l'avv. Gabriele Dara per l'appellante e l'avv. Sparacino, su delega dell'avv. Norrito, per l'I.N.P.S. Fatto Con sentenza n. 2605/2012 la Corte dei conti - Sezione Giurisdizionale per la Regione Siciliana, Giudice Unico delle Pensioni, rigettava due ricorsi riuniti proposti da ZERILLI Giuseppa e finalizzati, l'uno ad ottenere la riliquidazione della pensione di reversibilita' del defunto coniuge CARTA CERRELLA Antonino, deceduto il 9 novembre 2002, in pensione dall'11 novembre 1975, secondo il meccanismo di cui all'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e non, come invece accaduto, secondo quello dell'art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335; l'altro ad impugnare una nota del dicembre 2006 con la quale la predetta pensione era stata rideterminata in conformita' a quanto previsto dalla tabella "F" allegata alla legge n. 335/95. Avverso la predetta sentenza ha interposto appello la signora Irene CARTA CERRELLA, n.q., lamentando: 1) violazione, per il ricorso relativo alla riliquidazione secondo il meccanismo di cui all'art. 15, comma 5, della legge n. 724/94, dell'art. 6 della CEDU e dell'art. 1 del protocollo 1 della Convenzione; 2) omessa pronuncia, in relazione al ricorso afferente la tabella "F", sulla domanda di irripetibilita' delle somme percepite in buona fede. Ha chiesto, conclusivamente, accogliersi i ricorsi, con dichiarazione del suo diritto alla riliquidazione del trattamento pensionistico di reversibilita' secondo il meccanismo di cui all'art. 15, comma 5, della legge n. 724/94, a decorrere dalla data di decesso del coniuge, a vita, ed in via subordinata fino al dicembre 2006, oltre accessori di legge e, per quanto riguarda il secondo ricorso, dichiararsi l'irripetibilita' delle somme gia' percepite, perche' in buona fede. Si e' costituito in giudizio l'I.N.P.S. con memoria depositata il 13 settembre 2013 ed ha chiesto il rigetto del gravame. Alla pubblica udienza del 26 settembre 2013 le parti presenti hanno insistito nelle rispettive domande di cui agli atti scritti. Diritto La questione sottoposta al giudizio di questa Corte riguarda la richiesta di una vedova di un ex dipendente pubblico, in quiescenza da data antecedente al 1° gennaio 1995 e deceduto in data successiva, di ottenere la riliquidazione della pensione di reversibilita' ai sensi dell'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), e, dunque, con corresponsione dell'indennita' integrativa speciale (I.I.S.) nella misura piena in applicazione dell'art. 2 della legge 27 maggio 1959, n. 324 (Miglioramenti economici al personale statale in attivita' ed in quiescenza), giacche', per l'appunto, avente causa da un trattamento diretto liquidato in data anteriore al 1° gennaio 1995, e non gia' nella misura del 60 per cento del trattamento goduto dal dante causa, come aveva invece provveduto a liquidare l'ente di previdenza. E' noto come sul punto, a far data dalla sentenza n. 8/2002/QM delle Sezioni Riunite di questa Corte, si sia formata una giurisprudenza pressoche' monolitica nel senso di ritenere che, in ipotesi di decesso del pensionato, titolare di trattamento di quiescenza liquidato prima del 1° gennaio 1995, il conseguente trattamento di reversibilita' dovesse essere in ogni caso liquidato secondo le norme di cui al predetto art. 15, comma 5, legge n. 724/94, indipendentemente dalla data del decesso medesimo. Sennonche', successivamente, con i commi 774 e 776 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, il legislatore ha disposto che l'estensione della disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato vigente nell'ambito del regime dell'assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive e sostitutive di detto regime prevista dall'art. 1, comma 42, delle legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpretasse nel senso che per le pensioni di reversibilita' sorte a decorrere dall'entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, l'indennita' integrativa speciale gia' in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, sia attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilita', stabilendo nel contempo che sia abrogato l'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724. I giudici di merito non ritennero di potere recepire pacificamente il nuovo orientamento del legislatore e, intravedendo alcuni profili di incostituzionalita' della nuova disciplina, rimisero la questione alla Corte Costituzionale la quale, con sentenza n.74/2008, dichiaro' non fondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 774, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), sollevate in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Nell'odierno atto di appello l'interessata torna ad invocare la violazione dell'art. 6 e dell'art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU - gia' prospettata in primo grado e risolta negativamente dal Giudice - e chiede che il ricorso sia deciso in conformita' ai principi enunciati nella sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - Sezione 2ª, nel ricorso sul caso AGRATI ed altri contro ITALIA, del 7 giugno 2011. Il Collegio osserva, innanzi tutto, che l'unico strumento per potere valorizzare la CEDU, cosi' come interpretata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, consiste, in atto, nel sollevare questione di legittimita' costituzionale della norma nazionale che si assume essere stata posta in essere in contrasto con la predetta Convenzione, e cio' in violazione dell'art. 117 Cost., cosi' come ha chiarito la Corte Costituzionale con le due importanti sentenze nn. 348 e 349 del 2007. Nel caso richiamato dall'appellante, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha rammentato di avere constatato una duplice violazione. In primo luogo, l'intervento legislativo controverso, che decideva in via definitiva, e in maniera retroattiva, sul merito della controversia pendente davanti ai giudici interni tra i ricorrenti e lo Stato, non era giustificato da ragioni imperative di interesse generale e vi era quindi violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione. In secondo luogo, i ricorrenti beneficiavano, prima dell'intervento della legge finanziaria 2007, di un interesse patrimoniale che costituiva, se non un credito nei confronti della parte avversa, per lo meno una «legittima aspettativa» di potere ottenere il pagamento delle somme controverse. Ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, tale aspettativa costituiva un «bene». La Corte ha poi giudicato che l'adozione dell'articolo 1 della legge finanziaria 2007 ha imposto ai ricorrenti un «onere anomalo ed esorbitante» e che il pregiudizio arrecato ai loro beni e' stato talmente sproporzionato da alterare il giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui. La Corte, poi, ha notato che il principio sotteso all'attribuzione dell'equa soddisfazione e' ben consolidato: per quanto possibile, e' necessario porre l'interessato in una situazione corrispondente a quella in cui si troverebbe se la violazione della Convenzione non fosse avvenuta (si veda, mutatis mutandis, Kingsley c. Regno Unito [GC], n. 35605/97, § 40, CEDU 2002-IV; si vedano anche Smith e Grady c. Regno Unito [equa soddisfazione], n. 33985/96 e n. 33986/96, § 18, CEDU 2000 IX). Del resto, la condizione sine qua non per l'attribuzione del risarcimento del danno materiale e' l'esistenza di un nesso di causalita' tra il danno denunciato e la violazione constatata (Nikolova c. Bulgaria [GC], n. 31195/96, § 73, CEDU 1999-II). La stessa Corte ha sottolineato come, nel caso all'esame, la giurisprudenza della Corte di cassazione fosse, prima dell'adozione della legge controversa, favorevole alla posizione dei ricorrenti. Cosi', se non si fosse verificata nessuna violazione della Convenzione, la situazione dei ricorrenti sarebbe stata verosimilmente diversa, dato che essi avrebbero potuto vedersi riconoscere l'anzianita' maturata presso gli enti locali. Pertanto, Ia Corte ne deduce che la violazione della Convenzione constatata nel caso di specie e' suscettibile di avere causato ai ricorrenti un danno materiale. In sintesi, quindi, la Corte Europea ha affermato che, benche' non sia precluso al legislatore di disciplinare, mediante nuove disposizioni retroattive, diritti derivanti da leggi in vigore, il principio di certezza del diritto e la nozione di processo equo contenuti nell'articolo 6 impediscono, tranne che per impellenti motivi di interesse generale, ogni ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia al fine di influire sulla conclusione giudiziaria di una lite. Nel caso di specie, lo Stato italiano aveva violato l'art. 6 par. 1 CEDU, essendo esso intervenuto con una norma ad hoc al fine di assicurarsi un esito favorevole nei giudizi di cui era parte. Secondo la Corte, quindi, l'ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve garantire un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della comunita' e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo; deve altresi' esistere un ragionevole rapporto di proporzionalita' tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito da qualsiasi misura privativa della proprieta'. Nel caso di specie, l'adozione della legge di interpretazione autentica, avendo privato in via definitiva i ricorrenti della possibilita' di ottenere il riconoscimento dell'anzianita' di servizio pregressa, costituisce un attentato sproporzionato ai loro beni, spezzando il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo. Alla predetta pronuncia la Corte Europea e' pervenuta nonostante, in quella fattispecie, la Corte costituzionale avesse gia' esaminato la vicenda ritenendo la norma sopravvenuta conforme a Costituzione ed alla CEDU. Orbene, la questione sottoposta al giudizio di questa Corte sembra ripercorrere puntualmente la fattispecie gia' esaminata dalla Corte Europea con riferimento ad altra normativa. Si tratta, nella fattispecie, del diritto alla riliquidazione della pensione di reversibilita' che, a far data dalla sentenza n. 8/QM/2002 delle Sezioni Riunite di questa Corte, avveniva, per le pensioni dirette con decorrenza anteriore al 1° gennaio 1995, con le modalita' di cui all'art. 15, comma 5, legge n. 724/94, indipendentemente dalla data del decesso del dante causa. Una giurisprudenza gia' ampiamente maggioritaria che, a seguito della citata pronuncia delle SS.RR., ebbe a divenire praticamente monolitica. Sennonche', successivamente, a ben quattro anni di distanza, con i commi 774 e 776 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, il legislatore ha disposto che l'estensione della disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato vigente nell'ambito del regime dell'assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive e sostitutive di detto regime prevista dall'art. 1, comma 42, delle legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpretasse nel senso che per le pensioni di reversibilita' sorte a decorrere dall'entrata in vigore della legge n. 335/1995, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, l'indennita' integrativa speciale gia' in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, fosse attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilita', stabilendo nel contempo l'abrogazione dell'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724. Qualora non ci fosse stato tale intervento legislativo, quindi, tutti coloro che a quella data - come l'odierna appellante - avevano in corso un contenzioso sul punto, sicuramente avrebbero visto accolto il loro ricorso. La normativa sopravvenuta, invece, ha determinato il rigetto della domanda, con un danno non trascurabile in relazione alla condizione di pensionato di tutti gli interessati. L'intervento (rectius: ingerenza) del legislatore, peraltro, appare alieno, nel caso di specie, dal garantire un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della comunita' e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo, limitandosi a falcidiare una posizione giuridico-economica che, alla luce del diritto vivente scaturente dall'interpretazione giurisprudenziale, apparteneva al patrimonio degli interessati, senza che fossero evidenziati gli ingenti e preminenti interessi generali da salvaguardare, anche alla luce del fatto che, in ogni caso, la fattispecie era, fino a quel momento, assai limitata dal punto di vista quantitativo e, comunque, tale da non potere certamente attentare agli equilibri finanziari di bilancio nazionali, tant'e' che il legislatore, nonostante ben conscio del pacifico orientamento giurisprudenziale in essere fin dal 2002, ha atteso fino al 2006 per operare un qualche intervento correttivo. Tale intervento non appare neppure assistito da un ragionevole rapporto di proporzionalita' tra i mezzi impiegati e lo scopo conseguito, restando indimostrati gli apprezzabili effetti contenitivi della spesa pubblica nel settore previdenziale che, per altro verso, si sarebbero potuti conseguire solo intervenendo innovativamente sulle future pensioni di reversibilita', senza intaccare le limitate posizioni gia' maturate a quella data e, quindi, senza ricorrere ad una interpretazione autentica e ad un correlato effetto retroattivo. Nel caso di specie, come gia' in quello oggetto di esame da parte della Corte Europea e sopra richiamato, l'adozione della legge di interpretazione autentica, avendo privato in via definitiva i ricorrenti della possibilita' di ottenere il riconoscimento del diritto alla piu' favorevole liquidazione della pensione di reversibilita', costituisce un attentato sproporzionato ai loro beni, spezzando il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo. I commi 774 e 776 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, pertanto, nella parte in cui incidono sui giudizi pendenti alla data della loro entrata in vigore, sembrerebbero collidere con l'art. 117, comma 1, Cost., per violazione dell'art. 6 della CEDU e dell'art. 1, del protocollo 1, della Convenzione medesima. Il Collegio non ignora che le suddette modifiche normative poste dalla legge n. 296/2006 sono state gia', in passato, sospettate di incostituzionalita' e che il Giudice delle leggi con la sentenza n. 74/08 ha statuito che "la norma censurata, ove considerata espressione di funzione di interpretazione autentica, non puo' considerarsi lesiva dei canoni costituzionali di ragionevolezza, e dei principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche, atteso che essa si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (si veda anche la sentenza n. 274 del 2006), senza, peraltro, che siffatta operazione debba essere necessariamente volta a comporre contrasti giurisprudenziali, ben potendo il legislatore precisare il significato di norme in presenza di indirizzi omogenei (sentenze n. 374 del 2002, n. 29 del 2002 e a 525 del 2000)". La norma censurata, prosegue la sentenza della Corte Costituzionale, "... pone in rilievo due dati essenziali: a) l'indipendenza del trattamento pensionistico di reversibilita' rispetto alla data di liquidazione della pensione diretta del dante causa; b) la decorrenza della estensione della disciplina della pensione di reversibilita' prevista dall'assicurazione generale obbligatoria a tutte le forme esclusive o sostitutive di detto regime dalla data di entrata in vigore della legge n. 335 del 1995, riaffermando cosi' il principio dell'autonomia del diritto alla pensione di reversibilita' come diritto originario; principio ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 446 del 2002 (con la quale era stata dichiarata non fondata proprio la questione di costituzionalita' dell'art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335)". Nel contesto di siffatta operazione, precisa ancora il Giudice delle leggi, "non puo' reputarsi contraddittoria, e dunque irragionevole, l'abrogazione - ad opera del comma 776 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 - del comma 5 dell'art. 15 citato, giacche' essa risulta rispondente ad una esigenza di ordine sistematico imposta proprio dalle vicende che hanno segnato la sua applicazione". Del pari, non ignora il Collegio che la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 1/2011, proprio con riferimento alla normativa qui in discussione, abbia evidenziato, relativamente all'applicazione, da parte della Corte di Strasburgo, dell'art. 6 della CEDU, in relazione alle norme nazionali interpretative concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali e' parte Io Stato, che la legittimita' di tali interventi e' stata riconosciuta: 1) in presenza di "ragioni storiche epocali", come nel caso della riunificazione tedesca, unitamente alla considerazione «della sussistenza effettiva di un sistema che aveva garantito alle parti, che contestavano le modalita' del riassetto, l'accesso a, e Io svolgimento di, un processo equo e garantito» (caso Forrer-Niederthal c. Germania, sentenza del 20 febbraio 2003); 2) per «ristabilire un'interpretazione piu' aderente all'originaria volonta' del legislatore», al fine di «porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata» (sentenza 23 ottobre 1997, nel caso National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito; sentenza del 27 maggio 2004, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia). Alla stregua di quanto evidenziato dalla citata sentenza n. 311 del 2009 nella vicenda scrutinata dalla Corte Costituzionale, i principi in materia richiamati dalla giurisprudenza delle Corte europea, ad avviso della Corte costituzionale medesima, «costituiscono espressione di quegli stessi principi di uguaglianza, in particolare sotto il profilo della parita' delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela del legittimo affidamento e della certezza delle situazioni giuridiche che questa Corte ha escluso siano stati vulnerati dalla norma qui censurata». Peraltro, in quell'occasione fu anche soggiunto che l'identificazione dei "motivi imperativi d'interesse generale", che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi, e' opportuno che sia in parte lasciata agli stessi Stati contraenti, «trattandosi, tra l'altro, degli interessi che sono alla base dell'esercizio del potere legislativo», considerato che «le decisioni in questo campo implicano, infatti, una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali». In tale complessiva cornice cosi tratteggiata, la Corte costituzionale ritenne che le denunciate norme di cui ai commi 774, 775 e 776 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, fossero effettivamente interpretative e assumessero come referente un orientamento giurisprudenziale presente, seppur minoritario, cosi da scegliere, «in definitiva, uno dei possibili significati della norma interpretata». Inoltre, se si tiene presente che nella fattispecie vengono in evidenza rapporti di durata, ritenne la Corte costituzionale che non potesse parlarsi di un legittimo affidamento nella loro immutabilita', mentre d'altro canto si deve tenere conto del fatto che le innovazioni che sono state apportate, e che non hanno trascurato del tutto i diritti acquisiti, hanno non irragionevolmente mirato alla armonizzazione e perequazione di tutti i trattamenti pensionistici, pubblici e privati. La legge n. 335 del 1995, infatti, avrebbe costituito "il primo approdo di un progressivo riavvicinamento della pluralita' dei sistemi pensionistici, con effetti strutturali sulla spesa pubblica e sugli equilibri di bilancio, anche ai fini del rispetto degli obblighi comunitari in terna di patto di stabilita' economica finanziaria nelle more del passaggio alla moneta unica europea". Da qui, pertanto, la dichiarata non fondatezza della questione, sotto i profili di censura che evocano la lesione degli artt. 117, primo comma, Cost. e 6 CEDU. Le argomentazioni seguite dalla Corte costituzionale, per un verso, sembrerebbero postulare che la riforma operata con la legge n. 335/95 possa qualificarsi come dettata da "ragioni storiche epocali" e, per altro verso, che il legislatore abbia inteso «porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata». Ne' l'una, ne' l'altra asserzione danno, ad avviso del Collegio, effettiva contezza della realta' storica e giuridica nella quale la norma di interpretazione autentica e' andata ad incidere. Intanto, la legge n. 335/95 e', molto piu' modestamente, una legge di armonizzazione del sistema pensionistico che, pur nella sua innegabile rilevanza sotto il profilo degli equilibri finanziari del sistema medesimo, non puo' certo assurgere a "ragione storica epocale". In secondo luogo, come peraltro gia' chiarito, dopo la sentenza n. 8/QM/2002 delle Sezioni Riunite di questa Corte, la giurisprudenza non ebbe piu' nessun dubbio sulla corretta interpretazione delle norme che, pertanto, furono letteralmente sovvertite (a distanza di ben quattro anni dal 2002) dall'intervento del legislatore. Da ultimo, la Corte costituzionale, nella sentenza sopra richiamata, non ha potuto tenere conto dell'ulteriore sviluppo, in tema di art. 6 CEDU, della giurisprudenza della Corte Europea, nei termini sopra richiamati e contenuti nella sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - Sezione 2ª, nel ricorso sul caso AGRATI ed altri contro ITALIA, del 7 giugno 2011, specialmente con riferimento alla qualificazione dell'aspettativa - in rapporti di durata - come "bene", dalla cui lesione, quindi, deriva la violazione dell'art. 6 della CEDU e dell'art. 1, del protocollo 1, della Convenzione medesima. Sussistono, pertanto, i necessari requisiti per potere ritenere la questione di legittimita' costituzionale non manifestamente infondata. La questione, poi, e' rilevante ai fini del decidere, poiche' dalla dichiarazione di incostituzionalita' della norma in questione potrebbe derivare un accoglimento del gravame, in linea con la giurisprudenza favorevole all'appellante formatasi prima della norma di interpretazione autentica. In conclusione, il Collegio ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' di cui in dispositivo, che pertanto, con la presente ordinanza, viene sollevata e rimessa al vaglio del Giudice delle leggi. Il giudizio e' sospeso fino alla pronuncia della Corte Costituzionale.