Ricorso del Presidente del  Consiglio  dei  Ministri,  rapp.to  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato presso cui e' domiciliato
in Roma, via dei Portoghesi n. 12; contro Regione Autonoma del Friuli
Venezia Giulia in persona del Presidente  pro  tempore  della  Giunta
regionale; 
    per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge
regionale 8 aprile 2016 n. 4,  pubblicata  nel  Bollettino  Ufficiale
della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia del 12 aprile 2016 n. SO
18, limitatamente agli articoli 1, 3, 9, 15, 19, 72 comma 1, 
 
                                Fatto 
 
    La  legge  regionale  in  epigrafe  detta  «Disposizioni  per  il
riordino e la semplificazione della normativa  afferente  il  settore
terziario, per  l'incentivazione  dello  stesso  e  per  lo  sviluppo
economico». 
    Limitatamente  agli  articoli  indicati  in  epigrafe,  la  legge
regionale e' costituzionalmente illegittima e,  giusta  delibera  del
Consiglio dei ministri del 31 maggio  2016,  viene  impugnata  per  i
seguenti 
 
                               Motivi 
 
    1. L'art. 1 della legge impugnata dispone: 
      «1. L'art. 29 della legge regionale  5  dicembre  2005,  n.  29
(Normativa  organica  in  materia  di  attivita'  commerciali  e   di
somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale
16  gennaio  2002,  n.  2  «Disciplina  organica  del  turismo»),  e'
sostituito dal seguente: 
        «Art.  29  (Giornate  di  chiusura  degli  esercizi)   -   1.
L'esercizio del commercio al dettaglio in sede fissa e' svolto  senza
limiti  relativamente  alle  giornate  di  apertura  e  chiusura,   a
eccezione dell'obbligo di chiusura nelle seguenti  giornate  festive:
1° gennaio, Pasqua, lunedi' dell'Angelo,  25  aprile,  l°  maggio,  2
giugno, 15 agosto, 1° novembre, 25 e 26 dicembre.». 
      2. Le disposizioni di cui all'art.  29  della  legge  regionale
29/2005, come sostituito dal comma 1, hanno efficacia dal 1°  ottobre
2016.» 
    L'art. 3 della legge impugnata dispone: 
      «1. All'art. 30 della legge regionale n. 29/2005 sono apportate
le seguenti modifiche: 
        a) il comma 1 e' sostituito dal seguente: 
          «1. Nei comuni classificati  come  localita'  a  prevalente
economia turistica, gli esercenti determinano liberamente le giornate
di chiusura degli esercizi di commercio al dettaglio in  sede  fissa,
in deroga a quanto disposto dall'art. 29»; 
        b) il comma 2 e' abrogato; 
        c) al comma 3  dopo  le  parole  «Lignano  Sabbiadoro.»  sono
aggiunte le seguenti: 
    «Con deliberazione della Giunta regionale, su domanda del  Comune
interessato,  possono  essere  individuate  ulteriori   localita'   a
prevalente  economia  turistica,   sulla   base   delle   rilevazioni
periodiche rese da PromoTurismo FVG.»». 
    Come   emerge   chiaramente   dalla   lettura   congiunta   delle
disposizioni introdotte dagli articoli l e 3, la liberalizzazione dei
giorni di apertura degli esercizi di commercio al dettaglio e' totale
per i soli esercizi situati nei comuni  classificati  come  comuni  a
prevalente  economia  turistica  in  base  alla  legge  regionale  n.
29/2005, che enumera tali comuni nell'art. 30  e,  con  le  modifiche
introdotte nel comma  3  dall'art.  3  della  legge  oggi  impugnata,
rimette a deliberazione della Giunta  regionale  l'individuazione  di
ulteriori comuni cosi' classificati. 
    Per gli esercizi di vendita al dettaglio  situati  in  tutti  gli
altri comuni della regione, invece, la liberalizzazione dei giorni di
apertura non e' totale, perche' la legge continua  a  prescrivere  il
divieto di apertura nei giorni festivi 1°  gennaio,  Pasqua,  lunedi'
dell'Angelo, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1°  novembre,
25 e 26 dicembre. 
    1.1. Questa complessiva normativa viola l'art. 117 comma 2  lett.
e), che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la legislazione
in materia di disciplina della concorrenza, e gli artt. 4 e  6  della
legge costituzionale  n.  1/63,  recante  lo  Statuto  della  Regione
Autonoma Friuli Venezia Giulia, giusta i quali la regione ha potesta'
legislativa esclusiva in materia di commercio (art. 4 n. 6), ma  deve
esercitare tale competenza «in armonia con  la  Costituzione,  con  i
principi generali dell'ordinamento giuridico della Repubblica, con le
norme fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi
internazionali dello Stato» (art. 4, comma 1); e  puo'  adeguare  con
norme integrative  la  legislazione  statale  alle  proprie  esigenze
soltanto in materia di «1)  scuole  materne;  istruzione  elementare;
media; classica; scientifica; magistrale; tecnica  ed  artistica;  2)
lavoro, previdenza e assistenza sociale; 3) antichita' e  belle  arti
tutela del paesaggio, della flora e della fauna»  (art.  6);  quindi,
non in materia di commercio. 
    La disciplina uniforme degli orari e dei giorni di apertura degli
esercizi commerciali attiene,  infatti,  alla  materia  «trasversale»
della concorrenza,  di  competenza  esclusiva  dello  Stato;  sicche'
l'autonomia  normativa  regionale,   neppure   speciale,   non   puo'
esercitarsi in modo da incidere su tale disciplina. 
    E' pacifico nella giurisprudenza di codesta  Corte  (si  veda  da
ultimo  Corte  costituzionale  n.  104/2014)  che   la   nozione   di
concorrenza  «riflette  quella  operante  in  ambito  comunitario   e
comprende: 
        a) sia gli interventi  regolatori  che  a  titolo  principale
incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela  in
senso proprio, che contrastano gli  atti  ed  i  comportamenti  delle
imprese che incidono negativamente  sull'assetto  concorrenziale  dei
mercati  e  che  ne   disciplinano   le   modalita'   di   controllo,
eventualmente anche di sanzione; 
        b) sia le misure legislative di  promozione,  che  mirano  ad
aprire un mercato o a consolidarne  l'apertura,  eliminando  barriere
all'entrata, riducendo o  eliminando  vincoli  al  libero  esplicarsi
della capacita' imprenditoriale e  della  competizione  tra  imprese,
rimuovendo cioe', in generale, i vincoli alle modalita' di  esercizio
delle attivita' economiche (ex multis: sentenze n. 270 e  n.  45  del
2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007)». 
    Inoltre, la Corte ha  affermato  che  la  materia  «tutela  della
concorrenza», dato il suo carattere finalistico, non e'  una  materia
di  estensione  certa  o  delimitata,  ma   e'   configurabile   come
trasversale,  «corrispondente  ai  mercati   di   riferimento   delle
attivita' economiche incise dall'intervento e in  grado  di  influire
anche su materie attribuite alla competenza legislativa,  concorrente
o residuale, delle regioni» (cosi, tra le piu' recenti,  sentenza  n.
38 del 2013; si veda, inoltre, la sentenza n. 299 del 2012). 
    Dalla natura trasversale della competenza esclusiva  dello  Stato
in materia di «tutela  della  concorrenza»  la  Corte  ha  tratto  la
conclusione «che il titolo  competenziale  delle  Regioni  a  statuto
speciale in materia di commercio non e' idoneo ad impedire  il  pieno
esercizio della suddetta  competenza  statale  e  che  la  disciplina
statale della concorrenza costituisce un limite alla  disciplina  che
le medesime  Regioni  possono  adottare  in  altre  materie  di  loro
competenza» (sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012). 
    Espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in
questa  rnateria  e'  stato  ritenuto  l'art.  31,   comma   2,   del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per  la
crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei   conti   pubblici),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma l, della  legge  22
dicembre 2011, n. 214. Tale  disposizione  detta  una  disciplina  di
liberalizzazione  e  di  eliminazione   di   vincoli   all'esplicarsi
dell'attivita' imprenditoriale nel settore commerciale stabilendo che
«costituisce  principio  generale   dell'ordinamento   nazionale   la
liberta' di apertura di nuovi  esercizi  commerciali  sul  territorio
senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli  di  qualsiasi
altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della  salute,  dei
lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei  beni
culturali». 
    In particolare, il profilo degli orari e dei giorni di apertura e
chiusura degli esercizi  commerciali  e'  disciplinato  dall'art.  3,
comma 1, lettera d-bis) del decreto legislativo n. 223 del 2006, come
modificato dall'art. 31 del decreto legislativo n. 201 del 2011 cit.,
il quale  stabilisce  che  «al  fine  di  garantire  la  liberta'  di
concorrenza [...] le  attivita'  commerciali,  come  individuate  dal
decreto legislativo 31 marzo 1998, n.  114»,  sono  svolte  senza  il
rispetto  -  tra  l'altro  -  di  orari  di  apertura   e   chiusura,
dell'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche'  di  quello
della mezza giornata di chiusura infrasettimanale. 
    Nell'interpretare la citata normativa,  codesta  Corte  (si  veda
ancora la  sent.  104/2014)  ha  sottolineato  come  «essa  attui  un
principio di  liberalizzazione,  rimuovendo  vincoli  e  limiti  alle
modalita' di esercizio delle attivita' economiche, e  «L'eliminazione
dei limiti agli orari e ai  giorni  di  apertura  al  pubblico  degli
esercizi commerciali  favorisce,  a  beneficio  dei  consumatori,  la
creazione di un mercato piu' dinamico e piu' aperto  all'ingresso  di
nuovi operatori e amplia la possibilita' di scelta  del  consumatore.
Si tratta, dunque, di misure coerenti con l'obiettivo  di  promuovere
la concorrenza, risultando  proporzionate  allo  scopo  di  garantire
l'assetto concorrenziale del mercato  di  riferimento  relativo  alla
distribuzione commerciale» (sentenza n. 299 del 2012 [...)» (sentenza
n. 38 del 2013). 
    In sostanza, le uniche limitazioni che e'  possibile  porre  allo
svolgimento dell'attivita' di commercio su area pubblica sono  quelle
individuate dall'art. 28, comma 13, del decreto  legislativo  n.  114
del 1998, come modificato dal decreto legislativo  n.  59  del  2010,
riconducibili ad esigenze di sostenibilita' ambientale e  sociale,  a
finalita'  di  tutela  delle  zone  di  pregio  artistico,   storico,
architettonico e ambientale, nonche' quelle individuate dall'art.  31
del decreto legislativon. 201 del 2011 (cioe' delle zone,  anche,  di
maggiore     interesse     turistico,     nelle     quali      pero',
contraddittoriamente, la legge impugnata prevede la  liberalizzazione
integrale e incondizionata dei giorni di apertura). 
    L'imposizione generalizzata del divieto di  apertura  nei  giorni
festivi indicati dalla legge impugnata,  e  la  previsione  che  tale
obbligo non sussista esclusivamente nei comuni a prevalente  economia
turistica, contrastano  chiaramente  con  tale  assetto,  costituente
disciplina  della  concorrenza  e  riforma  economica   fondamentale;
sicche' la normativa in esame, da un lato, esula dalla  mera  materia
«commercio»  ed  e'  invasiva  della  competenza  esclusiva  statale;
dall'altro, comunque, confligge con la normativa  di  grande  riforma
economica  introdotta  mediante  la   liberalizzazione   totale   del
commercio di cui al decreto legislativon. 223/2006  e  al  successivo
decreto legislativo n. 201/2011 convertito in legge n. 248/2006. 
    1.2. Con specifico riferimento all'art. 3, della legge impugnata,
che  prevede  la  liberalizzazione  totale  dei  giorni  di  apertura
soltanto nei comuni a prevalente economia  turistica,  le  violazioni
qui denunciate si colgono poi anche sotto il profilo della disparita'
di  condizioni  territoriali  di  esercizio  del  commercio  che   la
disposizione comporta. 
    Nell'ambito del territorio regionale,  soltanto  in  tali  comuni
sussiste la piena liberalizzazione dei giorni di' apertura; cio'  che
distorce le condizioni di distribuzione territoriale  degli  esercizi
commerciali. 
    L'art. 3, comma 1, della legge n. 248/2006 sottolinea infatti  la
necessita'  di  «garantire  la  liberta'   di   concorrenza   secondo
condizioni  di  pari  opportunita'  e   il   corretto   ed   uniforme
funzionamento del  mercato,  nonche'  di  assicurare  ai  consumatori
finali un livello minimo e uniforme di condizioni  di  accessibilita'
ai beni e servizi sul territorio nazionale». 
    In tal modo, il legislatore nazionale ha uniformato la disciplina
in tutto il territorio dello Stato, al fine di costituire  condizioni
di pari opportunita' tra  le  aziende  e,  anche  nell'interesse  del
consumatore, condizioni omogenee nelle prestazioni deli servizi. 
    Codesta Corte Costituzionale ha affermato, in  piu'  occasioni  e
con assoluta costanza, la necessita' di una disciplina  uniforme  sul
territorio della  disciplina  degli  orari  e  delle  chiusure  degli
esercizi commerciali, per evitare che l'ordinamento  sia  frammentato
in  una  molteplicita'  di  ordinamenti  regionali  ed  anche  locali
differenti  fra  loro,  il   che   costituisce   un   ostacolo   alla
realizzazione  di  un  mercato  unico  che  e'  ad  un  tempo  valore
costituzionale  e  principio   comunitario   (Corte   Costituzionale,
sentenza n. 8/2013). La previsione  di  un  regime  differenziato  si
pone, quindi, in contrasto con l'art. 117, comma 2, lett. e), Cost. e
con i principi di  liberalizzazione,  uniformita'  del  mercato,  par
condicio  degli  operatori  nei  singoli  ordinamenti   regionali   e
uniformita'   della   disciplina,   ribaditi   da    codesta    Corte
Costituzionale fin dalla sentenza n. 430/2007. 
    2. L'art. 9 della legge regionale impugnata dispone: 
      «1. Prima del capo II del titolo VII della legge  regionale  n.
29/2005 e' inserito il seguente: 
        «Capo I-bis - Centri commerciali naturali. 
    Art. 85-bis  (Centri  commerciali  naturali).  -  1.  Per  centro
commerciale naturale si intende un insieme di attivita'  commerciali,
artigianali e di servizi, localizzato in  una  zona  determinata  del
territorio comunale in cui  le  funzioni  distributive  rivestono  un
ruolo significativo per  tradizione,  vocazione  o  potenzialita'  di
sviluppo, finalizzato al recupero, promozione e valorizzazione  delle
attivita' economiche, in  particolare  delle  produzioni  locali,  al
miglioramento della vivibilita'  del  territorio  e  dei  servizi  ai
cittadini e ai non residenti. 
    2. I centri commerciali naturali  sono  costituiti  in  forma  di
societa'  di  capitali,  societa'  consortili  e   associazioni   con
finalita' commerciali e perseguono  gli  scopi  di  cui  al  comma  1
mediante iniziative  di  qualificazione  e  innovazione  dell'offerta
commerciale,   di   sviluppo   della   promozione   commerciale,   di
acquisizione di servizi innovativi di supporto alle  attivita'  delle
imprese aderenti ed eventi di animazione territoriale. 
    3. Ai centri commerciali naturali possono aderire, in qualita' di
soggetti interessati, le associazioni  di  categoria,  la  Camera  di
commercio e il Comune  competenti  per  territorio  e  altri  enti  e
associazioni che si prefiggano lo scopo di valorizzare il territorio. 
    4. Al fine di sostenere le attivita' di cui al presente  art.,  i
centri commerciali naturali possono accedere  ai  contributi  di  cui
all'art. 100.».». 
    L'art. 15 della legge regionale impugnata prevede: 
        «l. Al comma 1, dell'art. 2 della legge regionale n.  29/2005
sono apportate le seguenti modifiche: 
        a)  alla  lettera  c)  le  parole  «generi  alimentari»  sono
sostituite dalle seguenti: «generi del settore alimentare»; 
        b) alla lettera d) le parole  «generi  non  alimentari»  sono
sostituite dalle seguenti: «generi del settore non alimentare»; 
        c) alla lettera i) dopo la parola «1.500»  sono  aggiunte  le
seguenti: «questi si distinguono in: 
          1) esercizi di media struttura minore:  con  superficie  di
vendita superiore a metri quadrati 250 e fino a metri quadrati 400; 
          2) esercizi di media struttura maggiore: con superficie  di
vendita superiore a metri  quadrati  400  e  fino  a  metri  quadrati
1.500;»; 
          d) alla fine della lettera  m)  le  parole  «effettuata  in
insediamenti  commerciali  a  cio'  appositamente   destinati»   sono
soppresse; 
          e) alla lettera s) le parole «, con  la  quale  l'operatore
attesta in particolare di essere in possesso  di  tutti  i  requisiti
richiesti dalla normativa vigente  e  di  aver  rispettato  le  norme
igienico - sanitarie, urbanistiche e relative alla destinazione d'uso
con riferimento all'attivita' che  si  intende  esercitare,  pena  il
divieto di prosecuzione dell'attivita' iniziata» sono soppresse. 
          f) dopo la lettera w) sono aggiunte le seguenti: 
        «w-bis) esercizio in proprio dell'attivita' di vendita  o  di
somministrazione: qualsiasi attivita' di vendita  di  prodotti  o  di
somministrazione  di  alimenti  e  bevande,  anche  se  trattasi   di
attivita' che la legge esclude dal suo ambito di applicazione; 
        w-ter) sportello unico per le attivita' produttive (SUAP): lo
sportello di cui all'art. 24 del decreto legislativo 31  marzo  1998,
n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato
alle regioni e agli enti locali, in attuazione del capo I della legge
15 marzo 1997, n. 59) e di cui alla legge regionale 12 febbraio 2001,
n. 3 (Disposizioni in materia di sportello  unico  per  le  attivita'
produttive e semplificazione di  procedimenti  amministrativi  e  del
corpo legislativo regionale), e loro successive modifiche.».» 
    Prima della modifica apportata all'art. 2, comma 1 lett. i) della
legge  regionale  n.  29/2005,  il  testo  di   questa   disposizione
prevedeva: «i) esercizi di vendita al dettaglio di  media  struttura:
gli esercizi con superficie di vendita superiore a metri quadrati 250
e fino a metri quadrati 1.500». 
    Come si vede, con l'art. 9 e con l'art.  15,  quest'ultimo  nella
parte in cui modifica  l'art.  2,  comma  1,  lett.  i)  della  legge
regionale n. 29/2005, il  legislatore  regionale  ha  introdotto  due
nuove  tipologie  di  esercizi  commerciali:  i  «centri  commerciali
naturali» (art. 9); e l'articolazione degli esercizi  di  vendita  al
dettaglio di  media  struttura,  prima  unitariamente  definiti  come
quelli con superficie di vendita superiore a 250 mq  e  fino  a  1500
metri quadrati, in esercizi di media struttura minore,  compresi  tra
250 e 400 metri quadrati, e in esercizi di media struttura  maggiore,
compresi tra piu' di 400 e 1500 metri quadrati. 
    In tal modo, il legislatore regionale ha introdotto tipologie  di
esercizi  commerciali  non   presenti   a   livello   nazionale.   La
classificazione nazionale degli esercizi di vendita al  dettaglio  e'
infatti dettata dal decreto legislativo n. 114/98. 
    L'art. 4, comma 1, lett.  d),  e),  g)  del  decreto  legislativo
stabilisce: «d) per esercizi di vicinato quelli aventi superficie  di
vendita non superiore a 150 mq. nei comuni con popolazione  residente
inferiore a 10.000 abitanti e a 250 mq. nei  comuni  con  popolazione
residente superiore a 10.000 abitanti 
      e)  per  medie  strutture  di  vendita  gli   esercizi   aventi
superficie superiore ai limiti di cui al punto d) e fino a  1.500  mq
nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e  a
2.500 mq. nei comuni con popolazione  residente  superiore  a  10.000
abitanti; 
      ... 
      g) per centro commerciale, una media o una grande struttura  di
vendita nella quale piu' esercizi commerciali sono  inseriti  in  una
struttura a destinazione specifica e usufruiscono  di  infrastrutture
comuni e  spazi  di  servizio  gestiti  unitariamente.  Ai  fini  del
presente decreto per superficie di vendita di un  centro  commerciale
si intende quella risultante dalla somma delle superfici  di  vendita
degli esercizi al dettaglio in esso presente. 
    La legge regionale n. 29/2005, prima delle modifiche  apportatele
con gli articoli 9 e 15  della  legge  regionale  qui  impugnata,  si
conformava a queste definizioni. 
    Da   queste   definizioni   emerge    chiaramente    che    nella
classificazione dei centri commerciali e degli esercizi di vendita al
dettaglio  non  esistono,  rispettivamente,  i  «centri   commerciali
naturali» ora introdotti dall'art. 9 della legge regionale  impugnata
(si veda la lettera g) dell'art. 4 decreto legislativo n. 114/98  che
definisce i centri commerciali), ne' la suddistinzione degli esercizi
di media struttura in esercizi di media struttura minore e  di  media
struttura maggiore. 
    Le  nuove  previsioni  regionali   differenziano   le   strutture
attraverso  le  quali  vengono  erogati  i  servizi  commerciali  nel
territorio  della  regione  Friuli  Venezia  Giulia,  rispetto   alle
tipologie di strutture operanti nelle restanti parti  del  territorio
nazionale. 
    Questa  differenziazione  esula  dalla  materia  «commercio»,  di
competenza della  regione  autonoma,  ed  incide  direttamente  sulla
disciplina della concorrenza. 
    2.1.  E'  infatti   esigenza   fondamentale   di   una   efficace
competizione sul mercato tra le imprese che prestano  i  servizi  del
commercio, che la disciplina delle relative  strutture  sia  il  piu'
possibile uniforme nell'intero territorio nazionale, e non  presenti,
in particolari zone  del  territorio  stesso,  aspetti  di  eccessiva
complessita' regolatoria privi di una stringente  giustificazione  di
interesse generale, e comunque  non  proporzionati  rispetto  a  tale
asserito interesse. 
    In argomento, codesta Corte ha gia' statuito che «una regolazione
delle attivita' economiche ingiustificatamente intrusiva - cioe'  non
necessaria  e  sproporzionata   rispetto   alla   tutela   dei   beni
costituzionalmente protetti- genera inutili ostacoli  alle  dinamiche
economiche, a detrimento degli interessi degli  operatori  economici,
dei consumatori e degli stessi lavoratori  e,  dunque  in  definitiva
reca danno  alla  stessa  utilita'  sociale»  (Corte  Costituzionale,
sentenza  n.  299/2012).  Nella  stessa  linea,  ha  poi   dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  delle  disposizioni  regionali  che
reintroducono limiti  e  vincoli  nella  disciplina  delle  attivita'
economiche nella parte in cui introducono  la  definizione  di  «polo
commerciale» non prevista nella  classificazione  degli  esercizi  di
vendita operata dal decreto legislativo n. 114/1998 (sent. 15  maggio
2014 n. 125). 
    2.2. Nella specie, la  suddistinzione  degli  esercizi  di  media
struttura in esercizi di media struttura minore e di media  struttura
maggiore appare del tutto superflua, posto  che  alla  suddistinzione
stessa non fa seguito, nell'insieme della novellata  legge  regionale
n. 29/2005, alcuna conseguenza pratica. Il  regime  amministrativo  a
cui sono sottoposti gli esercizi di media  struttura  rimane  infatti
immutato, rinvenendosi nell'art. 12 della citata legge  regionale  n.
29/2005, che non e' stato modificato in conseguenza dell'introduzione
della  nuova  definizione  da  parte  dell'impugnato  art.  9   legge
regionale n. 4/2016. 
    Alla stregua dell'art.  12  cit.,  la  essenziale  differenza  di
disciplina tra esercizi di media struttura fino a 400 metri  quadrati
di superficie, ed esercizi compresi tra piu'  di  400  e  1500  metri
quadrati, stava gia', e rimane,  nella  necessita',  per  iniziare  o
trasferire o ampliare l'attivita' dei primi, di  presentare  la  sola
«segnalazione certificata di inizio attivita'» (SCIA); e di ottenere,
invece, l'autorizzazione del  comune  per  iniziare  o  trasferire  o
ampliare l'attivita' dei secondi. 
    La sola differenza del regime  amministrativo  di  accesso  o  di
modifica dell'attivita' non giustifica la  sostanziale  creazione  di
due distinti tipi strutturali di esercizi di media  struttura.  Nella
logica della semplificazione e  della  liberalizzazione  dei  servizi
commerciali, infatti, il regime amministrativo, oltre  a  ridursi  al
minimo indispensabile, deve seguire la natura economica  dell'impresa
a cui si applica; e non puo', invece, determinare esso la sussistenza
di uno piu' determinati tipi  di  impresa:  nella  specie,  del  tipo
«impresa  commerciale  soggetta  a  SCIA»,  e   del   tipo   «impresa
commerciale soggetta ad autorizzazione». Anche  perche'  il  medesimo
regime  amministrativo  di  inizio  e  modifica  dell'attivita'  puo'
accomunare imprese commerciali di natura economica diversa. 
    Basti considerare che gli esercizi «di vicinato» sono soggetti  a
SCIA (art. 11 legge regionale n. 29/2005), come gli esercizi di media
struttura fino a 400 metri quadrati; e che  gli  esercizi  di  grande
struttura  (art.  13  legge  regionale   cit.)   sono   soggetti   ad
autorizzazione, al pari degli esercizi di media struttura superiori a
400 metri quadrati. 
    La tipologia strutturale e', quindi, circostanza neutra  rispetto
al regime amministrativo, e dunque,  come  gia'  rilevato,  non  puo'
essere determinata da questo; pena un «eccesso di regolazione» lesivo
della competenza esclusiva statale in materia  di  concorrenza,  come
chiarito dalla gia' citata sent. 299/2012 di codesta Corte. 
    2.3.  Quanto  ai  «centri   commerciali   naturali»,   introdotti
dall'art. 9 della legge regionale qui impugnata, si deve rilevare, in
particolare, che essi comportano un eccesso di regolazione in  quanto
si  basano  su  una  alquanto  affiggente  definizione  (insieme   di
attivita' commerciali, artigianali e di servizi, localizzato  in  una
zona  determinata  del  territorio  comunale  in  cui   le   funzioni
distributive  rivestono  un  ruolo  significativo   per   tradizione,
vocazione o  potenzialita'  di  sviluppo,  finalizzato  al  recupero,
promozione  e   valorizzazione   delle   attivita'   economiche,   in
particolare  delle  produzioni   locali,   al   miglioramento   della
vivibilita' del territorio e  dei  servizi  ai  cittadini  e  ai  non
residenti), che eccede largamente i  limiti  concessi  all'intervento
del legislatore nella dinamica economica. 
    Alle attivita' economiche non possono,  in  linea  di  principio,
assegnarsi per legge finalita' lato sensu sociali o  politiche,  come
il recupero, promozione, valorizzazione delle attivita' stesse, o  il
miglioramento della vivibilita'  del  territorio  e  dei  servizi  ai
cittadini e ai non residenti; come invece fanno, in  particolare,  il
comma 2 del nuovo art. 85-bis legge regionale n. 29/2005,  introdotto
dall'art. 9 della legge regionale  qui  impugnata,  allorche'  detta,
richiamando le finalita' ora dette, l'oggetto sociale delle  societa'
o associazioni in cui i  «centri  naturali»  debbono  costituirsi,  e
prevede che  l'attivita'  dei  «centri  naturali»  debba  comprendere
«iniziative di qualificazione e innovazione dell'offerta commerciale,
di sviluppo della promozione commerciale, di acquisizione di  servizi
innovativi di supporto  alle  attivita'  delle  imprese  aderenti  ed
eventi di animazione territoriale»; e il comma 3  allorche'  consente
che alle societa' e «associazioni con finalita' commerciali» in cui i
«centri» debbono  costituirsi  partecipino  anche  soggetti  che  non
perseguono direttamente ed esclusivamente finalita' commerciali, come
«le associazioni di categoria, la Camera di  commercio  e  il  Comune
competenti  per  territorio  e  altri  enti  e  associazioni  che  si
prefiggano lo scopo di valorizzare il territorio». 
    Ne', in linea di principio, il legislatore puo'  intervenire  per
condizionare  direttamente  la   localizzazione,   l'oggetto   e   la
strutturazione delle attivita' economiche, come nel caso in esame, in
cui la legge  sembra  voler  mantenere  immutate  la  localizzazione,
l'oggetto, la strutturazione delle attivita' commerciali, artigianali
e di servizi nelle zone in cui, a  giudizio  del  legislatore  stesso
(che, peraltro, non prevede alcun  procedimento  di  accertamento  di
tali situazioni),  sia  riconoscibile  un  ruolo  significativo  «per
vocazione» di tali attivita'. 
    La nuova figura del «centro commerciale naturale» e' quindi  atta
ad incidere  sul  libero  dispiegarsi  dell'iniziativa  economica  in
regime di concorrenza, nella misura in  cui,  da  un  lato,  tende  a
fissare i suddetti limiti  spaziali,  oggettivi  e  strutturali  alle
attivita' commerciali «naturali», anziche' rimettere al dispiegamento
del gioco  concorrenziale  il  determinarsi  dei  luoghi,  oggetti  e
strutture delle  attivita'  commerciali;  e,  dall'altro,  altera  la
concorrenza all'interno del territorio regionale, e anche al di fuori
di esso, perche' collega alla costituzione di un «centro  commerciale
naturale» l'accesso  ai  rilevanti  finanziamenti  pubblici  previsti
dall'art. 100 della legge regionale n. 29/2005 (cosi' dispone  il  15
nuovo art. 85-bis ultimo comma della legge n. 29/2005, introdotto dal
qui impugnato art. 9), in tal modo incentivando  la  costituzione  di
tali societa' o associazioni per ragioni non derivanti  da  effettive
esigenze di rafforzamento strutturale delle attivita' economiche  dei
soci o associati,  bensi'  dalla  ragione  «artificiale»  data  dalla
possibilita', in tal modo, di accedere ai suddetti finanziamenti. 
    In generale, codesta Corte nella gia' citata  sent.  104/2014  ha
rilevato, sempre a proposito di misure «dirigistiche» in  materia  di
commercio adottata da una regione ad autonomia speciale,  che  invade
la competenza  statale  in  materia  di  concorrenza  «un  potere  di
indirizzo volto alla determinazione di obiettivi di equilibrio  della
rete  distributiva  in  rapporto  alle  diverse  categorie   e   alla
dimensione degli esercizi. La previsione e la conformazione  di  tale
potere e' tale da consentire alla Giunta di incidere  e  condizionare
l'agire  degli  operatori  sul  mercato,  incentivando  o   viceversa
limitando l'apertura degli esercizi  commerciali  in  relazione  alle
diverse tipologie merceologiche,  alle  loro  dimensioni,  ovvero  al
territorio.  E'  evidente,  dunque,  che  la  previsione  in   esame,
autorizzando  la  Giunta  «a  definire  indirizzi»   per   assicurare
l'equilibrio  della  rete   distributiva,   consente   alla   Regione
interventi che ben possono risolversi in limiti alle possibilita'  di
accesso sul mercato degli operatori economici. Ma come gia'  rilevato
da questa Corte - e' ancor prima la stessa attribuzione  di  un  tale
potere alla Giunta regionale in una materia devoluta alla  competenza
legislativa esclusiva dello Stato a determinare la lesione  dell'art.
117, secondo comma, lettera e), Cost. (sentenza n, 38 del 2013).». 
    Mutatis mutandis, questi concetti possono applicarsi al caso  dei
«centri commerciali naturali» qui in esame, la cui previsione  appare
quindi costituzionalmente illegittima per violazione dell'art. 117 c.
2 lett. e) Cost. 
    3. L'art. 19 della legge regionale qui impugnata prevede: 
      «l. All'art. 7 della legge regionale n. 29/2005 sono  apportate
le seguenti modifiche: 
        a) il comma 2 e' sostituito dal seguente: 
      «2. L'esercizio dell'attivita'  commerciale  in  sede  fissa  o
sulle  aree  pubbliche  di   prodotti   alimentari,   nonche'   della
somministrazione  di  alimenti  e  bevande,  ancorche'   svolto   nei
confronti di una cerchia limitata di persone in locali non aperti  al
pubblico, e' subordinato al possesso di  uno  dei  requisiti  di  cui
all'art. 71, commi 6 e 6-bis, del decreto legislativo n. 59/2010.»; 
        b) al comma 3 le  parole  «al  comma  2,  lettera  c),»  sono
sostituite dalle seguenti: «all'art. 71, comma  6,  lettera  c),  del
decreto legislativo n. 59/2010»; 
        c) il comma 4 e' sostituito dal seguente: 
      «4.  E'  riconosciuta  validita'  ai  requisiti   professionali
maturati  o  riconosciuti  ai  sensi  dell'ordinamento  delle   altre
Regioni.».» 
    Il testo precedente dell'art. 7, comma 2 della legge regionale n.
29/2005 disponeva invece: 
      «2. L'autorizzazione all'esercizio  dell'attivita'  commerciale
in sede fissa o sulle aree pubbliche di prodotti alimentari,  nonche'
alla somministrazione di alimenti  e  bevande,  sono  subordinate  al
possesso di uno dei seguenti requisiti: 
        a) avere frequentato  i  corsi  di  cui  all'art.  8  e  aver
superato positivamente l'esame di cui all'art. 9; 
        b) avere, per almeno due anni, anche  non  continuativi,  nel
quinquennio precedente, esercitato in proprio attivita' d'impresa nel
settore alimentare o nel settore della somministrazione di alimenti e
bevande o avere prestato la propria opera, presso  tali  imprese,  in
qualita'  di  dipendente  qualificato,   addetto   alla   vendita   o
all'amministrazione o alla preparazione degli alimenti, o in qualita'
di socio lavoratore o in altre posizioni equivalenti o,  se  trattasi
di   coniuge,   parente   o   affine,   entro   il    terzo    grado,
dell'imprenditore, in qualita' di  coadiutore  familiare,  comprovata
dall'iscrizione all'Istituto nazionale della previdenza sociale; 
        c) essere in possesso di  un  diploma  di  scuola  secondaria
superiore o di laurea, anche triennale, o di altra scuola a indirizzo
professionale,  almeno  triennale,  nel  cui  corso  di  studi  siano
previste materie attinenti al commercio,  alla  preparazione  o  alla
somministrazione degli alimenti.».» 
    L'art. 71 commi 6 e 6-bis  decreto  legislativo  n.  59/2010  nel
testo in vigore dal 14 settembre 2012 dispone: 
      «6.   L'esercizio,   in   qualsiasi   forma   e   limitatamente
all'alimentazione umana, di un'attivita' di  commercio  al  dettaglio
relativa al settore merceologico  alimentare  o  di  un'attivita'  di
somministrazione di alimenti e bevande e'  consentito  a  chi  e'  in
possesso di uno dei seguenti requisiti professionali: 
        a)  avere   frequentato   con   esito   positivo   un   corso
professionale per il commercio, la preparazione o la somministrazione
degli alimenti,  istituito  o  riconosciuto  dalle  regioni  o  dalle
province autonome di Trento e di Bolzano; 
        b) avere, per almeno due anni, anche  non  continuativi,  nel
quinquennio precedente, esercitato in proprio attivita' d'impresa nel
settore alimentare o nel settore della somministrazione di alimenti e
bevande o avere prestato la propria opera, presso  tali  imprese,  in
qualita'  di  dipendente  qualificato,   addetto   alla   vendita   o
all'amministrazione o alla preparazione degli alimenti, o in qualita'
di socio lavoratore o in altre posizioni equivalenti o,  se  trattasi
di   coniuge,   parente   o   affine,   entro   il    terzo    grado,
dell'imprenditore, in qualita' di  coadiutore  familiare,  comprovata
dalla iscrizione all'Istituto nazionale per la previdenza sociale; 
        c) essere in possesso di  un  diploma  di  scuola  secondaria
superiore o  di  laurea,  anche  triennale,  o  di  altra  scuola  ad
indirizzo professionale, almeno triennale, purche' nel corso di studi
siano previste materie attinenti al commercio,  alla  preparazione  o
alla somministrazione degli alimenti. 
    6-bis. Sia per le imprese individuali che in  caso  di  societa',
associazioni od organismi collettivi, i  requisiti  professionali  di
cui al comma 6 devono essere posseduti dal titolare o  rappresentante
legale,  ovvero,  in  alternativa,  dall'eventuale  persona  preposta
all'attivita' commerciale». 
    Nel testo in vigore fino al 13 settembre 2012,  il  comma  6  era
invece del seguente tenore, sostanzialmente  identico  al  testo  che
l'impugnato art. 19 della legge regionale  n.  4/2016  introduce  ora
nell'art. 7 della legge regionale n. 29/2005;  art.  7  che,  invece,
come si e' visto, nella formulazione anteriore era analogo  al  testo
attuale dell'art. 71 del decreto legislativo n. 59/2010: 
    «6. L'esercizio, in qualsiasi forma, di un'attivita' di commercio
relativa al settore merceologico  alimentare  e  di  un'attivita'  di
somministrazione di alimenti  e  bevande,  anche  se  effettuate  nei
confronti di una cerchia determinata di persone, e' consentito a  chi
e' in possesso di uno dei seguenti requisiti professionali:...». 
    L'inciso «anche  se  effettuate  nei  confronti  di  una  cerchia
determinata di persone» venne soppresso nel testo della  disposizione
statale dall'art. 8, comma 1, lett. e), decreto legislativo 6  agosto
2012, n. 147, in vigore dal 14 settembre 2012. 
    Questo ulteriore  decreto  delegato  intervenne  a  correggere  e
integrare il decreto legislativo n. 59/2010,  in  forza  dell'art.  1
comma 5 della legge delega n. 88/2009,  giusta  il  quale  «5.  Entro
ventiquattro mesi dalla data di entrata in  vigore  di  ciascuno  dei
decreti legislativi di cui al comma 1, nel rispetto  dei  principi  e
criteri direttivi fissati  dalla  presente  legge,  il  Governo  puo'
adottare, con la procedura indicata nei commi 2, 3 e 4,  disposizioni
integrative e correttive dei decreti legislativi  etnanati  ai  sensi
del citato comma 1, fatto salvo quanto previsto dal comma 6.» 
    L'art.  71,  del  decreto  legislativo  n.  59/2010,  cosi'  come
l'intero decreto legislativo, infatti, venne adottato  in  attuazione
della delega contenuta nell'art. 41 della  legge  n.  88/2009  (legge
comunitaria  2009),  che  disciplino'  l'attuazione  della  Direttiva
2006/123/CE in materia di libera prestazione  dei  servizi  (la  c.d.
«Direttiva servizi»). 
    Tra i criteri di delega dettati dall'art. 41, legge  n.  88/2009,
interessa in particolare quello contenuto nel comma l, lettera g), il
quale prescriveva al  legislatore  delegato  di  «di  garantire  che,
laddove  consentiti  dalla  normativa  comunitaria,   i   regimi   di
autorizzazione ed i requisiti eventualmente previsti per l'accesso ad
un'attivita' di  servizi  o  per  l'esercizio  della  medesima  siano
conformi ai principi di trasparenza, proporzionalita'  e  parita'  di
trattamento». 
    Interessa, poi, il comma 2, giusta il quale «2. Nel rispetto  dei
vincoli derivanti dall'ordinamento  comunitario  ai  sensi  dell'art.
117, primo comma, della Costituzione, entro il 28 dicembre  2009,  le
regioni e le province autonome di Trento e  di  Bolzano  adeguano  le
proprie disposizioni normative al contenuto della  direttiva  nonche'
ai principi e criteri di cui al comma 1.». 
    I principi dettati dalla citata disposizione della  legge  delega
in  materia  di  requisiti  di  accesso  alle  attivita',   attengono
all'attuazione dell'art. 15  della  Direttiva  servizi  (testualmente
ripreso dall'art. 12  decreto  legislativo  n.  59/2010),  giusta  il
quale: 
    «Art.  15  (Requisiti  da  valutare).  -  1.  Gli  Stati   membri
verificano se il loro ordinamento giuridico prevede  i  requisiti  di
cui al paragrafi) 2  e  provvedono  affinche'  tali  requisiti  siano
conformi alle condizioni di cui al  paragrafo  3.  Gli  Stati  membri
adattano  le   loro   disposizioni   legislative,   regolamentari   o
amministrative per renderle conformi a tali condizioni. 
      2. Gli Stati membri verificano se il loro ordinamento giuridico
subordina l'accesso a un'attivita' di servizi o il suo  esercizio  al
rispetto dei requisiti non discriminatori seguenti: 
      ... 
        d)  requisiti  diversi  da  quelli  relativi  alle  questioni
disciplinate dalla direttiva 2005/36/CE o da quelli previsti in altre
norme comunitarie, che riservano l'accesso alle attivita' di  servizi
in questione a prestatori particolari a motivo della natura specifica
dell'attivita'; 
      ... 
    3. Gli  Stati  membri  verificano  che  i  requisiti  di  cui  al
paragrafo 2 soddisfino le condizioni seguenti: 
      a)  non  discriminazione:  i  requisiti   non   devono   essere
direttamente  o  indirettamente  discriminatori  in  funzione   della
cittadinanza o, per  quanto  riguarda  le  societa',  dell'ubicazione
della sede legale; 
      b) necessita': i  requisiti  sono  giustificati  da  un  motivo
imperativo di interesse generale; 
      c)  proporzionalita':  i  requisiti  devono  essere   tali   da
garantire la realizzazione dell'obiettivo perseguito; essi non devono
andare al di  la'  di  quanto  e'  necessario  per  raggiungere  tale
obiettivo;  inoltre  non  deve  essere  possibile  sostituire  questi
requisiti  con  altre  misure  meno  restrittive  che  permettono  di
conseguire lo stesso risultato.» 
    Sintetizzando il senso della vicenda normativa appena illustrata,
e' quindi  evidente  che,  con  il  decreto  delegato  correttivo  n.
147/2012 il  legislatore  intervenne  sulla  prima  attuazione  della
Direttiva servizi operata con l'originario testo dell'art. 71 decreto
legislativo  n.  59/2010  in  materia  di  requisiti  soggettivi  per
l'esercizio del commercio o della somministrazione di alimenti.  Tale
intervento  correttivo  costitui'  una  forma   di   verifica   della
necessita',  non   discriminatorieta',   proporzionalita'   di   tali
requisiti soggettivi, effettuata  alla  stregua  dell'art.  15  della
Direttiva servizi (e del correlativo art. 12 decreto  legislativo  n.
59/2010), che prescrive appunto tale verifica da  parte  degli  Stati
membri. 
    Il legislatore statale con il decreto conettivo del 2012  ritenne
che non fosse necessario o proporzionato richiedere  il  possesso  di
almeno uno dei requisiti soggettivi  di  cui  alle  lettere  a),  b),
dell'art. 71 comma 6  anche  nel  caso  in  cui  il  commercio  o  la
somministrazione  di  alimenti  avvenissero  non  nei  confronti  del
pubblico, bensi' nei confronti di una cerchia determinata di persone. 
    In sostanza, secondo la valutazione legislativa tesa a conformare
la normativa interna ai principi di  necessita'  e  proporzionalita',
fissati dall'art. 15 della Direttiva e ribaditi dalla  legge  delega,
degli eventuali  requisiti  soggettivi  di  accesso  al  servizio  di
commercio  o  somministrazione  di  alimenti,  non  e'  necessario  o
proporzionato  esigere  quei  requisiti  quando  il  commercio  o  la
somministrazione di alimenti siano rivolti ad un  gruppo  determinato
di destinatari, e non alla generalita' del pubblico (fermo  restando,
ovviamente, che si discute dei soli requisiti soggettivi  di  accesso
all'attivita',  e  non   dell'obbligo   di   rispettare   le   regole
igienico-sanitarie nello svolgimento concreto dell'attivita'; obbligo
che e' fuori discussione anche nei casi di prestazione  del  servizio
ad una cerchia determinata di persone). 
    I requisiti in questione intendono garantire la possibilita'  per
il pubblico generale, che non conosce e non ha scelto  il  prestatore
dei servizi di commercio e somministrazione di alimenti, e lo  «trova
sul mercato», di riporre un ragionevole affidamento su  una  qualita'
minima della prestazione dei  servizi  stessi:  cio',  attraverso  il
possesso  da  parte  dell'operatore  dei  titoli  di   qualificazione
professionale previsti (in via alternativa) dalle lettere a), b),  c)
dell'art. 71 comma 6 decreto legislativo n. 59/2010. 
    Questa  restrizione  all'accesso   ai   servizi   in   questione,
giustificata e proporzionata se, appunto, i servizi sono rivolti alla
generalita'  degli  utenti  o  acquirenti,  che  non   hanno   alcuna
possibilita' di selezionare preventivamente il  prestatore  di  essi,
diviene eccessiva, nella valutazione legislativa,  quando  i  servizi
siano rivolti, invece, ad un gruppo ristretto e selezionato di utenti
o  acquirenti,  separato  dal  pubblico  generale  (si   pensi   alla
prestazione di tali servizi ai membri di formazioni associative, o ai
dipendenti di imprese, e simili). 
    In quest'ultimo caso, si ritiene che  il  gruppo  «ristretto»  di
acquirenti o utenti, proprio perche' tale, abbia la  possibilita'  di
selezionare un prestatore che ritenga idoneo e adeguato alle  proprie
esigenze.  Il  che  rende  eccessivo  imporre  anche  a  tali  gruppi
l'osservanza dei requisiti restrittivi di accesso di cui sopra. 
    Per  questo,  la  norma  correttiva  ha  espunto  dalla  versione
originaria dell'art. 71 comma 6 cit. l'inciso  «anche  se  effettuate
nei  confronti  di  una  cerchia  determinata  di  persone».  Nessuna
regione, ne' in particolare la  regione  Friuli  Venezia  Giulia,  ha
impugnato questa modifica  come,  in  tesi,  invasiva  della  propria
competenza in materia di commercio. 
    La legge regionale impugnata, invece, ha  direttamente  agito  in
controtendenza rispetto al processo fin qui descritto  di  attuazione
della Direttiva servizi in questo particolare settore. 
    Come pure si e' visto, mentre il  testo  originario  dell'art.  7
della legge regionale n. 29/2005 prevedeva che i requisiti ex art. 71
comma 6  fossero  necessari  soltanto  per  la  prestazione  su  area
pubblica o in sede fissa di servizi di commercio  o  somministrazione
di alimenti, senza prevedere che  cio'  valesse  anche  nei  casi  di
prestazione ad  una  cerchia  determinata  di  persone,  e  con  cio'
anticipando la posizione assunta dalla legislazione  statale  con  il
provvedimento  correttivo  del  2012,  il  nuovo   testo   introdotto
dall'art. 19 legge regionale n. 4/2016 qui  impugnato  inserisce  ora
precisamente la restrizione nel  frattempo  abolita  dal  legislatore
statale. 
    3.1.  E'  evidente  che  in  tal  modo  la  legge  regionale   ha
innanzitutto violato l'art. 117 comma 2 lett. e) Cost.,  e  le  norme
statutarie sopra citate (che rinviano ai principi fondamentali  della
Costituzione e alle grandi riforme economiche) perche' ha  introdotto
una disciplina che incide direttamente sulla (non contestata)  misura
di liberalizzazione prevista dalla norma correttiva statale del 2012,
rendendola imperante nel  territorio  della  regione  Friuli  Venezia
Giulia. Laddove, giusta i principi richiamati nei precedenti  motivi,
attiene alla materia «concorrenza», di esclusiva competenza  statale,
assicurare l'uniformita'  su  tutto  il  territorio  nazionale  delle
condizioni liberalizzate di offerta dei beni e servizi  sul  mercato,
rimuovendo vincoli  non  necessari;  sicche'  le  regioni,  anche  ad
autonomia  speciale,  non   possono,   nell'esercitare   la   propria
competenza in  materia  di  «commercio»,  provocare  differenziazioni
territoriali nelle condizioni di tale offerta, riducendo nel  proprio
territorio il  grado  di  liberalizzazione  fissato  dal  legislatore
statale. 
    Si e' visto, del resto, che l'art. 41 comma 2 della legge  delega
n. 88/2009 prescrive  l'obbligo  delle  regioni  anche  ad  autonomia
speciale di adeguare la propria  legislazione  a  quella  statale  di
attuazione   della   Direttiva    servizi.    Interventi    regionali
deliberatamente  in  contrasto  eccedono  quindi   dalla   competenza
legislativa regionale nei sensi sopra chiariti. 
    3.2. Inoltre, come  si  e'  evidenziato,  la  modifica  normativa
introdotta dal legislatore statale nel 2012 costituisce attuazione di
un preciso vincolo di diritto UE, quale e'  quello  di  sottoporre  a
verifica   ex   art.   15   Direttiva   servizi   la   necessita'   e
proporzionalita' dei requisiti soggettivi di accesso  alle  attivita'
di  prestazione  dei  servizi  ancora  esistenti  negli   ordinamenti
nazionali. 
    L'operato del legislatore regionale, che mira a  vanificare  tale
attuazione e a mantenere in vigore  requisiti  non  necessari  o  non
proporzionati, contrasta quindi anche con l'art.  117  comma1  Cost.,
che  impone  anche  alle  regioni   di   rispettare   nella   propria
legislazione i vincoli derivanti dal diritto dell'Unione europea. 
    Il carattere non necessario  e  non  proporzionato  della  misura
regionale  deriva  dalla  circostanza  che  i  requisiti   soggettivi
generali ex art. 71 commi 6 e s bis decreto  legislativo  n.  59/2010
per  l'accesso  alla  prestazione  dei   servizi   di   commercio   e
somministrazione  di  alimenti,  servono,  come  gia'   chiarito,   a
riequilibrare l'asimmetria  informativa  esistente  tra  il  pubblico
generale degli acquirenti e utenti dei beni e servizi  in  questione,
da un lato, e gli operatori, dall'altro. Il pubblico generale non  e'
in grado di valutare preventivamente le capacita' del  prestatore  di
tali  servizi  operante  sul  mercato  e   quindi,   considerate   le
implicazioni con la  tutela  dell'igiene  e  della  sanita'  pubblica
insite nel commercio e nella  somministrazione  di  alimenti,  appare
necessario e proporzionato prevedere a priori che  solo  soggetti  in
possesso di una  comprovata  formazione  o  esperienza  professionali
possano accedere ai servizi stessi; cosi' tutelando l'affidamento del
pubblico  e,  indirettamente,  ponendo  un  presidio   a   protezione
dell'igiene e della sanita' pubblica. 
    Queste esigenze  manifestamente  non  ricorrono  nel  caso  della
«cerchia determinata» di acquirenti o utenti di alimenti o servizi di
somministrazione di alimenti. Dovendosi presumere che  tali  soggetti
siano in grado di selezionare in modo specifico  i  soggetti  di  cui
desiderano avvalersi, la prescrizione vincolante di rivolgersi solo a
soggetti in possesso di requisiti soggettivi preventivi,  generali  e
astratti di formazione ed esperienza professionali non e' necessaria,
o eccede  il  necessario,  potendo  essere  supplita  da  mezzi  meno
restrittivi, quale, appunto, la scelta specifica del  prestatore  dei
servizi da parte del gruppo ristretto di acquirenti o  utenti  a  cui
questi dovra' in via esclusiva fornire le  proprie  prestazioni.  Ben
potra' accadere che anche  i  «gruppi  determinati»  si  rivolgano  a
soggetti qualificati ai sensi del comma 6 dell'art. 71 cit., ma  cio'
dovra' avvenire su base volontaria, e non per obbligo  di  legge,  in
tal obbligo appunto ravvisandosi  la  restrizione  non  necessaria  e
sproporzionata rispetto al fine di garantire una prestazione adeguata
anche dal punto di vista igienico-sanitario. 
    3.3. Per le ragioni qui esposte, ad  avviso  del  Presidente  del
Consiglio va superato il diverso orientamento manifestato da  codesta
Corte costituzionale nella sentenza  n.  104/2014,  che  ha  ritenuto
costituzionalmente legittima una norma della regione  autonoma  Valle
d'Aosta di tenore identico a quella qui impugnata. 
    In quel caso, infatti, la questione venne posta nel ricorso  come
una astratta questione di  competenza,  cioe'  di  confronto  tra  la
competenza  statale  trasversale  in  materia  di  concorrenza  e  la
competenza regionale concorrente in materia di tutela  della  salute.
E, sotto questo angolo visuale, codesta Corte ritenne che non potesse
negarsi l'implicazione con la tutela della salute, tale da  escludere
la preminenza del profilo concorrenziale. 
    Si  legge  infatti  nella  sentenza   che   «Questa   conclusione
avvalorata dalla considerazione che  l'art.  3  del  decreto-legge  4
luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e
sociale, per il  contenimento  e  la  razionalizzazione  della  spesa
pubblica, nonche' interventi in materia di  entrate  e  di  contrasto
all'evasione fiscale), convertito,  con  modificazioni,  dall'art.  1
della legge 4 agosto 2006,  n.  248,  stabilisce  che,  «al  fine  di
garantire la liberta'  di  concorrenza  secondo  condizioni  di  pari
opportunita' ed il corretto ed uniforme  funzionamento  del  mercato,
nonche' di assicurare ai consumatori  finali  un  livello  minimo  ed
uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e
servizi sul territorio  nazionale»,  le  attivita'  commerciali  sono
svolte senza limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di  requisiti
professionali soggettivi.  Tuttavia,  poi,  fa  espressamente  «salvi
quelli riguardanti il settore  alimentare  e  della  somministrazione
degli alimenti e delle bevande» (art. 3, comma 1,  lettera  a).  Cio'
attesta che lo stesso legislatore statale ha ritenuto che i requisiti
in esame non incidano sul profilo della liberalizzazione del mercato,
apparendo necessari per soddisfare esigenze di sicurezza alimentare.» 
    Tuttavia, l'evoluzione normativa sopra illustrata, e posta a base
del presente ricorso, dimostra appunto come il  legislatore  statale,
partendo dalla innegabile presenza in materia di esigenze  di  tutela
dell'interesse all'igiene e sanita' pubblica, abbia tuttavia  incluso
anche la  considerazione  di  tali  esigenze  nel  generale  test  di
«giustificatezza» e proporzionalita' che la Direttiva servizi, e piu'
in generale i principi di libero stabilimento e di libera prestazione
dei servizi posti dai Trattati europei, richiedono per le  condizioni
di accesso ad ogni attivita'  di  prestazione  di  servizi,  compresi
quelli incidenti sull'igiene e sanita' pubblica. La tutela di  questi
beni costituisce, appunto, la giustificazione di  interesse  generale
su cui puo' poggiare la previsione di  una  restrizione  all'accesso;
proprio con cio', tuttavia, introducendo, e non certo escludendo,  la
valutazione della proporzionalita'  della  restrizione,  cioe'  della
limitazione della restrizione a quanto strettamente  necessario  allo
scopo di interesse pubblico perseguito. 
    Una volta che, come illustrato, il legislatore abbia operato tale
valutazione di proporzionalita' del requisito soggettivo di  accesso,
escludendola nella fattispecie dei servizi rivolti  ad  una  «cerchia
determinata di  persone»,  e  che  tale  valutazione  non  sia  stata
contestata  dalle  regioni  avanti  a   codesta   Corte,   interventi
legislativi regionali di segno contrario inevitabilmente: 
      a) esulano dalla competenza regionale in materia di commercio e
di Sanita' pubblica perche' incidono esclusivamente sull'analisi  del
profilo strettamente concorrenziale del problema  ormai  fatta  dalla
legge statale nel senso di ritenere non proporzionata  dal  punto  di
vista concorrenziale una restrizione pur giustificata  dal  punto  di
vista della tutela della salute (violazione  dell'art.  117  comma  2
lett. e) Cost.); 
      b) in ogni caso, nel merito, configurano una misura restrittiva
che, per le ragioni esposte, eccede quanto necessario a garantire  la
sanita' pubblica, e quindi  di  per  se',  anche  a  prescindere  dal
rapporto con la competenza normativa statale, contrasta con l'obbligo
del legislatore regionale di  uniformarsi  ai  principi  del  diritto
dell'Unione (violazione dell'art. 117 c. 1 Cost.). 
    4. L'art. 72 comma 1 della legge regionale in epigrafe prevede: 
      «1. Dopo l'art. 6-ter della legge regionale 12 maggio 1971,  n.
19 (Norme per la protezione del patrimonio ittico e  per  l'esercizio
della pesca nelle acque interne del  Friuli  -  Venezia  Giulia),  e'
inserito il seguente: 
    «Art. 6-quater (Immissioni a scopo  di  pesca  sportiva).  -.  1.
L'Ente Tutela Pesca provvede a effettuare o autorizzare le immissioni
di  fauna  ittica  al  fine  di   valorizzare   la   pesca   sportiva
compatibilmente con  le  esigenze  di  salvaguardia  dell'ambiente  e
nell'ottica  del  possibile  sviluppo  della  ricettivita'  turistica
connessa alla pesca sportiva. 
    2. Le immissioni  a  scopo  di  pesca  sportiva  sono  effettuate
esclusivamente con individui di taglia  pari  o  superiore  a  quella
minima ammessa per la loro cattura. 
    3. L'immissione di  esemplari  ittici  autoctoni  e'  ammessa  in
qualsiasi corso d'acqua. 
    4. L'immissione degli esemplari alloctoni e'  ammessa  nei  corpi
idrici artificiali la cui eventuale  connessione  con  corsi  d'acqua
naturali non consenta l'emigrazione dei pesci immessi. 
    5.  Le  immissioni  di  trota  iridea  Oncorhynchus  mykiss  sono
realizzate anche in acque differenti da quelle di  cui  al  comma  4,
purche' con  individui  incapaci  di  riprodursi  in  natura,  ovvero
sterili o esclusivamente di sesso femminile e possono riguardare zone
di possibile compresenza di trota marmorata, al fine  di  alleggerire
la pressione di pesca a carico di questa specie. 
    6. Le immissioni di trota fario  Salmo  frutta  sono  ammesse  in
qualsiasi corso d'acqua in cui non vi siano segnalazioni storiche  di
trota  marmorata  o  nelle  acque  attualmente  popolate  da   specie
introdotte ma che originariamente erano prive di fauna ittica. 
    7. Non sono consentite le immissioni di cui ai commi  4,  5  e  6
nelle seguenti acque: 
      a)  acque  naturali  e  artificiali  comprese  entro  le   zone
individuate ai sensi della direttiva 92/43/CEE «Habitat»; 
      b) corpi idrici o parte di essi designati come zone di  divieto
di pesca per ripopolamento; 
      c) siti di frega o nursery di specie ittiche autoctone  incluse
nell'allegato II della Direttiva 92/43/CEE o  di  specie  oggetto  di
particolari misure di salvaguardia da parte dell'Ente Tutela Pesca; 
      d) corsi o specchi d'acqua privi di fauna ittica; 
      e) laghi alpini oltre quota 1500 metri sul livello del mare; 
      f) corpi idrici dove l'immissione determini lo scadimento dello
stato ecologico di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006,  n.  152
(Norme in materia ambientale).».» 
    La regione ha adottato  tale  disposizione  nell'esercizio  della
propria competenza esclusiva in  materia  di  pesca  (art.  4  n.  3)
Statuto), ma ha ecceduto dai limiti di tale competenza, invadendo  la
competenza statale esclusiva in materia  di  tutela  dell'ambiente  e
dell'ecosistema (art. 117 comma 2  lett.  s)  Cost.),  e  ha  violato
l'art. 117 comma 1 Cost. in quanto ha posto una disciplina  che,  nel
merito,  contrasta  con  i   principi   ricavabili   dall'ordinamento
dell'Unione europea, e in particolare dagli  artt.  22  Direttiva  n.
92/43/CEE (Direttiva Habitat) e 4 e 6 par. 1 regolamento CE 708/2007. 
    In sintesi, particolannente con i commi 3, 4, 5, 6 del nuovo art.
6-della legge regionale n. 19/71, la regione, allegando la  finalita'
di   favorire   la   pesca   sportiva,   1)   consente   l'immissione
indiscriminata nei corpi  idrici  della  regione  di  specie  ittiche
autoctone; 2) consente l'immissione di specie  alloctone  alla  sola,
generica e difficilmente verificabile, condizione che tale immissione
avvenga in corpi idrici artificiali  che,  per  quanto  connessi  con
corpi idrici naturali, non  consentano  la  migrazione  delle  specie
alloctone nei colpi idrici naturali (si pensi al caso dell'immissione
in un lago artificiale comunicante  con  il  corso  d'acqua  naturale
immissario ed emissario); 3.1) consente l'immissione anche nei  corpi
idrici naturali della  specie  alloctona  rappresentata  dalla  trota
iridea,  alla  condizione,   anch'essa   generica   e   difficilmente
verificabile, che siano  immessi  individui  incapaci  di  riprodursi
tratti di colpi idrici, e 3.2) consente che tale  immissione  avvenga
anche  nei  colpi  idrici  abitati  dalla  trota  marmorata   (specie
autoctona) per alleggerire la pressione di pesca su quest'ultima;  4)
consente l'immissione della specie alloctona trota fario in qualsiasi
corpo idrico, alla condizione generica e  difficilmente  verificabile
che si tratti di corpi  idrici  non  abitati  dalla  trota  marmorata
(specie autoctona), o di corpi idrici originariamente privi di  fauna
ittica e attualmente popolati da specie introdotte (e' ancora il caso
dei laghi artificiali). 
    4.1. E' evidente, in primo luogo, che questa disciplina crea  per
lo  meno  il  pericolo,  con  le  disposizioni  sub  1)  e  2),   che
l'equilibrio naturale delle specie ittiche  autoctone  sia  alterato,
nella misura in cui si consente senza limiti l'immissione artificiale
di specie autoctone, che vanno  quindi  ad  aggiungersi,  creando  il
pericolo del sovrappopolamento,  agli  individui  gia'  presenti  per
natura nei corpi idrici regionali, senza  neppure  prevedere  che  si
tratti di specie a rischio di estinzione; e si  consente  che  specie
alloctone vengano  introdotte  artificialmente,  garantendo  in  modo
meramente apparente che non si mescoleranno alle specie autoctone,  e
cosi' non altereranno l'equilibrio biologico degli  ambienti  abitati
dalle specie autoctone, con la sola condizione,  gia'  indicata  come
generica e difficilmente verificabile in concreto,  che  l'immissione
avvenga in corpi idrici  artificiali  che,  pur  connessi  con  corpi
naturali, non consentano la migrazione  delle  specie  alloctone  dai
corpi artificiali a quelli naturali. 
    Il pericolo di alterazione dell'equilibrio biologico delle specie
ittiche autoctone diviene poi certezza con le previsioni sub 3  e  4,
con le quali, a vario titolo,  si  consente  l'immissione  nei  corpi
idrici naturali di specie alloctone di trota particolarmente invasive
(e per questo ricercate  dai  pescatori  sportivi),  quali  la  trota
iridea e la trota fario, ponendole in competizione biologica  con  la
specie autoctona rappresentata dalla trota marmorata. Anche in questi
casi, infatti, le  condizioni  limitative  previste  dalla  normativa
impugnata (immissione di individui incapaci di riprodursi;  pressione
di pesca sulla trota marmorata;  assenza  di  trota  marmorata)  sono
apparenti, considerata  la  loro  genericita'  e  la  difficolta'  di
accertarne la sussistenza. 
    E'  quindi  evidente   che   la   normativa   regionale   impinge
direttamente sulla tutela dell'ambiente, di cui predispone  rilevanti
mutazioni negli ambiti fisici e  biologici  sopra  illustrati,  e  va
quindi molto oltre i limiti della competenza regionale in materia  di
pesca,  poiche'  modifica  non  solo  le  condizioni  di  svolgimento
dell'attivita' di pesca sportiva, ma ben  prima  modifica  l'ambiente
ittico considerato in se'. 
    Per questo la normativa impugnata contrasta con l'art. 117  comma
2 lett. s) Cost., che riserva alla competenza  statale  esclusiva  la
tutela dell'ambiente, e che vincola anche  le  regioni  ad  autonomia
speciale, compreso il Friuli, non  essendo  la  tutela  dell'ambiente
compresa tra le materie di competenza  legislativa  di  tali  regioni
contemplate dagli statuti di autonomia. 
    4.2. L'invasione della competenza statale  esclusiva,  oltre  che
sotto i profili sopra illustrati, emergenti dal  contenuto  specifico
delle disposizioni  regionali  impugnate,  si  coglie  esaminando  il
quadro normativo nazionale ed europeo. 
    E' da richiamare, innanzitutto, la direttiva  92/43/CEE  relativa
alla conservazione di habitat naturali e seminaturali e della flora e
della fauna selvatiche, che ai sensi dell'art. 22, paragrafo 1: 
      alla lettera a) demanda agli Stati  membri  la  valutazione  in
ordine alla opportunita' di reintrodurre  specie  autoctone,  qualora
questa misura possa contribuire alla loro conservazione,  sempre  che
da una indagine conoscitiva condotta sulla  scorta  delle  esperienze
acquisite  in  altri  Stati  membri  o  altrove,  risulti  che   tale
reintroduzione contribuisce  in  modo  efficace  a  ristabilire  tali
specie in uno stato di conservazione  soddisfacente  e  purche'  tale
reintroduzione sia preceduta da un'adeguata consultazione delle parti
interessate; 
      alla lettera b) impegna gli Stati  membri  a  regolamentare  ed
eventualmente vietare le introduzioni di specie alloctone che possano
arrecare pregiudizio alla conservazione degli habitat o delle  specie
autoctone. 
    Lo Stato italiano ha esercitato la sua competenza con il  decreto
del Presidente della Repubblica n. 357 del 1997 (come modificato  dal
decreto del Presidente della Repubblica n. 120 del 2003), consentendo
(art. 12, comma 2) la reintroduzione  delle  specie  autoctone  sulla
base di linee guida da emanarsi dal Ministero  dell'Ambiente,  previa
acquisizione, tra gli altri, del parere dell'Istituto  nazionale  per
la fauna selvatica  (ora  ISPRA),  e  (art.  12,  comma  3)  vietando
espressamente (ed in via generale) la reintroduzione,  l'introduzione
ed il ripopolamento in natura di specie e popolazioni non autoctone. 
    Il  regolamento  (CE)  708/2007  dell'11  giugno  2007  «relativo
all'impiego in acquacoltura di specie esotiche e di specie localmente
assenti», che si applica a tutti gli organismi esotici  e  localmente
assenti  allevati  (ad  eccezione  di  alcune  specie   elencate   in
AllegatoIV tra le quali figura la trota iridea ma non la trota fario)
e alla pratica dell'acquacoltura a prescindere  dal  mezzo  acquatico
utilizzato, afferma all'art.  4  che  «gli  Stati  membri  provvedono
affinche' siano adottate tutte le  misure  atte  ad  evitare  effetti
negativi sulla biodiversita', in particolare per quanto  riguarda  le
specie, gli habitat e le  funzioni  dell'ecosistema,  che  potrebbero
insorgere  a  seguito  dell'introduzione  o  della  traslocazione  di
organismi acquatici e di specie non bersaglio in acquacoltura e della
diffusione di tali specie nell'ambiente naturale». 
    All'art. 6, paragrafo 1, si prevede, inoltre, che un operatore di
acquacoltura che intenda  effettuare  l'introduzione  di  una  specie
esotica o la traslocazione  di  una  specie  localmente  assente  non
contemplata  nell'Allegato  IV,   deve   chiedere   un'autorizzazione
all'autorita' competente dello Stato membro destinatario. 
    Al riguardo, codesta  Corte  costituzionale  ha  chiarito,  nella
sentenza n. 30 del 2009 (che ha accolto il ricorso per  conflitto  di
attribuzione proposto dal Presidente del Consiglio  avverso  delibera
della Regione Veneto, autorizzativa di piani di immissione, in  acque
di sua. competenza, di specie non autoctone, tra cui proprio la trota
iridea),   che   «le   disposizioni   relative   alla   introduzione,
reintroduzione e ripopolamento di specie animali, in  quanto  «regole
di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema e non  solo  di  disciplina
d'uso della risorsa ambientale faunistica» rientrano nella competenza
esclusiva statale di  cui,  appunto,  all'art.  117,  secondo  comma,
lettera s), cost.» (recentemente Corte cost. sentenza n. 288/2012). 
    Nella sentenza n. 151/2011, con riferimento ad  una  legge  della
provincia autonoma di Bolzano, che introduceva deroghe ai divieti che
tutelano le specie, animali e vegetali, codesta Corte ha statuito  in
termini generali  che,  «non  e'  consentito  alle  Regioni  ed  alle
Province autonome di legiferare, puramente e semplicemente, in  campi
riservati dalla Costituzione alla competenza esclusiva  dello  Stato,
ma  soltanto  di  elevare  i  livelli  di  tutela   degli   interessi
costituzionalmente  protetti,  purche'  nell'esercizio   di   proprie
competenze legislative, quando queste ultime siano connesse a  quelle
di cui all'art. 117, secondo comma, Cost. (ex plurimis,  sentenza  n.
378 del 2007) [...].Nel disciplinare in generale la tutela di  specie
animali,  indipendentemente  dall'esercizio  della  caccia  e   dalla
disciplina  dei  parchi  naturali,  invade  la  sfera  di  competenza
legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela  dell'ambiente
e dell'ecosistema, di cui all'art. 117, secondo  comma,  lettera  s),
Cast., che trova applicazione anche nei  confronti  delle  Regioni  a
statuto speciale e delle Province autonome, in  quanto  tale  materia
non  e'  compresa  tra  le  previsioni  statutarie   riguardanti   le
competenze  legislative,  primarie   o   concorrenti,   regionali   o
provinciali.  [...].  Risalta  in  tal  modo  con  chiarezza  che  la
disciplina in questione esula, per  sua  stessa  affermazione,  dalla
materia della caccia e della pesca, attribuita dallo statuto speciale
alle Province autonome, e ricade quindi  nell'ambito  generale  della
«tutela dell'ambiente», di competenza esclusiva statale. Pertanto, la
competenza  generale  del  Ministero  dell'ambiente  a  concedere  le
deroghe di cui  sopra  -  stabilita  dall'art.  11  del  decreto  del
Presidente della Repubblica 8 settembre  1997,  n.  357  (Regolamento
recante  attuazione   della   direttiva   92/43/CEE   relativa   alla
conservazione degli habitat naturali e  seminaturali,  nonche'  della
flora e della fauna selvatiche) - si estende a  tutto  il  territorio
nazionale, senza  che  per  la  Provincia  di  Bolzano  possa  essere
invocato un titolo di competenza speciale. Questa Corte  ha  peraltro
precisato che la disciplina delle deroghe ai divieti imposti  per  la
salvaguardia delle specie protette rientra tra gli standard  uniformi
e intangibili di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di esclusiva
competenza statale (sentenza n, 387 del  2008).  L'uniformita'  degli
standard implica logicamente l'uniformita' della  loro  applicazione,
allo scopo di impedire  che  prassi  amministrative  diverse  possano
pregiudicare l'obiettivo della  conservazione  della  fauna  in  modo
equilibrato in tutto il territorio della Repubblica.». 
    L'invasione  della   competenza   statale   deriva   quindi,   in
definitiva,  dalla  circostanza  che  la  legge  regionale  impugnata
autorizza direttamente le immissioni di specie autoctone e  alloctone
sopra illustrate, superando l'intero sistema di verifiche  preventive
e  di  autorizzazioni,  e  soprattutto   il   divieto   assoluto   di
introduzione di specie alloctone, previsti dalla normativa statale di
settore, attuativa di  precise  prescrizioni  di  diritto  europeo  e
comunque fondante standard  uniformi  di  tutela  dell'ambiente,  non
differenziabili tra regione e regione. 
    La connessione con la competenza legislativa regionale in materia
di pesca potrebbe consentire alla regione  soltanto  di  elevare  gli
standard di tutela ambientale (p. es., secondo i casi,  aggravando  o
rimuovendo  i  divieti  di  pesca   in   funzione   di   riequilibrio
ambientale); ma non di sostituirsi allo Stato nel regolare la  tutela
dell'equilibrio biologico, in particolare sotto il  delicato  profilo
delle immissioni artificiali di specie animali nell'ambiente. 
    4.3. Infine, come gia' rilevato,  la  normativa  regionale  viola
l'art. 117, comma 1 Cost., perche'  si  pone  nel  merito  in  palese
contrasto con le previsioni  di  precauzione  poste  dalle  fonti  di
diritto europeo sopra citate. 
    In particolare,  con  riferimento  all'art.  22  della  Direttiva
Habitat,  la  normativa  impugnata  prevede  in  modo  indiscriminato
l'introduzione di specie autoctone, laddove la Direttiva la  consente
agli Stati membri solo previa verifica della effettiva  necessita'  e
sostenibilita' ambientale di tale iniziativa, e prescrivendo  che  il
solo fine perseguibile con l'introduzione  artificiale  delle  specie
autoctone sia il  ristabilimento  del  loro  soddisfacente  stato  di
conservazione. La normativa impugnata contrasta poi con la  Direttiva
Habitat  allorche'  consente  agli  Stati  membri,  in  funzione   di
conservazione dell'equilibrio ambientale, di  vietare  l'introduzione
di specie alloctone, come ha  fatto  il  legislatore  italiano  senza
incontrare censura ne' in sede europea ne' da parte delle regioni. La
possibilita' in pratica indiscriminata o quasi, atteso  il  carattere
generico o praticamente impossibile delle condizioni ad essa apposte,
di introdurre specie alloctone nei corpi idrici naturali; e la  larga
possibilita' di introdurre specie alloctone di trote in  tali  corpi,
direttamente   prevista   dalla   normativa   regionale    impugnata,
pregiudicano il sistema di precauzione voluto dalla Direttiva, che in
questa materia rimette ogni valutazione agli Stati membri, sulla base
di una valutazione globale dell'equilibrio ambientale, che  non  puo'
essere operata a livello  regionale;  cio'  in  considerazione  della
inelirninabile interrelazione tra l'ambiente riferibile ad un singolo
territorio regionale e l'ambiente coincidente con  il  territorio  di
tutte le altre regioni. 
    Inoltre, in materia di  specie  alloctone  nell'acquacoltura,  si
visto che il regolamento CE 708/2007 subordina ad autorizzazione ogni
immissione  o  trasferimento  di  tali   specie   se   non   comprese
nell'allegato IV (come, per esempio, la trota fario); e,  per  quanto
riguarda le specie comprese nell'allegato IV, obbliga  gli  Stati  ad
adottare tutte le misure atte a tutelare la biodiversita', e quindi a
prevenire l'alterazione dell'ambiente ittico originario. 
    Il legislatore italiano ha adottato un principio  di  precauzione
consistente nel gia' menzionato divieto assoluto di  introduzione  di
specie alloctone. La normativa regionale impugnata, vanificando  tale
divieto e non ponendo  in  opera  adeguate  misure  di  tutela  della
conservazione dell'ambiente originario rispetto all'immissione  delle
specie in. questione, vanifica invece il principio  di  tutela  posto
dal regolarnento n. 708/2007. 
    Anche  nel   merito,   quindi,   complessivamente   evidente   la
contrarieta'  della  normativa  impugnata  rispetto   ai   pertinenti
principi derivanti dal diritto dell'Unione europea.