IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LOMBARDIA 
                           (Sezione Prima) 
 
    Ha pronunciato la presente sentenza non  definitiva  sul  ricorso
numero di registro generale 1143 del 2014, proposto da: 
    M.D.  rappresentato  e  difeso  dagli  avv.ti  Marco  Zambelli  e
Giovanni Marco Bertarini, con domicilio eletto presso  lo  studio  di
quest'ultimo in Milano, Via Cerva, 1; 
    Contro Ministero della difesa, rappresentato e difeso  per  legge
dall'Avvocatura distrettuale dello Stato,  presso  i  cui  Uffici  e'
domiciliato in Milano, Via Freguglia, 1; 
    Per l'annullamento: 
    del decreto del Direttore  della  3ª  Divisione  della  Direzione
Generale per il personale militare, n. D.M. 621/I-3/2013 in  data  16
dicembre 2013, notificato in data 22 gennaio 2014, con  il  quale  e'
stata disposta nei confronti del ricorrente la «perdita del grado» ai
sensi degli articoli  866,  comma  1  e  867,  comma  3  del  decreto
legislativo 15 marzo 2010, n. 66, a decorrere dal 24  settembre  2010
e, per effetto del quale, lo  stesso  ricorrente  e'  stato  iscritto
d'ufficio nel ruolo militari di truppa dell'Esercito Italiano,  senza
alcun grado, a norma dell'art. 861, comma 4  del  richiamato  decreto
legislativo n. 66/2010; 
    di ogni altro atto e provvedimento, anche  tacito,  precedente  o
conseguente, comunque presupposto o condizionato, in esso compreso il
provvedimento  tacito  di  cessazione  del   rapporto   d'impiego   e
collocamento  in  congedo,  in  quanto  desumibile   dalla   condotta
successiva dell'Amministrazione d'appartenenza. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visto l'atto di costituzione  in  giudizio  del  Ministero  della
difesa; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 aprile 2015 il dott.
Roberto Lombardi e uditi per le parti i  difensori  come  specificato
nel verbale; 
    Visto l'art. 36, comma 2, cod. proc. amm.; 
    Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. 
 
                                Fatto 
 
    Con ricorso depositato in data 8 aprile  2014  il  sig.  D.  gia'
Maresciallo   capo   dell'Arma   dei   Carabinieri,   impugnava    il
provvedimento con il quale era stata disposta nei suoi  confronti  la
«perdita del grado» ai sensi degli articoli 866, comma 1 e 867, comma
3 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n.  66,  con  conseguente  e
contestuale cessazione del rapporto d'impiego. 
    Nello   specifico,   l'amministrazione   di   appartenenza    del
Maresciallo D. avendo preso atto  della  condanna  penale  definitiva
emessa a carico di costui - con irrogazione della pena di 2 anni, sei
mesi  e  venti  giorni  di  reclusione  e  contestuale   interdizione
temporanea dai pubblici uffici per una durata  pari  a  quella  della
pena  principale  inflitta  -,  aveva   dichiarato,   quale   effetto
automatico dell'applicazione  in  sede  penale  della  predetta  pena
accessoria, la perdita del grado. 
    Il ricorrente deduceva l'illegittimita' dell'atto impugnato per i
seguenti motivi: 
    1. violazione delle norme di cui agli articoli 6 e 13 della CEDU,
in quanto  l'atto  lesivo  sarebbe  la  diretta  conseguenza  di  una
sentenza emessa  a  seguito  di  un  processo  penale  celebrato  con
violazione del  diritto  fondamentale  della  persona  a  non  essere
sottratta al suo giudice naturale; 
    2.  incompetenza  dell'autorita'   amministrativa   emanante   il
provvedimento, in quanto nell'organizzazione gerarchica del Ministero
della difesa il decreto di perdita del grado per  motivi  diversi  da
quelli disciplinari sarebbe attribuito alla competenza  di  divisioni
diverse dalla terza; 
    3. illegittima applicazione retroattiva di  norma  sanzionatoria,
risultando i fatti per i  quali  e'  stato  emesso  il  provvedimento
impugnato commessi  in  data  anteriore  all'introduzione  del  nuovo
codice dell'ordinamento militare; 
    4. illegittimita' costituzionale  delle  disposizioni  sulla  cui
base e' stata comminata la  perdita  del  grado,  in  quanto  facenti
derivare dalla sentenza penale di  condanna  una  sanzione  espulsiva
automatica  dal  rapporto  di  impiego,  non  preceduta  da  apposito
procedimento disciplinare; 
    5. violazione dell'art. 923, comma 3 del decreto  legislativo  n.
66/2010, per avere l'amministrazione dato corso alla  cessazione  del
rapporto di impiego, in difetto di apposito decreto ministeriale. 
    Si  costituiva  l'amministrazione  convenuta,  che  resisteva  al
ricorso. 
    La Sezione accoglieva la proposta  domanda  cautelare,  sotto  il
profilo della violazione  del  principio  di  irretroattivita'  delle
sanzioni penali accessorie, mentre il Consiglio di Stato, IV Sezione,
in sede di appello cautelare, riteneva di respingerla, «in  forza  di
un orientamento giurisprudenziale da cui la Sezione  non  ritiene  di
doversi discostare anche alla luce di  esiti  su  analoghe  questioni
recentemente ribaditi (C.d.S. Sez. IV, 2489/2014)». 
    Dopo  l'adempimento   dell'amministrazione   ad   una   richiesta
istruttoria, la causa  veniva  trattenuta  in  decisione  all'udienza
pubblica del 29 aprile 2015. 
 
                               Diritto 
 
    1. Preliminarmente, occorre esaminare  le  censure  di  carattere
formale e procedurale articolate dal ricorrente con il secondo e  con
l'ultimo motivo di ricorso. 
    1.1. Con la nota di deposito di documenti acquisita agli atti  in
data 9 marzo 2015,  il  Ministero  convenuto  ha  dimostrato  che  la
competenza anche interna per l'emissione del provvedimento  impugnato
sia del Direttore della 3ª Divisione, in quanto si tratta  senz'altro
di «attivita' connessa con i procedimenti  penali  e  disciplinari  a
carico  del  personale  militare»  (cfr.,  sul  punto,   il   decreto
ministeriale del 16 gennaio 2013, in atti). 
    D'altra parte, nel corpo del decreto che ha disposto  la  perdita
del grado, e' espressamente menzionata la norma in base alla quale il
Direttore generale per il Personale militare ha delegato il direttore
della   terza   divisione   «all'adozione   di   atti   di   gestione
amministrativa in materia di disciplina militare  fino  al  grado  di
Tenente Colonnello e gradi corrispondenti». 
    Il motivo di ricorso va dunque respinto. 
    1.2.  Con  riferimento  alla  censura  relativa   alla   presunta
violazione dell'art. 923, comma 3 del decreto legislativo n. 66/2010,
occorre sottolineare che l'amministrazione convenuta ha  riferito  in
giudizio (con la nota di deposito di documenti del 9 marzo 2015) che,
«nel  caso  di  specie,  non  e'  stato  adottato  autonomo   decreto
ministeriale, tenuto conto che gli effetti» di cui al citato art. 923
«sono  da  intendersi  in  re  ipsa,  trattandosi  di   sottufficiale
dell'Arma dei Carabinieri in servizio permanente». 
    Sul punto,  occorre  considerare  che  la  norma  in  discussione
prevede, al comma 3, che il provvedimento di cessazione dal  servizio
sia adottato con decreto ministeriale, ma anche, al comma 5,  che  il
militare cessi dal servizio, nel momento in cui nei suoi riguardi  si
verifichi una delle cause di cessazione, tra cui, appunto, la perdita
di grado. 
    La doglianza del ricorrente  sembra  pertanto  fondata  solo  dal
punto di vista  della  mancata  applicazione  di  un  segmento  della
procedura interna da parte dell'amministrazione;  il  sig.  D.  puo',
dunque, senz'altro esigere il  decreto  di  cessazione  del  rapporto
d'impiego, ma tale decreto avrebbe una funzione meramente ricognitiva
di un rapporto che e' comunque da considerarsi venuto meno a  seguito
del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna,  ovvero
dal 24 settembre 2013 (come peraltro evidenziato nel decreto  che  ha
disposto la perdita del grado). 
    D'altra parte, l'assenza  del  provvedimento  di  cessazione  del
rapporto d'impiego non  ha  alcun  riflesso  sulla  legittimita'  del
decreto impugnato, che  contiene  gia'  in  se'  la  piena  lesivita'
dell'interesse azionato in giudizio dal ricorrente, trattandosi, come
detto, di provvedimento che accerta implicitamente  anche  l'avvenuta
cessazione del rapporto di impiego. 
    Anche questo motivo e' dunque da ritenersi infondato. 
    2. Passando ai vizi di illegittimita' di natura sostanziale,  non
e' fondata la  censura  contenuta  nel  primo  motivo  di  ricorso  -
violazione delle norme di cui agli articoli 6 e 13 della CEDU  -,  in
quanto l'amministrazione convenuta non avrebbe potuto ne' tanto  meno
dovuto  disapplicare  il  giudicato  penale,  andando   a   sindacare
l'andamento processuale dei tre gradi di giudizio celebrati,  ostando
a cio' il principio  della  certezza  del  diritto,  da  considerarsi
primario e intangibile -  salvo  i  limiti  evidenziati  in  tema  di
competenza esclusiva della Commissione  europea  -  anche  in  ambito
comunitario. 
    D'altra parte, non vi e'  agli  atti  del  fascicolo  processuale
evidenza sul fatto che la Corte europea dei diritti  dell'uomo  abbia
accolto le doglianze del ricorrente sulla lesione del suo diritto  di
difesa, e se anche cio' accadesse, l'ordinamento  offre  al  sig.  D.
tramite lo strumento della revisione della sentenza (a seguito  della
pronuncia  additiva  della  Corte  costituzionale  n.  113/2011),  la
possibilita', all'esito della celebrazione di un nuovo processo,  di'
essere pienamente reintegrato nel suo grado. 
    2.2. Non  e'  infine  fondata  neppure  la  censura  sull'erronea
applicazione al caso di  specie  del  nuovo  codice  dell'ordinamento
militare, in quanto, come statuito dal Consiglio di Stato in sede  di
riforma dell'ordinanza cautelare  emessa  dalla  Sezione,  la  misura
adottata nel caso di specie (perdita  del  grado),  non  puo'  essere
equiparata ad una sanzione (ne' penale, ne' amministrativa), ma  deve
essere assimilata ad un effetto indiretto delle  pene  accessorie  di
carattere interdittivo, che sono da considerarsi, in tale  evenienza,
quale mero presupposto oggettivo cui e' ricollegato l'effetto ex lege
della perdita del grado e della cessazione dai servizio; trova dunque
applicazione, nel caso di specie, il principio generale «tempus regit
actum», che impone all'amministrazione, in  assenza  di  deroghe,  di
conformarsi   alla   normativa   sostanziale   vigente   al   momento
dell'esercizio del potere amministrativo, in  ossequio,  peraltro,  a
quanto disposto dall'art. 2187 del decreto legislativo n. 66/2010. 
    Il Collegio ritiene di recepire  l'impostazione  del  Giudice  di
secondo grado, salvo quanto si esporra' in ordine alla  questione  di
costituzionalita' sollevata dalla parte ricorrente. 
    Ne consegue che la normativa  applicabile  ratione  temporis  era
quella di cui al  decreto  legislativo  n.  66/2010,  trattandosi  di
procedimento per l'applicazione dell'effetto legale della perdita del
grado instaurato  in  epoca  successiva  all'entrata  in  vigore  del
decreto legislativo n. 66/2010,  e  non  ponendosi,  come  detto,  un
problema di irretroattivita'  dell'applicazione  di  una  sanzione  a
fatti commessi sotto il vigore di una disciplina  asseritamente  piu'
favorevole al ricorrente. 
    Sotto questo profilo, l'amministrazione ha  dunque  correttamente
inflitto al ricorrente la misura della  perdita  del  grado  prevista
dagli articoli 866 e 867 del codice dell'ordinamento militare,  senza
dare corso ad alcun procedimento disciplinare. 
    3. Venendo all'esame del quarto motivo di  ricorso,  il  Collegio
ritiene  rilevante  ai  fini  del  decidere,  e  non   manifestamente
infondata, la  questione  d'illegittimita'  costituzionale  sollevata
dalla difesa del sig. D. con riferimento agli articoli 866,  comma  1
(ai  sensi  del  quale  «la  perdita  del   grado,   senza   giudizio
disciplinare, consegue a condanna  definitiva,  non  condizionalmente
sospesa, per reato militare o delitto non  colposo  che  comporti  la
pena accessoria della rimozione o della interdizione  temporanea  dai
pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'art. 19,
comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale»), 867,  comma  3  (secondo
cui «se la perdita del grado consegue a condanna  penale,  la  stessa
decorre dal passaggio in giudicato della sentenza») e 923 del decreto
legislativo n. 66/2010 (che prevede che il rapporto  di  impiego  del
militare cessi, tra l'altro, a seguito di  perdita  del  grado),  per
violazione dell'art. 3 della Costituzione,  nella  parte  in  cui  le
predette norme prevedono la cessazione del rapporto  di  lavoro  come
conseguenza automatica (senza l'attivazione di apposito  procedimento
disciplinare) dell'applicazione in sede di condanna penale definitiva
della sanzione accessoria dell'interdizione temporanea  dai  pubblici
uffici. 
    Invero, il ricorrente, fino al  24  settembre  2013  in  servizio
presso l'Arma  dei  Carabinieri  in  qualita'  di  Maresciallo  capo,
nell'impugnare il provvedimento con il quale e'  stata  disposta  nei
suoi confronti la perdita del  grado,  ha  dedotto,  quale  vizio  di
legittimita'    dell'atto    impugnato,    anche     l'illegittimita'
costituzionale della norma di cui si e' avvalsa l'amministrazione per
decretare la perdita di grado suddetta. 
    Il Comando  dell'Arma  ha  infatti  proceduto  all'emissione  del
provvedimento  ablativo  sulla  base  dell'art.   866   del   decreto
legislativo n.  66/2010  -  che  prevede,  quale  effetto  automatico
dell'applicazione   in   sede   penale    della    pena    accessoria
dell'interdizione temporanea dai  pubblici  uffici,  la  perdita  del
grado - prendendo atto della condanna definitiva  del  sig.  D.  alla
pena di 2 anni, sei mesi e venti  giorni  di  reclusione,  per  fatti
risalenti al giugno 2007, con contestuale interdizione temporanea dai
pubblici uffici per una durata pari a quella  della  pena  principale
inflitta. 
    3.1. In punto di rilevanza della questione  di  costituzionalita'
che si  sta  per  esporre,  occorre  preliminarmente  precisare  come
soltanto l'eventuale accoglimento del relativo motivo di ricorso, con
la conseguente  caducazione  della  norma  sottoposta  al  vaglio  di
costituzionalita', consentirebbe a questo  Giudice  di  annullare  il
provvedimento impugnato. 
    Va altresi'  osservato  che,  a  seguito  di  apposita  richiesta
istruttoria  formulata  dal  Tribunale  rimettente  nel   corso   del
giudizio, l'amministrazione competente ha precisato  che  il  decreto
impugnato ha comportato in via automatica  anche  la  cessazione  del
rapporto di pubblico  impiego,  in  applicazione  dell'art.  923  del
decreto legislativo n.  66/2010,  che  prevede  che  il  rapporto  di
impiego del militare cessi, tra l'altro, a  seguito  di  perdita  del
grado. 
    E' stato dunque accertato che l'applicazione  della  norma  della
cui legittimita' costituzionale  si  dubita  ha  determinato  in  via
diretta - anche nell'interpretazione che ne ha adottato il datore  di
lavoro pubblico - la fine del rapporto di impiego  tra  dipendente  e
amministrazione. 
    Infine, come gia' precisato, anche se i fatti sono stati commessi
sotto il vigore della precedente disciplina in materia di perdita del
grado (art. 12, lettera f,  e  art.  34,  numero  7  della  legge  n.
1168/1961), la normativa applicabile concretamente al caso di  specie
e' da ritenersi quella di cui al decreto legislativo n. 66/2010  (cd.
codice dell'ordinamento militare) in quanto,  secondo  l'orientamento
consolidato del Consiglio di Stato (cfr.,  tra  le  altre,  sent.  n.
389/2014 e ordinanza n. 3369/2014), cui il Collegio non ha motivo  di
discostarsi, il provvedimento che dispone la  perdita  del  grado  in
conseguenza della sanzione accessoria dell'interdizione dai  pubblici
uffici  non  a'  assimilabile  ad  una  sanzione  (ne'   penale   ne'
amministrativa), ma ad un effetto indiretto delle pene accessorie  di
carattere interdittivo. 
    Va  dunque   applicata   la   disciplina   vigente   al   momento
dell'emanazione del provvedimento ablativo e non  quella  vigente  al
momento della commissione dei fatti di reato, non venendo in  rilievo
nel caso di specie il principio di  irretroattivita'  delle  sanzioni
penali. 
    3.2. Passando al merito della questione di  costituzionalita'  da
sottoporre a codesta Corte, il Collegio  ritiene  non  manifestamente
infondata la questione d'illegittimita' costituzionale degli articoli
866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del decreto legislativo n.  66/2010,
per violazione dell'art. 3 della Costituzione -  nei  termini  e  nei
limiti gia' in precedenza indicati  -,  sotto  il  seguente,  duplice
profilo. 
    Invero, ritiene il Collegio rimettente che le  norme  di  cui  si
sospetta l'incostituzionalita' violino l'art. 3  della  Costituzione,
sotto il  profilo  della  ragionevolezza  della  scelta  operata  dal
legislatore  e   del   trattamento   identico   di   due   situazioni
strutturalmente diverse. 
    3.2.1.  Con  riferimento  al  primo  aspetto,  si  richiamano  le
pronunce di codesta Corte (sentenza n. 971 del 1988 e,  poi,  fra  le
varie, le sentenze nn. 40 del 1990, 16, 415 e 104 del 1991,  134  del
1992,  197  del  1993  e   363   del   1996)   che   hanno   statuito
l'incompatibilita' costituzionale della destituzione dal rapporto  di
impiego senza il previo filtro del procedimento disciplinare. 
    Nel caso di specie, come rilevato, la perdita del grado  consegue
automaticamente alla  sanzione  penale  accessoria  dell'interdizione
temporanea  dai  pubblici  uffici  e  determina  senza  soluzione  di
continuita' la cessazione del rapporto di  impiego  dell'appartenente
all'Arma dei Carabinieri. 
    Invero, il quinto comma dell'art. 923 del decreto legislativo  n.
66/2010 prevede che il militare cessi dal servizio,  nel  momento  in
cui nei suoi riguardi si verifica la perdita del grado  (che  e'  una
delle cause di cessazione del rapporto di impiego elencate nel  primo
comma) e il comma 3 dell'art. 867 del decreto legislativo n.  66/2010
stabilisce che se la perdita del grado  consegue  a  condanna  penale
(come nel caso  di  specie),  la  stessa  decorre  dal  passaggio  in
giudicato della sentenza. 
    L'art. 866, comma 1, a sua volta, prevede  che  «la  perdita  del
grado, senza giudizio disciplinare, consegue a  condanna  definitiva,
non condizionalmente  sospesa,  per  reato  militare  o  delitto  non
colposo che comporti la  pena  accessoria  della  rimozione  o  della
interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure  una  delle  pene
accessorie di cui all'art. 19, comma 1, numeri 2)  e  6)  del  codice
penale». 
    Ne deriva che il passaggio in giudicato della sentenza penale  di
condanna, con applicazione della  pena  accessoria  dell'interdizione
temporanea dai pubblici uffici, determina l'automatica cessazione del
rapporto di impiego (come  peraltro  confermato  dall'amministrazione
competente nella concreta applicazione di tali norme). 
    Nella sentenza della Corte costituzionale n. 363  del  1996,  che
aveva scrutinato la legittimita' costituzionale della norma (art. 34,
numero  7  della  legge  n.  1168/1961)  che  stabiliva  l'automatica
cessazione del rapporto di impiego a seguito  di  applicazione  della
perdita del grado conseguente alla pena accessoria  della  rimozione,
in una fattispecie analoga a quella per cui e' causa, si legge: 
    «La  questione  e'  fondata,  alla   luce   dell'art.   3   della
Costituzione. 
    Questa  Corte  non  puo'  che  ribadire  l'illegittimita'   della
destituzione  di  diritto,  e  la  necessita'  che   si   svolga   il
procedimento disciplinare  al  fine  di  assicurare  l'indispensabile
gradualita' sanzionatoria, riconducendo alla loro  sede  naturale  le
relative  valutazioni.   L'automatismo   presente   nella   normativa
denunciata  e'  illegittimo  per   violazione   dell'art.   3   della
Costituzione,   con   riguardo,   innanzitutto,   al   canone   della
razionalita' normativa (sentenza n. 971  del  1988  e,  poi,  fra  le
varie, le sentenze nn. 415 e 104 del 1991,  134  del  1992,  126  del
1995).  D'altra  parte,  il  trattamento  deteriore  riservato   agli
appartenenti  all'Arma  dei  carabinieri  non  trova  valida  ragione
giustificatrice nel loro status militare: questa  Corte  ha  rilevato
come  la  mancata  previsione  del  procedimento  disciplinare,   nel
vulnerare le garanzie procedurali  poste  a  presidio  della  difesa,
finisca per ledere il buon  andamento  dell'amministrazione  militare
sotto  il  profilo  della  migliore   utilizzazione   delle   risorse
professionali, oltre che l'art. 3 della Costituzione (sentenza n. 126
del 1995)». 
    Il Collegio rimettente osserva che la motivazione adottata  nella
sentenza appena citata abbia validita' anche nel caso di  specie,  in
cui l'unica differenza rispetto alla questione all'epoca sottoposta a
codesta Corte consiste nella circostanza che la pena  accessoria  che
aveva dato luogo alla perdita del grado fosse quella della  rimozione
e non dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici. 
    Il Collegio non ritiene peraltro di ravvisare una  differenza  di
rilievo tra le due ipotesi (rimozione e interdizione  temporanea  dai
pubblici  uffici),   tale   cioe'   da   giustificare   una   diversa
applicabilita' dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 363 del 1996. 
    Si tratta, infatti, in entrambe le ipotesi,  di  sanzioni  penali
(di cui una accessoria alla condanna per un reato  militare,  l'altra
accessoria alla condanna per  un  reato  comune)  che  comportano  la
perdita del  grado  e  la  conseguente  cessazione  dal  rapporto  di
impiego, ai sensi dell'art. 923 del decreto  legislativo  n.  66/2010
(norma che riproduce, di fatto, l'art. 34, numero 7  della  legge  n.
1168/1961, gia' dichiarato incostituzionale  dalla  sentenza  n.  363
sopra citata). 
    Comune e' anche il presupposto generale applicativo,  ovvero  una
condanna in via definitiva alla reclusione (comune  o  militare)  per
durata non inferiore a tre anni (tre anni e un giorno, ai  sensi  del
codice penale militare di pace). 
    Peraltro,  la  sanzione  penale  accessoria  della  rimozione  e'
perpetua, mentre l'interdizione temporanea e', per  definizione,  non
definitiva. 
    In entrambi i casi, la sanzione  della  destituzione  di  diritto
(dovendosi  considerare  tale  ogni  mutamento   dello   status   del
lavoratore  implicante  la  fine  traumatica  del  suo  rapporto   di
impiego), comminata in  ossequio  all'automatismo  applicativo  della
legge di cui e' posta in dubbio la costituzionalita', colpisce, senza
alcuna distinzione,  la  molteplicita'  dei  comportamenti  possibili
nell'area dello stesso illecito penale, con offesa del «principio  di
proporzione», che e alla  base  della  razionalita'  che  domina  «il
principio di eguaglianza», e che postula l'adeguatezza della sanzione
al caso concreto. Adeguatezza che non puo' essere  raggiunta  se  non
attraverso la valutazione degli specifici comportamenti messi in atto
nella  commissione  dell'illecito  amministrativo,  che  soltanto  il
procedimento disciplinare consente. 
    3.2.2. Sotto altro, concorrente profilo, le  norme  in  questione
violerebbero l'art. 3 della Costituzione, perche' equiparano  tra  di
loro gli effetti della interdizione  perpetua  e  gli  effetti  della
interdizione temporanea dai pubblici uffici. 
    Si tratta, invero, di pene accessorie profondamente  diverse  tra
di loro,  per  presupposti  applicativi  (tipologie  di  condanna)  e
conseguenze sullo status del  soggetto  condannato  (temporaneita'  o
definitivita' degli effetti interdittivi). 
    Ritiene,  pertanto,   il   Collegio   rimettente,   che   risulti
manifestamente illogica la scelta del legislatore di far conseguire a
due  sanzioni  cosi'  differenti  lo  stesso  effetto  espulsivo  con
riguardo al rapporto  di  lavoro  in  corso  tra  amministrazione  ed
appartenente all'Arma,  senza  consentire  al  datore  di  lavoro  di
graduare la sanzione da applicare in rapporto  alla  condanna  subita
dal dipendente colpito da interdizione  temporanea  nella  sua  «sede
naturale», ovvero all'interno del procedimento disciplinare. 
    3.2.3. Tale  valutazione  non  cambia  se  rapportata  alla  piu'
recente evoluzione normativa in materia di reati contro  la  pubblica
amministrazione, in  quanto  le  scelte  di  maggiore  severita'  del
legislatore con  riferimento  alle  conseguenze  di  pronunce  penali
sull'onorabilita' dei pubblici funzionari devono essere  contemperate
con il parametro costituzionale del diritto al lavoro (articoli  4  e
35  della  Cost.),  nella  cui  accezione  piu'   estensiva   e'   da
ricomprendere anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro
e,  in  particolare,  a  difendersi  all'interno   del   procedimento
disciplinare rispetto a contestazioni che in sede  penale  comportano
pene accessorie espulsive. 
    Al contrario, il Collegio rileva -  con  particolare  riferimento
alla disciplina di cui alla legge n. 97 del 2001, che  ha  introdotto
nel corpo del codice penale l'art. 32-quinquies -  l'incongruita'  di
un sistema normativo che, da un  lato,  fa  derivare  automaticamente
l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego  nei  confronti  del
dipendente di amministrazioni od enti pubblici soltanto  in  caso  di
sua condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni (e
unicamente  per  alcune  fattispecie  di  delitti  contro  la   p.a),
dall'altro,  impone  lo  stesso  automatismo  anche  nell'ipotesi  di
perdita del grado connessa a condanne dello stesso tipo ma  inferiori
ai tre anni (come nel caso del ricorrente). 
    D'altra parte, il particolare status del sig.  D.  (gia'  facente
parte  dell'Arma  dei  Carabinieri)  non  giustifica  una  diversa  e
deteriore applicabilita' nei suoi confronti delle garanzie connesse e
connaturate allo status generale di dipendente pubblico. 
    Non  occorre  dimenticare,  al  riguardo,  che  la  pronuncia  di
incostituzionalita' restituirebbe al ricorrente  la  possibilita'  di
essere sottoposto a procedimento  disciplinare,  e  non  l'automatica
salvaguardia del  suo  rapporto  di  impiego;  resterebbero  pertanto
pienamente  operative,  accanto  alle   garanzie   del   procedimento
disciplinare, anche le peculiarita' (tra cui la notoria severita' dei
applicati agli appartenenti all'Arma, in virtu' del delicato  compito
istituzionale  agli  stessi  assegnato)  dello  specifico  status  di
militare. 
    In sostanza,  la  pronuncia  d'incostituzionalita'  richiesta  si
limiterebbe a porre riparo al vulnus  di  ragionevolezza  ravvisabile
nella  disciplina  del  nuovo   codice   dell'ordinamento   militare,
introducendo tra l'interdizione temporanea dai pubblici uffici  e  la
fine del rapporto di impiego il filtro del procedimento disciplinare,
cosi' come gia' avvenuto per la disciplina precedente al codice  -  e
sempre con specifico riguardo  all'Arma  dei  carabinieri  -  con  la
richiamata pronuncia di codesta Corte (la n. 363 del  1996),  seppure
con riferimento  all'ipotesi  speculare  di  perdita  del  grado  per
rimozione. 
    Non osta a tale soluzione la natura dell'interdizione  temporanea
dai  pubblici  uffici,   che,   proprio   per   la   sua   intrinseca
transitorieta', garantisce, a differenza  dall'interdizione  perpetua
dai pubblici uffici, la possibilita' per il dipendente di  riprendere
il servizio dopo il periodo di temporanea impossibilita'. 
    Rileva infine il Collegio rimettente che  in  una  situazione  di
crisi occupazionale e delle finanze erariali come e' quella  attuale,
dove specialmente nel settore pubblico le assunzioni sono sempre piu'
rare e legate a parametri di ricambio  generazionale,  la  cessazione
automatica del rapporto di impiego  nei  confronti  dell'appartenente
all'Arma dei Carabinieri a seguito di un'interdizione solo temporanea
(nel caso di specie, meno di due anni e sette mesi) si  tramuterebbe,
nella sostanza,  in  un'espulsione  definitiva  dall'intero  comparto
pubblico, cioe' proprio dal comparto dove  e'  ragionevole  presumere
che il  soggetto  espulso  abbia  maggiori  attitudini  e  background
professionale. 
    Il procedimento disciplinare conseguente alla sanzione penale che
ha comportato, quale pena accessoria, l'interdizione temporanea, puo'
dunque costituire  la  prima  -  e,  forse,  l'ultima  -  chance  del
dipendente di far valere, anche ai  fini  di  una  graduazione  della
sanzione da infliggere, la competenza e il valore professionali  gia'
acquisiti nel tempo (in termini, sentenza n. 363 del 1996 di  codesta
Corte). 
    4. Sulla  base  delle  su  esposte  considerazioni,  il  Collegio
ritiene dunque necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione
degli atti alla Corte  costituzionale  affinche'  si  pronunci  sulla
questione. 
    Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e  in  ordine  alle
spese resta riservata alla decisione definitiva.