TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA Sezione lavoro Il Giudice del lavoro, a scioglimento della riserva formulata all'udienza del 20 gennaio 2017 nel procedimento n. 1130/2016 r.g. ex art. 1, comma 51, legge n. 92/2012, in opposizione ad ordinanza resa ex art. 1, comma 49, legge n. 92/2012, r.g.l. n. 1130/2016, promosso da Servizi Commerciali Integrati S.R.L. (c.f. 02695670352) avv. Leonardo Esposito, contro Elvira Rasulova, avvocati A. Monachetti, M. Congeduti, Alberto Piccinini, Ha pronunciato la presente ordinanza, osservando quanto segue in Fatto e diritto Il presente procedimento Con ricorso promosso ai sensi dell'art. ex art. 1, comma 48, legge n. 92/2012, concernente la prima fase (c.d. sommaria) del presente giudizio la signora Elvira Rasulova impugnava il licenziamento intimatole dalla Italservizi s.r.l. (ora Agriservice MO srl in liquidazione) in data 30 novembre 2015 con decorrenza dal 31 dicembre 2015 ritenendolo radicalmente nullo e/o legittimo e/o inefficace. A tal fine formulava apposite conclusioni in via principale e subordinata nei confronti di numerosi convenuti (Burani Interfood spa, Servizi Commerciali Integrati srl, Agriservice MO srl e Burani Stefano Luigi personalmente ed in proprio) affermando l'esistenza di un unico centro di imputazione giuridica e/o gruppo d'imprese che dir si voglia e la contemporanea utilizzazione della propria prestazione lavorativa da parte di tutti i convenuti, sicche' l'intervenuto licenziamento era da porre nel nulla nei confronti di ognuno dei soggetti invocati in causa. Si costituiva - tra le altre parti - anche l'odierna opponente Burani Interfood s.p.a. accependo in via preliminare l'inammissibilita' del ricorso proposto con il «rito Fornero», essendo nel frattempo intervenuta da parte della Agriservice MO srl (successivamente in liquidazione) la revoca del licenziamento in data 25 gennaio 2016. All'esito della prima fase del procedimento la scrivente giudice emetteva ordinanza con cui affermava l'inammissibilita' del ricorso proposto dalla ricorrente Rasulova per carenza di interesse ad agire, mancando appunto il licenziamento che e' oggetto per espressa volonta' normativa ex rito «Fornero». In mento alle spese di lite la scrivente condannava la lavoratrice al rimborso di quelle sostenute dalla attuale ed effettiva (almeno formalmente) datrice di lavoro Agriservice MO srl in liquidazione; e compensava le spese sostenute da tutte le altri parte convenute. Ha opposto l'ordinanza la sola azienda Burani Interfood s.p.a., che nell'atto di opposizione si duole (tipicamente) del capo dell'ordinanza relativo alla liquidazione delle spese della prima fase del presente giudizio rilevando la mancanza dei presupposti richiesti a tal fine dall'art. 92, comma 2 c.p.e. e la mancanza di motivazione alcuna in merito alla disposta compensazione per le altre parti, censurando infine disparita' di trattamento rispetto alla Agriservice MO s.r.l. (in cui favore erano state - come s'e' detto - risarcite le spese). Si e' costituita la lavoratrice contestando in fatto e diritto l'opposizione e sollevando eccezione di incostituzionalita' dell'art. 92 c.p.c., evidenziando la situazione di sostanziale ingiustizia subita posto che, a seguito di' una serie di dubbi passaggi lavorativi tra soggetti tra loro collegati che ne hanno utilizzato la prestazione lavorativa, e' stata ingiustamente licenziata da un datore di lavoro cosi' «apparente» che ancora oggi, pur risultando il rapporto di lavoro ancora in essere, e' del tutto inadempiente (e latitante). Evidenzia la convenuta/opposta come un'interpretazione rigida del testo del novellato art. 92 c.p.c. determinerebbe un'illegittima riduzione della discrezionalita' del Giudice nella valutazione degli elementi, e in modo particolare dei «giusti motivi», idonei a giustificare la compensazione delle spese di lite. La norma dibattuta Come noto, il sistema processuale civile si regge, in materia di spese, sulla previsione dell'art. 91 c.p.c. che prevede che «Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell'art. 92.». Il secondo comma dell'art. 92 e' stato piu' volte oggetto di revisione da parte del legislatore. Dal testo originario nato con il codice di procedura civile (che prevedeva la compensazione delle spese di lite «se vi e' soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi») si e' passati alla specificazione introdotta dall'art. 2, primo comma, lettera a), legge 28 dicembre 2005, n. 263, in base al quale i «giusti motivi» devono essere «esplicitamente indicati nella motivazione». L'art. 45, undicesimo comma, legge 18 giugno 2009, n. 69, ha modificato poi il testo nel senso che le spese possono essere compensate «se vi e' soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione». A seguito dell'entrata in vigore dell'art. 13 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (come modificato dalla legge di convenzione 10 novembre 2014, n. 162), l'art. 92, comma 2, c.p.c. - in questa sede espressamente censurato - e' diventato il seguente: «Se vi e' soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novita' della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice puo' compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero». Le letture possibili dell'attuale formulazione della norma. La recente attuale formulazione della norma elimina la locuzione prevista dalla riforma del 2009 «gravi ed eccezionali ragioni» prevedendo nel testo unicamente tre ipotesi di compensazione: la soccombenza reciproca (che di fatto e' lo stesso principio della soccombenza di cui all'art. 91, e dunque non ne costituisce deroga in applicazione specifica), la «assoluta novita' della questione trattata» e il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti». E' primariamente da chiedersi se di questa norma si debba dare una lettura tassativa (nel senso cioe' che al di fuori delle tre ipotesi ivi contemplate non sia consentito al Giudice legittimamente compensare le spese di un giudizio); ovvero elastica e/o comunque costituzionalmente orientata (1) . Se questa seconda opzione fosse praticabile, la presente questione sarebbe valutabile dalla Corte come manifestamente infondata (quanto alla rilevanza, si veda nel prosieguo). Pare alla scrivente che il testo letterale dell'articolo imponga una tassativita' di ipotesi dalla quale il giudice non possa discostarsi, sia perche' il legislatore e' intervenuto esplicitamente proprio nello specifico articolo che disciplina, in via generale, le ipotesi di compensazione delle spese (cfr. il titolo dell'art. 92) eliminando l'opzione delle «altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente motivazione» che e' quella su cui si e' formata, negli anni (come, in precedenza, per la qualificazione dei «giusti motivi») una abbondante e qualificata casistica giurisprudenziale (2) ; sia perche' in tal senso depone l'analisi della relazione ministeriale (Ministero della giustizia) al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 132/2014 (3) ; sia infine perche' il secondo comma va letto in combinato disposto anche con il primo comma dell'art. 92 (4) , che a sua volta prevede, ribadendolo, il concetto della soccombenza, introducendovi due eccezioni specifiche, e cioe' il caso di spese ritenute eccessive e superflue, ovvero il caso di trasgressione al dovere di cui all'art. 88 c.p.c., e cioe' per violazioni endoprocessuali al dovere delle parti e dei difensori di comportarsi in giudizio con lealta' e probita' (5) . In particolare, con riguardo a questa specifica ipotesi, si deve notare come il testo normativo la prevede proprio come ipotesi del tutto peculiare al principio generale della soccombenza che viene specificamente richiamato nel testo («... puo', indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all'art. 88») in questo modo rafforzando l'interpretazione qui avallata di essere di fronte ad una elencazione tassativa delle ipotesi di deroga al predetto principio generale. Per altro, neppure cercando di allargare le maglie dell'art. 88 c.p.c. (letto in combinato disposto con l'art. 175, primo comma, c.p.c. (6) ) si puo' pensare ad un generalizzato potere residuo del Giudice di compensazione delle spese al di fuori dei casi elencati dalla norma, attesa la peculiarita' dell'art. 88 (7) il suo carattere strettamente circoscritto all'ambito procedimentale, e le peculiari caratteristiche di afflittivita' della deroga prevista dall'art. 91, primo comma, che introduce una specifica sanzione (la condanna alle spese anche in caso di vittoria della causa) alle parti o ai difensori che abbiano compiuto slealta' all'interno del processo (8) . Tanto osservato, l'unica lettura che alla scrivente pare possibile della norma qui censurata e' quella in base alla quale solo volute dal legislatore ed esplicitamente previste unicamente tre ipotesi tassative di compensazione delle spese di lite nell'ambito dell'intero processo civile e delle plurime materie in esso trattate e decise. Ragioni della non manifesta infondatezza delle questioni di legittimita' Costituzionale. Si ritiene allora che la norma di cui e' causa, come da ultimo modificata, sottragga al Giudice ogni possibilita' ed ogni ambito di intervento in cui valutare nel concreto la modulazione delle spese di lite al di la' delle circoscritte e residuali ipotesi tipizzate. In particolare, va ricordato che la liquidazione delle spese di lite e' il passaggio finale, ma non di minor giustizia, della definizione degli altri capi di domanda, e dunque occorre che anche in questa fase il Giudice possa avere la possibilita' di valutare discrezionalmente le vicende oggettive e soggettive portate alla sua attenzione nel corso ed a causa del processo, dovendosi rappresentare come in generale il principio di compensazione delle spese (che e' comunque di deroga al piu' generale principio della soccombenza) sia necessariamente legato/subordinato ad eventi esterni al processo, sui quali i litiganti non hanno alcuna possibilita' di incidere, ed a ragioni oggettive e soggettive talmente gravi ed eccezionali da consentire appunto una deroga al «normale». Tale esigenza e' poi particolarmente necessaria (e dunque massima e' la sua frustrazione in termini di giustizia) nelle cause - come quella qui esaminata - di lavoro o di previdenza, nelle quali l'attore, in primo grado, e' sostanzialmente sempre il lavoratore; oltre che, in generale, nelle cause in cui si discute di diritti personali o personalissimi, in materia di famiglia e stato delle persone, in materia di salute. Gran parte di queste controversie sono «a controprova» (es., per quanto riguarda quelle di diritto del lavoro: quelle che sono condizionate dalla consistenza numerica dell'impresa, le cause di impugnazione di licenziamento, sospensione in CIG/CIGS, trasferimento, mutamento mansioni, ecc.), nel senso che il lavoratore deve introdurle non disponendo di tutti i dati che incidono sulla legittimita' o meno del provvedimento datoriale, che egli ha gia' subito e di cui chiede al Giudice il controllo di legittimita', da operare appunto all'esito dell'assolvimento della prova da parte del datore; lo stesso dicasi per le cause inerenti danni alla salute nei confronti di enti (es: INAIL, AUSL) ovvero di privati (es.: colpa medica), ove spesso la materia in fatto viene decisa dal Giudice mediante l'aiuto di consulenti tecnici che applicano proprie valutazioni in campi di particolare complessita' e discrezionalita' tecnica (sicche' puo' capitare - e infatti spesso capita - che vi sia contrasto tra i pareri medici su elementi sostanziali della causa, quali l'esistenza di nesso causale ovvero la valutazione di profili di responsabilita' operativa). In questi casi l'ipotetica soccombenza della parte attrice potrebbe rivelarsi «incolpevole» e comunque «opinabile»; tale in ogni caso da consentire un intervento motivato del Giudice in ordine al criterio di ripartizione delle spese di causa che possa superare il rigido assetto della soccombenza. Per altro, per introdurre la causa in primo grado, il lavoratore - attore (per rimanere al caso esaminato in causa e portato all'attenzione di questa Corte) deve di regola sostenere l'onere del Contributo unificato, l'anticipazione delle spese legali e spesso di quelle per conteggi, oltre l'IVA sulla prestazione dei professionisti; e tutti questi oneri, come pure quello eventuale delle spese di soccombenza, sono indetraibili per il lavoratore o comunque per il privato. Al contrario, il datore, di regola, recuperera' l'IVA sulle prestazioni del difensore e detrarra' dal reddito la relativa parcella, come le spese di eventuale soccombenza: con un differenziale di costo iniziale di accesso alla giustizia, che grava solo sul lavoratore, ed uno finale che e' comunque dell'ordine del 50-70% a sfavore del lavoratore e conseguente disuguaglianza formale oltre che sostanziale tra le parti. In sostanza, per quanto ora esposto, parrebbe che in un contesto in fatto gia' spesso sfavorevole alla parte attrice nei casi sopra rappresentati (ove cioe' si tratta di un lavoratore, di un ammalato, di un pensionato, di una persona socialmente o economicamente debole o necessitante di tutela), il meccanismo della attuale distribuzione delle spese di lite incida in modo ulteriormente gravoso su essa parte in quanto: a. priva irragionevolmente il Giudice della essenziale funzione di giustizia, ovvero quella di adeguare la pronunzia alle peculiarita' del modello processuale ed alle condizioni personali e circostanze concrete del caso di specie; b. esercita di fatto una gravissima limitazione del diritto all'effettivita' dell'accesso alla giustizia in danno del lavoratore: questi, gia' gravato asimmetricamente (in suo danno) dagli oneri dianzi decritti e in certi casi trovandosi privo di lavoro o di retribuzione, deve preventivare il rischio oggettivo che, anche introducendo una causa a controprova, sia condannato a pagare le spese di soccombenza; identico ragionamento anche per le altre categorie di soggetti sopra elencati; c. colpisce, in tali frequenti casi, del tutto irragionevolmente una parte incolpevole, che certo non ha «abusato» del processo o invocato presunti diritti che, a priori, sapeva essere inesistenti; d. esercita la predetta limitazione, in termini di pesante «deterrenza», in modo proporzionalmente (e vieppiu' irragionevolmente) maggiore per quanto minore sia la capacita' economica del lavoratore: il meccanismo dell'art. 91 c.p.c., opera ciecamente, e contraddittoriamente, anche a carico del lavoratore che abbia redditi inferiori alla soglia per cui la stessa legge prevede l'esenzione dal pagamento del contributo fiscale. La precedente giurisprudenza della Corte costituzionale Va ricordato come in piu' occasioni, il Giudice delle leggi si sia occupato delle spese giudiziali, sempre consentendo - a parere di chi scrive - sulla necessita' dell'esistenza di una norma «di chiusura» che garantisca un ambito di discrezionalita' ed escluda la tassativita' delle ipotesi. Ad es. Corte cost. 18 novembre 1982, n. 196 (9) in materia di processo tributario ha escluso che la scelta legislativa fosse «irragionevole», perche' la condanna alle spese giudiziali non e' riderogabile: «la inderogabilita', come e' consentita al giudice quando nelle singole fattispecie ravvisi la esistenza dei "giusti motivi" indicati nel citato art. 92, cosi' ugualmente puo' essere preveduta dalla legge quando ravvisi la presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale del c.p.c.». In senso analogo, e cioe' in sostanza con riferimento alla possibilita' che la modulazione delle spese da parte del Giudice sia meccanismo necessario per evitare la declaratoria di incostituzionalita' delle norme, Corte cost., 25 luglio 1985, n. 222, ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 489, ultimo comma, c.p.p. allora vigente, nella parte in cui non prevedeva, in caso di condanna dell'imputato ai risarcimenti ed alle restituzioni, la compensazione delle spese processuali per giusti motivi. Nell'occasione la Corte ha rilevato che «la differenziata disciplina dettata con la norma impugnata, la quale rientra in un orientamento normativo favorevole alla parte civile relativamente alle spese processuali (...) e' giustificata dall'esigenza di non frapporre remore alla costituzione del danneggiato, anche in vista dell'apporto che la sua partecipazione puo' dare alla dialettica del processo penale e quindi all'accertamento della responsabilita' penale». Corte cost. 31 dicembre 1986, n. 303, ha dichiarato l'incostituzionalita' dell'art. 641, terzo comma, modificato dall'art. 2, legge 10 maggio 1976, n. 358, nella parte in cui escludeva che il giudice, in caso di accoglimento della domanda, dovesse liquidare le spese ove il decreto ingiuntivo fosse emesso sulla base di titoli gia' dotati di efficacia esecutiva. Nell'occasione la Corte ha rilevato che la liquidazione delle spese costituisce normale complemento dell'accoglimento della domanda, cosicche', in mancanza, il diritto di agire in giudizio non sarebbe adeguatamente garantito. Corte cost. 2 aprile 1999, n. 117, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23, legge 24 novembre 1981, n. 689 e dell'art. 91 c.p.c., nella parte in cu non prevedevano la condanna dell'opponente alle spese in favore dell'amministrazione resistente costituitasi a mezzo di propri funzionari. Nell'occasione, la Corte ha ribadito che la condanna alle spese «non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilita' sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge - con riguardo al tipo di procedimento - in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale». Vale la pena poi di ricordare le disposizioni che prevedono, a determinate condizioni, l'esonero dalle spese giudiziali in alcune controversie previdenziali: l'art. 57, legge 30 aprile 1969, n. 153 e l'art. 152 disp. atti c.p.c. In riferimento alla prima norma Corte cost. 14 febbraio 1973, n. 23, ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale, perche' «il detto esonero dalle spese stabilito in favore dell'assicurato - lungi dal determinare una disparita' di posizione tra le parti (che e' solo apparente) - realizza, invece, attraverso un meccanismo di neutralizzazione della notoria minor resistenza del lavoratore di fronte al rischio processuale, una situazione di sostanziale parita'. Onde, non fonte di disuguaglianza - esso esonero, in definitiva, costituisce - bensi' mezzo di ripristino di una uguaglianza che, se pur esistente sul piano formale, e' suscettibile, comunque, di cadere, ove il rischio del processo - apparendo troppo gravoso - distolga il lavoratore dal far valere sue fondate pretese». Nello stesso senso, in riferimento all'art. 152 disp. att. c.p.c., Corte cost. 15 giugno 1979, n. 60, ha osservato che «il legislatore, disponendo la compensazione delle spese del giudizio in caso di soccombenza del lavoratore, ha voluto porlo al riparo dal rischio processuale, al fine di consentirli di far valere le sue pretese non temerarie nei confronti degli istituti di previdenza e assistenza. Il costo del processo puo' essere gravoso anche per chi non sia povero nei limiti richiesti per ottenere il patrocinio a spese dello Stato e puo' costituire, anche in tal caso, una remora a far valere le proprie fondate ragioni. A tale inconveniente, ha voluto porre rimedio la norma denunziata, prescindendo dalle condizioni economiche del lavoratore interessato, al fine di neutralizzare la sua notoria minore resistenza di fronte al rischio processuale». Corte cost. 3 aprile 1987, n. 98, ha poi affermato che «detto esonero (l'estensione del beneficio oltre la categoria dei non abbienti, n.d.r.) concreta un meccanismo di neutralizzazione della notoria minore resistenza del lavoratore di fronte al rischio del processo che, apparendo troppo gravoso, lo possa distogliere dal far valere in giudizio la sua fondata pretesa previdenziale o assistenziale; che tutti i lavoratori, siccome versano nella identica situazione psicologica, hanno titolo alla stessa forma di tutela e cioe' al detto esonero, che rimuove le conseguenze economiche derivanti dalla soccombenza nel giudizio, sia che si tratti di prestazioni previdenziali che di prestazioni assistenziali». Infine, pare aderente al caso in esame la valutazione svolta dalla Corte cost. 13 aprile 1994, n. 134, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 2, decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, in legge 14 novembre 1992, n. 438 (norma che aveva abrogato la disciplina dell'esonero del lavoratore soccombente dal pagamento delle spese nel processo previdenziale indipendentemente dal reddito del richiedente) ricordando «la particolare valenza del diritto alla prestazione previdenziale ed assistenziale ai sensi dell'art. 38, comma 2, Cost. e il carattere strumentale del regime di esonero delle spese di soccombenza ai fini della effettiva tutelabilita' del diritto stesso ...» ed in base a cio' si verificava «... insanabile contrasto - nella sua interezza - con i precetti costituzionali evocati: risultandone, per l'effetto, indiscriminatamente (e irragionevolmente quindi) ripristinata la situazione di disparita' sostanziale nel processo (rispetto all'istituto assicuratore) cui avevano posto rimedio le disposizioni abrogate (art. 3); limitata di fatto la possibilita' di agire a tutela dei propri diritti (art. 24); non tutelata a sufficienza la condizione di inabile al lavoro (art. 38 Cost.)». Sulla traccia di questa decisione, Corte cost. 20 marzo 1998, n. 71, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 152 disp. att. c.p.c., nella parte in cui consente, nelle ipotesi ivi previste, l'esonero dal pagamento delle spese di giudizio anche lavoratori abbienti. In tutte le sentenze sopra citate la Corte evidenzia la necessaria eccezione al principio generale per il quale le spese giudiziali seguono la soccombenza, pur circoscrivendo la sua analisi alle controversie previdenziali ed assistenziali, materie nelle quali le norme denunciate erano state adottate. In queste materie la Corte sancisce la particolare natura dei diritti dedotti ed la qualita' degli enti convenuti, ed esprime il concetto (a parere della scrivente estensibile anche agli altri casi sopra rappresentati) per cui il principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, comma 2, Cost., prevale su quello di uguaglianza formale ex art. 3, comma 1, Cost., e su quello della parita' delle armi nel processo ex art. 111, Cost. Ragioni della rilevanza della questione nel caso specifico Per guanto sopra sommariamente esposto in fatto, la lavoratrice Rasulova, originaria ricorrente nel procedimento per l'impugnazione del licenziamento, si trova in questa fase processuale convenuta in opposizione per essere condannata (in tesi opponente) alla rifusione delle spese processuali sia della prima che dell'attuale fase; e viene censurato anche l'ammontare della liquidazione di condanna della Rasulova adottata dal Giudice in prima fase a vantaggio di una sola tra le numerose societa' originariamente convenute. Nello specifico caso, come s'e' detto, la peculiarita' oggettiva della vicenda rende assai difficoltosa una ricostruzione in fatto degli avvenimenti, dovendosi procedere ad una ricognizione dei numerosi passaggi subiti dal lavoratore (alcuni dei quali avvenuti addirittura a propria insaputa, e dunque eminentemente formali) da una societa' all'altra; e dovendosi del pari procedere ad una ricostruzione delle trasformazioni e cessioni societarie avvenute, in forza delle quali le plurime aziende coinvolte, tra loro collegate di fatto o in diritto, hanno cambiato nome, assetto e composizione societaria, ceduto rami d'azienda ed effettuato altre intricate modifiche interne. Pertanto si puo' ritenere che, all'esito della eventuale istruttoria in fatto, la lavoratrice rischi la condanna alle spese di lite in danno di tutte e quante le societa' coinvolte, per ragioni esclusivamente processuali/procedimentali legate alla soccombenza per cosi' dire formale, pur avendo nel merito numerosi elementi da far valere a sostegno delle sue richieste; e questo rende rilevante, nello specifico caso, l'eccezione qui proposta. Le specifiche violazioni alla Costituzione A parere della scrivente, dunque, e per tutte le considerazioni sopra svolte, l'ablazione che l'art. 92 c.p.c. riformato fa del potere giudiziale di valutare i «gravi ed eccezionali motivi» per compensare le spese di lite, anche nei casi specifici di cui sopra e tipici del processo del lavoro o dei processi vertenti su diritti personali, rende manifesta l'illegittimita' della norma, per le ragioni seguenti: 1. Per violazione del combinato disposto degli artt. 3, 24 e 111 Cost. posto che, in simili casi: a. si manifesta violazione dell'eguaglianza formale tra le parti (art. 3, comma 1), della parita' processuale (art. 111) e del diritto di azione (art. 24), che viene limitato, in primo grado, a danno del solo lavoratore; b. soprattutto si manifesta violazione dell'eguaglianza sostanziale enunciata dall'art. 3, comma 2 Cost., che esigerebbe un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il soggetto piu' debole e costretto ad agire giudizialmente, mentre paradossalmente l'art. 92 c.p.c. ha l'effetto esattamente inverso. 2. Per incompatibilita' con l'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, che esige l'«effettivita'» del diritto di azione e di «accesso alla giustizia» (commi 1 e 3) e «l'equita'» del processo, quest'ultima irragionevolmente lesa da una sanzione che colpisce una parte che non ha «responsabilita'» processuale (nelle cause a controprova). 3. Per violazione degli artt. 6 e 13 della CEDU, in rapporto al «diritto all'equo processo» ed al diritto ad un «ricorso effettivo», posto che l'art. 92 c.p.c., come riformato in chiave specificamente «deflattiva», si manifesta come mezzo sproporzionato allo scopo perseguito. 4. Per violazione degli artt. 14 della CEDU e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, «sulla ricchezza» o su «ogni altra condizione» (art. 14 CEDU) o sul «patrimonio» (art. 21 Carta UE), in rapporto al divieto che il Giudice possa tener conto, per decidere sulla eventuale compensazione delle spese, della condizione personale del lavoratore - anche e soprattutto se economicamente cosi' svantaggiato da essere considerato esente dal contributo fiscale -, cosi' pregiudicandone il diritto di azione proprio in ragione della limitata capacita' economica, anche a prescindere da ragioni di «colpevolezza processuale». La discriminazione vietata dall'art. 14 della Convenzione consiste nel «trattare in modo differente, salvo giustificazione obiettiva e ragionevole, le persone che si trovano in situazioni simili o analoghe». Secondo la giurisprudenza della Corte «una distinzione e' discriminatoria» ai sensi dell'art. 14 se manca di una giustificazione obiettiva e ragionevole, cioe' «se essa non persegua uno scopo legittimo o se c'e' un rapporto di ragionevole proporzionalita' tra i mezzi impiegati e lo scopo che si e' prefissata» (CEDI: 1° dicembre 2009). 5. L'art. 92, secondo comma c.p.c. si pone inoltre in contrasto con l'art. 117, comma 1 della Costituzione che impone il rispetto da parte del legislatore italiano dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Come riconosciuto dalla Corte costituzionale con le sentenze numeri 348 e 349 del 2007 e 311 del 2009 il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale (nel caso di specie gli artt. 2, 14, 35 CEDU), si traduce in una violazione dell'art. 1117, comma 1 della Costituzione. 6. L'illegittimita' della normativa di cui e' causa e' altresi' nei confronti della nostra Costituzione, per violazione degli artt. 24, 25, primo comma, 102, 104 e 111. L'intervenuto decreto-legge poi convertito per altro costituisce una ingerenza del potere legislativo su quello giudiziario. Parrebbe infatti lesa l'indipendenza e l'autonomia della funzione giudiziaria (e conseguente violazione degli artt. 102, 104, 111 della Costituzione), nonche' come venga eluso il principio del giudice naturale precostituito per legge (con violazione dell'art. 25, primo comma della Costituzione); infine viene leso il diritto del cittadino ad un giusto processo, diritto tutelato anche dall'art. 6 CEDU e 47 Carta UE e anche dall'art. 111 della Costituzione. Per quanto sopra, non sembra lecito dubitare che la questione di legittimita' come sollevata e' rilevante nel presente giudizio, sul quale e' destinata ad operare direttamente. (1) Come argomenta il Giudice del lavoro di Torino, dott. Mollo, nella propria recentissima sentenza n. 2259 del 13 febbraio 2017. (2) A titolo puramente esemplificativo, tra le piu' recenti: Cass. n. 21083/2015; Cass. n. 14546/2015; Cass. n. 11301/2015; Cass. n. 24634/2014; Cass. n. 16037/2014; Cass. n. 319/2014; Cass. n. 1371/2013: Cass. n. 15413/2011; Cass. n. 25250/20; Cass. 21521/2010; Cas.s. n. 20324/2010: ecc. (3) Che afferma come «Complementari finalita' di contrazione dei tempi del processo civile fondano le misure per la funzionalita' del medesimo processo, quali: la limitazione delle ipotesi in cui il giudice puo' compensare le spese del processo ...», per cui «Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione. Con la funzione di disincentivare l'abuso del processo e' previsto che la compensazione possa essere disposta dal giudice solo nei casi di soccombenza reciproca ovvero di novita' della questione decisa o mutamento della giurisprudenza. Stante il particolare affidamento che la parte introduce il giudizio fa nel regime delle spese, si e' ritenuto opportuno stabilire che la previsione in parola si applichi ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all'entrata in vigore della legge di conversione del decreto». (4) (I) Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all'articolo precedente, puo' escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e puo', indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all'art. 88, essa ha causato all'altra parte. (II) Se vi e' soccombenza reciproca ovvero nel caso di novita' della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice puo' compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero. (5) «e puo', indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese anche non ripetibili, che per trasgressione al dovere di cui all'art. 88.» (6) Il giudice «esercita tutti i poteri intesi al piu' sollecito e leale svolgimento del procedimento». (7) «Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealta' e probita'. In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorita' che esercitano il potere disciplinare su di essi». (8) Ed in tal senso ha da sempre argomentato la giurisprudenza della SC; cfr. Cass. n. 10090/2015, Cass. n. 3338/2012, Cass. n. 6635/2007: «In materia di spese processuali, al criterio della soccombenza puo' derogarsi solo quando la parte risultata vincitrice sia venuta meno ai doveri di lealta' e probita', imposti dall'art. 88 c.p.c. Tale violazione, inoltre, e' rilevante unicamente nel contesto processuale, restando estranee circostanze che, sia pur riconducibili ad un comportamento commendevole della parte, si siano esaurite esclusivamente in un contesto extraprocessuale, le quali circostanze possono, al piu', giustificare una compensazione delle spese (in applicazione del principio di cui in massima, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che, in controversia previdenziale, aveva condannato l'INPS al pagamento delle spese processuali, sul presupposto che l'ente previdenziale avesse concorso a dare origine alla controversia negando, in radice, la sussistenza di una inabilita' temporanea assoluta conseguita ad infortunio sul lavoro e sostenendo questa tesi in giudizio)». (9) La sentenza ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 39 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, nella parte in cui escludeva la condanna alle spese nel processo tributario, in riferimento agli articoli 3, 24 e 113 della Costituzione.