TRIBUNALE DI BUSTO ARSIZIO 
                          (Sezione Penale) 
 
    Il giudice di  Busto  Arsizio  dott.ssa  Maria  Greca  Zoncu  nel
procedimento penale a carico di Napoletano Ciro, imputato del delitto
p. e p. dall'art.  10-quater  del  decreto  legislativo  n.  74/2000,
poiche', in qualita' di titolare della ditta individuale «ENNE. CI di
Napoletano Ciro» con sede in Uboldo (VA), non  versava  le  somme  di
denaro dovute a titolo di imposte sui redditi per l'anno 2009 per  un
importo  complessivo  pari   a   Euro   125.214,00   utilizzando   in
compensazione ai sensi dell'art. 17 del decreto legislativo 9  luglio
1997, n. 241, un credito di imposta di pari importo (euro 125.214,00)
relativo a presunti saldi IVA (cod. 6099) rivelatisi  inesistenti  in
quanto riferiti ad annualita' di imposta (2007/2008) per le quali  lo
stesso  aveva  omesso  di   presentare   alcuna   dichiarazione   dei
redditi. Commesso in Uboldo (VA) in data  5  ottobre  2010  (data  di
presentazione della dichiarazione per l'anno d'imposta 2009). 
    Ritenuto  che  sussiste  la  propria  legittimazione  a  proporre
l'incidente  di  costituzionalita',  posto  che   questo   giudice e'
chiamato  ad  applicare  -  emettendo  un   giudizio   potenzialmente
definitivo - la norma di cui in  epigrafe,  cioe'  l'art.  10-quater,
decreto legislativo n. 74/2000, nella formulazione  ante  22  ottobre
2015, della cui legittimita' costituzionale si dubita nella parte  in
cui prevede la soglia di punibilita' in € 50.000, anziche' €  150.000
per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 
Sulla rilevanza della questione nel giudizio a quo. 
    La questione che si intende porre all'attenzione di codesta Corte
e di immediata  rilevanza  nel  processo  de  quo:  stante,  infatti,
l'imputazione  sopra  riportata  e  l'indicato  importo  delle  somme
portate in compensazione in maniera  asseritamente  indebita,  questo
giudice non puo' con tutta evidenza prescindere  in  questo  giudizio
dall'applicazione della  norma  di  cui  all'art.  10-quater  decreto
legislativo n. 74/2000  che  ritiene  in  contrasto  con  i  principi
costituzionali; 
    Infatti  l'applicazione  di  detta  disposizione   normativa   e'
fondamentale ed  imprescindibile  per  la  definizione  del  presente
giudizio, pertanto si impone a questo  giudice  ex  officio,  per  le
ragioni che si esporranno di seguito, di sottoporre  la  questione  a
codesta Corte. 
    L'imputato Napoletano Ciro e' chiamato a rispondere del reato  p.
e p. dall'art. 10-quater decreto legislativo n.  74/2000  per  avere,
attraverso  lo  strumento  della  presentazione   dei   modelli   F24
all'Agenzia delle  entrate,  prodotti  ex  art.  507  del  codice  di
procedura penale, omesso di versare, utilizzando in compensazione  ai
sensi dell'art. 17 decreto legislativo  n.  241/97  crediti  IVA  non
spettanti ovvero inesistenti, la somma di complessivi € 125.214,  per
l'anno 2009. 
    L'entita' della imposta non  versata  con  il  meccanismo  teste'
descritto discende documentalmente dai modelli F24 prodotti  e  dalla
testimonianza del funzionario  dell'Agenzia  delle  entrate,  cui  si
aggiunge un'ulteriore somma indicata dallo stesso contribuente  nella
dichiarazione dei redditi per l'anno 2009 versata in atti. 
    La ragione  posta  dal  pubblico  ministero  a  fondamento  della
propria tesi accusatoria e' che - a  fronte  della  utilizzazione  di
tali presunti crediti IVA - non esistono  dichiarazioni  dei  redditi
per gli anni 2007 e  2008  da  cui  siano  evincibili  detti  crediti
portati in compensazione. 
    Sostanzialmente  il  pubblico   ministero   lamenta   e   imputa,
correlativamente, al contribuente, una  autoreferenzialita'  di  tali
compensazioni che ha inibito all'Agenzia delle entrate di verificarne
la legittimita', con la conclusione logica che tali crediti,  di  cui
nulla si sa in ordine alla genesi, debbono ritenersi inesistenti. 
    Vi e' da notare che i fatti sono contestati come commessi in data
5 ottobre 2010  -  data  di  presentazione  della  dichiarazione  dei
redditi - anche se piu' correttamente, posto che  tali  crediti  sono
stati  portati  in  compensazione  attraverso  la  presentazione  dei
modelli F24, il tempus commissi  delicti  dovrebbe  essere  correlato
alle date di presentazione dei medesimi modelli. 
    Il reato di cui e' chiamato a rispondere l'imputato rispecchia la
formulazione ante decreto legislativo n. 158 del  24  settembre  2015
che richiamava - con la medesima tecnica normativa  utilizzata  anche
per il reato p. e p. dall'art. 10-ter decreto legislativo n.  74/2000
- le pene previste dall'art. 10-bis decreto legislativo  n.  74/2000,
cioe' la reclusione da sei mesi  a  due  anni  se  l'ammontare  delle
imposte non versate sia superiore a € 50.000 annui. 
    A seguito della novella  legislativa  sopra  citata,  la  tecnica
redazionale della norma in esame  e'  mutata,  e  il  legislatore  ha
descritto  con  maggiore  analiticita'  -  dando  una  configurazione
autonoma anche sotto il profilo  testuale  a  questa  fattispecie  di
reato - la condotta penalmente sanzionata: si scinde la  condotta  in
due  differenti  ipotesi,  l'una  che  riguarda  l'avere  portato  in
compensazione crediti non spettanti e  l'altra,  di  cui  al  secondo
comma,  che  riguarda  l'avere  portato  in   compensazione   crediti
inesistenti. 
    La pena per la condotta di  cui  al primo  comma,  ritenuta,  con
tutta evidenza,  meno  grave  e'  identica  a  quella  gia'  prevista
dall'art. 10-quater ante novella, cioe' pena edittale da sei  mesi  a
due anni, mentre la pena prevista per  i  fatti  di  cui  al  secondo
comma, ritenuti piu' gravi, e' stata notevolmente aumentata e prevede
un minimo edittale di anni uno e mesi sei di reclusione e un  massimo
di sei anni. 
    Cio' che  non  e'  stato  cambiato  dal  decreto  legislativo  n.
158/2015 e' la soglia di  penale  rilevanza  della  condotta  che  e'
rimasta indicata a € 50.000 per annualita'. 
    Questo giudice deve,  quindi,  preliminarmente,  interrogarsi  su
quale delle disposizioni normative succedutesi  nel  tempo  si  debba
applicare al caso concreto, posto che la  norma  vigente  al  momento
della asserita commissione dei fatti e' differente da quella  vigente
ad oggi. 
    Ma, come si dimostrera', la soluzione,  evidente  alla  luce  dei
principi  di  cui  all'art.  2  del  codice  penale   non   influisce
minimamente sulla  rilevanza  della  questione  che  si  sottopone  a
codesta Corte che  riguarda  unicamente  l'entita'  della  soglia  di
punibilita' del fatto, che e' rimasta immutata. 
    In  ogni  caso  appare  evidente  come,  trattandosi  di  crediti
asseritamente  inesistenti  ed  essendovi   stato   un   inasprimento
sanzionatorio proprio in relazione a tale condotta  a  seguito  della
riforma legislativa, si dovra' applicare la norma piu' favorevole  al
reo, ovverossia - stante i limiti edittali  di  pena  inferiori -  la
formulazione  dell'art.  10-quater  ante  riforma,  che  pero'  -  si
ribadisce - non prescinde dalla soglia di punibilita'  di  €  50.000,
che non e' stata elevata, a differenza di quanto accaduto  per  altre
fattispecie di illeciti tributari, a seguito dell'entrata  in  vigore
del piu' volte citato decreto legislativo n. 158/15. 
    Pertanto ai  fini  della  determinazione  della  rilevanza  della
questione si precisa che la norma di cui si dubita e che si sottopone
al vaglio di codesta Corte e' quella previgente la novella  del  2015
che e' l'unica che questo giudice, per  le  ragioni  teste'  esposte,
puo' applicare nel giudizio a quo. 
    L'accoglimento  della   questione   per   come   sopra   proposta
porterebbe, infatti,  al  proscioglimento  dell'imputato,  in  quanto
l'ammontare dell'imposta non versata a  cagione  delle  compensazione
con i crediti inesistenti e' inferiore a € 150.000, cioe'  al  limite
di rilevanza penale  introdotto  dal  legislatore  del  2015  per  la
fattispecie di cui all'art. 4 decreto legislativo n. 74/2000. 
Non manifesta infondatezza della questione. 
    La  questione  che  si  intende  sollevare  ha  come  antecedenti
logico-giuridici la sentenza n. 80/2014  e  l'ordinanza  n.  116/2016
emessa da codesta Corte. 
    Come  e'  noto,  con  la  prima  pronuncia  venne  affrontata  la
questione della illegittimita' costituzionale del limite di rilevanza
penale della fattispecie di cui all'art. 10-ter  decreto  legislativo
n. 74/2000, limitatamente ai fatti commessi ante 17 settembre 2011. 
    La Corte acclarava l'illegittimita' costituzionale di detta norma
nella parte in cui per i fatti anteriori al 17 settembre 2011  puniva
l'omesso versamento di IVA per importi non superiori a € 103.291,38. 
    La Corte, infatti, rilevava «un evidente difetto di coordinamento
tra la soglia di punibilita' inerente al delitto che interessa  (art.
10-ter) e quelle relative ai delitti in materia di  dichiarazione  di
cui agli articoli 4 e 5 decreto legislativo n. 74/2000», tale difetto
di  coordinamento  e'   «foriero   di   sperequazioni   sanzionatorie
manifestamente irragionevoli». 
    Anteriormente  alle  modifiche  legislative  introdotte  con   il
decreto-legge n. 138/2011, l'omessa  dichiarazione  era  punita  solo
allorquando l'imposta  evasa,  con  riferimento  a  ciascuna  singola
imposta fosse superiore a €  77.468,53:  in  questo  caso  colui  che
avesse - pur avendo regolarmente presentato  la  dichiarazione  IVA -
omesso di versarne l'importo autoliquidato che si  collocasse  fra  i
50.000 e i 77.468,53 € veniva  penalmente  sanzionato  in  forza  del
disposto  dell'art.  10-ter,   mentre   colui   che   avesse   omesso
completamente di presentare la dichiarazione  IVA  andava  esente  da
qualunque  conseguenza  penale,  pur  essendo   la   prima   condotta
palesemente  meno  grave  della  seconda  o,  quanto  meno,  di  pari
gravita'. 
    Analogamente accadeva in relazione al reato p. e p.  dall'art.  4
decreto legislativo n.  74/2000,  cioe'  nel  caso  di  dichiarazione
infedele, la cui soglia di rilevanza penale  era  ancora  piu'  alta,
pari a € 103.291,38. 
    Anche in questo caso il contribuente che  avesse  presentato  una
regolare dichiarazione IVA - autoliquidandosi un debito  IVA  per  un
importo ricompreso fra i 50.000 e i 103.291,38 euro - era  sottoposto
a sanzione penale, per contro il contribuente che  avesse  presentato
una dichiarazione infedele per pari importo (sia come elementi attivi
omessi, sia come elementi passivi fittizi inseriti) andava esente  da
qualunque sanzione. 
    La soluzione adottata dalla Corte e' stata, come e' noto,  quella
di ritenere incostituzionale l' art 10-ter per la parte in cui, per i
fatti commessi anteriormente al  17  settembre  2011  richiedeva  una
soglia  di  punibilita'  inferiore  alla  piu'  alta   delle   soglie
considerate, cioe' 103.291,38. 
    A seguito di tale  pronuncia  che  aveva  evidenziato  un  doppio
vulnus al principio di uguaglianza, il Tribunale ordinario  di  Lecce
con ordinanza 24 aprile 2015 e il Tribunale ordinario di Palermo  con
ordinanza  del  21  settembre  2015  sollevavano  la   questione   di
legittimita' costituzionale relativamente all'art. 10-quater  decreto
legislativo n. 74/2000. 
    La Corte con ordinanza  n.  116/2016  disponeva  la  restituzione
degli atti ai giudici  a  quibus  per  una  nuova  valutazione  della
questione  alla  luce  del  mutato   quadro   normativo   a   seguito
dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 158/2015. 
    Appare quindi fondamentale vagliare il profilo di  illegittimita'
costituzionale  -  sotto  il  profilo  del  vulnus  al  principio  di
uguaglianza  di  cui  all'art.  3  della   Costituzione -   dell'art.
10-quater  nella  sua  formulazione  ante   2015,   comparando   tale
fattispecie con l'attuale testo dell' art. 4 decreto  legislativo  n.
74/2000, per la circostanza che il legislatore ha elevato  le  soglie
di rilevanza penale del fatto: essendo tale mutamento di  segno  piu'
favorevole al reo comporta una  applicazione  a  tutti  i  fatti  sia
antecedenti  sia  successivi  al  2015  di  tale  nuovo   limite   di
punibilita'. 
    Pertanto, allo stato attuale accade che il contribuente che abbia
presentato la dichiarazione IVA e  abbia  indicato  in  compensazione
crediti inesigibili o inesistenti, con cio'  omettendo  il  pagamento
dell'imposta per una cifra superiore a € 50.000, sia  assoggettato  a
sanzione penale, mentre il  contribuente  che  abbia  presentato  una
dichiarazione infedele, ex art. 4  decreto  legislativo  n.  74/2000,
inserendo o elementi passivi fittizi o omettendo elementi attivi  per
un importo superiore a 50.000 ma non a 150.000 euro, vada  esente  da
sanzione penale. 
    Pare a questo giudice che si configuri in questo caso una lesione
del principio costituzionale di uguaglianza in  quanto  due  condotte
che appaiono, anche sotto il profilo sanzionatorio,  quanto  meno  di
pari gravita', vengono trattate dal legislatore in maniera del  tutto
differente, senza alcuna ragione che giustifichi tale  differenza  di
trattamento. 
    Il reato di infedele dichiarazione, e', infatti, punito  con  una
pena edittale da uno a tre anni di reclusione,  mentre  il  reato  di
indebita compensazione e' punito  -  nella  formulazione  che  questo
giudice deve applicare nel caso concreto, ante novella del 2015 - con
la pena da sei mesi a due anni: appare evidente  che  il  legislatore
abbia  considerato  piu'  grave  e  -  conseguentemente,   lo   abbia
sanzionato in maniera piu' grave - il reato p. e p.  dall'art.  4  ma
abbia consentito che condotte considerate  astrattamente  piu'  gravi
possano andare esenti da  pena,  laddove  inferiori  alla  soglia  di
150.000 euro, mentre condotte meno gravi, in quanto punite  con  pene
inferiori,  rientrino  nell'area  di   penale   rilevanza   al   mero
superamento della soglie di 50.000 euro. 
    Pertanto il trattamento che il  legislatore  riserva  a  chi  sia
imputato del reato p. e p. dall'art. 10-quater e' ingiustificatamente
deteriore rispetto al trattamento riservato a  chi  debba  rispondere
del reato p. e p. dall'art. 4 decreto legislativo n. 74/2000. 
    In ogni caso, tralasciando il regime sanzionatorio  previsto  per
le  due  fattispecie   di   reato,   anche   a   volere   considerare
l'oggettivita' delle condotte in esame e il disvalore  delle  stesse,
non si puo' non notare che in entrambi i casi la condotta  tipica  ha
una connotazione di tipo commissivo e di  carattere  fraudolento  e/o
decettivo che  sicuramente  rende  piu'  gravi  tali  fattispecie  se
rapportate - ad esempio - al reato di mera omessa dichiarazione,  che
infatti non  si  richiama  come  tertium  comparationis,  in  cui  la
condotta e' meramente omissiva e non commissiva. 
    Per  contro,  le  condotte  tipiche  che  caratterizzano  le  due
fattispecie qui considerate sono molto simili, perche' richiedono  un
quid pluris, cioe' una rappresentazione anche cartacea non  veritiera
della realta'. 
    Nonostante, pero', le evidenti analogie fra  le  due  fattispecie
che si e' cercato di  evidenziare,  i  trattamenti  sanzionatori,  ma
soprattutto il limite di offensivita'  della  condotta  indicato  dal
legislatore, appaiono irragionevolmente  differenti,  in  misura  del
triplo e cio' a parere di questo giudice comporta un evidente  vulnus
al  principio  di  cui  all'art.  3  della  Costituzione,  cioe'  del
principio di uguaglianza formale e sostanziale. 
    Il disposto dell'art. 10-quater decreto  legislativo  n.  74/2000
laddove prevede un limite di punibilita'  pari  a  €  50.000  annuali
comporta un trattamento differente e deteriore  rispetto  all'art.  4
decreto legislativo n. 74/2000 che prevede  un  limite  di  rilevanza
penale di € 150.000, nonostante il legislatore abbia individuato  una
maggiore gravita' nella seconda delle  due  fattispecie  di  reato  e
nonostante la sostanziale identita' di disvalore concreto  delle  due
condotte considerate.