Ex art. 127 Cost. e art. 32 legge n. 87 del 1953. 
    Nell'interesse della 
        Regione Puglia, codice fiscale n. 80017210727, in persona del
Presidente in carica, Dott. Michele Emiliano  con  sede  in  70121  -
Bari, Lungomare N. Sauro n. 33, autorizzato con  deliberazione  della
Giunta regionale n. 152 del 23 febbraio 2016 (All. A),  rappresentato
e difeso, per mandato in calce  al  seguente  atto,  unitamente  e  i
disgiuntamente  dagli  avv.ti  prof  Luca  Antonini  (codice  fiscale
NTNLCU63E27D869I) del Foro di Milano e dal  prof.  Stelio  Mangiameli
(codice          fiscale:          MNGSTL54D16C351N,          P.E.C.:
steliomangiameli@ordineavvocatiroma.org, Fax: 06-5810197), in  virtu'
di procura a margine del presente atto, ed elettivamente  domiciliato
in Roma, via A. Poerio n.  56,  presso  lo  Studio  professionale  di
quest'ultimo 
    Contro: 
        la Presidenza del Consiglio  dei  ministri,  in  persona  del
Presidente in carica nella propria nota sede in 00187 - Roma, Palazzo
Chigi, piazza Colonna n. 370; 
        la Presidenza del Consiglio  dei  ministri,  in  persona  del
Presidente in carica, presso l'avvocatura generale  dello  Stato,  in
00186 Roma, via dei Portoghesi n. 12, 
        per la Declaratoria di  illegittimita'  costituzionale  delle
seguenti disposizioni della legge 28 dicembre 2015, n.  208,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (legge di stabilita' 2016)»,  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale, Serie Generale n. 302 del 30 dicembre 2015: 
          1) art. 1, comma 239, per contrasto con gli  artt.  3;  97;
117, comma 2, lett. s), e comma 3; 118 Cost., nonche'  del  principio
di leale collaborazione e del principio di ragionevolezza; 
          2) art. 1, comma 240, lett. b), per  contrasto  con  l'art.
117, comma 1, Cost., in combinato disposto con la Direttiva 94/22/CE,
nonche' del principio di leale collaborazione; 
          3) art. 1, comma 240, lett. c), per contrasto con gli artt.
3;  117,  comma  3;  118  Cost.,  nonche'  del  principio  di   leale
collaborazione e del principio di ragionevolezza. 
 
                            Premesso che 
 
        a -  Occorre,  anzitutto,  precisare  l'occasio  legis  delle
modifiche  normative  di  cui  col  presente  ricorso  si  chiede  la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale. Con Deliberazioni dei
Consigli regionali di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,  Abruzzo,
Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise erano state formulate sei
richieste referendarie ex art. 75 Cost., rispettivamente riguardanti: 
          (1) l'art. 38, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 214,
n. 133; 
    (2) l'art. 38, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre  2014,
n. 133; 
    (3) l'art. 38, comma 5 del decreto-legge 12  settembre  2014,  n.
133, 
    (4) l'art. 57, comma 3-bis del decreto-legge 9 febbraio 2012,  n.
5; 
    (5) l'art. 1, comma 8-bis della legge 23 agosto 2004, n. 239; 
    (6) l'articolo 6, comma 17 del decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152. 
    b  -  L'Ufficio  Centrale  per  il  Referendum  della  Corte   di
Cassazione, con Ordinanze del 26 novembre 2015,  dichiarava  conformi
alla legge le sei richieste referendarie, previa  assegnazione  delle
relative denominazioni. 
    c - Notificate le predette  Ordinanze  ai  delegati  regionali  e
comunicate altresi'  agli  altri  organi  cui  la  legge  lo  impone,
l'Ecc.ma Corte Costituzionale fissava la discussione del giudizio  di
ammissibilita' dei sei quesiti referendari per la Camera di consiglio
del 13 gennaio 2016 (Reg. Ref. nn. 163-168) nelle cui more, tuttavia,
il quadro legislativo su cui si basavano  le  richieste  referendarie
era mutato per effetto  dell'approvazione  della  legge  28  dicembre
2015, n. 208, recante «Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale e  pluriennale  dello  Stato  (legge  di  stabilita'  2016)»,
entrata in vigore il 1° gennaio 2016. 
    d - L'Ufficio Centrale per il Referendum, valutata l'incidenza di
tali modifiche normative nella Seduta  straordinaria  del  7  gennaio
2016, con ordinanza di pari data, ha disposto che per tutti i quesiti
le operazioni referendarie non avessero piu' corso,  fatta  eccezione
per il sesto, concernente l'art. 6, comma 17, del decreto legislativo
n.  152  del  2006,  il  quale  e'  stato  trasferito   sulla   nuova
formulazione della stessa norma (recata dal  comma  239  dell'art.  1
della legge n. 208 del 2015, oggi impugnato) e, in particolare, sulle
parole «per la durata di vita  utile  del  giacimento,  nel  rispetto
degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale». 
    e - Dal canto proprio,  l'Ecc.ma  Corte  costituzionale,  con  le
sentenze nn. 16 e 17 del 2 febbraio 2016 ha, per un verso, dichiarato
ammissibile la richiesta referendaria appena richiamata e, per  altro
verso, dichiarato estinti i giudizi (ammissibilita'  concernenti  gli
altri cinque quesiti. 
    f - Nondimeno il 25 gennaio 2016 sei Consigli regionali promotori
(Basilica, Liguria, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto), ritenendo che
le modifiche legislative di cui alle lett. b)  e  c)  del  comma  240
dell'art. 1 della legge n. 208 del 2015 (oggi  impugnate),  non  solo
non  fossero  satisfattive  della  seconda  e della  terza  richiesta
referendaria, ma  menomassero  le  facolta'  loro  costituzionalmente
attribuite ex art. 75 Cost., hanno proposto due distinti ricorsi  per
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. 
    g  -  Col  primo  ricorso   (concernente   il   secondo   quesito
referendario), i Consigli regionali ricorrenti concludevano nel senso
di richiedere: 
    «l'annullamento dell'art. 1, comma 240, lett b), della  legge  n.
208 del 2015, per violazione degli artt. 3 e 75  Cost.,  al  fine  di
determinare la reviviscenza dell'art. 38, comma 1-bis,  del  d.l.  n.
133  del  2014  e  di  consentire  lo  svolgimento  delle  operazioni
referendarie nei  termini  originariamente  deliberati  dai  Consigli
regionali indicati in  epigrafe,  gia'  considerati  legittimi  dalla
Corte di Cassazione; 
    l'annullamento  dell'Ordinanza  dell'Ufficio  Centrale   per   il
Referendum della Corte di Cassazione del 7 gennaio 2016, nella  parte
in cui dichiara che per il quesito de quo  le  operazioni  elettorali
non abbiano piu' corso». 
    h  -  Col  secondo  ricorso   (concernente   il   terzo   quesito
referendario), i Consigli regionali ricorrenti concludevano nel senso
di richiedere: 
          «l'annullamento dell'Ordinanza dell'Ufficio Centrale per il
Referendum della Corte di Cassazione del 7 gennaio 2016, nella  parte
in cui dichiara che per il quesito de quo  le  operazioni  elettorali
non abbiano piu' corso». 
    i - Dal canto proprio, la Regione oggi  ricorrente,  latrice  del
diverso e peculiare interesse a che le leggi dello Stato  non  ledano
le proprie prerogative costituzionalmente attribuite, ritiene che  le
disposizioni impugnate siano costituzionalmente  illegittime,  per  i
seguenti 
 
                               Motivi 
 
    1) illegittimita'  costituzionale  dell'articolo  1,  comma  239,
della legge n. 208 del 2015, per violazione degli artt. 3;  97;  117,
comma 2, lett. s), e comma 3; 118 Cost.,  nonche'  del  principio  di
leale collaborazione e del principio di ragionevolezza. 
    L'art. 1, comma 239, della  legge  n.  208  del  2015  interviene
sull'art. 6, comma 17, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,
che,  nel  testo  sostituito   dall'articolo   35,   comma   1,   del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, aveva - prima della  novella  oggi
censurata - la seguente formulazione: 
        «Ai  fini  di   tutela   dell'ambiente   e   dell'ecosistema,
all'interno del perimetro delle aree marine e  costiere  a  qualsiasi
titolo protette per scopi di tutela ambientale, in  virtu'  di  leggi
nazionali,  regionali  o  in  attuazione  di   atti   e   convenzioni
dell'Unione europea e internazionali sono  vietate  le  attivita'  di
ricerca,  di  prospezione  nonche'  di  coltivazione  di  idrocarburi
liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4, 6 e 9 della  legge
9 gennaio 1991, n. 9. Il divieto e' altresi' stabilito nelle zone  di
mare poste entro dodici miglia dalle linee di  costa  lungo  l'intero
perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno  delle  suddette
aree  marine  e  costiere  protette,  fatti  salvi   i   procedimenti
concessori di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge n. 9 del 1991 in
corso alla data di entrata  in  vigore  del  decreto  legislativo  29
giugno 2010 n. 128  ed  i  procedimenti  autorizzatori  e  concessori
conseguenti e connessi, nonche' l'efficacia  dei  titoli  abilitativi
gia' rilasciati alla medesima data, anche ai  fini  della  esecuzione
delle attivita' di ricerca, sviluppo e  coltivazione  da  autorizzare
nell'ambito dei titoli stessi, delle eventuali  relative  proroghe  e
dei procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti  e  connessi.
Le predette attivita' sono  autorizzate  previa  sottoposizione  alla
procedura di valutazione di impatto ambientale di cui  agli  articoli
21 e seguenti del presente decreto,  sentito  il  parere  degli  enti
locali posti in un raggio  di  dodici  miglia  dalle  aree  marine  e
costiere interessate dalle attivita' di cui al primo  periodo,  fatte
salve le attivita' di cui  all'articolo  1,  comma  82-sexies,  della
legge 23 agosto 2004, n. 239, autorizzate, nel rispetto  dei  vincoli
ambientali da esso stabiliti, dagli uffici territoriali di  vigilanza
dell'Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse,
che trasmettono copia  delle  relative  autorizzazioni  al  Ministero
dello sviluppo economico e al Ministero dell'ambiente e della  tutela
del territorio e del mare. Dall'entrata in vigore delle  disposizioni
di cui al presente comma e' abrogato  il  comma  81  dell'articolo  1
della legge 23 agosto 2004, n. 239.(...)». 
    La  modifica  normativa  recata  dalla  legge  di  stabilita'  ha
sostituito i periodi secondo e terzo. Per l'effetto, ora la norma  ha
il seguente tenore letterale (in neretto la parte novellata): 
    «Ai fini di tutela dell'ambiente e  dell'ecosistema,  all'interno
del perimetro  delle  aree  marine  e  costiere  a  qualsiasi  titolo
protette  per  scopi  di  tutela  ambientale,  in  virtu'  di   leggi
nazionali,  regionali  o  in  attuazione  di   atti   e   convenzioni
dell'Unione europea e internazionali sono  vietate  le  attivita'  di
ricerca,  di  prospezione  nonche'  di  coltivazione  di  idrocarburi
liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4, 6 e 9 della  legge
9 gennaio 1991, n. 9. Il divieto e' altresi' stabilito nelle zone  di
mare poste entro dodici miglia dalle linee di  costa  lungo  l'intero
perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno  delle  suddette
aree marine e costiere protette. I titoli abilitativi gia' rilasciati
sono fatti salvi per la durata di  vita  utile  del  giacimento,  nel
rispetto degli standard di sicurezza e  di  salvaguardia  ambientale.
Sono sempre  assicurate  le  attivita'  di  manutenzione  finalizzate
all'adeguamento tecnologico necessario alla sicurezza degli  impianti
e  alla  tutela  dell'ambiente,  nonche'  le  operazioni  finali   di
ripristino ambientale». 
    1.1. Occorre, anzitutto,  stabilire  l'ambito  materiale  cui  la
disposizione e' riconducibile e, poiche' essa impone  un  divieto  di
svolgimento di attivita' di prospezione, di ricerca e di coltivazione
di idrocarburi  nella  fascia  di  tutela  delle  12  miglia  marine,
riguarda prevalentemente la competenza  legislativa  concorrente  fra
Stato e Regioni in materia di «produzione, trasporto e  distribuzione
nazionale dell'energia». 
    Diversamente dalla precedente formulazione, che, oltre ai  titoli
abilitativi gia' rilasciati, faceva  salvi  i  procedimenti  pendenti
alla data di entrata in vigore del decreto  legislativo  n.  128  del
2010 (che aveva introdotto ex novo l'art. 6, comma  17,  del  decreto
legislativo n. 152 del 2006 in una diversa  formulazione),  l'attuale
tenore letterale si  limita  a  fare  in  modo  che  il  divieto  non
interessi i titoli abilitativi gia' emessi. 
    Tuttavia, nel farlo, lede le competenze regionali in  materia  di
energia, unitamente all'art. 118, comma 1, Cost. e  al  principio  di
leale collaborazione, poiche' per tali titoli - che pure  interessano
il mare territoriale, dove si spiega la competenza regionale (ad es.,
in materia di pesca) - non si e' mai  attuata  alcuna  partecipazione
regionale. 
    Onde prevenire una capziosa obiezione, si segnala sin  da  subito
che a nulla varrebbe eccepire che la procedura per  il  rilascio  del
titolo abilitativo ora fatto salvo fosse contenuta in  una  normativa
(ormai abrogata) per la quale e' spirato il termine di  impugnazione,
dal momento che  «l'esistenza  di  una  disciplina  contenuta  in  un
precedente  testo  normativo  non  impedisce  l'impugnazione  in  via
principale di una successiva legge che, novando la  fonte,  riproduca
la medesima disciplina» (cfr. sentenza n. 9 del 2010). 
    Nel caso de quo, si verte esattamente in tale ipotesi, atteso che
il legislatore, novando la fonte, farebbe salvi e stabilizzerebbe nel
tempo (peraltro, sine die) gli effetti di una  precedente  normativa,
che comunque continuerebbe a spiegare i propri effetti per i rapporti
giuridici sorti sotto il suo vigore. 
    Cio' posto, non e' chi non veda  come  il  generalizzato  divieto
imposto nella fascia di tutela delle 12 miglia marine si scontrerebbe
con una del pari generalizzata «salvezza» dei procedimenti in  corso,
non assistiti dalla partecipazione regionale. 
    Ne' si potrebbe opporre  che,  per  effetto  dell'ormai  avvenuta
definizione  del  procedimento  amministrativo,  si  tratti  di  c.d.
«rapporti esauriti»,  la  cui sussistenza  dipende  invece  da  altri
elementi (ad es., formazione del giudicato, prescrizione o  decadenza
dal far valere il diritto, ecc.). 
    Nel merito della censura, deve osservarsi che, come affermato  da
codesta Ecc.ma Corte nella sentenza n. 383 del 2005, l'attrazione  in
sussidiarieta'  di  funzioni   amministrative   e'   subordinata   al
procedimento con due intese: a) con il sistema  delle  Autonomie;  b)
con  la  Regione  interessata  (in  questo  caso,   peraltro   l'atto
collaborativo dovrebbe assumere il  carattere  dell'intesa  in  senso
forte) non essendo invece sufficiente  la  sola  consultazione  degli
Enti locali (come prevedeva la precedente normativa). 
    La giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte ha pertanto ammesso  la
chiamata  in  sussidiarieta'  da  parte  dello   Stato   purche'   la
legislazione statale sia idonea e proporzionale e venga assicurato il
rispetto del principio di leale collaborazione: nella sentenza n. 182
del 2013 si legge che "questa Corte, anche in  specifico  riferimento
alla  materia  di  potesta'  concorrente  «produzione,  trasporto   e
distribuzione nazionale dell'energia» ha costantemente affermato  che
«la  previsione  dell'intesa,  imposta   dal   principio   di   leale
collaborazione, implica che non sia legittima  una  norma  contenente
una "drastica previsione" della decisivita'  della  volonta'  di  una
sola parte, in caso di dissenso» (ex plurimis, sentenza  n.  165  del
2011),  ma  che  siano  invece  necessarie  «idonee   procedure   per
consentire reiterate trattative volte a superare le  divergenze»  (ex
plurimis, sentenze n. 278  e  n.  121  del  2010),  come  presupposto
fondamentale di realizzazione del principio di  leale  collaborazione
(ex plurimis, sentenze n. 117 del 2013, n. 39 del  2013,  n.  24  del
2007 e n. 339 del 2005). 
    E' invero con le Regioni che si realizza la leale  collaborazione
necessaria ai fini dell'attrazione in sussidiarieta', visto che e' la
loro competenza legislativa in materia di energia a essere  lesa  per
effetto di tale meccanismo. 
    Ne  deriva  che  la   disposizione   impugnata,   nel   prorogare
l'efficacia  dei  titoli  abilitativi  gia'   rilasciati,   lede   la
competenza regionale in materia di energia, nella parte  in  cui  non
prevede che i titoli abilitativi gia' rilasciati siano  fatti  salvi,
previa intesa con le Regioni poste in  un  raggio  di  dodici  miglia
dalle aree marine e costiere protette e dalla linea di costa. 
    E' doveroso evidenziare come, proprio in tema proroga unilaterale
di titoli abilitativi Codesta Ecc.ma Corte sia gia'  intervenuta  per
censurare la normativa statale. Infatti, con sentenza n. 1  del  2008
e' stata dichiarata  l'incostituzionalita'  dell'art.  1,  comma  485
della legge finanziaria 2006 secondo il quale le  grandi  concessioni
di derivazioni idroelettriche in corso alla data di entrata in vigore
della legge sono prorogate  di  dieci  anni  rispetto  alle  date  di
scadenza, e si sospendono,  di  conseguenza,  per  il  corrispondente
periodo di tempo, le relative gare, mirando  al  miglioramento  delle
prestazioni energetiche degli impianti di produzione e  ad  una  piu'
elevata tutela delle  condizioni  ambientali.  Trattasi,  secondo  la
Corte, di disciplina che, se non puo' che essere ricondotta che  alla
competenza  concorrente  in  materia  di  «produzione,  trasporto   e
distribuzione nazionale dell'energia», di  cui  all'art.  117,  terzo
comma,   della   Costituzione,   va   dichiarata   costituzionalmente
illegittima laddove «e' lesiva delle competenze regionali, in  quanto
la previsione di una proroga di dieci anni delle concessioni in  atto
costituisce una norma di dettaglio (v., ex multis,  sentenze  n.  181
del 2006 e 390 del 2004)». In senso conforme la successiva  pronuncia
n. 205 del 2011 che ha ribadito che le norme statali  che  "attengono
alla durata  ed  alla  programmazione  delle  concessioni  di  grande
derivazione d'acqua per uso idroelettrico, si ascrivono alla  materia
«produzione,  trasporto  e  distribuzione  nazionale   dell'energia»,
attribuita alla competenza legislativa concorrente", e se "pongono un
precetto specifico e puntuale - prevedendo la proroga  automatica  di
dette concessioni (...) si configurano quali nonne  di  dettaglio"  e
come   tali   lesive   delle   competenze    regionali    e    dunque
costituzionalmente illegittime. 
    Occorre aggiungere che il vizio di  legittimita'  costituzionale,
ora  rilevato,  gia'  inficiava  la  pregressa   normativa,   poiche'
differenziava - in punto di partecipazione regionale - i procedimenti
per il rilascio dei titoli abilitativi in terraferma, per i quali  si
prevedeva il rilascio dell'intesa da parte  della  Regione  (art.  1,
comma 7, lett. n, della legge n. 239 del 2004), e quelli  concernenti
il mare (anche territoriale), in  riferimento  ai  quali  non  veniva
prescritta  alcuna   partecipazione   regionale,   bensi'   la   sola
consultazione degli Enti locali (secondo la  precedente  formulazione
dell'art. 6, comma 17, del decreto legislativo n. 152 del 2006). 
    Tale irragionevole  differenziazione,  che  non  e'  stata  fatta
valere nei termini di  impugnazione  previsti  dall'art.  127  Cost.,
viene nondimeno riprodotta e persino consolidata dall'art.  1,  comma
239, della legge n. 208 del 2015, il quale  arriva  a  perpetrare  la
violazione  della  competenza  regionale  e  il  mancato  ricorso   a
procedure di leale collaborazione senza alcun termine finale («per la
durata di vita  utile  del  giacimento»),  per  giunta  operando  una
legificazione dei provvedimenti de quibus. 
    Si chiede pertanto che l'art. 1, comma 239, della  legge  n.  208
del 2015 venga dichiarato costituzionalmente illegittimo nella  parte
in cui non prevede che i titoli  abilitativi  gia'  rilasciati  siano
fatti salvi, previa intesa con le  Regioni  poste  in  un  raggio  di
dodici miglia dalle aree marine e costiere protette e dalla linea  di
costa. 
    1.2.   L'accoglimento   dell'appena   articolata    censura    di
costituzionalita', procedimentalizzando la clausola di salvezza e  la
(altrimenti legificata) proroga ivi prescritta, sarebbe  peraltro  in
grado  di  incidere  anche  su  un  altro   vizio   di   legittimita'
costituzionale della disposizione impugnata. 
    Infatti,  se  -  come  questa  difesa  ritiene  -  la  previsione
normativa deve essere intesa nel senso di  disporre  una  proroga  ex
lege dei titoli  abilitativi  gia'  rilasciati,  deve  essere  allora
rilevato il contrasto della medesima con una  serie  di  disposizioni
costituzionali e, piu' in generale, con il principio che la  dottrina
costituzionale risalente individuava nella distinzione tra  «generale
disporre e, concreto provvedere», il quale riguarderebbe non  solo  i
rapporti tra legislazione e giurisdizione, ma  anche  (e,  per  certi
aspetti, soprattutto) tra legislazione e amministrazione,  fondandosi
cosi' - sulla base del  principio  di  legalita'  -  una  riserva  di
amministrazione anche alla  luce  dell'effettivita'  delle  forme  di
tutela costituzionale avverso gli atti amministrativi. 
    Anzitutto, nella misura in cui la proroga richiederebbe una nuova
ponderazione degli  interessi  (pubblici  e  privati)  coinvolti,  vi
sarebbe una palese lesione dell'art. 97  Cost.  e  dei  principi  ivi
sanciti  del  buon  andamento  e  dell'imparzialita'  della  Pubblica
Amministrazione, dal momento che a quest'ultima sarebbe preclusa ogni
valutazione di merito nel rilascio della proroga, con la  conseguenza
che un bene pubblico verrebbe sine die lasciato nella  disponibilita'
di un'impresa privata. 
    All'Amministrazione  competente  non  sarebbe  solo  preclusa  la
riponderazione degli interessi in gioco in sede  di  proroga,  ma  le
sarebbe altresi' inibito persino il potere  di  autotutela.  Infatti,
dinanzi  a  una  chiara  disposizione  legislativa   che   conferisce
un'indeterminata efficacia temporale ai titoli  abilitativi,  non  vi
sarebbe alcuno spazio per un eventuale esercizio del potere di revoca
(in caso di mutamento  dello  stato  di  fatto  che  ha  condotto  al
rilascio del titolo), a meno di non  incorrere  in  un  provvedimento
amministrativo contra legem, poiche'  adottato  in  violazione  della
nuova formulazione dell'art. 6, comma 17, del decreto legislativo  n.
152 del 2006. 
    Peraltro, tale legificazione della proroga dei titoli abilitativi
non configura solamente una lesione dell'art. 97 Cost. bensi' integra
nuovamente una violazione degli artt. 117, comma 3 e  118,  comma  1,
della Costituzione, unitamente al principio di leale  collaborazione,
poiche' esclude la partecipazione regionale  anche  nel  momento  del
rilascio della proroga. 
    Ne' potrebbe essere altrimenti  ai  sensi  del  tenore  letterale
della norma impugnata, se si considera  che  la  legificazione  della
proroga,  escludendo  la   necessita'   di   qualunque   procedimento
amministrativo rivolto al rilascio di quest'ultima, estromette in  re
ipsa la Regione, la cui partecipazione, invece  dovrebbe  realizzarsi
proprio nel procedimento amministrativo. 
    E' invece necessario che la Regione sia nuovamente  coinvolta  in
sede di rilascio della  proroga,  in  ragione  del  fatto  che  essa,
secondo la giurisprudenza  amministrativa  prevalente,  configura  un
«nuovo» provvedimento. Diversamente, si verificherebbe  la  paventata
violazione del principio di leale collaborazione, cui e'  subordinato
l'esercizio della competenza attratta in sussidiarieta'. 
    Pertanto,  l'intesa  (in  senso  forte)  con  la  Regione  stessa
dovrebbe essere collocata in un procedimento amministrativo, che  non
potrebbe che essere quello previsto all'uopo dalla  legge  n.  9  del
1991, la quale, in riferimento al permesso di  ricerca,  al  comma  5
dell'art. 6, prevede che «Il titolare del permesso ha diritto  a  due
successive proroghe di  tre  anni  ciascuna,  se  ha  adempiuto  agli
obblighi derivanti dal permesso stesso». 
    Quanto alla concessione di coltivazione, prevede poi, al comma  8
dell'art.  9,  che  «Al  fine  di  completare  lo  sfruttamento   del
giacimento,  decorsi  i  sette  anni  dal  rilascio   della   proroga
decennale, al concessionario  possono  essere  concesse,  oltre  alla
proroga prevista dall'articolo 29 della legge 21 luglio 1967, n. 613,
una o piu' proroghe,  di  cinque  anni  ciascuna  se  ha  eseguito  i
programmi di coltivazione e di ricerca e se ha adempiuto a tutti  gli
obblighi derivanti dalla concessione o dalle proroghe». 
    La  disposizione  impugnata   deve   allora   essere   dichiarata
costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede  che  i
titoli abilitativi gia' rilasciati  possano  si'  essere  oggetto  di
provvedimenti di proroga, ma conformemente ai  procedimenti  previsti
dalla legge n. 9 e, comunque, previa intesa con le Regioni  poste  in
un raggio di dodici miglia dalle aree marine e  costiere  protette  e
dalla linea di costa. 
    Quand'anche si ritenesse che il disposto dell'art. 1, comma  239,
della legge n. 208 del 2015 non importi una proroga ex  lege,  bensi'
presupponga l'esperimento dei procedimenti previsti dalla legge n.  9
del  1991  ora   richiamati,   la   disposizione   sarebbe   comunque
incostituzionale nella misura in cui non preveda  che  si  dia  luogo
all'intesa con la Regione anche in  sede  di  proroga,  che  comunque
costituisce un nuovo provvedimento amministrativo,  la  cui  adozione
implica una ri-ponderazione degli interessi pubblici  in  gioco,  fra
cui quelli di cui e' titolare la Regione (in primis, le competenze in
materia di energia, oltre a quelle sulla  pesca  e  sul  governo  del
territorio). 
    Si badi che, nel caso di specie, proprio alla luce della generale
interdizione attivita' di  prospezione,  ricerca  e  coltivazione  di
idrocarburi nella fascia delle 12 miglia, la nuova ponderazione degli
interessi pubblici coinvolti diviene ancora piu'  pregnante,  poiche'
in  sede  di  proroga   occorre   svolgere   un'attenta   valutazione
concernente la persistente «sostenibilita'» della deroga  legislativa
cosi' disposta per i titoli abilitativi gia' rilasciati. 
    Se quindi la normativa impugnata puo' essere intesa nel senso  di
consentire astrattamente la prorogabilita'  dei  titoli  abilitativi,
essa  pero'  incorre  nella  violazione  delle  norme  costituzionali
richiamate,   poiche'   esclude   la   valutazione   della   concreta
prorogabilita' dei medesimi, integrata con l'intesa regionale. 
    1.3.  La  legificazione  della  proroga  comporta,  inoltre,   la
violazione dell'art. 117, comma  2,  lett.  s),  della  Costituzione.
Infatti, la giurisprudenza di codesta  Ecc.ma  Corte  e'  consolidata
(sin dalla sentenza n. 407 del 2002) nel senso di ritenere  che,  pur
essendo la tutela dell'ambiente una competenza esclusiva dello Stato,
non possono escludersi interventi regionali. Infatti, «riguardo  alla
protezione dell'ambiente non si (e') sostanzialmente inteso eliminare
la preesistente pluralita' di titoli di legittimazione per interventi
regionali diretti a  soddisfare  contestualmente,  nell'ambito  delle
proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere
unitario definite dallo Stato» (sent. n. 407 del 2002). 
    Ne deriva che la Regione ricorrente,  vista  la  riconducibilita'
della  disciplina  de  qua  nell'ambito  della  potesta'  legislativa
concorrente in materia di energia, ben puo' dolersi della  violazione
degli interessi ambientali funzionalmente collegati all'esercizio  di
detta  competenza.  Nel  caso  di  specie,  la  salvezza  dei  titoli
abilitativi  gia'  rilasciati  per  la  durata  di  vita  utile   del
giacimento e' si' disposta «nel rispetto degli standard di  sicurezza
e di salvaguardia ambientale», ma non implica, poiche' non lo dispone
espressamente, che si dia luogo a una rinnovazione della procedura di
valutazione di impatto ambientale in sede di proroga, ne' impone  che
ad essa debba esser stato soggetto (almeno originariamente) il titolo
abilitativo prorogato. 
    Percio', il rinvio al rispetto degli standard di sicurezza  e  di
salvaguardia ambientale rischia di rimanere lettera morta,  nel  caso
in  cui  il  titolo  abilitativo,  non  sia  mai  stato  oggetto   di
valutazione di impatto ambientale  (con  le  relative  prescrizioni).
Cio' non e' invero da escludere, se si considera che la durata  della
concessione di coltivazione e'  pari  a  30  anni  (salve  successive
proroghe) e che solo con la legge n. 349 del 1986 si  e'  dato  avvio
all'istituzione   della   procedura   di   valutazione   dell'impatto
ambientale, compiutasi pero' solo due anni dopo,  con  i D.P.C.M.  10
agosto 1988, n. 327,  e  27  dicembre  1988,  con  cui,  si  e'  data
attuazione all'art. 6 della  legge  richiamata,  che  tale  procedura
prevedeva. 
    Per giunta, anche laddove una  tale  valutazione  si  sia  svolta
(magari in un tempo piuttosto  risalente),  non  si  vede  per  quale
ragione le prescrizioni ivi disposte dovrebbero «cristallizzarsi» nel
tempo in nome di una disciplina legislativa che prevede  una  proroga
ex lege e sine die e che -  per  altro  verso  -  dispone  invece  un
divieto assoluto di attivita' di prospezione, ricerca e  coltivazione
di idrocarburi nella fascia di tutela delle 12 miglia marine. 
    E', percio', irragionevole che la disposizione impugnata  escluda
la procedimentalizzazione amministrativa della proroga,  includendovi
peraltro la valutazione di impatto ambientale. 
    Si verifica, pertanto,  una  violazione  del  combinato  disposto
dell'art. 117, comma 2, lett. s), Cost. e  dell'art.  117,  comma  3,
Cost., nella misura  in  cui  l'attrazione  in  sussidiarieta'  delle
competenze regionali in materia di  energia,  non  solo  non  avviene
prevedendo adeguati strumenti di leale collaborazione (v. supra),  ma
per giunta viola gli stessi standard di tutela  ambientale  stabiliti
dal legislatore, in conformita' al diritto europeo. 
    Se infatti la deroga al divieto assoluto  posto  dal  legislatore
nell'ambito delle 12  miglia  marine  vuole  superare  il  vaglio  di
ragionevolezza e rispettare  davvero  gli  standard  ambientali,  non
limitandosi a cristallizzare quelli eventualmente gia' previsti  illo
tempore e non facendo di quest'ultimo richiamo una vuota petizione di
principio,   deve   allora   essere    dichiarata    l'illegittimita'
costituzionale della norma censurata, nella parte in cui non  prevede
che  i  titoli  abilitativi  gia'  esistenti  siano  fatti  salvi,  a
condizione che siano stati oggetto  di  una  valutazione  di  impatto
ambientale  in  sede  di  rilascio  e  che,  comunque,  questa  venga
rinnovata in sede di proroga. 
    1.4. Da ultimo, l'art. 1, comma 239, della legge n. 208 del  2015
viola l'art. 3 Cost. e il  principio  di  ragionevolezza,  ridondando
altresi' nella lesione delle  competenze  regionali  che  vengono  in
rilievo nel caso di specie, nella parte in cui  la  norma  fa  salvi,
oltre  alle  concessioni  di  coltivazione,  anche  i   permessi   di
prospezione e di ricerca di idrocarburi, in assenza di alcuna  tutela
del leggimo affidamento del  beneficiario,  il  quale  anzi  verrebbe
paradossalmente  a  sorgere  proprio  per  effetto  dell'esito  delle
ricerche e degli investimenti presupposti. 
    Al fine di argomentare adeguatamente la  censura  ora  brevemente
dedotta, occorre  precisare  che  i  titoli  abilitativi  di  cui  la
disposizione impugnata proroga l'efficacia sono tutti quelli previsti
dalla legge n. 9 del 1991 e, percio', i permessi di prospezione e  di
ricerca, rivolti ad analizzare - secondo varie tecniche -  i  fondali
marini per  verificare  la  probabilita'  di  rinvenirvi  idrocarburi
liquidi  e  gassosi,  e  le  concessioni  di  coltivazione,  con  cui
l'impresa titolare - vene autorizzata  allo  sfruttamento  del  pozzo
rinvenuto. 
    I due titoli sono funzionalmente collegati tra loro  e  lo  sono,
invero, anche dal punto di vista «soggettivo», se si  considera  che,
ai sensi dell'art. 9, comma  1,  della  leggi  n.  9  del  1991,  «Al
titolare del permesso che, in seguito alla  perforazione  di'  uno  o
piu'  pozzi,  abbia  rinvenuto  idrocarburi  liquidi  o  gassosi   e'
accordata la concessione di coltivazione se la  capacita'  produttiva
dei  pozzi  e  gli  altri  elementi  di   valutazione   geo-mineraria
disponibili giustificano tecnicamente ed economicamente  lo  sviluppo
del giacimento scoperto». 
    E', percio', agevole riscontrare una posizione  privilegiata  del
titolare del permesso di ricerca nell'accesso alla  coltivazione  del
giacimento Cio', peraltro, puo' essere anche ritenuto ragionevole, se
si considera che questi ha effettuato  consistenti  investimenti  per
verificare l'esistenza  idrocarburi  nel  sottosuolo  o  nei  fondali
marini. 
    Se percio', pare assolutamente  verosimile  che  la  clausola  di
salvezza contenuta nella norma censurata sia stata formulata in  nome
del  principio  del  legittimo  affidamento  del  concessionario   di
coltivazione di idrocarburi (che ha ormai effettuato le ricerche e  i
conseguenti investimenti e che sta gia'  sfruttando  il  giacimento),
tale ratio legis appare sfumare nel caso - pure previsto dalla norma,
perche' si riferisce indiscriminatamente a tutti i titoli abilitativi
- del mantenimento sine die del permesso di ricerca. 
    Anzi, proprio perche' ci si trova ancora nella fase  di  ricerca,
il titolare del permesso di ricerca non  ha  ancora  sostenuto  alcun
significativo investimento economico che giustifichi la tutela  della
propria posizione. 
    Paradossalmente, e' proprio  dal  mantenimento  del  permesso  di
ricerca  e  dall'espletamento  delle  attivita'   connesse,   con   i
conseguenti investimenti  (ad  es.,  nel  caso  della  fascia  marina
interessata, l'analisi dei fondali tramite la tecnica  dell'air-gun),
che deriverebbero  posizioni  giuridiche  tali  da  far  sorgere  una
qualche forma di affidamento, per la cui tutela, pero', a quel punto,
occorrerebbe spingersi fino a riconoscere al titolare il  diritto  di
ottenere la concessione di coltivazione di idrocarburi (ove emergesse
la loro presenza nei fondali marini). 
    Percio', se  la  norma  esclude  che  possano  essere  rilasciati
«nuovi»  titoli  abilitativi  (e,  dunque,   nuove   concessioni   di
coltivazione), e' del tutto irragionevole che la stessa, in nome  del
principio  del  legittimo  affidamento,  disponga  nel  senso   della
salvezza dei permessi di ricerca, visto che non potrebbero mai essere
convogliati verso la fase successiva della coltivazione. 
    La rilevata illegittimita' ridonda sulle competenze regionali  in
materia di energia e di governo del territorio, se si  considera  che
l'attivita' di ricerca incide direttamente sul  territorio  regionale
(nel caso di  specie,  sul  mare  territoriale),  per  effetto  delle
tecniche adottate (in primis, l'air-gun), senza che peraltro  a  tale
sacrificio possa corrispondere  il  soddisfacimento  di  alcun  altro
interesse privato alla  coltivazione  del  giacimento,  il  quale  e'
recisamente escluso dalla disposizione impugnata. 
    Ne deriva che la  disposizione  impugnata  e'  costituzionalmente
illegittima, per violazione dell'art. 3  Cost.  e  del  principio  di
ragionevolezza,  nella  parte  in  cui  fa  salvi  tutti   i   titoli
abilitativi, anziche' le sole concessioni di coltivazione. 
    2) Illegittimita'  costituzionale  dell'articolo  1,  comma  240,
lett. c), della legge n. 208 del 2015, per violazione degli artt.  3;
117,  comma  3;  118  Cost.,   nonche'   del   principio   di   leale
collaborazione e del principio di ragionevolezza. 
    Per ragioni di ordine sistematico,  le  censure  di  legittimita'
costituzionale concernenti l'articolo 1, comma 240, lett.  c),  della
legge n. 208 del 2015 precedono quelle concernenti la lett. b)  della
medesima disposizione. 
    La  norma  prevede  che  il  comma   5   dell'articolo   38   del
decreto-legge  12   settembre   2014,   n.   133,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014 n.  164,  sia  sostituito
dal seguente: 
        «5. Le attivita' di ricerca  e  coltivazione  di  idrocarburi
liquidi e gassosi sono svolte con le modalita' di cui  alla  legge  9
gennaio 1991, n. 9, o a seguito del rilascio di un titolo concessorio
unico, sulla base di un programma generale di  lavori  articolato  in
una prima fase di ricerca, per la durata di sei anni, a cui  seguono,
in  caso  di  rinvenimento   di   un   giacimento   tecnicamente   ed
economicamente coltivabile, riconosciuto dal Ministero dello sviluppo
economico, la fase di coltivazione della durata di trent'anni,  salvo
l'anticipato  esaurimento  del  giacimento,  nonche'   la   fase   di
ripristino finale». 
    In sostanza, la norma prevede che - ad libitum del richiedente  -
si possa applicare o il regime previsto dalla legge  n.  9  del  1991
(destinato, invece, a scomparire secondo la  precedente  formulazione
dell'art.  38  e,  in  particolare,  della  disposizione  transitoria
contenuta nell'ora abrogato comma 1-bis) o  la  disciplina  del  c.d.
titolo concessorio unico, integralmente contenuta nello  stesso  art.
38. 
    Occorre, altresi', premettere che  le  doglianze  qui  articolate
muovono dalla gia' motivata riconducibilita' della disciplina de  qua
nell'ambito della competenza  concorrente  fra  Stato  e  Regioni  in
materia  di  energia,  su  cui  ridonano  anche  le  invocazioni  dei
parametri  costituzionali  formalmente  estranei  al  riparto   delle
competenze. 
    Cio' posto, si ritiene che il nuovo disposto normativo del  comma
5 dell'art. 38 del d.l. n. 133 del 2014 sia viziato da illegittimita'
costituzionale, dal momento che  (1)  in  violazione  dell'art.  117,
comma 3, Cost. (e, in  particolare,  della  competenza  regionale  in
materia di energia), dell'art. 118, comma 1, Cost. e del principio di
leale  collaborazione  non  viene  prevista   alcuna   partecipazione
regionale per i titoli abilitativi che riguardano  il  mare;  (2)  in
violazione dell'art. 3  Cost.  e  del  principio  di  ragionevolezza,
diversifica irragionevolmente  il  regime  della  durata  dei  titoli
abilitativi (a seconda che seguano la procedura di cui alla legge  n.
9 del 1991 o quella per il rilascio del  titolo  concessorio  unico),
pur in assenza di alcun elemento di sostanziale diversita'. 
    2.1.  Come  gia'  si  e'  rilevato  nell'ambito   delle   censure
riguardanti il comma 239 dell'art. 1 della legge n. 208 del 2015,  la
normativa di settore applicabile non  prevede  alcuna  partecipazione
regionale per i titoli abilitativi riguardanti il mare. 
    Infatti, l'art. 1 comma 7, lett. n) della legge n. 239  del  2004
richiede che le determinazioni inerenti  la  prospezione,  ricerca  e
coltivazione di idrocarburi (ivi compresi i titoli abilitativi di cui
alla legge n. 9 del 1991) siano adottate, per la sola terraferma,  di
intesa con le regioni interessate. Del pari, l'art. 38  del  d.l.  n.
133 del 2014, nel disciplinare la procedura  volta  al  rilascio  del
titolo concessorio unico, richiede l'intesa  regionale  solo  per  le
richieste riguardanti la terraferma (cfr. comma 6). 
    Quanto alla fascia di tutela delle 12 miglia marine, su  cui  ora
vige il divieto assoluto di attivita' di prospezione, di ricerca e di
coltivazione  di  idrocarburi,  valgono  i  rilievi  concernenti   la
partecipazione regionale gia'  svolti,  che  qui  possono  intendersi
integralmente richiamati. 
    Peraltro, anche per quanto riguarda le  dette  attivita'  che  si
svolgono al di la' della fascia di tutela delle 12 miglia  marine  e,
percio', fuori dal mare territoriale, valgono rilievi analoghi, nella
misura  in  cui  gli  effetti  delle  medesime  siano  in  grado   di
interessare anche la richiamata area di interdizione. 
    Non si puo' infatti ritenere che vi possa essere (soprattutto  in
mare)  un  rigido  confine  in  grado  di   assicurare   la   mancata
propagazione  degli   effetti   delle   attivita'   concernenti   gli
idrocarburi nell'ambito della  fascia  di  tutela.  Indipendentemente
dalla collocazione dell'attivita', cio' non  si  puo'  escludere  ne'
nella fase di coltivazione, ne' nella fase di ricerca. 
    Tale ultimo assunto  e'  stato,  peraltro,  gia'  recepito  dalla
giurisprudenza amministrativa, la quale, con la sentenza  del  T.A.R.
Lazio n. 8203 del  2012,  ha  affermato  che  la  Regione  ricorrente
(Puglia) dovesse considerarsi direttamente interessata ai  sensi  del
Codice dell'ambiente «anche se l'intervento si colloca  al  di  fuori
della fascia di rispetto di 12 miglia marine». 
    Cio',  in  quanto  «la  fascia  di  rispetto  e'  stabilita   per
delimitare un'area entro la quale  vige  il  divieto  assoluto  delle
attivita' di ricerca,  prospezione  e  coltivazione  di  idrocarburi;
mentre le attivita' che si svolgono  a  distanza  maggiore  non  sono
vietate a priori, bensi' assoggettate a una complessa valutazione, la
quale non puo' non  coinvolgere  i  prospicienti  territori  costieri
(anche insulari) con le  relative  popolazioni,  attesa l'unitarieta'
dell'ecosistema con le potenziali e attuali interrelazioni  che  esso
presenta (cfr. la nozione di impatto ambientale di  cui  all'art.  5,
comma 1, lettera c) del decreto legislativo n. 152/2006).  E  infatti
la L. n. 9/91 fa riferimento anche alle attivita' di prospezione  che
si  svolgono  sulla  piattaforma  continentale;  mentre  la  primaria
responsabilita' dello Stato a tale riguardo, rilevante per il diritto
internazionale, non esclude che nell'ordinamento  interno  acquistino
rilevanza anche le posizioni delle articolazioni  territoriali  della
Repubblica, in considerazione del  particolare  rango  costituzionale
delle stesse. 
    Alla stregua di queste premesse,  sarebbe  formalistico  ritenere
che il prescritto coinvolgimento delle regioni  nel  procedimento  di
VIA, alla stregua degli artt. 24 e  25  del  decreto  legislativo  n.
152/2006 riguardi solamente le attivita'  incluse  nel  territorio  e
nelle  acque  territoriali,  ma  non  la   piattaforma   continentale
destinata allo sfruttamento economico delle risorse. 
    Con riferimento al caso in esame e' sufficiente considerare  che,
considerate  le  notorie  caratteristiche  del  Mare  Adriatico,  una
distanza della sede dell'intervento di  poche  decine  di  chilometri
dalle Isole Tremiti - che  rientrano  nel  territorio  della  Regione
Puglia - non puo' con ogni evidenza non considerarsi significativa al
fine di coinvolgere la medesima regione nel procedimento di  VIA,  in
quanto l'impatto potenziale sull'ecosistema marino e sulle  attivita'
connesse  alla  pesca  riguarda  tutte  le  zone  circostanti  e  non
solamente quelle dell'Abruzzo. 
    La  giurisprudenza  ha  gia'  avuto  modo  di  evidenziare   come
l'utilizzo della tecnica dell'air gun sia foriero di conseguenze  che
si ripercuotono  anche  a  distanza,  attesa  la  natura  delle  onde
acustiche e le modalita'  tecniche  dell'operazione,  quantomeno  con
riferimento alla possibile migrazione della fauna  marina  in  luoghi
diversi da quelli direttamente interessati dal passaggio  della  nave
(cfr. TAR Puglia - Lecce, Sez. I, 14 luglio  2011,  n.  1341).  E  in
questa sede e' sufficiente  rimarcare  il  riferimento  al  carattere
potenziale dell'impatto ambientale, in quanto non  si  tratta  -  con
riferimento alle censure a carattere procedimentale - di pervenire  a
una valutazione in concreto sull'assenza di  pregiudizio  ambientale,
ma  piu'  semplicemente  di  prefigurare,   alla   stregua   di   una
considerazione prima facie, quali siano i  territori  anche  soltanto
potenzialmente coinvolti dalle conseguenze dell'intervento». 
    Pertanto, non  potendosi  escludere  -  in  via  di  principio  -
l'interessamento della fascia di tutela delle 12 miglia marine  anche
quando le attivita' si svolgono  oltre  la  stessa,  la  disposizione
richiamata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima  per
violazione dell'art. 117, comma 3, Cost. (e,  in  particolare,  della
competenza regionale in materia di energia), dell'art. 118, comma  1,
Cost. e del principio di leale collaborazione, nella parte in cui non
prevede che anche per il mare i titoli abilitativi di cui alla  legge
n. 9 del  1991  oppure  i  titoli  concessori  unici  debbano  essere
preceduti dall'intesa con la Regione (prospicente) interessata. 
    2.2.  Per  comprendere  la  censura  riguardante  la   violazione
dell'art. 3 Cost. e  del  principio  di  ragionevolezza,  in  ragione
dell'immotivata diversificazione del regime della durata  dei  titoli
abilitativi (a seconda che seguano la procedura di cui alla legge  n.
9 del 1991 o quella per il rilascio del  titolo  concessorio  unico),
occorre richiamare la formulazione delle previsioni legislative prima
delle modifiche introdotte dalla legge di stabilita' 2016. 
    Secondo  la   pregressa   formulazione,   avente   essenzialmente
carattere di' semplificazione, al fine  di  accelerare  le  attivita'
minerarie inerenti agli idrocarburi (si veda, al riguardo,  anche  il
comma 6 della medesima disposizione),  il  titolo  concessorio  unico
veniva a prendere il posto dei diversi titoli minerari previsti dalla
legge 9 gennaio 1991 n. 9, e per questo venivano  previsti  tempi  di
durata («in una prima fase di ricerca, per la durata di sei anni, ...
a cui seguono la fase di coltivazione della durata di trenta anni») e
possibilita' di proroghe (per la prima fase «due volte per un periodo
di tre anni» e per la seconda fase «per  una  o  piu'  volte  per  un
periodo di dieci anni»). Con la legge n. 208 del 2015, art. 1,  comma
240, lettera c, al fine  di  paralizzare  la  richiesta  referendaria
avanzata dai Consigli regionali e dichiarata  legittima  dall'Ufficio
centrale per il referendum presso la  Corte  di  Cassazione,  con  la
quale si voleva eliminare il regime delle  proroghe,  il  legislatore
statale ha sconvolto la disciplina e la  logica  che  aveva  condotto
alla previsione del titolo concessorio unico, che - secondo la  ratio
di semplificazione e  di  accelerazione  delle  procedure  -  sarebbe
dovuto  diventare  l'unico   titolo   abilitativo   in   materia   di
idrocarburi. 
    In particolare,  il  legislatore  del  2015,  pur  mantenendo  la
previsione di detto atto e, per di piu', eliminando ogni possibilita'
di proroga per le diverse fasi,  cosi'  apparentemente  mostrando  di
accogliere la richiesta regionale, inseriva  nel  testo  della  nuova
disposizione un  regime  di  concorrenza  dei  titoli  abilitativi  -
chiaramente evidenziato dalla disgiuntiva «o» - tra lo stesso  titolo
concessorio unico e il sistema originario dei titoli  previsti  dalla
legge n. 9 del  1991,  comprensivo  del  regime  delle  proroghe  che
risultava eliminato, conseguentemente, solo per il titolo concessorio
unico. 
    In  questo  modo,  per  un  verso,  veniva  disattesa  la   ratio
originaria   del   decreto    «sblocca    Italia»,    quella    della
semplificazione,  e,  per  l'altro,  veniva  aggirata  la   richiesta
regionale dell'eliminazione dei regimi di proroga  Si  tratta  di  un
modo di legiferare non caratterizzato, sul piano  istituzionale,  dal
principio di leale collaborazione e che, per di piu'  e  soprattutto,
rende problematica e priva di  ordine  razionale  la  disciplina  dei
titoli abilitativi nella materia degli idrocarburi. Di qui le censure
di costituzionalita'. 
    E' interesse della  Regione  ricorrente,  percio',  impugnare  la
disposizione,  per   il   superficiale   obiettivo   perseguito   dal
legislatore e, soprattutto,  per  la  totale  disarticolazione  nella
disciplina dettata dei titoli  abilitativi  e  per  la  loro  mancata
razionalizzazione.  Detta  mancata  razionalizzazione  e'  alla  base
dell'irragionevolezza che  inficia  il  comma  5  dell'art.  38,  che
ridonda in  violazione  della  competenza  regionale  in  materia  di
energia. 
    Infatti, non si comprende  per  quale  ragione,  in  presenza  di
procedure che determinano i medesimi effetti e  che  sono  circondate
delle medesime garanzie, le  due  tipologie  di  titoli  minerari  si
diversifichino, poi, per la differente efficacia temporale, senza che
risulti comprensibile la ratio della divergenza. 
    In particolare, il titolo concessorio unico avrebbe una durata di
6 anni per  la  fase  di  ricerca  e  di  30  anni  per  la  fase  di
coltivazione mentre i titoli abilitativi di cui alla legge n.  9  del
1991, conservando il proprio regime, avrebbero una durata di  6  anni
per il permesso di ricerca (ma prorogabile due volte per 3 anni) e di
30 anni per la concessione di coltivazione (ma prorogabile una  prima
volta per 10 anni e infinite volte per 5 anni). 
    In  assenza  di  qualunque  ragionevole  elemento  in  grado   di
giustificare tale disparita', si chiede, pertanto, che codesta Ecc.ma
Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art.  1,
comma 240, lett. c), della legge n. 208 del 2015, nella parte in  cui
non prevede il limite temporale ivi stabilito (6 anni per la  ricerca
e  30  anni  per  la  coltivazione)  si  applichi  anche  ai   titoli
abilitativi di cui alla legge n. 9 del 1991. 
    Per giunta, la (prevedibile) opzione per i titoli abilitativi  di
cui alle legge n. 9 del 1991 farebbe in modo  che  la  partecipazione
regionale [1] non avvenga affatto per quelli che interessano il  mare
(e su questo profilo si e' gia' articolata la relativa censura) [2] e
si possa avere solo in sede di  primo  rilascio  dei  titoli  per  le
richieste riguardanti la terraferma. 
    Tale unica partecipazione regionale farebbe, percio', in modo che
un  titolo  abilitativo  (e,  in  particolare,  la   concessione   di
coltivazione) sia nella sostanza prorogabile all'infinito, senza che,
nella nuova ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, che deve
essere svolta in sede di procedimento per il rilascio della  proroga,
si tenga in alcun modo in considerazione la posizione  della  Regione
interessata, nonostante si verta in materia di competenza concorrente
fra Stato e Regioni. 
    Cio' comporta, infine, la violazione delle regole che  presiedono
all'attrazione  in  sussidiarieta'  delle  competenze  regionali   e,
specificamente, del principio di leale collaborazione. 
    Pertanto, in via subordinata, si chiede che la  disposizione  sia
dichiarata costituzionalmente illegittima, nella  parte  in  cui  non
prevede che la proroga del titolo abilitativo ai sensi della legge n.
9 del 1991 avvenga previa (nuova) intesa con la Regione. 
    3) Illegittimita'  costituzionale  dell'articolo  1,  comma  240,
lett. b), della legge n. 208 del 2015, per violazione dell'art.  117,
comma 1, Cost., in combinato  disposto  con  la  Direttiva  94/22/CE,
l'art. 117, comma 3, e art. 118 Cost.; nonche' del principio di leale
collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost. 
    La  legge  11  novembre  2014,  n.  164,   di   conversione   del
decreto-legge  n.  133  del  12  settembre  2014  (decreto   «Sblocca
Italia»), aveva introdotto, all'art.  38  dello  stesso  decreto,  il
comma 1-bis con il quale si  disponeva  quanto  segue:  «Il  Ministro
dello sviluppo economico, con proprio decreto,  sentito  il  Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, predispone un
piano delle aree in cui sono consentite le attivita' (di prospezione,
ricerca e coltivazione di idrocarburi». 
    Successivamente, l'art. 1, comma 554,  della  legge  23  dicembre
2014, n. 190 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 29  dicembre  2014,
n. 300)  ha  sostituito  il  comma  1-bis dell'art.  38  del  decreto
«Sblocca Italia» con le seguenti disposizioni:  «1-bis.  Il  Ministro
dello sviluppo economico, con proprio decreto,  sentito  il  Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, predispone un
piano delle aree in cui sono consentite le attivita' (di prospezione,
ricerca e coltivazione di idrocarburi). Il piano,  per  le  attivita'
sulla  terraferma,  e'  adottato  previa  intesa  con  la  Conferenza
unificata. In caso di mancato raggiungimento dell'intesa, si provvede
con le modalita' di cui all'articolo 1, comma 8-bis, della  legge  23
agosto 2004, n. 239. Nelle more  dell'adozione  del  piano  i  titoli
abilitativi di cui al comma 1 sono rilasciati sulla base delle  norme
vigenti  prima  della  data  di  entrata  in  vigore  della  presente
disposizione». 
    Con la lett. b) dell'art. 1 della legge n.  208  del  2015,  oggi
impugnata, e' stata disposta l'abrogazione integrale del comma 1-bis. 
    Tale abrogazione tout court si pone in contrasto con l'art.  117,
comma 1, Cost., in combinato disposto con la Direttiva  94/22/CE,  da
cui si ricava che il legislatore italiano  e'  tenuto  a  varare  una
razionalizzazione delle aree aperte alle  attivita'  di  prospezione,
ricerca e coltivazione di  idrocarburi,  che  si  sarebbe  realizzata
grazie al c.d. piano delle aree e che, invece,  e'  ora  esclusa  per
effetto dell'abrogazione. 
    Tale   violazione,   peraltro,   ridondando   sulla    competenza
concorrente  fra  Stato  e  Regioni  in  materia  di  energia,  fonda
l'interesse a sollevare la censura da parte della Regione ricorrente. 
    Nello specifico, l'art.  2,  par.  1,  della  Direttiva  94/22/CE
dispone che «Gli Stati membri mantengono il diritto  di  determinare,
all'interno del loro territorio, le aree da rendere  disponibili  per
le attivita' di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi». 
    Dal canto proprio, l'art. 3  disciplina  le  possibili  procedure
adottabili a tal fine dallo Stato membro, prevedendo che: 
        «1. Gli Stati  membri  adottano  le  disposizioni  necessarie
affinche' le autorizzazioni siano rilasciate in esito a  procedimenti
nei quali tutti gli enti interessati possano  presentare  domanda  ai
sensi del paragrafo 2 o del paragrafo 3. 
        2. Questo procedimento e' avviato: 
          a)  su  iniziativa  delle  autorita'  competenti,  mediante
avviso che invita a presentare domande da pubblicarsi nella  Gazzetta
ufficiale delle Comunita' europee almeno 90 giorni prima  della  data
limite per la presentazione delle domande; oppure 
          b) mediante un avviso che invita a presentare  domande,  da
pubblicarsi nella Gazzetta ufficiale delle Comunita' europee dopo che
un  ente  ha  presentato  una  domanda,  fatto  salvo  l'articolo  2,
paragrafo 1. Ogni altro ente interessato dispone  di  un  termine  di
almeno  90  giorni  a  decorrere  dalla  data  di  pubblicazione  per
presentare una domanda. 
    L'avviso specifica il tipo di autorizzazione, l'area  o  le  aree
geografiche che sono  o  possono  essere,  in  parte  o  interamente,
oggetto della domanda, nonche' la data proposta o il  termine  ultimo
per il rilascio dell'autorizzazione. 
    L'avviso specifica se e' prevista una preferenza per  le  domande
presentate da  enti  costituiti  da  una  singola  persona  fisica  o
giuridica. 
    3. Gli Stati membri possono  rilasciare  un'autorizzazione  senza
avviare un procedimento ai sensi del paragrafo 2  se  l'area  oggetto
della domanda di autorizzazione: 
        a) e' disponibile in maniera permanente o 
        b) e' stata oggetto di un precedente  procedimento  ai  sensi
del  paragrafo  2  che  non  si  e'  concluso  con  il  rilascio   di
un'autorizzazione o 
        c)  e'  stata  abbandonata  da  un   ente   e   non   rientra
automaticamente nei casi di cui alla lettera a). 
    Uno Stato membro che  intenda  applicare  il  presente  paragrafo
provvede, entro tre mesi dall'adozione della  presente  direttiva  o,
nel caso degli  Stati  membri  che  non  hanno  ancora  avviato  tali
procedimenti,  senza  indugio,  alla  pubblicazione  nella   Gazzetta
ufficiale delle Comunita' europee di un avviso in cui  sono  indicate
le aree, situate all'interno del proprio territorio,  disponibili  ai
sensi del presente paragrafo e i luoghi  dove  ottenere  informazioni
dettagliate al riguardo.  Qualsiasi  modificazione  significativa  di
tali  informazioni  formera'  oggetto  di  un  avviso  supplementare.
(...)». 
    Gia' dal tenore letterale  delle  disposizioni  riportate  appare
evidente  che  il  diritto  europeo  impone  agli  Stati  membri   di
addivenire a una razionalizzazione delle aree  in  cui  e'  possibile
svolgere le attivita' di ricerca e di coltivazione di idrocarburi. 
    Una previa  determinazione  delle  aree  «chiuse»  e  delle  aree
«aperte» e' sottesa a tutto l'impianto normativo. 
    Ne' puo' portare  a  conclusioni  difformi  la  differente  fonte
d'impulso prevista dalle lett. a) e b) dell'art. 3, par. 2. 
    Nel primo caso (lett. a), il procedimento si avvia d'ufficio («su
iniziativa delle autorita' competenti»). Pertanto, esso presuppone  -
nel caso italiano - la previa pianificazione delle  aree  «aperte  da
parte del Ministero dello sviluppo economico  e  la  successiva  fase
«concorrenziale»  che  si  avvia  per  effetto  della   pubblicazione
dell'avviso. In tal caso, non vi puo'  essere  alcun  dubbio  che  le
attivita'  concernenti  gli  idrocarburi  debbano  essere   precedute
dall'adozione di un atto amministrativo generale. 
    Nondimeno, una tale conclusione non puo' essere posta  in  dubbio
neppure nel secondo caso (lett. b). Non sembra infatti  che  la  mera
circostanza che l'avviso pubblico abbia luogo dopo che un ente  abbia
presentato   domanda   esoneri   lo   Stato   membro   dalla   previa
pianificazione, soprattutto se si considera che  la  disposizione  fa
«salvo l'articolo 2, paragrafo 1»,  secondo  cui  «Gli  Stati  membri
mantengono il diritto di determinare, all'interno del loro territorio
le aree da rendere  disponibili  per  le  attivita'  di  prospezione,
ricerca e coltivazione di idrocarburi». 
    Non e' chi non veda come la determinazione delle aree disponibili
non possa essere conseguenza di un'istanza (privata)  di  parte,  cui
seguirebbe  l'obbligo  dello  Stato  membro  di   dare   corso   alla
pubblicazione dell'avviso. 
    Piuttosto, lo Stato membro, dopo aver operato tale determinazione
in via astratta, potrebbe scegliere di  ricorrere  non  a  un  avviso
pubblico «generale» (lett. a), bensi' a un avviso pubblico «puntuale»
(lett. b) concernente un'area per  la  quale  sia  stato  manifestato
interesse da parte di un ente. 
    Diversamente, si giungerebbe al paradosso che lo Stato membro sia
tenuto ad aprire la fase «ad evidenza pubblica» in tutti  i  casi  in
cui vi sia stata una domanda a istanza di parte. E'  invece  evidente
che quest'ultima non puo' che inquadrarsi nell'ambito  di  un  previo
atto pianificatorio che delimiti le aree «aperte»  su  cui  gli  enti
possono manifestare il proprio interesse. 
    Se sistematicamente compresa, la  disposizione  esclude  un  tale
meccanismo in ogni sua parte, tanto e' vero che  anche  per  il  caso
previsto dal par. 3 vi e' la necessita' di un «avviso in cui  (siano)
indicate le aree (...) disponibili». 
    D'altro canto, non puo' che  rilevarsi  come  un  meccanismo  che
operi a istanza di parte, non solo per determinare l'avvio della fase
«ad evidenza pubblica», ma anche per la delimitazione  dell'area  che
potrebbe  essere  interessata  dalle  manifestazioni  di   interesse,
provocherebbe la totale irragionevolezza del sistema, il quale allora
dovrebbe promuovere giocoforza la fase concorrenziale prima ancora di
poter decidere in ordine all'«apertura», o meno  di  una  certa  area
alle attivita' de quibus. 
    Se si segue questa impostazione, nel caso di cui  alla  lett.  b)
del par. 2, si arriverebbe al  paradosso  che  la  determinazione  di
«apertura» dell'area da parte dello Stato membro si avrebbe all'esito
di una defatigante procedura che dovrebbe comunque avviarsi. 
    Infatti, prima delle manifestazioni  di  interesse  da  parte  di
eventuali altri concorrenti (oltre a colui che  ha  dato  impulso  al
procedimento),  sarebbe  esclusa  ogni  valutazione  della   domanda,
proprio in nome del principio di concorrenza che  deve  assistere  la
procedura e che porta a escludere che la «prima istanza» possa essere
oggetto di esame - anche solo  di  «ammissibilita'»  (lato  sensu)  -
senza che siano giunte le altre domande. 
    Pertanto, tale complessa  procedura  potrebbe  essere  inutiliter
data, laddove  lo  Stato,  all'esito  della  stessa  (e,  percio',  a
posteriori, piuttosto che a  priori,  come  avverrebbe  con  un  atto
pianificatorio) ritenga che la domanda non si possa neppure esaminare
nel merito, perche' l'area interessata  e'  «chiusa»  alle  attivita'
concernenti gli idrocarburi. 
    Dal  tenore  letterale  delle  norme  esaminate  e  dalla  palese
irragionevolezza  di  un'interpretazione  diversa   da   quella   qui
sostenuta deriva che in tutti  i  casi  previsti  dall'art.  3  della
Direttiva  94/22/CE  la  procedura  volta  al  rilascio  dei   titoli
abilitativi debba essere preceduta da un atto pianificatorio generale
da parte dello Stato membro. 
    Pertanto, l'abrogazione tout court del comma 1-bis  dell'art.  38
si  pone  in   contrasto   col   diritto   europeo,   escludendo   la
pianificazione  dallo  stesso  prevista  e  annullando,  percio',  la
recente e positiva acquisizione che lo Stato italiano  stava  ponendo
in essere con la previsione del c.d. piano delle aree. 
    La  violazione  del  diritto  europeo  cosi'  verificatasi  deve,
percio', essere censurata dall'ordinamento interno e si chiede quindi
che  l'Ecc.ma  Corte   adita   voglia   dichiarare   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 240, lett. b), della legge  n.  208
del 2015, eventualmente previo rinvio  pregiudiziale  alla  Corte  di
Giustizia dell'Unione Europea, con cui le si richieda se  il  diritto
europeo osta a una normativa nazionale in  materia  di  attivita'  di
ricerca e coltivazione di idrocarburi che, al posto di  prevedere  un
atto  pianificatorio  generale   delle   aree   «aperte»,   determina
quest'ultime  per  effetto  delle  domande   pervenute   dagli   Enti
abilitati. 
    Rimane peraltro inteso che la Regione ricorrente portatrice,  nel
caso di specie, di un pregnante interesse suo proprio,  nella  misura
in cui, in presenza della previsione  di  tale  atto  pianificatorio,
essa avrebbe dovuto essere coinvolta nella  sua  predisposizione  per
effetto del riparto interno delle competenze in materia  di  energia,
partecipando  alla  fase  costitutiva  dell'atto   attraverso   forme
adeguate di collaborazione come insegna la costante giurisprudenza di
codesta Ecc.ma Corte. 
    3.2. Inoltre, con la soppressione del comma 1-bis ad opera  della
disposizione impugnata viene meno lo strumento  di  raccordo  con  le
Regioni,  prima  previsto:  le  attivita'  sulla   terraferma   erano
consentite solo nelle aree individuate dal  Ministro  dello  sviluppo
economico con decreto da emanarsi sentito il Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio  e  del  mare  e  previa  intesa  con  la
Conferenza unificata. 
    Con la soppressione del comma 1-bis ad opera  della  disposizione
impugnata, dunque, scompare la necessita' della previa  intesa  e  il
relativo coinvolgimento delle Regioni. 
    Da  cio'  emerge  con  immediata  evidenza  la  violazione  della
competenza legislativa regionale,  dal  momento  che  il  legislatore
statale interviene  nell'ambito  delle  attivita'  di  ricerca  e  di
coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, che, in  quanto  tali,
si collocano nell'ambito della competenza regionale. 
    Occorre ricordare che Codesta Ecc.ma Corte fin dalla sentenza  n.
383 del 2005 ha stabilito, in ogni caso la necessita'  di  un'«intesa
in senso  forte»  (cfr.  da  ultimo  sentenza  n.  7  del  2016)  per
giustificare un'attrazione  nella  competenza  statale  quale  quella
disposta dalla norma impugnata. Cosi', piu' recentemente, la Corte ha
precisato che nel caso di «chiamata in  sussidiarieta'»  l'intervento
del legislatore statale e'  legittimo  se  «siano  previste  adeguate
forme di coinvolgimento delle Regioni interessate  nello  svolgimento
delle funzioni allocate in capo agli  organi  centrali,  in  modo  da
contemperare le ragioni dell'esercizio unitario di date competenze  e
la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni
stesse (ex plurimis, sentenze n. 179 e n. 163 del 2012,  n.  232  del
2011). Piu' in particolare, la legislazione statale  di  questo  tipo
«puo' aspirare a superare il vaglio  di  legittimita'  costituzionale
solo in presenza di una disciplina  che  prefiguri  un  iter  in  cui
assumano  il  dovuto  risalto  le   attivita'   concertative   e   di
coordinamento orizzontale, ovverosia le  intese,  che  devono  essere
condotte in base al principio di lealta'» (sentenze n. 278 del  2010,
n. 383 del 20,05, n. 6 del 2004 e n.  303  del  2003)»  (sentenza  n.
261/2015). 
    Di qui l'illegittimita' della  norma  impugnata  che,  eliminando
ogni forma di coinvolgimento delle  Regioni  viola  il  principio  di
leale collaborazione.